Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbassate

Numero di risultati: 37 in 1 pagine

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Manuale per i dilettanti di pittura a olio, acquerello, miniatura, guazzo, pastello e pittura sul legno (paesaggio, figura e fiori)

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Ronchetti, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1902
  • Ulrico Hoepli Editore Libraio della Real Casa
  • Milano
  • manuale di pittura
  • UNIFI
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Dai punti A, B, D, C, abbassate delle perpendicolari sulla linea di terra, e, in a, b, d, c, avrete la proiezione di questi punti. Dopo aver tracciato un’altra linea di terra e la linea d’orizzonte, (fig. inferiore) trasportate su questa seconda linea di terra i punti c, a, V, d, b nello stesso ordine e alla stessa distanza di quelli sulla prima linea di terra. Poi, per mezzo di una verticale trasportate sulla linea d’orizzonte il punto V, col quale congiungerete i punti c, a, d, b.

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Il talismano della felicità

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Boni, Ada 1 occorrenze

Appena questo brodo bollirà immergete il polpettone preparato e abbassate subito il fuoco perchè l'ebollizione possa protrarsi insensibilmente per due ore. Bollendo troppo forte il polpettone si romperebbe e non si rassoderebbe uniformemente. Dopo due ore di cottura tiratelo su, mettetelo in un piatto, ricoprite il polpettone con un altro piatto in modo che sia pigiato leggermente. Quando sarà freddo tagliatelo in fette, disponetele nel piatto di servizio, e ricoprite queste fette con salsa maionese. Del brodo potrete servirvene per minestra.

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Ricette di Petronilla

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Moretti Foggia Della Rovere, Amalia 4 occorrenze

Abbassate allora il fuoco; e mentre quel brodo, bollendo, si andrà chiarificando, tagliate il pollo (ormai freddo); stendetene i pezzi sul piatto di portata; distribuitevi sopra (e con una certa arte) listerelle di lingua (basterà comperarne 1/2 etto), un paio di cetriolini affettati, qualche verde pistacchio dimezzato e... (se si può molto spendere) qualche fettina di tartufo.

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Coprite (ma non al completo) la casseruola col suo coperchio e abbassate il fuoco.

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Dopo altri due minuti, abbassate la fiamma; aggiungete una tazza di brodo (o di acqua ed estratto, se non possedete brodo); coprite subito col coperchio; lasciate lentamente, lentamente cucinare.

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« Poco prima del pranzo, mettete a fuoco, con molto olio, una piccola casseruola fonda; allorché l’olio bolle, abbassate appena appena il fuoco; friggetevi una coppia di cappelli alla volta; teneteli di mano in mano al caldo; e ornate infine il piatto con spicchi di limone e con verdi ciuffetti di prezzemolo fresco ».

