Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

E come tutte le cime all'intorno erano abbassate! E come il lago, giù nel profondo, pareva diventato un fiume! L' avvocato guardava su amorosamente alla prima cresta del Boglia dove cominciava il gran bosco dei faggi; un'altra mezz'ora di arrampicata. "Andiamo", diss'egli. Ma Pedraglio che aveva nelle gambe la memoria dell'altra gran corsa da Loveno ad Oria per il Passo Stretto, chiese di sostare un altro poco e si mise tranquillamente a sfogliar lo scartafaccio del Puttini, un poema fratesco, inedito, d'un anonimo cremonese del secolo decimosettimo. "Andiamo!", ripeté il suo compagno dopo un paio di minuti , e si alzava già quando udì venir gente. Ebbe appena il tempo di dire "attento!" e di voltar le spalle per non lasciarsi vedere in viso. Pedraglio, pur ficcando il naso nello scartafaccio, vide spuntar sulla strada prima due guardie di finanza e poi due gendarmi. Avvertì l'amico sottovoce, non batté palpebra. Le due guardie si fermarono. Una di loro salutò: "Riverito, signor Puttini", e disse ai gendarmi: "È il primo deputato politico di Albogasio". I gendarmi salutarono pure, Pedraglio si levò il cappello, alzando un poco lo scartafaccio. Le guardie volevano fare un po' di fermata ma un gendarme intimò loro di proseguire e quando vide incamminata la compagnia venne alla Sostra egli stesso. Era di Ampezzo e parlava italiano benissimo. "Tu, cane, non mi conosci, spero", pensò Pedraglio con una torbida coscienza della sua doppia personalità. "Lascia fare a me." "Signor deputato politico", disse colui, "avrebbe veduto stamattina il signor Maironi di Oria?" "Io? Mai più. Il signor Maironi dorme, a quest'ora." "E Lei dove va?" "Vado lì su quel monte, su quel dannato Boglia lì. Vado su per l'affar del toro comunale." "Bestia", pensò l'avvocato. "Comunale me lo fa diventare!" Ma passò felicemente anche il toro comunale. Il gendarme, un muso da mastino, squadrò bene il suo interlocutore in viso. "Lei è deputato politico", diss'egli insolentemente, "e porta quella roba sul viso?" Pedraglio si prese istintivamente il suo piccolo sottile pizzo nero, barba reproba da liberale. "Taglieremo, taglieremo", diss'egli con serietà comica. "Sì signore. Va sul Boglia anche Lei?" Il gendarme se n'andò duro duro senza rispondergli, senza udire su quale ignominioso patibolo il deputato politico lo mandava. I due si rallegrarono a vicenda di averla scampata bella ma riconobbero che il giuoco si era fatto molto serio. Adesso bisognava contare con le guardie che conoscevano bene il Puttini, e saperne stare a distanza. E se quel mastino di gendarme parlasse della barba? "Su su", fece l'avvocato, "teniamo loro dietro e se li vediamo o li udiamo tornar giù, gambe in spalla e via a sinistra verso il confine." Partito disperato, quest'ultimo, perché non conoscevano il terreno, certo familiare alle guardie. Il mastino dovette sudare e ansar troppo dietro ai suoi compagni per aver poi voglia di parlar di barbe, Pedraglio e l'avvocato, salendo adagio, videro il nemico guadagnar la cresta del monte al faggio della Madonnina, fermarvisi alquanto e sparire. Il gran faggio antico che portava nel tronco una immagine della Madonna e che cedette, morendo, quest'onore a una cappelletta, era come la sentinella del gran bosco di Boglia, il soldato posto in una insellatura della cresta a spiar il pendio precipitoso, il lago, i clivi di Valsolda. Il venerabile esercito di faggi colossali stava tutto raccolto in un'altra conca silenziosa fra l'erta della Colmaregia, i facili Dorsi della Nave, le radici rocciose dei Denti di Vecchia o Canne d'Organo e l'altra sella del Pian Biscagno fra la Colmaregia e il Sasso Grande, fronteggiante le profondità della Val Colla da Lugano a Cadro. Una lista scoperta, erbosa, correva fra il faggio della Madonnina e il bosco, sull'orlo della cresta. I due fuggiaschi pensarono ai casi loro. Quale partito