Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il Drago e cinque altre Novelle per fanciulli

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Egli sedette a cavalcioni, da cima, dove la stanga s'impernia nelle assicelle ritte, e disse: - Voi, una di qua e una di là, alzate e abbassate la stanga; al pastone bado io. E per cinque minuti s'intese soltanto il rumore del pernio della stanga, menata su e giù dalle bambine che ridevano, quasi facessero il chiasso, mentre don Paolo girava di qua e di là il pastone, ne ricacciava in dentro lestamente con le mani le coste, rimettendolo sempre in centro sotto la stanga che lo induriva, finchè non gli parve il momento di gridare: - Fermate! Allora cominciò un altro chiasso, con le pagnotte da arrotondare e schiacciare. - Questa è per me. - Questa è pel nonno. - Pel nonno, figliuole mie, ci vogliono le focacce. Le faremo dopo. E questa volta il pane lo manderemo a cuocere dalla fornaia. Le bambine erano accese in viso, sparse di farina con le mani e le braccia impiastricciate di pasta. Don Paolo le avrebbe baciate, se i baci non gli fossero parsi segni di tenerezza eccessiva. E un po' burbero, per frenare la loro vivacità, brontolò: - Via, via; lavatevi mani e braccia, e spolveratevi bene! Ogni giorno, una lezione pratica. Don Paolo sapeva fare tutto, fin la calza, e voleva insegnargli ogni cosa, da sè; non gli piaceva vedersi gente estranea fra' piedi. E se qualcuno, interrogandolo intorno alle pupille, gli diceva: - Perchè non le mandate a scuola? - A scuola? - rispondeva quasi arrabbiato. - Le mie figliuole non sapevano leggere, ed erano donne di ca- sa. Ora, riducono le bambine tante dottoresse ... Ma che vale? Non sanno imbastire una calza, nè fare un rammendo, nè cucinare una minestra! La scuola è per le principesse. Su questo punto Don Paolo non intendeva ragione. - Io sono della pasta antica, - aggiungeva. - Allora si sapeva leggere meno, ma si era più galantuomini. Non è vero forse? Inutile tentare di convincerlo. Voleva agire all'antica. * * * Di tanto in tanto, per far svagare le bambine, le conduceva in campagna, a Doguara, nel fondicello tutto piantato a olivi e mandorli con un po' di vigna su la costa; o a Pietra-che-suona, dove seminava grano, fave, ceci, ed era la dote della moglie. Dognara sarebbe stato di Lisa, Pie- tra-che-suona, di Giovanna, se se lo meritavano, se crescevano buone, virtuose, e massaie come voleva lui. Le notti che non poteva dormire, pensava spesso al testamento che occorreva fare perchè le orfanelle, alla sua morte, non si ritrovassero in mezzo d'una via, e la roba non se la prendesse il fisco, poichè egli non ave- va parenti vicini nè lontani. Ma non sapeva risolversi; andare dal notaio e mettere in carta le sue ultime volontà gli pareva mal augu- rio. Che fretta aveva? S'era consultato però col canonico suo compare che aveva battezzato Lisa, e quel servo di Dio gli aveva risposto ridendo: - Volete dunque comprarvi un bel pezzo di paradiso? Fate bene, compare. Ma non occorreva aver fretta; il paradiso era grande, ne avrebbe trovato sempre un pezzetto per sè e per la moglie e le figliuole, caso che esse stessero ancora in purgatorio. Per suffragio di quelle anime benedette non faceva dire tre messe ogni anno, il giorno dei morti? No, non occorreva aver fretta; intanto stava sempre con l'animo sospeso. La morte arriva quando meno ce l'attendiamo; non manda l'avviso avanti. Chi ha tempo, non aspetti tempo ... Ne conveniva: ma l'idea del mal'augurio gli si metteva per traverso, e gl'impediva di prendere una risolu- zione. Per questo rimase proprio atterrito la mattina che gli dissero: - È morta la sciancata. Siete contento? Lui la chiamava la strega, ma tutti gli altri la sciancata. Piena di salute, grassa e ben pasciuta, era morta d'accidente, in un minuto. - Dio le perdoni! - esclamò: - Dio le perdoni il male che voleva fare alle orfanelle! Quella morte però gli era parsa un ammonimento. Se l'accidente fosse venuto a lui? Per scacciar via quel tristo pensiero, si faceva il segno della santa croce. E la sera, disse alle bambine rimaste mute all'annuncio: - Recitiamo il santo Rosario per l'anima della... Stava per dire: - della strega - ma subito si corresse. E fu la prima e l'ultima volta che gli accadde di chiamare zia colei. * * * No, non voleva morire ora che anche la casa pareva rifiorita per la bella imbiancatura recente, per l'ordine, per la pulizia, con la terrazza piena di graste di garofani, di menta, di basilico, e quel gelsomino che s'arrampicava alla parete, ricordo di Lisa che gli voleva tanto bene, e lo annaffiava, lo ripuliva delle foglie secche, e lo aveva potato di sua mano pochi giorni prima della disgrazia. Quel gelsomino don Paolo lo aveva curato tant'anni, raccogliendone i fiori e conservandoli in un cartoccio, quasi fossero stati qualcosa soprav- vivente della sua povera figliuola. Ingrossato nel tronco, si era arrampicato coi rami ai sostegni di canna; ma ora sembrava sentisse anche lui il soffio di vita che rianimava tutta la casa, e verdeggiava e fioriva per festeggiare la nuova Lisa, come non aveva verdeggiato e fiorito da un pezzo. - Il gelsomino e di Lisa, - diceva don Paolo a Giovanna. - Perchè? - domandava la bambina un po'ingelosita di quella particolarità. - Perchè si chiama Lisa. Sono tuoi i garofani, il basilico, la menta. - Ma lo innaffio anch'io. - No, deve