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Elisa teneva le palpebre abbassate. Aveva presa una mano della balia e la teneva stretta nella sua col braccio teso in giù. Pareva di marmo se la vita non si fosse rivelata dall'affannoso movimento del seno verginale. La vecchia tremava e teneva i suoi piccoli occhi pieni di amore fissati nelle sembianze del suo Enrico. - Ho udito - disse questi senza muoversi dal suo posto - quello che tu buona Elisa avresti voluto fare per me. Permettimi di ringraziartene e di domandarti perdono per quello che è passato. E stette commosso ad aspettare che la fanciulla gli rispondesse una parola, facesse un atto, gli alzasse gli occhi in fronte. Questa non disse che: - La mamma è di là. Debbo andare da lei. E fece atto di muoversi. La balia, quasi senza volerlo, la trattenne. - No - disse Enrico andando a lei e prendendole la mano che restava libera - per carità Elisa una parola sola di perdono, che non mi lasci partire così disperato. Fra poche ore io andrò a Firenze dove penso di arrolarmi nell'esercito. Forse non ci vedremo mai più. Ma per carità, non lasciarmi andar via così. - Che cosa importa a te del mio perdono? - disse Elisa con un'aria di risoluzione tranquilla, ma con una voce in cui si sentivano le lagrime. Sono forse io ancora qualche cosa per te? Va a cercare il perdono a quella donna che ha più diritto di me di concederlo. - Elisa ti supplico, non parlami di quella donna. Io non so più che ella esista, te lo giuro. Sì, lo confesso, fui un miserabile; ma ti giuro ancora per tutto ciò che ho di più sacro che io non l'ho amata mai. Ora lo sento con sicurezza.... - Oh, me l'avevi già detto un'altra volta! - sclamò Elisa. - E invece.... - È vero, ma quando ti dico che se mi guardo indietro ho vergogna di me stesso! E voi altre due potrete dire d'essere le sole a questo mondo che hanno potuto sentire da me parole simili. Io che non ho mai chiesto perdono neppur a mia madre. Si è vero. Io non so quel che sia accaduto di me. Ero pazzo! Era orgoglio! Ah, se credessi agli incantesimi, direi che la mi aveva stregato. Io la odiavo e pur non potevo staccarmi da lei. Elisa perdonami. Non ti chiedo più. Perchè dovrei ingannarti, ora che debbo partire per espiare i miei errori? Capisco che mi son reso indegno di te e non ti chiedo di più del perdono. Non ho più il diritto di dirti che io non amo, che non ho mai amata altra donna fuori di te. Oh, non lasciarmi partire in collera Elisa. E tu balia, pregala anche tu dunque.... - Ma perchè ora la vuol tornar via da Milano? - sclamò la buona vecchia scoppiando in lagrime. - Povera balia! Oh vedo che tu mi vuoi più bene di lei. Che cosa vorresti tu che io facessi ancora a Milano? Vorresti forse che mi fermassi per vederla forse diventare la moglie d'un altro? Non vedi che la mi odia? - Ah Enrico! - sclamò la Elisa con un gran sospiro. - Mi perdoni? - domandò Enrico ansiosamente. - No - rispose la fanciulla con un filo di voce - ormai io non ho più nulla a perdonarti. Io sono promessa ad altri. - Addio. Tu non mi vedrai più. E se accadrà del male, ricordati Elisa, ora sarà per colpa tua. Enrico si volse, e sull'uscio incontrò don Ignazio che entrava. Mentre questo colloquio accadeva nel gabinetto il domestico era rientrato in sala dove stavano donna Eugenia e il marchese d'Arco e le aveva detto sottovoce: - C'è qui fuori un signore e una signora che domandano di parlare a lei. - Chi sono? - Sono forastieri; parlano fra loro in tedesco. - Bene falli entrare. - Chi mai saranno? - domandò il marchese. - Ma! ora vedremo! Poco stante, duri come stoccafissi, con un'aria fra la compunzione e la dignità, facevano il loro poco solenne ingresso nella sala il signor Rikherwenzel e sua figlia Leopoldina, di Vienna. "Cosa vorranno mai da me questi signori" si domandò fra sè donna Eugenia, mentre il marchese dopo averli salutati con un cenno di testa si disponeva ad andarsene. - No, la si fermi - le disse la signora Eugenia sottovoce. - Siniora - disse Leopoldina - lei deve scusare nostra venuta da lei. Noi venire per affare di suo e nostro vantaggio molto importante. - Ah! - sclamò donna Eugenia - forse mi vogliono parlar in segreto? - Oh no, siniora. Il siniore può benissimo ascoltare non essendoci niente di segreto. - Tanto meglio. E a chi ho l'onore di parlare? - domandò la padrona di casa facendo ai due forestieri un cenno perchè si accomodassero. - Questo è mio padre Leopoldo Rikherwenzel che non parla bella lingua italiana e io sono sua figlia Leopoldina. Al marchese che si era messo a studiarli