Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbassate

Numero di risultati: 8 in 1 pagine

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Cosima

243693
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Visitò la camera dall'altro lato del pianerottolo; passò il dito sugli intarsi del tavolino rotondo, e provò a sedersi sul vecchio sofà le cui molle si erano abbassate. Le piacevano i mobili diversi dai soliti di casa; e invero anche le sedie imbottite, di noce e di stoffa verdastra, che completavano l'arredamento di quella camera quasi signorile, erano interessanti; poiché il sedile era mobile e si poteva toglierlo dal fondo della sedia per spazzolarlo con comodo. Ecco che ella ne solleva uno, piano piano, osservandone l'imbottitura interna sostenuta da striscie di grossa tela; e pensa che se avesse qualche cosa da nascondere, quello sarebbe il posto migliore. Nascondere! Questa, anche, era una delle sue piú segrete e forti aspirazioni; e questa, anche, si spiegò piú tardi, collegandola all'istinto degli avi che vivevano sulle montagne e nascondevano le loro cose per sottrarle alla rapina dei nemici. Poi ritornò sulla scala; altre cose interessanti, per lei, erano una finestrina vuota aperta sulla parete interna fra una rampata e l'altra, e, affacciandovisi, ella fantasticava un precipizio, una cascata di lava soffermatasi con quei gradini azzurrognoli; e sopra tutto una finestra piú grande, segnata ma non aperta sull'alto della parete che finiva sul soffitto. Chi aveva segnato quell'apertura che non si apriva, quel rettangolo scavato sul muro che, se sfondato, avrebbe lasciato vedere un grande orizzonte di cielo e di lontananze? Forse era stato un capriccio del muratore, forse si pensava a una sopraelevazione della casa, cui sarebbe stata poi utile quell'apertura: ad ogni modo, Cosima si incantava ogni volta a guardarla; l'apriva con la sua fantasia, e mai in vita sua vide un orizzonte piú ampio e favoloso di quello che si immaginava nello sfondo di quel segno polveroso e pieno di ragnatele. Però, anche l'armadio a muro del pianerottolo, era della stessa famiglia; e poiché nella camera della madre s'era di nuovo fatto silenzio, ella ridiscese cauta, e sollevò la tendina di percalle a fiori rossi e gialli. Tante cose straordinarie arricchivano le due mensole trasversali: a quella piú alta Cosima non poteva arrivarci, e doveva allontanarsi di due passi per vederci bene; ed era giusto che le cose lassú non dovessero toccarsi, come non si toccano i sacri oggetti dell'altare. Con l'altare la mensola aveva qualche rassomiglianza, coi quattro candelabri in fila, due di ottone, due di rame; e in mezzo un vaso di vetro; ma l'oggetto più meraviglioso era un grande piatto di cristallo, finemente inciso come nel diamante appoggiato alla parete di fondo; Cosima non ricordava di averlo mai veduto adoperare, e neppure aveva un'idea dell'uso che poteva farsene; questo lo rendeva piú raro, quasi misterioso: le pareva, vagamente, un simbolo, un piatto sacro, proveniente da antichi tesori e magari una immagine del sole, della luna, dell'ostensorio quando il sacerdote lo innalza e lo fa vedere alle folle adoranti. E lei adorava davvero quel piatto, alto, intoccabile; lo adorava - e questo anche lo capí molto piú tardi - perché rappresentava l'arte e la bellezza. Nella mensola di sotto c'erano stoviglie, ampolle, e alcune tazze per caffè, bellissime anch'esse, dipinte di rose pallide e dorature delicate; e i relativi cucchiaini di ottone, col manico lavorato; fin qui il dito di Cosima poteva arrivare, ma solo il dito, per sfiorare una rosellina sul candore della porcellana, come si sfiora una rosa vera che è proibito di cogliere; poi la tenda ricade, come un sipario, su quell'altare, su quel giardino; ed ella ritorna sulla scala, conta i gradini, è sull'ultimo pianerottolo, quasi eguale a quello di sotto; ma invece dell'armadio a muro c'è qui un'altra comodità: due fornelli, caso mai si dovesse un giorno servirsi di quell'ambiente per uso di cucina. E la piccola sognatrice pensa che un giorno dovrà anche lei sposarsi, come la madre, come le zie, e abitare lassú, e in quei fornelli manipolare i cibi per sé e la famiglia. Per adesso le due camere, a destra e a sinistra, coi pavimenti di legno quasi ancora grezzo, sono le piú povere della casa; con lettini di ferro, i pagliericci pieni di foglie crepitanti di granone, una tavola, alcune sedie. Ma in quella dei ragazzi esiste pure una grande ricchezza; uno scaffale pieno di libri: libri vecchi e libri nuovi, alcuni di scuola, altri comprati da Santus nell'unica libreria della piccola città. Cosima non sa ancora leggere, ma capisce le figure, e sebbene anche qui sia proibito di toccare, apre piano piano un grande libro di fogli grossi, anzi di cartoni color cilestrino, tutti segnati di punti gialli, ch'ella sa che cosa sono: sono le stelle, nell'atlante celeste. Dopo di che non le rimane che guardare dalle finestre aperte; una sulla strada, l'altra sullo spazio dell'orto e poi su degli orti attigui, fin dove questi scendono alla valle invisibile, dalla quale si sollevano i monti: monti grigi vicini, con macchie di boschi, con profili marcati di roccie, con torri di granito: monti piú lontani, di calcare azzurrognolo, quasi luminosi al sole di maggio; e altri monti ancora, piú alti, piú azzurri, evanescenti, monti di leggenda e di sogno. La finestra che guarda sulla strada è meno pittoresca, ma anch'essa interessante e viva. Solo un breve marciapiede corre davanti la casa: il resto della strada è selciato di ciottoli, con una cunetta centrale per lo scolo dell'acqua piovana. Le case sono abbastanza civili; appartengono quasi tutte ai parenti del signor Antonio. Quella in fondo è del fratello prete, don Ignazio tabaccone e trasandato; poi viene quella di zia Paolina, vedova benestante con i figli pastori e agricoltori; poi anche quella di zia Tonia, anche lei benestante, con un figlio che studia per droghiere. Il padre di questo ragazzo è morto, tuttavia zia Tonia non è vedova: poiché ha preso un secondo marito, ma dopo un mese di matrimonio lo ha cacciato via di casa, e infine si è separata legalmente da lui; è una donna simpatica, energica, intelligente, e le persone piú gioviali del quartiere la visitano giornalmente, nelle ore di riposo; giocano a carte, discutono, combinano burle, mascherate di carnevale, tengono allegro tutto il vicinato. La casa piú importante è però quella abitata dal canonico, di fronte: un vero fortilizio, con cortili e giardini interni, uno dei quali, quasi pensile, pieno di rose, di melograni, con un gelso alto carico di piccoli frutti violetti. Di là si stende un panorama di case e casupole che formano il quartiere piú caratteristico e popolare della piccola città, e il campanile bianco della chiesa del Rosario emerge sopra i tetti bassi e scuri come un faro tra gli scogli.