prendere? Cercar il sentiero sotto il faggio di cui aveva parlato la guardia salvatrice, o entrar nel bosco? No, entrar nel bosco non conveniva, con quella selvaggina che vi era entrata prima. Nel bosco avrebbero trovato un palmo di foglie secche. Era impossibile passarvi senza farsi correre addosso tutti i segugi che vi si aggiravano; e da vicino il travestimento non poteva servire. Prender il sentiero? Ce n'era più d'uno, sotto il faggio; qual era il buono? Pedraglio maledisse Franco che non era venuto con loro. Invece l'avvocato studiava la Colmaregia che si poteva salire senza entrare nel bosco. Egli era stato due volte sulla Colmaregia, il superbo, sottile vertice erboso del Boglia, tagliato per metà dalla linea di confine; sapeva ch'era possibile scendere di lassù al villaggio svizzero di Brè e risolse di tentar quella via. Sulla cresta che ascende dal faggio della Madonnina verso la Colmaregia non si vedeva nessuno. La punta era avvolta nelle nuvole. Pochi passi sotto il faggio i due furono colti da un'ondata di nebbia che venuta su per un versante si riversava rapidamente per l'altro, una nebbia fredda e densa, un "Dio fece" disse V. Non si vedeva niente a cinque passi. Così avvenne che, presso al faggio, Pedraglio andò quasi a urtare una guardia di finanza. Era uno dei quattro e aveva la consegna di sorvegliare la lista scoperta fra la cresta del monte e il bosco. Visto l'ometto dal cappellone, fece: "In Boglia, signor ...?". L'avvocato si sbarazzò immediatamente della gerla. Infatti la guardia non compié la frase, restò un momento a bocca aperta, poi esclamò: "Come?". L'avvocato non aspettò altro. "Così", diss'egli placidamente; e raccoltisi sul petto i due pugni in uno ne menò a colui nello stomaco una terribile puntata che lo buttò sul prato a gambe all'aria. Pedraglio gli saltò subito addosso, gli strappò la carabina. "Se gridi, cane, ti brucio", diss'egli. Ma che gridare? Con un pugno di V. nello stomaco non c'era, per un quarto d'ora, neanche da tirare il fiato. Infatti l'uomo pareva morto e ci volle del buono perché arrivasse a gemer sottovoce "ahi ahi!". "L'è nient, l'è nient", gli diceva V. con la solita flemma canzonatoria. "Sono scosse che fanno bene. Vedrà. Lü adess el se drizza in pee ben polito e viene con noi in Colmaregia. Vedrà come va bene. Non ho adoperato questo a posta." E gli mostrò la chiave. "Oh che pugno!", gemeva la guardia. "Oh che razza di pugno!" "La salita è un po' maledetta", riprese l'avvocato pigliando la carabina dalle mani di Pedraglio. "Ma noi le terremo su, con licenza, il di dietro con questo affare qui. A questa maniera si va su che l'è un piacere. Poi Lei viene giù con noi a Brè. La carabina gliela portiamo noi. Lei, per compenso, ci porta una piccola gerla. Parli polito? Andemm, marsch!" Il disgraziato non riusciva a mettersi in piedi e non si poteva certo lasciarlo lì a rischio che poi si mettesse a chiamar aiuto. "Mincion!", fece Pedraglio. "Ghet daa tropp fort!" V. rispose che gli aveva dato un pugno da donna, restituì la carabina all'amico e ghermita la guardia per il colletto dell'uniforme, la tirò in piedi, le fece imbracciare la gerla. "Andem, lizòn", diss'egli. "Poltronaccio, andiamo!" Su tra il nebbione freddo e denso, su, su. L'erta è ripidissima, si dura fatica a piantar la punta del piede fra i ciuffi dell'erba molle, si sdrucciola, si lavora di piedi e di mani, ma fa niente, su, su, per la libertà. Su tra il nebbione, invisibili come spiriti, prima la finta Marianna, poi la guardia che soffia e geme sotto il peso della gerla, poi il finto sior Zacomo che le promette le belle viste e la urta con la carabina. La carabina fa miracoli. In mezz'ora i tre raggiungono la cresta che scende verso Bré, pochi passi sotto il cocuzzolo. Allora siedono sull'erba e giù, e giù a precipizio, scivoloni. Si mette a piovere, la nebbia si dirada, ecco in fondo, tra i piedi, il rosso dei boschi