passò negli occhi un lampo umoristico. "Se quello è suo padre - pensò - questa sarà probabilmente sua figlia." - S'accomodino - disse donna Eugenia. - Noi essere venuti - ripigliò la Leopoldina - per scongiurare una sventura in questa casa. Noi avere saputo sua figlia essere promessa sposa al signor scultore Aldo Rubieri, non è vero? La signora Eugenia inarcò le sopracciglia e non rispose subito. "Cosa mai possono entrarci costoro nei fatti nostri?" pensò. Ma poi rispose subito: - A dire la verità nulla è combinato ancora, perchè egli non ha avuto ancora il nostro consenso. - Pene, tanto meglio per tutti allora - sclamò la Leopoldina sorridendo come una scimmia - perchè noi poter mostrare documenti per provare che sinior Aldo Rubieri non può sposare sua figlia. - Documenti! - sclamò un poco sorpresa donna Elena. - Sissignora. Lei deve sapere che sinior Aldo è mio promesso sposo da dieci anni e che io ho amato sempre sempre lui e che ho aspettato sempre lui, e lui non poter mancare a suo promesso senza molto sagrificio di danaro per contratto in carto pollato, e anche per sua parola d'onore. Così dicendo l'austriaca zitellona sporgeva alla signora Eugenia la lettera colla quale il Rubieri s'era impegnato a pagare quella somma, come è già noto ai lettori. - Io non leggo il tedesco - disse la signora Eugenia dopo aver dato uno sguardo su quella lettera. - Ma non conta. Tant'è che la mi dica di che si tratta e in che cosa possa entrarci io, madre della Elisa. - Lei sapere certamente - disse la Leopoldina - che sinior Rubieri è figlio di un generale austriaco al servizio di nostri Kaiser Ferdinando e Franz Joseph. - Certo che lo so - rispose donna Eugenia. - Ed è anzi un vanto della vita di suo figlio l'esser fuggito dalla famiglia per venir a battersi co' suoi compatrioti. Leopoldina leggermente imbarazzata a questo punto raccontò il resto della storia e terminò dicendo: - Noi in tribunale siamo decisi di fare grosso scandalo perchè avere trovato finalmente bravo avvocato che farà la nostra causa senza fare spendere a noi troppi danari, e abbiamo pensato di venire a prevenire la siniora per suo regolamento. Donna Eugenia a questo punto stava in forse tra il ridere e lo star seria. L'eteroclito stile dell'austriaca fanciulla le consigliava l'ilarità, ma la storiella a carico dell'uomo che ambiva alla mano della sua Elisa l'aveva un po' turbata. Ringraziò la signora Leopoldina delle sue buone intenzioni e soggiunse che avrebbe comunicate quelle notizie a suo marito, il quale avrebbe presa quella determinazione che fosse del caso. Li congedò con quella cortesia fredda e cerimoniosa che è più eloquente talvolta di un'insolenza e che a buon intenditore vuol dire: mi facciano però la finezza di non venirmi più fra i piedi. In fondo però la madre provava una segreta contentezza. Ella non s'era ancora persuasa che la sua Elisa non dovesse diventare la contessa O'Stiary. E quando aperse l'animo al marchese su questo punto trovò in lui un certo sorriso e un assentimento che le fu di buonissimo augurio. - Andiamo dunque a vedere che cosa ne dice mio marito - fece ella dando il braccio al marchese. E s'avviarono verso il gabinetto. - Io non ho più nulla a perdonarti. - Aveva detto la Elisa al conte. - Io sono promessa ad altri. - Addio - le aveva risposto Enrico - e se accadrà del male ricordati Elisa che sarà per tua colpa. In questo don Ignazio era comparso. Egli era ancora un poco acceso in volto per la collera di dianzi. - Come, è qui lei? - disse fermandosi e dando un'occhiata severa alla Elisa e alla balia. - Sì, zio - rispose Enrico rimettendosi - non ho voluto andare al mio destino prima di venire a salutarvi tutti in casa. - E... dove fai conto di tornare, se è lecito? - domandò il notaio con voce ironica e quasi stizzosa. La risposta di Enrico fu interrotta appunto dal comparire di donna Eugenia e del marchese d'Arco. Enrico salutò affettuosamente la signora poi mosse incontro al marchese e gli strinse la mano. - Ah testolina, testolina! - disse questi metà severo metà sorridente. Sentiamo un poco che cosa fai conto di fare dunque? - Sì, vediamo questi progetti fioriti - soggiunse don Ignazio. - Sono semplicissimi. Io partirò questa sera per Firenze dove mi arrolerò come volontario in qualche reggimento. Ho delle raccomandazioni pel ministro della guerra; sono già stato tenuto abile al servizio tre anni sono, e spero mi accetterà. Il mio amico Sappia è incaricato di venir da te, caro zio, per aggiustare tutte le mie faccende. - E dire che gli ho già pagato il