Pagina 19

Documenti umani

244461
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
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Una mezza luce filtrava delle stuoie abbassate ed il raccoglimento era tutt'intorno profondo. I soffici tappeti, le tendine pesanti isolavano ancora più completamente quel remoto boudoir che la duchessa preferiva per passare il suo tempo leggendo o lavorando, e dove ora restava, abbandonata, con le mani sul viso, mentre l'ultimo romanzo del Bourget mostrava il tagliacarte di tartaruga posto fra le pagine, e un filo di seta partente da un canestrino e perdentesi sotto uno sgabello tradiva ancora il gesto scomposto che aveva fatto ruzzolare il gomitolo del ricamo. A un tratto la duchessa si scosse, si levò in piedi e si diresse verso lo specchio. Giunta lì dinanzi, sporse il capo; poi lo ritirò. Pareva avesse una tentazione di guardarsi, ma ne fosse trattenuta dalla paura di vedere uno spettacolo raccapricciante.... Ora teneva il gomito appoggiato allo spigolo del caminetto, e l'indice fra le labbra, rodendosi lentamente l'unghia battendo con vivacità la punta del piede. Ancora una volta si strappò alla sua cogitazione; avanzossi verso la finestra, la schiuse e tirò su la stuoia. Alla chiara luce che inondò il boudoir azzurro ella si riaffacciò, questa volta risolutamente, allo specchio e vi restò a lungo, guardandosi. .... Nessun dubbio era più possibile. Aveva sperato un momento che fosse stata un'allucinazione, un giuoco di luce, un riflesso; ora il dubbio non era più possibile. I suoi capelli imbiancavano, sulle tempie, sulla fronte, dove si potevano meno nascondere! Da principio, qualche anno innanzi, erano stati dei fili d'argento per cui si erano destate in lei le prime vaghe malinconie del tramonto, ma che ella aveva presto dimenticati dopo aver dato loro la caccia, strappandoli dalla radice, con cura scrupolosa, senza dimenticarne uno solo. Per un pezzo non erano ricomparsi. Poi, timidamente, nascosti, perduti tra le selve folte e nerissime, i fili bianchi erano spuntati di nuovo; ma così pochi, così radi, che ella, veramente, non se n'era curata. A trentotto anni la marchesa Crollanza non ricorreva alle tinture? E la piccola Annina Fiorelli, a diciotto anni - una bambina! - non era quasi grigia? Che meraviglia dunque se, alla sua età, qualche filo d'argento s'intrecciava fra le chiome corvine?... Però, da quella volta, non si era più guardata attentamente, come di consueto; mentre la cameriera la pettinava, ella volgeva altrove gli sguardi; un movimento istintivo le faceva evitare di rivedere quelle macchie che le annunziavano la prossima fine della propria bellezza. Ed ecco che quel giorno, avvicinatasi inavvertitamente allo specchio accusatore, aveva scoperto le ciocche bianche miste al lucente ebano della sua chioma!... Il dubbio non era più possibile, l'illusione non era più permessa, eppure ella non sapeva rassegnarsi alla triste scoperta.... Con un gesto nervoso, portò le mani alla testa, buttò via il pettine a palo e le forcine, e cominciò a disfare rapidamente il sapiente edifizio della sua acconciatura. Dapprima le due grosse bande della nuca caddero, disciolte, sulle spalle; poi quelle delle tempie le velarono il viso. Visti così, un poco a distanza, in masse copiose, i. suoi capelli erano sempre meravigliosamente belli; bisognava avvicinarsi allo specchio, bisognava prenderne delle ciocche in mano, dividerle, allargarle, perchè i fili deturpatori apparissero. Quanti!... Quanti!... Come non se ne era accorta finora? E ad ogni nuovo ciuffo che ne scopriva, una vampa le saliva al viso. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, sottrarsi a quella vista angosciosa; ma non glie ne restava la forza nella specie di fascinazione, di ipnotismo che le aveva spalancato gli occhi e inchiodato lo sguardo. Ella invecchiava! Fatalmente, inesorabilmente, il fiore della sua bellezza intristiva, appassiva, moriva! Oggi erano i capelli che imbiancavano, domani sarebbero state le rughe che si sarebbero scavate nel marmo della fronte, nel velluto delle guancie; poi gli smalti dei denti che si sarebbero scossi, che sarebbero caduti.... Era finita! Il suo regno di donna cessava. Cessava allo stesso modo con cui era cominciato: inutilmente.... - Inutilmente! La parola, pronunziata con accento di profonda amarezza, si perdette nel silenzio del boudoir. La duchessa di Neli si tolse dallo specchio, e riannodati alla meglio i capelli andò a rovesciarsi sulla sedia lunga. Ora tutta la sua vita, la sua vita monotona e vuota di donna onesta le sfilava dinanzi. Meglio così! - si diceva - meglio la vecchiaia! meglio la bruttezza! poichè bellezza e gioventù non erano valse a nulla. Meglio che i suoi capelli imbiancassero: qualcuno forse se ne sarebbe accorto, glie lo avrebbe detto! Che cosa avrebbe dunque fatto di quella carnagione soave come polpa di frutta mature, di quella bocca grande, vermiglia, odorosa, di quelle mani aristocraticamente scarne, dalle dita lunghe e sfilate, di quelle braccia forti e delicate ad un tempo, di quelle forme agili, eleganti, piene di grazia; che cosa ne avrebbe fatto, lei che nessuno aveva amato, che nessuno amerebbe? Avrebbe dovuto esser ancora bella per suo marito, per quell'egoismo fatto persona, per quell'uomo che le procurava tutti i fastidii della gelosia senza nessuno dei compensi dell'amore?... Erano dieci anni che durava la sua condanna, dieci anni durante i quali un coro di lodi e di ammirazioni le si era levato dintorno. Il gran pro che ella aveva ricavato dalla sua onestà! La gratitudine di cui l'aveva pagata suo marito, le avventure del quale formavano la favola della provincia e la colmavano di ridicolo!... Infine, le era diventata di peso quella inutile onestà! Una voce di ribellione le saliva alle labbra. Erano dieci anni che durava la sua condanna, ma ella ne aveva trentacinque, degli anni! Trentacinque, nè più nè meno; perchè nasconderlo ancora? perchè mentire ancora a sè stessa? con quale profitto? Non lo portava ora scritto nella persona, in quei capelli bianchi che fra poco avrebbero preso il sopravvento? E a trentacinque anni ella era ridotta ancora a fantasticare come a quindici! Nell'età in cui le altre cominciavano a vivere di ricordi, ella era condannata a nutrirsi di speranze, di speranze che si facevano ogni giorno più chimeriche, e di cui presto ella stessa avrebbe apprezzato tutto il ridicolo! Ancora una volta, la duchessa di Neli si scosse dalla sua meditazione e sollevò la testa. Una semioscurità regnava nella stanza. Ella si alzò e si fece alla finestra. La giornata si era coperta; dei nuvoloni grigiastri si rincorrevano, sospinti da un vento che scuoteva le foglie appassite dagli alberi del viale, e le spargeva turbinosamente dintorno. Non una carrozza, non un passante. Il grigio plumbeo di quel cielo autunnale pareva pesasse sulla terra, la opprimesse, togliesse il respiro ad ogni creatura vivente. - Meglio così.... - disse ancora a bassa voce la duchessa di Neli, guardando quel cielo schiacciato, la cerchia ristretta dell'orizzonte, gli alberi mezzo spogli, e trovando una secreta corrispondenza fra la malinconia delle cose in quella stagione e la disposizione del proprio spirito. Era l'autunno che oramai le conveniva, l'autunno in campagna, dove è ancor più visibile il mancare del verde, il ritirarsi del sole, tutti i sintomi dell'agonia della natura. E come ella si compiaceva di aver fatto portar via il mazzo recatole dal suo giardiniere, il domestico comparve di nuovo sull'uscio. - La signora duchessa è servita. Passata nella sala da pranzo, preso posto alla tavola dove il duca batteva la marcia con le posate, fiutando ogni cosa, allungando la testa da una parte e dall'altra come un ragazzo malavvezzo, la duchessa disse, con voce breve: - Domani andrò in villa. Il marito la guardò, sorpreso da quell'insolito accento di risoluzione. Ma un sentimento di soddisfazione gli si dipinse subito in volto. - Era quello.... - Poi, quasi pentito. - Non è una bella stagione. Del resto, fai come ti piace. Puoi dare gli ordini opportuni.