cedui. Primo vi arriva di volo il venerabile cappellone del sior Zacomo scaraventato abbasso da Pedraglio con un "viva l'Italia!" mentre scivola a braccetto della guardia. A Bré Pedraglio fece correre tutto il paese sparando a festa la carabina, distribuì anesone triduo agli uomini e mezz'once alle ragazze, domandò al curato di poter appendere in chiesa il "marsinon" per grazia ricevuta, si attavolò a mangiare con la guardia, gli fece predicar dal prete il perdono dei pugni nello stomaco e gli diede lettura di una stanza del poema fratesco che finiva così: A questo punto il Padre Lanternone Disse: ho mutato ancor io opinione. Gli dimostrò che se aveva mutato un Padre Lanternone poteva mutar anche lui e lo persuase a disertare, gli fece buttar via l'uniforme e indossare il "marsinon" fra le risate e gli applausi. Il solo che non rideva era l'avvocato. "E quel povero Maironi?", diss'egli. Franco non attraversò Castello. Giunto alla cappelletta di Rovajà, saltò giù per il sentiero che mena alla fontana di Caslano, raggiunse la stradicciuola di Casarico, si mise a salir per quella e all'ultima svolta che fa sotto Castello, dove appare la chiesa di Puria sotto un anfiteatro di dirupi, si gittò a destra nella valle per un sentiero da capre, ne risalì sotto la chiesa di Loggio e giunse a Villa Maironi senz'aver incontrato nessuno. Carlo, il vecchio servitore che gli aperse, tramortì, quasi, dalla commozione e gli baciò le mani. In quel momento c'era il medico. Franco decise di attender che uscisse e intanto confidò al vecchio fedele che aveva i gendarmi alle calcagna. Il dottor Aliprandi uscì presto e Franco, sapendolo patriota, si confidò anche a lui, poiché gli occorreva mostrarsi, informarsi dello stato della nonna. L'Aliprandi era stato chiamato nella notte ed era venuto dopo la partenza del prefetto per Oria, aveva trovato dell'agitazione nervosa, una terribile paura di morire ma nessuna malattia. Adesso la marchesa pareva tranquilla. Franco si fece annunciare e fu introdotto dalla cameriera che lo guardò con ossequiosa curiosità e uscì dalla camera. Le imposte socchiuse della camera dove la marchesa giaceva a letto lasciavano entrare due sole oblique lame di luce grigia che non giungevano alla faccia supina sul guanciale. Franco, entrando, non la vide, udì solo la nota voce dormigliosa: "Sei qui, Franco?" "Sì, addio nonna", diss'egli e si chinò a darle un bacio. La maschera di cera non era scomposta; lo sguardo aveva però qualche cosa di vago e di scuro che pareva insieme desiderio e sgomento. "Muoio, sai, Franco", disse la marchesa. Franco protestò, riferì ciò che gli aveva detto il medico. La nonna lo ascoltava fissandolo avidamente, cercando di leggergli negli occhi se il medico gli avesse proprio detto così. Poi rispose: "Non fa niente. Son pronta". Dalla nuova espressione dello sguardo e della voce, Franco intese perfettamente che la nonna era pronta a vivere altri vent'anni. "Mi rincresce della tua disgrazia", diss'ella, "e ti perdono tutto." Non eran parole di perdono che Franco si aspettava da lei. Egli credeva esser venuto a portarlo il perdono, e non a riceverlo. Confortata, rassicurata, la marchesa di ogni giorno ricompariva poco a poco sotto la marchesa di un'ora. Voleva bene acquistar la pace ma come un sordido avaro tentato da qualche cupidigia, che spremendosi dolorosamente dal pugno il prezzo del suo piacere cerca trattenersene fra le unghie quanto può. In altri momenti Franco avrebbe scattato, avrebbe respinto sdegnosamente quel perdono; ora, con la dolce Maria nel cuore, non poteva essere così. Aveva però notato che la nonna si era rivolta, col suo perdono, a lui solo. Questo no, non glielo poteva permettere. "Mia moglie, lo zio di mia moglie ed io abbiamo sofferto molto", diss'egli, "prima dell'ultima sventura; e adesso abbiamo perduto tutta la nostra consolazione. Lo zio Ribera lo metto fuori di causa; davanti a lui bisogna