innaffiarlo lei, soltanto lei. Voleva procurarsi tutte le illusioni, povero vecchio. Tanto più che l'autunno gli metteva in cuore una gran malinconia, come l'anno passato, quando s'era immaginato che quell'autunno dovesse essere l'ultimo di sua vita. S'era ingannato; invece gli era anzi capitata la buona fortuna di quelle due bambine. - Vuol dire che il Signore mi darà tempo di tirarle su queste due creature; è giusto che sia così. Tentava di confortarsi a questo modo; e si stizziva ogni volta che suo compare il canonico, a cui aveva parlato del testamento, glielo rammentasse, e lo esortasse a farlo subito, per non pensarci più. - O che sono coi piedi nella fossa? - rispondeva. Si sentiva bene, con le gambe solide. Aveva badato alla vendemmia e al raccolto degli ulivi, come un giovane di vent'anni; ora preparava la seminagione del grano e delle fave, e non poteva occuparsi del testa- mento; ci pensava e ripensava però, voleva maturarlo. Se ne sarebbe riparlato insieme, nel prossimo inverno, dopo Natale. - O che sono coi piedi nella fossa? E a proposito di Natale, si rammentò che l'anno scorso i suonatori della Ninnaredda (Ninna- Nanna), nelle notti della Novena, non erano venuti a suonare sotto le sue finestre; disabituati, dopo tanti an- ni, non si rammentavano più ch'egli esistesse al mondo. Ma ora che aveva in casa le bambine, egli voleva suonata la Ninnaredda sotto le finestre, come tutti gli altri; poteva regalare i suonatori meglio degli al- tri, la vigilia di Natale, quando sarebbero venuti a casa sua, di giorno, com'era costume. Dolci, càlia, vino ... e il vino quest'anno era proprio di quello! Il primo giorno della Novena appunto, aveva incontrato i suonatori che accompagnavano un Bambino Gesù di cera, toccato in sorte a una vicina nella chiesetta delle Orfanelle. Che festa mettevano per la via quei tre violini e il contrabasso, fra una trentina di ragazzi che li precedevano e li seguivano, allegri, saltellanti, quasi che il Bambino Gesù fosse toccato a loro! E mentre i suonatori passavano davanti la porta di casa, don Paolo, che faceva ferrare l'asino, accennato a mastro Gaetano e a mastro Neli, sorridendo, e aveva gridato per farsi sentire bene: - Non vi scordate di me! I suonatori tirarono innanzi senza rispondere, borbottando qualcosa tra loro, continuando a grattare i vio- lini. Ma egli si era persuaso che avessero capito. E per ciò la sera, dopo cena, mentre le bambine si dispone- vano ad andare a letto, le aveva avvertite: - Questa sera, quando sarà il momento, vi sveglierò io. Domani poi, con vino cotto e miele e farina, impa- steremo i mostaccioli pei suonatori, e faremo la càlia. Spogliandosi, Lisa disse a Giovanna: - Io non m'addormenterò. - E neppure io. Ma don Paolo, che le aveva udite dall'altra stanza soggiunse: - Addormentatevi. Vi sveglierà il nonno. - Fingiamo di dormire, - sussurrò Lisa all'orecchio di Giovanna. - Sì, sì! E finsero così bene, che si addormentarono profondamente. * * * Don Paolo, aspettando i suonatori, si era messo ad acconciare la cavezza dell'asino, e si godeva anticipa- tamente il piacere della svegliata delle bambine alle prime note della Ninnaredda. I suonatori non si facevano sentire nè da vicino, nè da lontano, ed era quasi mezzanotte. Dovevano aver cominciato il giro dall'altra punta del paese. Poveretti! Andare attorno con quel freddo e suonare con le mani intirizzite non era un divertimento; ma alla fine della Novena potevano spartirsi un bel gruzzoletto, una catasta di dolci, parecchi sacchi di càlia, senza contare il vino! Poveretti! Quei regali erano proprio ben gua- dagnati! ... - Ah! Eccoli Si sentiva, a volte sì, a volte no, secondo il vento, il grugnito del contrabbasso, ma lontano assai. Don Pa- olo s'impazientiva delle troppe fermate, e rifletteva che nella sua via essi non avevano molte case sotto cui arrestarsi: dal dottor Cipolla, dai Carcò, dal notaio Miani, e poi da lui. - Oh! Ora si udiva benissimo, oltre il suono del contrabbasso, anche quello dei violini; don Paolo si sentiva in- tenerire. E appena si persuase che i suonatori erano già sotto la casa del notaio Miani, posò per terra la ca- vezza, si levò da sedere, aperse l'uscio della camera delle bambine e aspettò per svegliarle. - Come saranno contente! Gli pareva che i suonatori lo facessero apposta indugiando colà. Non era bastata la Ninnaredda ! At- taccavano anche una suonatina allegra! - Faranno lo stesso qui sotto, - pensava. Nel silenzio della notte si sentiva sul selciato il rumore delle scarpe grosse, e le voci dei suonatori che parlavano fra loro e ridevano ... - Ora si fermano ... Invece, con gran rabbia di don Paolo, i suonatori erano passati oltre. Egli tremava dall'indignazione per quel dispetto, sperando d'ingannarsi finchè il rumore dei passi, ancora vicino, potè illuderlo un istante; poi, con le lagrime agli occhi, guardò le bambine che dormivano, e tese i pugni, minacciando quei pezzi di ub- briaconi! - E la Ninnaredda ? - domandarono le bambine la mattina appresso. - Come? Non ve ne rammentate, dal gran sonno? - rispose don Paolo, sforzandosi a ridere. - Eppure io vi ho svegliate. E andò a fare una lavata di capo a mastro Gaetano: - Vi pagherò meglio degli altri! Capite? Ora ci ho le bambine. * * * La notte di Natale aveva voluto condurle a vedere il presepe e a sentire la messa di mezzanotte. Pioviggi- nava, tirava