Il marito dell'amica

245220
Neera 1 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
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La Guidobelli, enigmatica, teneva le palpebre abbassate, umettandosi delicatamente, colla lingua, le labbra; chiusa in sè stessa, come se volesse assorbire fino all'ultimo la voluttà che svaniva. Ognuna di quelle signore che, nel ballo, si era stretta ad un uomo, aveva concesso qualche cosa; ognuno di quegli uomini, eccitato dal contatto, si trovava più che mai disposto a vedere una donna in ogni signora. Sedendo, curavano meno di allontanare le sedie; erano già stati così vicini! Parlavano più liberi, accostando i volti e i ginocchi come persone che ebbero già un precedente di intimità; dai seni delle signore cadevano i fiori mezzo avvizziti; gli uomini li raccoglievano, senza renderli, giuocherellando con essi, mordendoli leggermente. Un fumo sottile d'ebbrezza serpeggiava da coppia a coppia, in quella festicciuola alla buona, dove nessun cerimoniale e nessuna etichetta frenavano gli istinti del piacere. Dopo si combinò la quadriglia. C'era un gran movimento; la preoccupazione delle signore era quella di assicurarsi un cavaliere. - Lei non balla più? - le chiese la Guidobelli, scrutandola co' suoi occhietti impertinenti. Maria, rispose di no, e per evitarla, diede di capo nella Bonamore la quale, premurosamente, le fece osservare che aveva l'abito gualcito. Maria si scusò dicendo che s'era sentita poco bene; e andò a rifugiarsi dietro un paravento, nell'angolo del camino. In quel momento di calma, tornò a passarle nel cervello la visione della casetta solitaria dove avrebbe potuto nascondere agli occhi di tutti il suo amore, dove rotto ogni legame col mondo ella si sarebbe creata un Eden di felicità. Le risuonava all'orecchio la voce pregante di Ema- nuele: domani a quest'ora lontani di qui.... E guardando diritto innanzi a sè vedeva le coppie che si preparavano per la quadriglia, cinguettanti, allegre; Sofia più allegra di tutte. Pensava che ad onta dei suoi rapidi pentimenti, Sofia finirebbe col cedere al dottore od a qualche altro. Questa sicurezza le faceva salire alle labbra un sogghigno di amara ironia. per sè stessa, per i suoi inutili martiri, per il suo sacrificio incompreso. E profonda, pungente in fondo al cuore un'altra riflessione la torturava: Emanuele l'avrebbe disprezzata, l'avrebbe maledetta. Da quell'ultimo crollo delle sue illusioni, ella lo sentiva, doveva scaturire inflessibile per Emanuele il più cinico scetticismo. Maria rabbrividì tutta - esitò ancora un momento, l'ultimo. Poi sicura si mosse, facendo il giro della sala per non disturbare la quadriglia. Emanuele era in piedi presso il direttore; ella, nel passargli a tergo, ne fu urtata. - Perdono - fece egli voltandosi, guardandola lungamente. Maria sorrise, pallida sotto il rossetto. Sofia, che aspettava la sua volta per la dama seule, abbandonò il suo cavaliere per venire a chiederle come stava. - Meglio - rispose Maria, e sorrise anche a lei, attirandola con una pressione dolce. Si trovavano alle spalle dei ballerini, quasi nel cantuccio della porta. Maria avanzando la bocca la baciò lieve sui capelli, tremando. - Quanto sei buona! - esclamò Sofia, commossa da quel bacio inaspettato. - Ricordalo - mormorò Maria a fior di labbra, - e tornò a baciarla. Poco dopo il direttore della quadriglia ordinava: grande chaîne: e nel medesimo istante una carrozza ruzzolava sul deserto selciato di via Monforte, trasportando Maria. Allo svolto del bastione ella mise la testa allo sportello, fissando intensamente i lumi che brillavano nell' appartamento di Emanuele, con uno sguardo ardente; poi i lumi sparvero - ed ella ricadde sui guanciali, mordendo il fazzoletto, colla disperata sicurezza che questa volta lo perdeva per sempre. FINE.