cambio! - sclamò il notaio. - Tu vorresti dunque andar a far il soldato semplice? - Certo. Non potrei pretendere di più per ora. - Bel mestiere! Mangiar nella gamella e scopar i cessi. - Far il soldato per il proprio paese - rispose Enrico - è l'unico mestiere che convenga a chi ha fatta la vita che ho fatto io finora. - Eppure - riprese don Ignazio - se tu promettessi di far proprio giudizio una buona volta, ci sarebbe ancora la speranza di accomodare i tuoi imbrogli salvandoti parte di sostanza. Io mi impegnerei di risparmiare un centinaio e più di mille lire. - Via, non parlarne, caro zio - rispose Enrico con dolcezza. - Ho detto poc'anzi all'usuraio che i creditori saranno pagati tutti fino all'ultimo centesimo. Io rispetto troppo la mia firma. - Insomma non c'è verso di fargli mettere il capo a partito - borbottò il notaio ponendosi a sedere come sfiduciato. - È una testa falsa... e addio patria! Mentre don Ignazio pronunciava questo giudizio sul suo pupillo il marchese d'Arco, che come il suo solito non aveva ancora aperto bocca, avvicinatosi a Enrico e messogli una mano sulla spalla gli diceva: - Bravo Enrico. Hai fatto il tuo dovere d'uomo d'onore e questo deve essere sempre dinanzi ad ogni cosa. - Ma sì, ma bravo, ma benone! - sclamava il notaio dimenandosi ne' panni. - Cara zia - disse Enrico a donna Eugenia prendendole una mano - io ti ringrazio ancora di tutte le bontà che avesti per me e spero mi perdonerai se per causa mia hai dovute subir delle... seccature.... - Oh caro Enrico... io vorrei soltanto vederti un po' a posto. Enrico si valse alla Elisa. - Addio Elisa... e ricordati qualche volta del tuo compagno d'infanzia.... E siccome sentiva venir un fiume di lagrime agli occhi si volse alla balia. - E anche tu, povera balia, addio e perdona se qualche volta.... Non potè proseguire. Si sentiva strozzare dal pianto. Stava per fuggir via. - Enrico vieni qua - disse il marchese. - Io sono il tuo padrino e ora voglio mettere di esser tuo padre. Se tuo padre fosse qui... forse non sarebbe accaduto ciò che è accaduto... ma in caso ti direbbe: sì, va a far il soldato pel tuo paese, giacchè quella scuola di abnegazioni e di sagrifici la ti farà diventare un uomo come si deve. Ma io non ho il coraggio di lasciarti partire così; e poi non posso neanche vedere quella cara fanciulla e quella povera vecchia piangere in quel modo... e poi... e poi, ti dico la santa verità, non vorrei io stesso.... E per non piangere tentò di ridere. - La ringrazio marchese di queste buone parole - disse Enrico stringendogli affettuosamente la mano. - Ma ora tutto è impossibile; non potrei più stare a Milano lo stesso.... - Andiamo dunque lei, don Ignazio, signor burbero benefico, faccia la pace col suo pupillo e gli perdoni ogni cosa. Siamo stati giovani anche noi... che diavolo! - Oh per il male che ha fatto a me - rispose don Ignazio tirando una presa di tabacco - io gli ho già bell'è perdonato. Mi duole soltanto che ora sia troppo tardi in quanto alla morale e che il mio perdono non gli possa più fare nè caldo nè freddo a quest'ora. - La guardi quella sua povera Elisa com'è addolorata - riprese sottovoce il marchese. - La Elisa? Ah so bene poi che la mi burla, caro marchese - ripigliò don Ignazio levandosi. - No, no, no. Ha voluto lui essere uno spiantato? Tal sia di lui! Io non potrei in coscienza rompere il collo a mia figlia col pretesto che si vogliono bene. Il mal d'amore passa in fretta, ma i matrimoni sono eterni. - Vediamo, vediamo - ripigliò il marchese tirando don Ignazio in disparte. - Bisogna che non lo lasciamo andar a soldato. Io non voglio. Mi secca di vederlo partire. - Faccia lei! Trovi lei il mezzo. Che cosa vuol mai che io le dica? Io, se anche lei m'avesse lasciato fare, m'impegnavo di salvargli una parte di sostanza. Non ha voluto? Peggio per lui! E non fu anche lei a lodarlo? - Enrico - ripigliò il marchese volgendosi al giovine - prometti tu sul tuo onore di far giudizio, di non metter mai più il piede in una bisca e di essere degno insomma della Elisa? - Ma che cosa dice, marchese, che cosa dice? - sclamò il notaio con la voce d'un uomo che è risoluto a farsi intendere seriamente. - Lei dice delle cose impossibili; a questa cosa non c'è più da pensarci e da un pezzo. Sono suo padre o non sono suo padre? Benedetto uomo! Vuol dir tutto lui! - Non dubitare, caro zio - disse l'Enrico con dolcezza malinconica. - Tu sei esaudito lo stesso. Capisco anch'io che ora non potrei più accettare quello che avrebbe dovuto essere la mia... quello che dice il marchese. Spero