vento; ma la chiesa era lì a quattro passi, e don Paolo non aveva creduto di commettere un'imprudenza, all'età sua, con quel tempaccio. Per tenere deste le bambine fino alla mezzanotte, s'era mes- so a giocare all'oca con loro, usando la gentile malizia di contar male i propri punti perchè il perditore fosse sempre lui, e fingendo, ogni volta, di arrabbiarsi contro la disdetta: - Santo Dio! voi mi spogliate. La posta era di venti nocciuole, ma egli invece pagava un soldo; e le bambine ridevano, vedendosi accu- mulare davanti tante belle palanche, mentre i loro mucchi di nocciuole rimanevano intatti. - Santo Dio, voi mi spogliate! Questo è l'ultimo soldo. E don Paolo faceva atto d'arrovesciare una tasca. - No, ce n'è ancora un altro. Ce n'era sempre qualcuno in questa o in quella tasca. Lisa contava i suoi; quindici! Giovanna contava dall'altra parte: dodici! - Oh!. ecco le campane. È il primo seguo per la messa cantata. Nel silenzio della notte le campane squillavano allegre, annunziando gloria in cielo e pace in terra; e già cominciava per la via il via vai della gente. - Al secondo segno, andremo in chiesa. Intanto aveva continuato a lasciarsi spogliare, come diceva. Aveva anzi finto di dover giuocare sulla paro- la, perchè non possedeva piò un soldo spicciolo. Poi tirate fuori due mezze lirette di argento, aveva detto se- rio serio: - Se mi vincete pure queste qui, domani non potrò fare la spesa. - La faremo noi, - aveva risposto Lisa, ridendo. - Brava! E don Paolo si era lasciato spogliare anche delle due mezze lirette d'argento, prima che le campane suo- nassero il secondo segno. In chiesa c'era folla, e gran confusione; la gente arrivava a frotte; un pecoraio strillava la Ninnaredda con la cornamusa, intanto che i sagrestani accendevano i lumi dell'altare. Il vento e la pioggia scotevano i vetri delle grandi invetriate; dalla porta, continuamente aperta, penetravano sbuffi d'aria umida e fredda, ma dentro si scoppiava dal caldo. - C'è da prendere un malanno all'uscita! - rifletteva don Paolo. E infatti egli lo prese,: tosse e febbri, febbri e tosse. Da prima non aveva voluto mettersi a letto, nè far chiamare il medico; ma poi aveva dovuto persuadersi che lo stare in piedi era peggio. Pure aveva aspettato fino a tardi e si era coricato l'ultimo, per illudersi che non si metteva a letto come malato. La mattina dopo però non aveva avuto la forza di levarsi; e svegliate le bambine, aveva detto: - Andate del dottor Cipolla, qui vicino; ditegli che venga a farmi una visita; prendete la chiave della porta di casa. E quando aveva inteso il rumore della porta chiusa dalle bambine, s'era sentito solo solo, abbandonato; e tutti i terrori della notte precedente gli erano piombati addosso. - Questa volta è finita! - ripeteva. - Questa volta non c'è più rimedio! Invece del medico, perchè non mando a chiamare il notaio? No, no: gli pareva quasi impossibile che Gesù Bambino volesse ripagarlo in quel modo della messa anda- ta a sentire a mezzanotte, ripagarlo facendolo morire.:No, Gesù Bambino misericordioso si sarebbe ricorda- to delle orfanelle che rimanevano senza aiuto e senza guida, se il loro tutore era portato via dalla febbre e dalla tosse che gli toglieva il respiro. Il dottor Cipolla, lungo, lungo, lungo, magro e stecchito, col bastone sotto braccio, aggiustandosi a ogni po' le punte del colletto della camicia, era entrato sorridendo, senza togliersi il cappello a staio perchè aveva paura d'infreddarsi, e s'era fermato in piedi davanti al letto. Lo chiamavano San Pantaleone chi sa perchè, forse per la statura, quasi quel San Pantaleone indicasse qualcosa di spropositamente alto col semplice suono delle sillabe. - Sedete, dottore! sedete! - disse don Paolo, con voce lamentosa, interrotta da colpi di tosse. Non poteva vederselo davanti, ritto in piedi, con quella tuba in testa che toccava la volta della camera, e il collo incastrato nell'alto colletto che non gli permetteva di abbassare il capo. - Sedete, dottore! Temeva che la sua voce di malato non riuscisse ad arrivare fino a lassù, sotto la tuba, e penetrargli dentro gli orecchi sempre turati con la bambagia. - Voialtre, andate di là, - soggiunse per allontanare le bambine. E appena esse furono uscite di camera, si mise a singhiozzare. - Dottore, ditemi la verità! Per quelle creature, che non voglio lasciare in mezzo a una via, ditemi la veri- tà! - Certe cose, caro don Paolo, - rispose il dottore, tirandosi le punte del colletto, - non bisogna mai riman- darle proprio agli estremi momenti, quando la testa non ci regge più! Così anche per le cose della santa Chiesa. - Dunque sono spacciato? - Non esageriamo caro don Paolo!... Ecco qui un calmante per la tosse! una cucchiaiata all'ora; poi pen- seremo alla febbre... Niente di grave. - La mia sentenza di morte! - pensava don Paolo, seguendo con gli occhi la mano che scriveva la ricetta sul ginocchio della gamba accavalcata all'altra. E prima che il dottore andasse via, egli lo pregò di mandargli il notaio Miani, pel testamento, erano a u- scio e bottega, non sarebbe stato troppo incomodo per lui. Il dottor Cipolla, che s'interessava molto anche della salute dell'anima dei suoi clienti, dopo il notaio, s'affrettò a mandargli pure suo compare, il canonico. Ma don Paolo, che aveva dovuto fare un bello sforzo per vincere l'idea di malaugurio del testamento, quando vide entrare