Pagina 201

Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245424
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
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Pensavo che forse il vecchio marinaio aveva avvertito la zia di vigilarmi: lei mi vigilava: io mi nascondevo sotto le mie palpebre abbassate, ma lei doveva flnalmente vedere tutto il mio dolore: ed io mi vergognavo come se lei mi vedesse nudo. Come mi dava noia! Dio, Dio, perchè non moriva, la zia? Sarei rimasto solo nella casetta umida e scura, solo come la fiera nella sua tana: a suo tempo mi avrei portato là dentro la mia creatura, l'avrei allevata io, senza l'aiuto di nessuno; io, io solo con lei nel mondo come in un'isola deserta. Ed ecco d'un tratto la zia, finite le sue faccende, si mette a sedere davanti a me, col calamaio e il suo quaderno dei conti. Era destino che Ia mia sorte venisse sempre segnata fra conti di piccole spese giornaliere. La zia apre il quaderno alla rovescia e scrive: poi me lo fa leggere. È una cosa grande quella che leggo, eppure mi lascia freddo, anzi con un senso di ironia nel cuore: "Penso di andare a trovare Fiora, per vedere come sta e prendere gli accordi per la creatura che porteremo e alleveremo qui: diremo che è l'orfana di una nostra parente. Che ne pensi, tu?,, Risposi: "È meglio non andare. A suo tempo penserò e provvederò io a tutto,,. Che sguardo mi rivolse la zia! Di rimprovero e di compassione, sdegnato e beffardo assieme. Come provvederai tu, povero idiota, buono neppure a procurarti un bicchier d'acqua? Ella teneva iI quaderno fra le dita che le tremavano un poco: frenava il suo sdegno: scrisse poi qualche cosa, poi Ia cancellò. Io la fissavo, e mi sentivo duro come un macigno. Troppo tardi, le dicevo con gli occhi: se tu non avessi giocato la creatura col nano, buttandovela l'uno con l'altra come una palla, adesso non ti umilierei così. Adesso è tardi: se soffri peggio per te. Anche lei mi rispondeva con lo sguardo: "Va bene: ne riparleremo,,.

Pagina 138

Il drago. Novelle, raccontini ed altri scritti per fanciulli

246520
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1895
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
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Egli sedette a cavalcioni, da cima, dove la stanga s'impernia nelle assicelle ritte, e disse : - Voi, una di qua e una di là, alzate e abbassate la stanga; al pastone bado io. E per cinque minuti s' intese soltanto il rumore del pernio della stanga, menata su e giù dalle bambine che ridevano, quasi facessero il chiasso, mentre don Paolo girava di qua e di là il pastone, ne ricacciava in dentro lestamente con le mani le coste, rimettendolo sempre in centro sotto la stanga che lo induriva , finchè non gli parve il momento di gridare : — Fermate ! Allora cominciò un altro chiasso, con le pagnotte da arrotondare e schiacciare. — Questa è per me. — Questa è pel nonno. - Pel nonno, figliuole mie, ci vogliono le focacce. Le faremo dopo. E questa volta il pane lo manderemo a cuocere dalla fornaia. Le bambine erano accese in viso, sparse di farina con le mani e le braccia impiastricciate di pasta. Don Paolo le avrebbe baciate, se i baci non gli fossero parsi segno di tenerezza eccessiva. E un po' burbero, per frenare la loro vivacità, brontolò: — Via, via; lavatevi mani e braccia, e spolveratevi bene! Ogni giorno, una lezione pratica. Don Paolo sapeva fare tutto, fin la calza, e voleva insegnargli ogni cosa da sè; non gli piaceva vedersi gente estranea fra' piedi. E se qualcuno, interrogandolo, intorno alle pupille, gli diceva: — Perchè non le mandate a scuola ? — A scuola? — rispondeva, quasi arrabbiato. — Le mie figliuole non sapevano leggere, ed erano donne di casa. Ora, riducono le bambine tante dottoresse... Ma che vale? Non sanno imbastire una calza, nè fare un rammendo, nè cucinare una minestra! La scuola è per le principesse. Su questo punto don Paolo non intendeva ragione. — Io sono della pasta antica, — aggiungeva. — Allora si sapeva leggere meno, ma si era più galantuomini. Non è vero forse? Inutile tentare di convincerlo. Voleva agire all'antica. ***