di riuscire a farmi onore e a cercarmi una posizione indipendente e degna di un gentiluomo.... E allora... se la Elisa mi avrà perdonato... se non avrà sposato un altr'uomo.... - Ah questo è un altro paio di maniche! - sclamò don Ignazio. - Quanto a lei, marchese - ripigliò il giovine conte volgendosi al d'Arco - la mi permetta di ringraziarla, delle sue buone parole. Oh io sento che la Elisa sarebbe stata la sola donna al mondo che avrebbe potuto farmi felice, ma non ho saputo meritarmela ed è giusto che succeda ciò che deve succedere. Adesso non potrei, dovessi morire di dolore, aspirare a lei.... - Naturalmente! - osservò don Ignazio. - Non vorrei si dicesse che dopo avere sprecato in tre anni tutto il mio avere sono andato ad attaccare il cappello in casa di mia moglie. - Oh per questo sarebbe il minor male! - sclamò don Ignazio. - Ho piacere di sentirti a parlare così - disse allora il marchese alzandosi, d'ond'era seduto, con una specie di risoluzione di buon augurio. La Elisa, che con le gote irrigate di lagrime stava stretta a sua madre, alzò gli occhi roridi in faccia al marchese, e vide sulla di lui fisonomia uno di que' buoni sorrisi arguti, che il d'Arco possedeva quando stava per dire qualche cosa di molto bello e di molto buono. - Dunque allora se non è che questo - disse egli con voce posata e chiara dovete sapere cari miei, che quella persona da nominarsi, la quale ha trattato questa mattina la compera della possessione di Enrico e di questo palazzo, sono proprio io. Io non potevo permettere naturalmente, che la casa O'Stiary e la campagna, dove passai tanti bei giorni de' miei anni giovanili, andasse in mano di cani e boriani La somma fu già rimessa al marchese Sappia, che è garante anche pei debiti di Enrico, e che penserà a pagare ogni cosa. Io sono dunque il nuovo proprietario e credo di aver fatto un discreto contratto. Siccome però io sono solo al mondo e non so davvero che farne del superfluo, così tu, Enrico, mi permetterai di dirti, che tanto la tenuta quanto questa casa, sono ancora cosa tua. - Ah, questo è troppo, marchese! - sclamò Enrico. E rimase interdetto, e non pensò di buttarglisi al collo, come avrebbe fatto chiunque altri, che non avesse avuto il di lui orgoglio nelle vene. Il marchese era, lo sappiamo già, un vero filosofo, e non si lasciava mai influenzare dall'amor proprio. Anche quella titubanza dignitosa, anzi superba, di Enrico, gli piacque; egli non s'adontò che il giovine conte fosse restìo ad accettare la sua donazione. Gli si avvicinò e gli disse: - Sei tutto tuo padre! Ma pensa che la Elisa ti ama.... E additò la cara fanciulla che stava presso donna Eugenia. I di lei occhi, maravigliati, pieni di riconoscenza, intenti, inondati da una gioia che non lasciava più luogo a dubbio, stavano fissi in quelli del marchese. Ella si spiccò da sua madre, si slanciò con subitaneo moto verso di lui, gli prese la mano e sclamò: - Ah, come l'adoro lei, marchese. Come è buono! E questo valse all'Enrico come cento perdoni. Io ho fiducia che il lettore mi dispensi volentieri dal riferire la storia retrospettiva del viaggetto affannoso di Enrico verso Parigi, in cerca di Nanà, che viaggiava invece verso la Piccola Russia, col principe Kuvaloff; come pure che egli non desideri ch'io gli debba descrivere la delusione di Rubieri, quando venne a pranzo e si trovò pulita la bocca Nè come sia andata a finir la faccenda - che restò incruentissima del resto - fra Marliani e Cantis - nè a raccontargli del fallimento della Romea, inezie tutte che facilmente si sciolgono coll'imaginazione. Quanto a Nanà, non stette più di un mese col principe Kuvaloff. Quand'egli cominciò a trattarla a furia di knout, essa cercò in Kiew un suo compatriota parrucchiere, che tornava in occidente, e si fece rapire da lui. La sua fine è nota. Zola ci racconta, che essa morì di vaiuolo al Grand Hôtel a Parigi, in quei giorni in cui i Francesi, ebbri di certezze gloriose, che dovevano mutarsi in disastri incredibili, passavano in folla sui boulevards boulevardsgridando in cadenza: à Berlin, à Berlin! Berlin!Molti lettori hanno il difetto di venir qui in fondo a cercare come vada a finire la panzana. Qui panzana vera non c'è stata. In ogni modo mi permettano di non accontentare questa loro illegittima curiosità. La contessa O'Stiary è oggi viva ancora? È dessa felice? È infelice? Chi lo sa? Mettiamo ch'ella sia infelice. L'è questa un'ipotesi che sbaglia di rado. Un'ultima preghiera al lettore: Se non l'ha ancora letta, legga l' l'Entratura Mi farà un gran piacere. FINE.