il canonico, non potè frenarsi: - Venite a portarmi la jettatura anche voi? Lasciatemi in pace! - Sono venuto per una visita, - si scusava il canonico. Don Paolo però seguitava a strillare: - No, compare; se mi confesso muoio! - Siete cristiano, sì o no? - Cristianissimo; ma se mi confesso e prendo il viatico, muoio! - Le cose sante sono la miglior medicina, compare. - Ma se non debbo morire ... E non voleva morire, almeno questa volta. E ragionava, a modo suo, parlando a stento, fra un colpo di tosse e l'altro, per convincere il canonico, che si frenava a stento per non ridere. - Come? sono andato alla messa di Natale per devozione, ci ho condotto anche le bambine e il Signore, in ricompensa, mi farebbe morire? Non è possibile. Dio è giusto. Non può mandarmi all'inferno; non ho ruba- to, non ho ammazzato, non ho calunniato; ho fatto anzi un'opera di carità da meritarmi il paradiso ... - Questo non dovreste dirlo voi, - lo interruppe il canonico. - Se il Signore si avvede che mi son confessato e comunicato, dice: - Quel povero don Paolo portiamolo in paradiso, è meglio, giacchè ora si trova in grazia nostra! - No, Signore benedetto! lasciatemi star qui ... Non vedete che queste orfanelle hanno soltanto me, e che se muoio io, le spogliano, le riducono alla miseria con tutto il bel testamento che ho fatto? Lasciatemi quaggiù un altro pochino! - Il Signore sa bene quel che deve fare, non ha bisogno dei vostri consigli! ... - Non lo consiglio, lo prego! E dovreste pregarlo anche voi nella. santa messa! Io dico: Il Signore, non vuol farmi dannare. Ebbene, se muoio non confessato, mi danno... Dunque mi dia. la salute del corpo, non per me, per le orfanelle... E per ciò non mi confesso, no, no, no! Potete andarvene, compare canonico! Il canonico, dalle risa, era passato alla commozione per tanta ingenuità, che in fine significava profondis- sima fede in Dio; e non insistette, anche per non turbare il malato, che non gli sembrava così grave come il dottor Cipolla gli aveva detto. - Riposatevi; avete chiacchierato troppo! Infatti, calmatasi l'eccitazione, don Paolo era ricaduto, ansimante, con la testa sui guanciali, la bocca a- perta e gli occhi chiusi. Le orfanelle lo guardavano atterrite, senza osare di accostarsi al letto, interrogandosi con cenni: - Che dobbiamo fare? Non dovettero far altro che preparare qualche scottatura di tiglio, di cammomilla, e poi ottimi brodi di pollo durante la convalescenza. La quale, contro ogni previsione del dottore, fu così rapida, che una mattina in cui egli credeva di trovare il malato ancora a letto in attesa del permesso di alzarsi per qualche ora, lo trovò invece in cucina davanti a un fornello, mentre Giovanna grattava il cacio, e Lisa sbatteva in un piatto le uova per una magnifica frittata, e lui sminuzzava un po' di prezzemolo e di cipolla da servire pel condimento. Il dottore, che appunto tornava dalla casa di un cliente morto pochi minuti prima senza permesso di lui, ed era rimasto male davanti ai parenti in lagrime e che quasi l'accusavano di aver ammazzato il malato, visto don Paolo in atto di fare il cuoco, s'era messo a ridere e s'era sentito venire l'acquolina in bocca all'odore. - Ah, voi fate venir in casa il medico per invitarlo a colazione? - Se volete favorire, - aveva risposto don Paolo, sorridendo. Ma per levarselo di torno subito, gli aveva messo in mano una carta da dieci lire, pagamento delle visite. Non voleva conti in sospeso con nessuno, col medico soprattutti: certa gente è meglio tenerla lontana quanto più si può. - Staremo un bel pezzo prima di rivederci, caro dottore! - gli disse su l'uscio, allegro, quasi avesse in ta- sca il contratto con Domineddio, di dover campare un secolo o poco meno. E fu proprio così. * * * Erano passati dieci anni. Lisa aveva preso marito da sei mesi; si parlava già di certe trattative con un cu- gino del marito di Lisa che aveva posto gli occhi su Giovanna; e don Paolo sembrava più arzillo di quando aveva leticato con la strega per le bambine. Soltanto la testa non lo serviva bene come una volta; la memoria gli veniva meno di giorno in giorno. Chiacchierava troppo del passato, rammentandosi i più minuti particola- ri; ma gli avvenimenti vicini, anche della giornata, gli si scancellavan subito dalla mente. Le prime volte, accorgendosene, ne aveva riso egli stesso: - Comincio a istupidire, figlie mie! Da lì a qualche mese però le cose cambiarono. Non usciva più di casa; andava da una stanza all'altra come sperduto, con le sopracciglia aggrottate, le mani dietro la schiena, guardando attorno con aria diffidente, quasi andasse notando novità che gli dispiace- vano. Brontolava, si stizziva per cose da nulla, ripeteva certi atti giorno per giorno, a ora fissa, quantunque ogni volta si lasciasse subito convincere che aveva torto. A ora fissa, da una settimana, si metteva a preparare la tavola. - Che fate, nonno? - Lo vedi. Non si desina oggi forse? - Ma se abbiamo già desinato due ore fa! - Abbiamo già desinato? ... È vero, hai ragione. Stava un momentino esitante, e zitto zitto sparecchiava. Poi, da lì a un mese, non si lasciò convincere più. Era inutile ripetergli: - Abbiamo già desinato! - egli scoteva il capo, con aria maliziosa e continuava ad apparecchiare. Quando aveva finito, si sedeva a tavola, aspettando, battendo sull'orlo del piatto con la forchetta e col coltello, impazientendosi