Pagina 28

La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247483
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
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Le palpebre erano abbassate sui begli occhi azzurri, il cui sguardo dai riflessi metallici, dalla espressione ora indifferente, ora superba, ora addirittura sprezzante, si era estinto. E malgrado l'aspetto infame di quella Pension Suisse, malgrado l'ignobilità nauseante di quella camera, malgrado tutto quel sangue sparso sul petto, sulle mani, sul letto, sul tappeto, malgrado quella morte così orrenda, quel morto conservava la sua nobile bellezza venutagli da Dio, dalla razza, dalla educazione, dai gusti, e che nè i vizi della vita, nè la laidezza di quella fine gli potevano togliere. Chi sa perchè Ferdinando Terzi aveva voluto morire in quella locandaccia, in quella cameraccia puzzolente? Forse, per un supremo insulto a sè stesso e agli uomini? Ma non era giunto a cancellare i tratti che la bellezza, aveva messo sul suo viso e sulla sua persona. Anzi, la morte vi aveva messo qualche cosa di più semplice, oramai, qualche cosa come il ritorno alla verità originale, una purezza nuova, una nuova giovanilità al bellissimo che si era colà ucciso. Ai piedi del letto, con le mani incrociate sulla spalliera di ferro vuoto, Carmela Minino non si saziava di guardare questo morto. Lo aveva cercato, di notte, per tutta Napoli, andando a bussare alle porte dei più ricchi e più eleganti alberghi, come una pazza, e lo aveva finalmente trovato, in quella stamberga, solo, non pianto da nessuno, non vegliato da nessuno, salvo quel sonnacchioso cameriere; ed ella lo poteva adesso guardare a. suo bell'agio, con gli occhi secchi e lucidi, dove non appariva una lagrima comprimendosi il petto con le mani, quasi a calmarne l'ansia. Lo aveva raggiunto. Non vi erano, costì, ne la madre di Ferdinando Terzi che viveva in Puglia nelle sue terre, dal giorno in cui era rimasta vedova non vi era la sua sorella maritata, la marchesa di Vallicella, a cui nessuno aveva osato dirlo ancora: non vi era la bruna e fine marchesa di Miradois, la spagnuola dagli occhi brucianti, dal marito così tremendamente geloso. Vi era solo lei: ed ella contemplava Ferdinando Terzi come non aveva mai avuto il coraggio di farlo in vita, lo contemplava, divorandone cogli occhi il volto reso più fine, più eletto, più spirituale, dalla morte. I begli occhi erano chiusi, per sempre: ella ne sapeva lo sguardo, tanto da vederli aperti e fissi in un punto lontano e la figura le si completava innanzi come quando era viva, ma più bella e più nobile. La porta si schiuse e lasciò passare cinque o sei persone: prima che la vedessero, Carmela Minino si arretrò nel varco del balcone, fra le cortine prosciolte, forse prosciolte dalla mano stessa del morto, per garantirsi dalla curiosità dei vicini di via Porto e dai viandanti di via Molo. Coloro che erano entrati erano il pretore col suo cancelliere, il padrone e il cameriere dell'alberguccio, il duca di Sanframondi e il conte Althan. Dal suo nascondiglio, ove ella ratteneva il respiro, Carmela Minino vide ed intese tutto quel lugubre formulario che accompagna la constatazione di un decesso per suicidio. Il pretore, molto annoiato d'essere dovuto uscire a quell'ora, con quel freddo cane, venendo a piedi dal vicino giardinetto ove abitava, un grosso uomo, già obeso a trent'anni, si era gittato, soffiando e sbuffando, nella sola poltrona, tutta sgangherata, che vi era e di cui le molle stridevano ad ogni movimento di quel corpo pesante. Il cancelliere, un piccino, magrolino, con gli occhi rossi dal sonno interrotto e dal vento gelido che soffiava, col bavero del soprabitino gramo sollevato alle orecchie, si era allogato presso la toilette, per scrivere il verbale. E vi fu scritto questo: «I due gentiluomini, duca Leopoldo Caracciolo Rosso di Sanframondi e conte Francesco Federici di Althan, amici personali dell'estinto, dichiarano che il suicida è propriamente il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, figliuolo primogenito del fu conte Giovanni e di donna Maria Angela de La Puiserage. Riconoscono anche i suoi vestiti, i suoi gioielli, la sua pelliccia e la rivoltella con cui si è ucciso». «Il conduttore dell' albergo Pension Suisse dichiara che si è presentato, alle sette di sera, il prenominato conte Ferdinando Terzi di Torregrande e gli ha chiesto una stanza per passarvi la notte. Visto l'aspetto di gentiluomo, Raffaele Scarano, conduttore di detto albergo, non gli ha chiesto donde venisse, il suo nome e perchè non avesse bagaglio. Egli non ha saputo il suo nome che più tardi, dopo il suicidio. Il conte Ferdinando Terzi ha pagato il prezzo della Camera - la migliore della Pension Suisse - in lire quattro e cinquanta, non ha preso il resto di cinquanta centesimi delle cinque lire, e ha detto che sarebbe tornato più tardi. Il prelodato gentiluomo, almeno dal tempo in cui lo Scarano è conduttore della Pension Suisse, non è mai venuto in quell'albergo». «Il cameriere della Pension Suisse, Domenico Quagliolo, dichiara di aver visto, alla sfuggita, il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, quando ha contrattato la camera col suo padrone Scarano, ma di non averlo guardato bene, avendo l'abitudine di osservare il meno possibile i passeggieri, per non dar loro fastidio. Più tardi, verso le nove, il conte è ritornato, solo. Il padrone Scarano era dall'altra parte dell'albergo e il conte si è diretto al cameriere perchè gl'indicasse la camera sua. Entrando in essa, si era fermato un poco sulla soglia. Il cameriere gli aveva 'subito fatto osservare che il letto non aveva le lenzuola, perchè non lo si aspettava così presto, ma che del resto, si accomodava in un momento. Il conte gli aveva soggiunto che era inutile, per allora poichè, forse, egli sarebbe uscito di bel nuovo; era molto tranquillo e aveva anche acceso una sigaretta. Poi, aveva licenziato il cameriere, dicendogli che lo avrebbe richiamato. La porta era, stata chiusa con la sola maniglia, non con la chiave. Il cameriere aveva udito il conte che andava e veniva, due o tre volte, nella camera, ma con passo tranquillo: poteva esser passata, così, mezz'ora, quando il Quagliuolo aveva sentito il colpo di rivoltella e si era precipitato nella stanza. Il conte Ferdinando Terzi boccheggiava, sul letto dove si era disteso; non aveva detto una sola parola, aveva soltanto aperto e chiuso gli occhi, due o tre volte, si era guardato intorno, come se cercasse qualche cosa. Il Quagliulo insisteva su questo particolare. Il suicida era morto immediatamente, nelle braccia del Quagliuolo, che aveva una manica della sua marsina, sporca di sangue. Erano corsi il padrone Scarano, due commessi viaggiatori che alloggiavano in