che ci inchiniamo, tu, io, tutti; ma se mia moglie ed io abbiamo delle colpe verso di te, perdoniamoci a vicenda." Era un boccone amaro; la marchesa lo trangugiò e tacque. Benché non vedesse più la morte al suo capezzale aveva però nel cuore lo sgomento dell'Apparizione e di certe parole del prefetto che l'aveva confessata. "Farò testamento", diss'ella, "e desidero che tu sappia che tutta la roba Maironi sarà per te." Ah marchesa, marchesa! Misera, gelida creatura! Credeva ella di aver comperato la pace con questo? Qui veramente aveva sbagliato anche il prefetto perché il consiglio di far questa dichiarazione al nipote gliel'aveva dato egli, buon galantuomo ma privo di tatto, incapace di comprendere l'alto animo di Franco. A Franco l'idea che si potesse credere esser egli venuto per interesse, riuscì intollerabile. "No no", esclamò fremendo tutto e temendo del proprio sangue focoso, "no no, non mi lasciar niente! Basta che tu faccia pagare i miei interessi a Oria. La roba Maironi, nonna, lasciala all'Ospitale Maggiore. Ho paura che i miei vecchi abbiano sbagliato a tenerla!" La nonna non ebbe tempo di rispondere perché fu picchiato all'uscio. Entro il prefetto e fece che Franco pigliasse congedo per non stancare l'ammalata. "Bisogna sbrigarsi!", diss'egli, fuori. "Qui hai fatto più che il tuo dovere. Lo sanno in troppi, oramai, che sei qui e i gendarmi possono capitare da un momento all'altro. Ho combinato tutto coll'Aliprandi. L'Aliprandi suppone che per la marchesa ci sia bisogno di un consulto, piglia la gondola di casa e va a Lugano per cercar un medico. I due barcaiuoli sarete Carlo e tu. Piove. Ci sono i mantelli di tela incerata col cappuccio. Mettete quelli e tu sta a poppa. Adesso ti tagliamo il pizzo; col cappuccio in testa sfido a riconoscerti. Sei sicuro. Forse non vi faranno neanche approdare alla Ricevitoria. A ogni modo non ti riconosceranno. Se c'è da parlare, parla Carlino." L'idea era buona. La gondola della marchesa era sempre guardata dagli agenti dell'Austria con grande rispetto come se portasse un uovo dell'aquila dalle due teste; anche quando ritornava da Lugano non si faceva approdare alla Ricevitoria che pro forma . La gondola uscì dalla darsena dopo le otto. Le nebbie delle alte cime erano calate sul lago e pioveva. Triste triste giorno, triste triste viaggio! Né Franco, né il domestico, né l'Aliprandi parlarono mai. Passarono San Mamette e Casarico. Ecco tra i vapori, oltre gli ulivi di Mainè, le bianche mura della dimora di Ombretta. Gli occhi di Franco si riempirono di lagrime. "No, cara", egli pensa, "no, amore, no, vita, tu non sei là dentro e sia benedetto il Signore, che mi dice di non credere questa cosa orribile!" Poche remate ancora ed ecco la casetta del tempo felice, delle ore amare, della sventura; la finestra della stanza dove Luisa si perde in un dolore tenebroso, la loggia dove passerà quind'innanzi solo le sue giornate il vecchio zio Piero, l'uomo giusto che discende silenziosamente, tribolato e stanco, verso la tomba. Franco vorrebbe pur sapere cosa è successo dopo la sua partenza, se lo zio, se Luisa hanno avuto molestie dalla Polizia. Guarda, guarda, non vede persona viva né sulla terrazza né in giardinetto né alle finestre della loggia; tutto è silenzioso, tutto è tranquillo. Cessa di remare, vorrebbe vedere qualche segno di vita. Il dottor Aliprandi apre lo sportello di poppa del felze e lo supplica di remare, di non tradirsi. In quel momento la Leu si affaccia alla ringhiera del giardinetto con un vassoio in mano, guarda la gondola, entra in loggia. Dunque lo zio Piero è in loggia, quello è il solito bicchier di latte che gli portano, nulla dev'essere successo. Franco torna a remare e il dottor Aliprandi chiude lo sportello. Passa il giardinetto, passano le case di Oria, la gondola piega all'approdo della Ricevitoria. Il Biancòn, che sta pescando alle tinche, con l'ombrello, vede la gondola, abbandona