del ritardo: - Volete farmi morire di fame, povero vecchio? Ingrate, ingrate! Vi ho dato tutta la mia roba; mi sono spogliato per voi ... ed ecco la ricompensa! Dannate! L'inferno vi aspetta. Urlava, piangeva. Lisa e Giovanna un po' ridevano, un po' rimanevano stupite, afflitte di vederlo piange- re; poi, a furia di carezze e di buone maniere, riuscivano a farlo levare da tavola, a deviarlo da quella fissa- zione; suggerendogli: - È mezzanotte; andate a letto. Il sole vicino al tramonto inondava la camera dove lo conducevano, ma egli non se n'avvedeva; e mentre Lisa chiudeva gli scuretti della finestra, egli dava mano a spogliarsi, e intanto domandava: - E il santo rosario? - L'abbiamo recitato or ora. - Sì, sì, è vero; non bisogna scordarsene mai altrimenti la Madonna non ci aiuta. Andate a letto anche voi. È mezzanotte. Ma questo stratagemma giovò per poco. Una notte Lisa e Giovanna furono svegliate da forti picchi all'uscio. - Dormiglione, su, levatevi! È mezzogiorno. E d'allora in poi, a ogni mezzanotte era mezzogiorno per lui. Lisa si alzava, apriva la finestra: - Non vedete che è buio? - È annuvolato. C'è l'ecclissi ... Si rammentava dell'ecclissi di anni addietro, e affermava che il sole sarebbe ricomparso subito. Insomma ci voleva una pazienza da santi; e Lisa e Giovanna erano proprio due sante, che gli volevano bene, e lo ado- ravano, e lo compativano, povero vecchio. Lisa qualche volta leticava col marito che non aveva carità, com'ella gli rimproverava: - Forse sa quel che fa, poverino? Ora, di tanto in tanto, egli perdeva anche la conoscenza delle persone. - Chi siete? Che fate qui? Chi cercate? - Sono Lisa; non mi conoscete? - Lo so, lo so; ma costei, chi è costei? - Giovanna. A quei nomi rimaneva turbato. I ricordi delle figliuole morte e la figura delle due donne che si vedeva da- vanti lo imbrogliavano, lo rendevano dubbioso; e voltava le spalle, crollando la testa, ricominciando da capo dopo un momento: - Chi siete? Che fate qui? Il padrone sono io. La roba è mia. E si metteva a discorrere, divagando: - Avevo due figliuole ... Quella strega le mandava a chiedere l'elemosina ... E sono morte, povere creature, morte di tifo! ... Ve ne ricordate? Io ho fatto testamento; ho lasciato ogni cosa a loro ... Erano orfanelle, abbandonate da tutti ... Il Signore se l'è prese ... Sia fatta la volontà di Dio! Come vi chiamate? Lisa? Giovanna? Si chiamavano così anche le mie creature. Se volete stare con me e servirmi ora che sono vecchio, faccio testamento e lascio ogni cosa a voi ... Il padrone sono io. Ma qui non ci voglio più stare; voglio andarmene a casa mia. Prendete le chiavi; andiamo, andiamo! E bisognava secondarlo, perchè non s'arrabbiasse e non urlasse. Lisa fingeva di mettersi lo scialle - e spesso bastava buttarsi addosso una salvietta, un asciugamani - e gli dava braccio per le scale. Scendevano giù, in istalla o in cantina, e risalivano: - Eccoci in casa nostra! - Ah, come si sta bene qui! Colà non mi ci potevo vedere! ... In casa altrui uno non può fare a modo proprio. Si erano abituate a queste stranezze; spesso le prevenivano, le secondavano sempre, visto che era il mi- glior mezzo per non farle prolungare; e anche ci si divertivano quando il povero vecchio si sfogava a parlare del passato lontano, molto lontano, che gli veniva alla mente con lucidità e precisione meravigliosa. Si divertivano quasi, anche quando se la prendeva con loro, con quelle ingrate che lo facevano morire di fame, che non potevano più vederselo dinanzi, perchè il padrone era lui e loro volevano tutta la roba per sè ... - Ma le gastigherò io! So io come gastigarle! - Come? - Straccerò il testamento, le lascierò nude in mezzo a una via! - Fate bene, - gli diceva Lisa ridendo. - Dovreste lasciare la roba a noialtre. - A voialtre? Che c'entrate voialtre? La roba mia è delle mie figlie, delle orfanelle che ho cresciute, nu- trendole con la carne del mio cuore, col sangue delle mie vene! Che c'entrate voialtre? Esse soltanto mi vo- gliono bene; e pregheranno per l'anima mia quando sarò morto; che c'entrate, voialtre? * * * Per altri due anni era durata così, senza un giorno di tregua. Poi il vecchio era diventato triste, muto. Passava le ore della giornata su una seggiola, con le mani su le ginocchia, guardando di tratto in tratto le due giovani, o tirando il laccio della culla dove dormiva Paolino, il bambino di Lisa; docile e obbediente alla parola di lei: - Su, cullate il bambino. Non aveva mai domandato di chi fosse quel bambino, nè come si trovasse in casa, nè come si chiamasse. Ma un giorno avevano visto il povero vecchio alzarsi dalla seggiola dov'era stato tutta la mattinata a sede- re, e stropicciarsi gli occhi e la fronte, quasi si destasse da profondissimo sonno. - Lisa! ... Giovanna! Le chiamava sorridendo, con voce tremula dalla commozione, maravigliato, quasi le rivedesse dopo lunga assenza. E pareva ricordarsi di tutto, e pareva si vergognasse di quel che ricordava ... - Sono stato pazzo? Oh, povere figlie mie, quanto vi ho fatto soffrire! ... Ma ora me ne vado; non vi tormento più ... Me ne vado a trovare quelle altre che mi aspettano da un pezzo ... Dio vi bene- dica, povere orfanelle! E fece atto di alzar le mani per benedirle ... Le lasciò ricadere ... S'era spento tutt'a un tratto, dolcemente, tra le braccia di Lisa e di Giovanna. Roma, novembre 1893.