casa, il portinaio: dalla farmacia del Cervo, in via Porto, era corso, chiamato, il dottor Gaetano Marotta, che aveva constatato la morte e disteso il verbale mortuario. Sul tavolino da notte era stata trovata una carta da visita col nome del conte Ferdinando Terzi di Torregrande e con le parole, scritte a lapis: mi uccido, perchè così mi piace, con la firma. L'avviso della morte era subito stato dato a San Carlo, al palco del Nazionale, ove si supponeva che qualche amico o qualche parente del suicida vi fosse». Questa scrittura del verbale duro più di un'ora: il pretore, dopo raccolte le dichiarazioni, le aveva dettato parola per parola al cancelliere. I due gentiluomini assistevano, in piedi, muti, evidentemente turbati e commossi per quella morte, ma anche seccati di esservi frammischiati: interrogati dal pretore, così, fuggevolmente, su le cause che avevano potuto determinare questo suicidio, si erano schermiti dal rispondere, con un cenno evasivo. Egli, colpito da un certo rispetto, non insistette. Del resto il suicidio era chiaro; la constatazione di morte del dottor Marotta era precisa e legale; il pretore sapeva bene che Raffaele Scarano, conduttore della Pension Suisse, e Domenico Quagliuolo, cameriere, avevano troppo paura della giustizia, per ragioni loro particolari, per non aver detto la verità in questo fatto, di cui erano innocenti. Egli si sbrigò. Cascava dal sonno, moriva di freddo: il suo povero cancelliere batteva i denti: i due gentiluomini avevano l'aria impaziente: il padrone dello albergo e il cameriere erano inquieti, afflitti da quel caso che gittava una luce anche più sinistra, malgrado la réclame, sul brutto lino che era la Pension Suisse. Solo il morto, su quel letto sporco del suo sangue, nulla sentiva più di tutte queste impressioni e sensazioni umane che egli suscitava, entrato oramai nella grande pace, cui, aveva anelato, per una ignota e profonda ragione: solo, dietro le cortine abbandonate e ondeggianti, un essere fremeva, in silenzio, d'impaziente disperazione. Uscirono via, prima, il pretore e il cancelliere, chiusa la funebre bisogna del verbale, riaccompagnati dal conduttore dell'albergo e dal cameriere: essi rientrarono poco stante, dopo essersi raccomandati, chi sa mai, al signor pretore. Il duca di Sanframondi e Francesco Althan si consultavano, a bassa voce, fra loro, sogguardando di tanto in tanto il morto: il più prudente era di lasciarlo colà, sino alla mattina, per non fare un tumulto a casa Terzi, alle due della notte: alla mattina, Sanframondi si sarebbe incaricato di questo funebre trasporto, mentre Althan avrebbe avvertito la marchesa di Vallicella. Ad assistenza di preti, non si poteva pensare, a quell'ora, in quel posto: si sarebbe veduto l'indomani. Parlavano piano, con parole monche, alludendo ognuno, con frasi velate, ad una causa possente e ineluttabile che aveva determinato il suicidio: non vi era altro da fare, per il povero amico loro, che uccidersi. E se ne andarono anch'essi, dando cinquanta lire nelle mani di Raffaele Scarano per quanto occorresse, a prima mattina, e cinque lire di mancia al cameriere, perchè vegliasse il morto. Dopo un'altra occhiata al suicida, essi andarono via, in punta di piedi. Il padrone affidò il cadavere al cameriere e se ne uscì, borbottando contro il suo avverso destino, malgrado le cinquanta lire. Quale coppia mai avrebbe presa quella stanza, dove un uomo si era ucciso? I giornali avrebbero parlato, egli era rovinato. Con un gran sospiro di sollievo, Carmela Minino uscì dal suo nascondiglio. Il cameriere, che si era dimenticato di lei, la guardò con sorpresa. - Andate a dormire, lo veglio io - ella gl'impose, indicandogli la porta. - Ma... ma... - Eccovi cinque lire. Restate nella camera accanto, ma non entrate. - Voi, certo, non potevate essere una sua innamorata... - disse lui, dopo averla squadrata, paragonandola, lei, così brutta, così poveramente vestita, con quel morto così elegante e così bello. - No, io non poteva essere la sua innamorata - disse lei, con voce strana. - Andatevene, dunque. Egli se ne andò, a malincuore. Ella chiuse la porta, con la maniglia. Finalmente, finalmente, ella restava sola, con quel morto. Nessuno sarebbe venuto, sino alla mattina: quel morto era suo. Di dietro le cortine, ella aveva tutto udito, mentre moriva d'impazienza: nè Sanframondi, nè Althan, nè nessuno di quel ceto sarebbe venuto, sino all'indomani, mentre l'opera del medico e del pretore era compiuta, mentre il padrone dell'albergo e il cameriere si erano allontanati. Quel morto era suo, per una notte intiera, in una camera ignota, solinga. Ella lo guardò con una tenerezza e una pietà intensa: si mosse pianamente, per la stanza: trovò, sul piano di velluto del falso caminetto, due steariche: le accese e le trasportò verso il morto, sul tavolino da notte, che era dal lato del cadavere. Per far questo, si era avvicinata molto a lui: lo guardò dappresso, come affascinata da quello spettacolo di funebre beltà, giacente nel suo sangue. Si cercò macchinalmente nella tasca: vi trovò il suo rosario e cavandolo fuori, ne baciò la medaglina della Vergine che vi era sospesa e il piccolo crocifisso di metallo. Cautamente, con una gentile delicatezza, intorno alla mano che si raggricciava sul cuore. morto di Ferdinando Terzi, ella avvolse il suo rosario, lasciando cadere la medaglina della Madonna e il crocifisso sul petto insanguinato. Per fare questo, ella non solo aveva dovuto avvicinarsi molto al cadavere, ma piegarsi sovra esso, toccarne la mano gelida: due volte si era gettata indietro, come se le mancassero le forze. Ma quel volto l'affascinava: si guardò attorno. Era sola. Alta era la notte: alto il silenzio. E, lentamente, ella si curvò su quel morto, appoggiò lievissimamente, in un bacio tenue, le sue labbra su quella superba fronte, altiera anche nella morte. Quel tocco freddo sciolse l'orribile nodo che serrava la gola e il petto di Carmela: ella piombò a terra ginocchioni, presso il letto, sulla macchia di sangue che deturpava il tappeto, piangendo, singhiozzando, parlando al morto. - Oh amore mio, oh amore mio unico, amore mio bello, voi siete morto, voi siete morto e io vivo! Oh bellezza mia, oh cuore mio, solo morto io vi poteva baciare! Chi me lo avesse detto, chi, chi, che vi doveva vedere morto! Oh amore mio, perchè campo io, io, perchè ci campo su questa terra, dove voi siete morto! Così cominciava, nella notte d'inverno, la veglia funebre di Ferdinando Terzi conte di Torregrande, nella lurida stanza della Pension Suisse, fra il sangue del suicidio, assistito dal pianto, dai singulti, dalle interrotte parole di amore e di dolore di Carmela Minino, ballerina di terza riga, al teatro San Carlo. FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME

Pagina 98

Una notte d'estate

249548
Anton Giulio Barrili 1 occorrenze
  • 1897
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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Una testina aggraziata su di un collo morbidamente flessuoso, incorniciata di capelli neri lucidi, che in ciocche leggermente increspate si rigiravano con una semplicità virginea sovra gli orecchi di madreperla; il viso di un ovale purissimo, vero impasto di latte e di rose, con un tocco di rosso vermiglio sulle labbra, con due linee sottili di nero d'ebano sugli archi delle orbite abbassate, che non consentivano di vedere, ma lasciavano intravedere dalla ampiezza loro e dalla loro profondità lo splendore degli occhi; e su quel bianco rosato della carnagione di un fior diffuso di pesche sul ramo, non ancor brancicate dall'uom della villa; tale era la apparizione che il signor Ascanio contemplava estatico, non osando trarre il fiato, nè quasi battere le palpebre. Così, dugento cinquant'anni prima d'allora, un altro rintontito, dal vano della sua stessa finestra, aveva contemplato nel vano di un'altra, e forse proprio di quella. Ma che sciocco, il signor Ascanio, ad essere stato sei mesi in quel suo alloggio, senza accostarsi mai alla finestra del suo studio, senza mai mettere il naso fuori di là! Quando deve accamparsi, il buon generale studia il terreno intornò a sè, per saper bene dove si trovi, per non esser colto alla sprovveduta, nè di qua, nè di là. Dovunque si vada ad abitare, bisogna conoscere gli approcci, sapere che vicini si hanno, e che vicine, per Bacco. Vedete, infatti; c'era lì una bellissima creatura ch'egli non sapeva decorare del suo riverito nome e cognome, che egli non aveva mai vista prima d'allora. Sicuro, egli che aveva la sua Genova sulla punta delle dita, egli che a teatri, a feste, a passeggiate aveva imparato a conoscere tutte le bellezze, giovani, mature e stagionate della Superba, egli non conosceva quella sua stupenda vicina. Fiore modesto e casalingo, naturalmente; e se ne stava nel suo vaso, come il Gladiolus Inarimensis, contento di risplendere nell'aura quieta del suo davanzale al secondo piano, dove non giungevano gli occhi del viandante a indovinarlo, o, se pure ci fossero giunti per caso, avrebbero fatto prendere un torcicollo al loro legittimo padrone, quando egli fosse consigliato di volgersi lassù troppo spesso. Ah, spadacciòla d'Ischia! spadacciòla d'Ischia! Come voleva metterla lui alla moda, facendone venire di tutte le varietà, da tutti i giardini d'Italia! A buon conto, sarebbe andato quel giorno medesimo dal cavalier Bucco, suo grande amico e gran giardiniere nell'orto botanico della Università genovese. - Signor Giovanni, gli avrebbe detto, signor Giovanni, mio riverito, spadacciòla d'Ischia vuol essere. Me ne dia una pianta, se l'ha; me la trovi ad ogni costo, se non l'ha. Una spadacciòla d'Ischia, o la morte. Così era lui, lo sapete, impetuoso, impaziente, matto come quattro cavalli. Ah, la bella vicina non avrebbe indugiato molto a vedere un Gladiolus Inarimensis sul davanzale del vicino. Doveva egli collocarlo quel medesimo giorno? O nella notte, perchè facesse più colpo la mattina seguente? Per intanto, la bella vicina aveva veduto il vicino matto. Si era fatta rossa, vedendosi osservata da quegli occhi fissi, che avevano tutta l'aria di volersela sorbire, e si era ritirata a fronte china; ma dopo essere rimasta ancora qualche minuto secondo, per non parere una sciocca, vergognosa o scontrosa. Ed egli aveva approfittato di quella sosta, per salutarla rispettosamente; ed ella aveva risposto all'atto cerimonioso con un cenno cortese del capo. Addio, luce! Per un poco di tempo non avrebbe più avuta la sorte di vederla. Così pensando, il signor Ascanio si ritrasse a sua volta, per ripigliare la sua conversazione con Tribolino. Capiva già che lo spiritello impertinente si sarebbe preso spasso di lui. Facesse a sua posta; perchè, celiando e ridendo, gli parlasse di lei. Ma il folletto non era più là, sulla catasta di Grevii e dei Gronovii; nè gli era dato di scovarlo altrove, per quanto guardasse a destra e a sinistra, e in alto e in basso. Neanche gli venne sott'occhio la cassa minuscola, col minuscolo martello; due notabili arnesi, che egli ben ricordava dove li avesse veduti ancora, quando Tribolino era venuto d'un salto a collocarsi sulla sua scrivania. - Tribolino! - gridò. - Tribolino! - Nessuna risposta; nè di parole nè di risate. Non scricchiolavano neanche i mobili, che, si capisce, si fanno vivi solamente di notte. - Genius Ioci! - ripigliò, dopo una breve pausa. - Agathôs daimon... kakòs daimon, che il diavolo ti porti! Ma che modo di trattare è il tuo? - Sempre così, i folletti; quando non ne avete bisogno, vengono a rompervi le scatole; quando li cercate, sono spariti, e non c'è verso di farli tornare. Un colpettino secco si udì, ma sull'uscio dello studio. Il signor Ascanio tralasciò subito di taroccare.