Pagina 301

CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Abbassate lentamente le braccia, apre gli occhi, quasi si destasse da un profondissimo sonno, sorride e tende le mani al Reuccio. - Oh, le più piccole e le più belle mani del mondo! E il Reuccio, caduto in ginocchio davanti a lei, gliele baciava e ribaciava. Carbonella, diventata Reginotta, chiese la grazia pei suoi padroni che erano in carcere. Ma le sue mani non macchiavano più gli oggetti toccati. E qui la fiaba finisce.

GIACINTA

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Giacinta chiudeva il libro, imbronciata; e il silenzio tornava a pesare nell'aria del salotto, sinistramente Andrea, osservando con la coda dell'occhio, sotto le palpebre abbassate, l'irrequieto incresparsi delle labbra, l'abbuiarsi degli occhi di lei, dove passavano e ripassavano nuvoli di dispetto, non osava neanche rimettersi il sigaro alla bocca, per non provocare una scena. I diverbi già scoppiavano cosí facilmente tra loro! Cosí facilmente le parole, le frasi piú dure prorompevano dalla collera di tutti e due! - Non era un divertimento! ... E il suo destino lo teneva lí, legato mani e piedi, peggio d'uno schiavo! Allora egli scattava dalla poltrona, per riscotersi, per difendersi contro la tormentosa oppressione di quell'uggia ... - Sei già stanco ... d'annoiarti? - gli diceva Giacinta. - Chi dice che m'annoio? - Lo veggo, tuo malgrado. Andrea si lasciava ricadere sulla poltrona: - Hai ragione! Hai ragione! E l'ironica amarezza della voce costringeva Giacinta a non insistere. Ma quell'esclamazione: "Come sei bella quest'oggi!" le parve cosí spontanea e cosí sincera, ch'ella si mostrò in tutta la giornata piú compiacente, piú sommessa del solito. Risero anche, come da gran tempo non accadeva, quando Andrea, ritornato di buon umore, prese a parlare del bambino dei Gessi. - Uno scimmiottino! L'Elisa dovrebbe vestirlo col casacchino rosso e il cappellino a tre punte, mettergli in mano i piatti di latta e portarlo attorno per le fiere. Il Gessi suonerebbe la grancassa: bum, bum, bum! Avanti, avanti, signori! lo scimmiottino addestrato che balla, suona e fa l'esercizio a fuoco! Avanti, signori? Bum, bum! Però quando fu sola, ripensando a quell'esclamazione, si sentí offesa e avvilita: - Come sei bella quest'oggi! ... E il mio affetto, i miei sagrifizi, la mia abnegazione non contano dunque nulla per lui? ... Non c'è dunque altro per lui che questa vana apparenza? E pur cedendo ogni giorno all'impulso dell'amor proprio con le minute cure per rendersi piú bella, piú attraente, tremava, convulsa, nell'abbigliarsi, nell'arruffarsi le ciocchettine sulla fronte, nell'appuntarsi un fiore, nell'annodarsi un nastro al collo: - Come una meretrice! - esclamava, portando le mani agli occhi, per non vedersi nello specchio. Aveva ribrezzo di sé stessa, quasi acconsentisse a denudarsi a poco a poco in pubblico, per far piacere a quell'uomo. - Fin dove arriverebbe? Vi rifletteva su, atterrita di sentirsi in tutto il corpo il sordo rinascere delle brutali sensualità che l'educazione e la vita civile comprimono o uccidono in germe. E nei soliti mercoledí, che conservavano sempre la loro voga e le servivano a mascherare una sconfitta che sarebbe stata un trionfo pei suoi nemici, se incontrava lo sguardo del Follini, cosí sereno, cosí pieno di compatimento, abbassava gli occhi mortificata. Il disgusto del suo stato la rivoltava, le dava la nausea.