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Surama sempre avvolta nella coperta di seta bianca vi fu adagiata, le cortine furono abbassate, poi il drappello si mise rapidamente in marcia preceduto da due mussalchi che portavano delle torce accese. Nel palazzo nessuno si era accorto di quell'audace rapimento compiuto nel colmo della notte e nel più profondo silenzio. I rapitori percorsero diverse vie oscure e deserte, poi si arrestarono dinanzi a un vasto caseggiato che rassomigliava nella costruzione a quei comodi e graziosi bengalow che si fabbricano gli inglesi che si stabiliscono nell'India. La porta era aperta e la gradinata illuminata da una grossa lampada. Un chitmudgar, accompagnato da quattro servi, aspettava il drappello. - Fatto? - chiese. - Sì, - rispose il fakiro. - Il tuo padrone sarà contento. - Il chitmudgar sollevò una tenda del palanchino e gettò su Surama, sempre addormentata, un rapido sguardo. - Sì, - disse poi. - È la principessa misteriosa. - Fece un segno ai servi. Questi presero il palanchino, l'alzarono e salirono frettolosamente la scala. - Potete andare, - disse allora il maggiordomo rivolgendosi alla scorta, - e anche tu gussain. È meglio che non ti si veda in questa casa. Eccovi cento rupie che il mio padrone vi regala. Buona notte. - Chiuse la porta e raggiunse i servi i quali avevano deposto il palanchino in una bellissima e ampia stanza, il cui centro era occupato da un letto incrostato di laminelle d'argento e di madreperla con ricchissima coperta di seta azzurra a ricami gialli. Il chitmudgar prese fra le robuste braccia la bella indiana che pareva morta, svolse la coperta di seta bianca e la mise a letto, coprendola per bene. - Portate via il palanchino ora - disse ai servi. Erano appena usciti quando un uomo entrò: era uno dei ministri del rajah. - Eccola signore - disse il maggiordomo, inchinandosi profondamente. - Le guardie del favorito hanno agito rapidamente e senza allarmare gli abitanti del palazzo. - Il ministro sollevò la coperta e guardò Surama. - È bellissima, - disse. - Il grande cacciatore è di buon gusto. - Devo svegliarla signore? - Che cosa ha adoperato il fakiro per addormentarla? - Gli ho dato tre fiorellini di carma-joga. - Ah! - fece il ministro. - Ne coltivo molti nel giardino. - Come potremo farla parlare? - Ho previsto tutto, signore. - Colla youma? - Ho qualche cosa di meglio - rispose il maggiordomo con un' sottile sorriso. - Fino da ieri ho preparato una infusione di bâng (10)

Le stuoie di coccottiero, rimanevano ermeticamente abbassate, perfino quelle delle verande. Bindar, che era sfuggito miracolosamente ai colpi dei cipay, quantunque avesse sempre combattuto e valorosamente in prima fila, guidava Sandokan e le sue schiere, verso l'immensa piazza, in mezzo alla quale s'ergeva il superbo palazzo del rajah. I montanari stavano per irrompere nell'ultima e più ampia via che conduceva nella piazza, quando si trovarono dinanzi ad una serie di barricate, costruite è vero alla buona, con carri, materassi e panconi di legno incrociati, ma che offrivano una certa resistenza. Fra le une e le altre si erano ammassati i cipay ed i guerrieri assamesi, con un certo numero di bocche da fuoco. - Ecco l'osso più duro da rosicchiare - disse Sandokan fermandosi. - I cipay sono stati più lesti di noi ed hanno avuto il tempo di trincerarsi. - Capo, - disse Khampur, accostandosi al pirata. - Se i seikki non si muovono, corriamo il pericolo di farci schiacciare. - I seikki al momento opportuno entreranno in azione. Devono essere occupati ad impossessarsi del rajah e dei suoi favoriti, in questo istante. Quando giungeremo al palazzo reale, non avremo più nulla da fare là dentro. Fa' piazzare tutta la tua artiglieria lungo i camminapiedi e manda duecento uomini a occupare le case che si trovano presso la prima barricata. Dalle verande e dalle terrazze potranno fare dei buoni colpi di carabina. Se è possibile, fa' installare anche lassù dei falconetti. - Sì, capo. - Dammi ora quattrocento uomini per formare una solida colonna d'attacco. - Quel rapido discorso era stato fatto in mezzo ai colpi di fuoco. Gli assamesi, credendosi sicuri dietro le loro barricate, non avevano però ancora fatto uso delle loro artiglierie, che dovevano essere state caricate a mitraglia. I malesi, i dayachi ed una compagnia di montanari, avevano risposto con poche scariche e con qualche colpo di falconetto, tanto per provare la resistenza di quelle trincee e dei loro difensori. Sandokan, prima di dare il gran cozzo, attese che i suoi ordini fossero stati eseguiti, e quando vide i montanari comparire sulle verande e sulle terrazze delle case più prossime alla prima trincea, comandò alcune scariche di falconetti. Quei piccoli pezzi lanciarono per ben tre volte un vero uragano di palle, del calibro d'una libbra, sfondando parte dei carri e dei panconi, e costringendo i difensori della barricata a ripiegarsi contro le pareti delle case. Era il momento opportuno per dare il cozzo. Sandokan e Tremal-Naik fecero stringere le file alla colonna d'assalto, e mentre i montanari che occupavano le terrazze e le verande li proteggevano con un fuoco violentissimo, diretto specialmente contro i cipay, che servivano i pezzi d'artiglieria, si slanciarono all'attacco con impeto meraviglioso. A cento passi dalla barricata una poderosa scarica di mitraglia, vomitata