le sue lenze, e viene ad ossequiare la marchesa. Ma trova invece il dottor Aliprandi il quale lo turba tanto con le cattive notizie della dama ch'egli sente il bisogno di chiamare anche la sua Peppina e di parteciparle la cosa; e la Peppina, poveretta, recita sotto l'ombrello del suo Carlascia una piccola commedia d'intenerimento. Marito e moglie eccitano l'Aliprandi a far presto, a ritornar presto. Il bestione gli permette di filar dritto, al ritorno, da Gandria a Cressogno e il dottore si volta a Franco, dice: "Andiamo!". Franco ha assistito impassibile al colloquio, con le mani sul remo, sperando apprender qualche cosa de' suoi amici e di casa sua; ma nessuno ha fiatato di Polizia né d'arresti né di fughe come se casa Ribera fosse nella China. La gondola indietreggia lentamente dall'approdo, gira la prora verso Gandria, si allontana, sfuma oltre il confine, nella nebbia. Alla riva di Lugano il dottor Aliprandi aperse lo sportello e fece entrare Franco. Si conoscevano poco ma si abbracciarono come fratelli. "Quando verrà l'ora delle cannonate", disse l'Aliprandi, "ci sarò anch'io." Convennero di congedarsi lì e che Franco uscisse prima, solo, perché Lugano era piena di spie e il dottore doveva pure usare certi riguardi. Il dottore non aveva fretta, del resto; gli premeva più di trovar un barcaiuolo che un medico. Franco si tirò il cappuccio sugli occhi e scesea terra, andò all'albergo della Corona. Alcune ore più tardi, quando la gondola era ripartita, egli usci in cerca di valsoldesi per avere notizie, si avviò alla farmacia Fontana e incontrò sotto i portici i suoi amici che uscivano appunto dalla farmacia insieme a un vecchio. Gli saltarono al collo, piansero di commozione. Erano andati anche loro a cercar notizie. Alla farmacia si diceva che Franco fosse stato arrestato. Che gioia di trovarlo e che gioia di sentirsi terra libera sotto i piedi! Mi sia permesso di ricordare il vecchio che accompagnava Pedraglio e l'avvocato, bizzarra figura del piccolo mondo antico luganese, artista e degno che un altro artista, passandogli così vicino, gli renda onore. Egli era un tal Sartorio, pittore, poeta e suonatore di chitarra, che a quei tempi si vedeva spesso balenar qua e là per le oscure vie di Lugano con la sua bella barba bianca, con il suo cappello bianco tirato sull'occhio destro, con il suo nobile abito nero e il fiore all'occhiello. Poverissimo ma pulitissimo, cavaliere con le dame e con le pedine, pronto sempre a un'anacreontica e a una chitarrinata, adoratore della propria città, egli viveva di pane, formaggio e acqua, fiutava e rincorreva i forestieri per far loro gli onori di Lugano, era sempre pieno di queste faccende, sempre in moto fra Villa Ciani, l'Hôtel du Parc e Villa Chialiva. L'Hôtel du Parc era per lui l'ottava meraviglia del mondo. Aveva aiutato a inaugurarlo e se ne compiaceva assai, godeva particolarmente citare, col suo classico accento luganese, la strimpellata e la lirica ispirategli dalla sala da pranzo: "ca l'è poeu quand ca ga disi: Le trombe squillano Nel gran salone, Ai suoni accordisi Questa canzone. Ora egli si era spontaneamente accompagnato a Pedraglio e a V. che gli avevan narrata la loro fuga. Li aveva condotti lui alla farmacia Fontana per cercarvi notizie di Franco. "Come?", diss'egli dopo l'incontro. "È questo il Loro amico? Sfuggito anche lui agli artigli dell'aquila rapace di Asburgo? Benissimo! Benissimo! Ho fatto anni sono, per altri lombardi fuggiti qua dopo la rivoluzione di Vall'Intelvi, un'ode ca l'era minga mal. Ho descritto, neh, la loro fuga per la Val Mara, la calata a Maroggia, l'arrivo a Lugano, ca l'è poeu quand ca ga disi: O baldi figli di Lombardia, V'apre le braccia Lugano mia. È una cosetta che va benissimo anche per Loro. Adesso corro a prender la chitarra e poi gliela faccio sentire all'albergo." "Madonna!", fece Pedraglio.

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