Pagina 157

Una peccatrice

249630
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
  • UNICT
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Le tende di giunco erano abbassate sulle ringhiere, quantunque il sole non vi giungesse ancora, forse per dare alquanto più d'ombra agli appartamenti; e dietro una di quelle si vdeva una figura di donna, vestita di bianco, quasi coricata su di una poltroncina con tutto il languente e voluttuoso abbandono di una sultana; a quella vista il cuore di Pietro battè forte, come la sera innanzi. - È dessa! - disse Raimondo - vedi che non t'ingannavo!... Pietro non rispose, tenendo sempre fissi gli occhi sul verone. Ella si toglieva soltanto a lunghi intervalli da quella positura per recarsi agli occhi un binocolo che teneva sui ginocchi e col quale guardava nella strada o verso la Villa; ed indi, come stanca di quello sforzo, lasciava ricadere mollemente la testa sulla spalliera, e sembrava assorbirsi in quell'inerzia contemplativa che gli orientali cercano nell'oppio. Un uomo, seduto accanto a lei su di una seggiola assai bassa, le leggeva qualche cosa di un giornale che teneva fra le mani, e che ella udiva sbadatamente; e si interrompeva di tratto in tratto per prendere una mano di lei, che gliela abbandonava con la stessa languida indifferenza, e che lo ringraziava col suo sorriso seduttore e col suo sguardo che faceva scorrere un'onda di voluttà in quell'uomo, quand'egli si recava alle labbra la sua mano: Allor solamente, la sua leggiadra testolina, coronata da quei ricci magnifici, si volgeva lentamente verso di lui. Qualche volta, con un movimento tutto infantile, quella manina bianca ed affilata si appoggiava alla ringhiera, e sopra vi si appoggiava la fronte; quasi quel bellissimo collo fosse troppo debole per sostenere quella piccola testa. - Con questa donna ci sarebbe da impazzire! - esclamò Pietro reprimendo un fremito, dopo averla divorata a lungo dello sguardo. - Credi che siano marito e moglie? - domandò l'altro. - È il mistero che questa donna sa rendere impenetrabile colle sue mille indefinibili gradazioni di fisonomia, d'espressione, di gesto, che fanno spesso dimenticare la sirena nella vergine, e viceversa. Se lo sono è da poco tempo: a meno che costei non senta ancor ella sì a lungo come deve far sentire a tutti quelli che l'avvicinano. Parecchie volte, forse a caso, l'occhialetto dell'incognita si rivolse verso il banco di pietra sul quale erano seduti i due amici. - Ti guarda! disse Raimondo sorridendo. O guarda i passeri che saltellano fra le frondi. Credi sul serio ch'io ne sia innamorato? - Ne parli tanto!... - Diffida sempre di quegli amori di cui ti si parla a lungo e sì leggermente: è segno certo che si vuol ridere alle tue spalle... Io l'amo come un bel personaggio da dramma o da romanzo, come un bel fiore... come una bella donna prima venuta insomma... che sa recare con grazia il velo sul cappellino e sollevare con disinvoltura lo strascico della veste... e nient'altro... In fede di che, se vuoi, andiamocene; sono le due meno dieci minuti, - aggiunse dopo aver consultato l'orologio. - Sì, è troppo tardi; siamo qui da più di due ore; - rispose il biondo alzandosi. Egli sorprese lo sguardo del suo amico che ancora restava fissato sul verone. - Vuoi venire, o no? - Un momento... restiamo altri dieci minuti e partiremo alle due precise... - Non amo gli inglesi colla loro metodicità regolata sul quadrante di un orologio... Hai detto d'andarcene... - Hai ragione; - rispose Brusio ridendo - partiamo. Due o tre volte, prima di uscire dal giardino, si volse a guardare il verone, sul quale non poteva più vedere che la tenda abbassata. - Bella donna! - ripeteva egli di tempo in tempo, con un entusiasmo che era troppo allegro per non essere affettato, e troppo affettato per non nascondere una preoccupazione: quanto io t'amo!

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