da tre pezzi collocati ai lati della barricata, fece oscillare la colonna d'assalto, che però si rimise subito, strinse ancor più i ranghi e si spinse audacemente innanzi, malgrado avesse subito gravi perdite. Una seconda volta si trovò esposta alle scariche di mitraglia, nondimeno quei prodi montanari, incoraggiati dallo slancio ammirabile dei malesi e dei dayachi e dalle grida dei valorosissimi capi, che si esponevano intrepidamente al fuoco, mostrando un disprezzo assoluto della vita, furono ben presto sopra la barricata, caricando i difensori colle larghe scimitarre e gli affilati tarwar. I cipay ed i guerrieri assamesi tennero duro per qualche minuto, poi volsero in fuga salvandosi dietro la seconda barricata. Sandokan fece voltare verso quella i cannoni conquistati, che valevano ben meglio dei piccoli falconetti, mentre una parte dei suoi uomini sfondavano, coi calci delle carabine, le porte delle case per occupare le verande e le terrazze. Un'altra colonna, composta di trecento uomini, correva in aiuto dei vincitori. La guidava Khampur. Quel poderoso rinforzo si slanciò a sua volta, dopo alcune cannonate, all'attacco della nuova trincea, dietro la quale i cipay e gli assamesi, si preparavano ad opporre un'altra accanita resistenza, malgrado avessero subito perdite enormi. Tutto il tratto di via che correva fra le due trincee, era coperto di morti e di feriti, segno evidente che gli indiani si erano valorosamente difesi, prima di cedere al possente urto dei montanari e delle vecchie tigri di Mompracem. Il secondo attacco fu meno laborioso del primo. I soldati del rajah, scoraggiati, non ressero che pochi minuti, poi si rifugiarono nell'immensa piazza dove sorgeva il palazzo reale e dove avevano collocate le loro migliori artiglierie. I montanari però li avevano seguìti così da presso da non permettere a loro d'innalzare un'altra trincea, né di fare troppe scariche. L'urto fra le due falangi fu nondimeno sanguinosissimo. Assamesi e montanari gareggiavano per coraggio e per ostinazione. Tutti avevano gettate via le carabine, diventate inutili in un combattimento corpo a corpo, non essendo armate di baionette e combattevano colle pistole e colle armi bianche, con una rabbia crescente e con grande strage da una parte e dall'altra. La resistenza che opponeva la guarnigione, sempre ingrossata da altre truppe fresche, che giungevano ad ogni istante dai quartieri più lontani della città, era diventata così tenace, che Sandokan, Tremal-Naik e Khampur, per un momento, dubitarono dell'esito dell'impresa. I montanari cominciavano a dar segno di stanchezza e non assalivano più coll'impeto primiero, un po' scoraggiati anche di trovarsi continuamente dinanzi truppe fresche, che non cedevano facilmente ai replicati assalti. Ad un tratto però, all'estremità opposta della piazza, in direzione del palazzo reale, proprio dietro le spalle delle truppe del rajah, si udirono echeggiare improvvisamente delle nutrite scariche di fucileria, appoggiate da alcuni colpi di cannone. Un immenso urlo di gioia sfuggì dai petti dei montanari e dai petti delle vecchie tigri di Mompracem: - I seikki! - Erano infatti i saldi ed invincibili guerrieri del demjadar, che accorrevano in loro aiuto, e che avevano aperto il fuoco dalle gradinate del palazzo reale. I cipay e gli assamesi, passato il primo momento di stupore, non potendo subito credere ad un tale tradimento, vistisi presi fra due fuochi, si diedero ad una fuga precipitosa, gettando le armi onde essere più lesti. Tre o quattrocento però erano rimasti sulla piazza, abbassando le carabine e le scimitarre in segno di resa. Sandokan e Tremal-Naik si erano slanciati verso il demjadar, che marciava alla testa della sua magnifica truppa, accompagnato da un uomo vestito di flanella bianca, che portava sul capo un elmetto di tela con un lungo velo azzurro. - Yanez! - esclamarono entrambi precipitandosi fra le braccia aperte del portoghese. - In carne ed ossa, amici miei - rispose l'ex mylord ridendo. - Peccato che sia giunto un po' tardi a prendere parte alla battaglia, che assicura il trono alla mia bella Surama; ma abbiamo avuto un po' da fare al palazzo reale, è vero mio bravo demjadar? - Il capo dei seikki fece un cenno affermativo. - Il rajah? - chiese Sandokan. - È nelle nostre mani. - Ed il greco? - Si è difeso come un dannato, aiutato da un manipolo di favoriti e di bricconi degni di lui, e nella lotta è caduto con tre o quattro palle in corpo. - Morto? - Per Giove! Erano palle di carabina e di buon calibro, mio caro Sandokan. - Forse è meglio così, - disse Tremal-Naik. - I tuoi malesi sono stati egualmente vendicati. - Hai ragione, - rispose Sandokan. - Il rajah è furibondo? - È mezzo ubbriaco e credo che non abbia nemmeno capito che la corona gli cadeva dalla testa, - rispose Yanez. - Ma Surama dov'è? - È a bordo d'uno dei nostri poluar. La faremo subito avvertire. - E tutta questa gente dove l'hai scovata, tu? - Sono i sudditi del padre della tua fidanzata. Lascia le spiegazioni a più tardi. - In quell'istante giunse Khampur. - Capo, - disse volgendosi verso Sandokan. - Che cosa devo fare? Tutti i soldati del rajah o scappano o si arrendono. - Manda, innanzi a tutto, una buona scorta al poluar, onde conduca qui, il più presto possibile, Surama. Manderai poi i tuoi uomini a occupare tutte le caserme della città ed i fortini dei bastioni. Non troveranno ormai più alcuna resistenza. - Lo credo anch'io, capo. - E ripartì di corsa, mentre i suoi montanari disarmavano i prigionieri e sparavano le loro ultime cartucce contro le case, onde la popolazione non scendesse nelle vie. - Dal rajah ora, - disse Sandokan. - Guidaci, mio bravo demjadar. Tu hai mantenuto la tua promessa e la rhani dell'Assam manterrà i suoi patti. - Il capo dei seikki si diresse verso il palazzo reale seguìto da Sandokan, da Yanez, da Tremal-Naik e da una piccola scorta. I seikki guardavano le porte, dinanzi alle quali erano stati piazzati dei piccoli pezzi d'artiglieria. Il drappello salì lo scalone principale ed entrò nella sala del trono, dove si trovavano radunati i ministri ed alcuni dei più alti dignitari dello stato. Il rajah invece se ne stava, semi-coricato, sul suo letto-trono, mezzo inebetito dai liquori e dallo spavento. Certo la morte del greco, del suo fido, quantunque perfido consigliere, doveva avergli schiantata l'anima. Vedendo entrare Yanez seguìto da tutti gli altri, scese dal trono e assumendo una cert'aria di dignitosa fierezza, infusagli dal cognac bevuto, gli chiese con voce rauca: - Che cosa vuoi tu, mylord, ancora da me? La mia vita forse? - Noi non siamo assamesi, Altezza - rispose il portoghese togliendosi il cappello e facendo un inchino. - Al governo inglese premerebbero, forse, più che la mia vita le mie ricchezze? - Vostra Altezza s'inganna. - Che cosa volete dire, mylord? - Che il governo inglese non c'entra affatto in questa rivoluzione o, sollevazione, se così vi piace meglio. - Il rajah fece un gesto di stupore. - Per conto di chi avete agito voi dunque così? Chi siete? Chi vi ha mandati qui? - Una fanciulla che voi ben conoscete, Altezza - rispose Yanez. - Una fanciulla! - Sapete Altezza chi sono i guerrieri che hanno vinto le vostre truppe? - chiese Sandokan, avanzandosi. - No. - I montanari di Sadhja. - Un grido terribile lacerò il petto del principe. - I guerrieri di Mahur! - Si chiamava ben così, il forte montanaro che vostro fratello uccise a tradimento, - continuò Sandokan. - Ma io non ho preso parte a quell'assassinio! - urlò il principe. - Ciò è vero, - rispose Yanez, - però Vostra Altezza non avrà dimenticato che cosa ha fatto della piccola Surama, la figlia di Mahur. - Surama! - balbettò il rajah diventando livido. - Surama! - Sì, Altezza. A chi l'avete venduta? Ve lo ricordate? - Il rajah era rimasto muto guardando Yanez con intenso terrore. - Allora voi, Altezza, mi permetterete di dirvi che quella fanciulla, figlia di un grande capo che era vostro zio, invece di farla sedere sui gradini d'un trono, come le spettava per diritto di nascita, l'avete venduta, come una miserabile schiava, ad una banda di thugs indiani, onde ne facessero una bajadera. Vi ricordate ora? - Anche questa volta il rajah non rispose. Solamente i suoi occhi si dilatavano sempre più, come se dovessero schizzargli dalle orbite. - Quella fanciulla, - proseguì l'implacabile portoghese, - chiese il nostro aiuto e noi, che siamo uomini capaci di mettere sottosopra il mondo intero, siamo venuti qui, dalle lontane regioni della Malesia, per sostenere i suoi diritti e, come avete veduto, ci siamo riusciti, poiché voi non siete più rajah. È la rhani che da questo momento regna sull'Assam. - Il principe scoppiò in una risata stridula, spaventosa, che si ripercosse lungamente nell'immensa sala. - La rhani! - esclamò poi, sempre ridendo. - Ah! ... ah! ah! Le mie carabine ... le mie pistole ... i miei elefanti ... voglio sposare la rhani! ... Dov'è ... dov'è? Ah! Eccola! Bella, bellissima! ... - Yanez, Sandokan e Tremal-Naik si guardarono un po' atterriti. - È diventato pazzo, - disse il primo. - Bah! Vi sono degli ospedali a Calcutta, - aggiunse il secondo. - Surama è ormai abbastanza ricca per pagargli una pensione principesca. - E uscirono tutti e tre, un po' pensierosi, mentre il disgraziato, colpito improvvisamente da una pazzia furiosa, continuava a urlare come un ossesso: - Le mie carabine ... le mie pistole ... i miei elefanti ... voglio sposare la rhani! - Dieci giorni più tardi gli avvenimenti narrati, quando già il disgraziato rajah era stato condotto a Calcutta, sotto buona scorta, per essere internato in uno dei primari stabilimenti d'alienati e quando già tutte le città dell'Assam, avevano fatto atto di sottomissione completa, la bellissima Surama impalmava solennemente il suo amato sahib bianco, cedendogli metà della corona. - Eccovi finalmente felici, - disse a loro Sandokan, la sera istessa, mentre la folla, delirante, acclamava i nuovi sovrani dell'Assam, ed i fuochi d'artifizio illuminavano fantasticamente la capitale. - Ora tocca a me procurarmi una corona, quella stessa che portava sul capo mio padre. - E quando sarà quel giorno? - chiese Yanez. - Sai che noi, quantunque di tinta diversa, siamo più che due fratelli. Parla e verrò io ad aiutarti coi miei scikari e, se sarà necessario, coi montanari di Sadhja. - Chi lo sa, - disse Sandokan dopo un silenzio relativamente lungo. - Forse quel giorno è più prossimo che tu non lo creda, ma non voglio per ora guastare la tua luna di miele, come dite voi uomini dell'estremo occidente. Fra giorni mi imbarcherò pel Borneo coi miei ultimi malesi e dayachi e, quando sarò là, riceverai miei ordini. -

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