Il Drago e cinque altre Novelle per fanciulli

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Egli sedette a cavalcioni, da cima, dove la stanga s'impernia nelle assicelle ritte, e disse: - Voi, una di qua e una di là, alzate e abbassate la stanga; al pastone bado io. E per cinque minuti s'intese soltanto il rumore del pernio della stanga, menata su e giù dalle bambine che ridevano, quasi facessero il chiasso, mentre don Paolo girava di qua e di là il pastone, ne ricacciava in dentro lestamente con le mani le coste, rimettendolo sempre in centro sotto la stanga che lo induriva, finchè non gli parve il momento di gridare: - Fermate! Allora cominciò un altro chiasso, con le pagnotte da arrotondare e schiacciare. - Questa è per me. - Questa è pel nonno. - Pel nonno, figliuole mie, ci vogliono le focacce. Le faremo dopo. E questa volta il pane lo manderemo a cuocere dalla fornaia. Le bambine erano accese in viso, sparse di farina con le mani e le braccia impiastricciate di pasta. Don Paolo le avrebbe baciate, se i baci non gli fossero parsi segni di tenerezza eccessiva. E un po' burbero, per frenare la loro vivacità, brontolò: - Via, via; lavatevi mani e braccia, e spolveratevi bene! Ogni giorno, una lezione pratica. Don Paolo sapeva fare tutto, fin la calza, e voleva insegnargli ogni cosa, da sè; non gli piaceva vedersi gente estranea fra' piedi. E se qualcuno, interrogandolo intorno alle pupille, gli diceva: - Perchè non le mandate a scuola? - A scuola? - rispondeva quasi arrabbiato. - Le mie figliuole non sapevano leggere, ed erano donne di ca- sa. Ora, riducono le bambine tante dottoresse ... Ma che vale? Non sanno imbastire una calza, nè fare un rammendo, nè cucinare una minestra! La scuola è per le principesse. Su questo punto Don Paolo non intendeva ragione. - Io sono della pasta antica, - aggiungeva. - Allora si sapeva leggere meno, ma si era più galantuomini. Non è vero forse? Inutile tentare di convincerlo. Voleva agire all'antica. * * * Di tanto in tanto, per far svagare le bambine, le conduceva in campagna, a Doguara, nel fondicello tutto piantato a olivi e mandorli con un po' di vigna su la costa; o a Pietra-che-suona, dove seminava grano, fave, ceci, ed era la dote della moglie. Dognara sarebbe stato di Lisa, Pie- tra-che-suona, di Giovanna, se se lo meritavano, se crescevano buone, virtuose, e massaie come voleva lui. Le notti che non poteva dormire, pensava spesso al testamento che occorreva fare perchè le orfanelle, alla sua morte, non si ritrovassero in mezzo d'una via, e la roba non se la prendesse il fisco, poichè egli non ave- va parenti vicini nè lontani. Ma non sapeva risolversi; andare dal notaio e mettere in carta le sue ultime volontà gli pareva mal augu- rio. Che fretta aveva? S'era consultato però col canonico suo compare che aveva battezzato Lisa, e quel servo di Dio gli aveva risposto ridendo: - Volete dunque comprarvi un bel pezzo di paradiso? Fate bene, compare. Ma non occorreva aver fretta; il paradiso era grande, ne avrebbe trovato sempre un pezzetto per sè e per la moglie e le figliuole, caso che esse stessero ancora in purgatorio. Per suffragio di quelle anime benedette non faceva dire tre messe ogni anno, il giorno dei morti? No, non occorreva aver fretta; intanto stava sempre con l'animo sospeso. La morte arriva quando meno ce l'attendiamo; non manda l'avviso avanti. Chi ha tempo, non aspetti tempo ... Ne conveniva: ma l'idea del mal'augurio gli si metteva per traverso, e gl'impediva di prendere una risolu- zione. Per questo rimase proprio atterrito la mattina che gli dissero: - È morta la sciancata. Siete contento? Lui la chiamava la strega, ma tutti gli altri la sciancata. Piena di salute, grassa e ben pasciuta, era morta d'accidente, in un minuto. - Dio le perdoni! - esclamò: - Dio le perdoni il male che voleva fare alle orfanelle! Quella morte però gli era parsa un ammonimento. Se l'accidente fosse venuto a lui? Per scacciar via quel tristo pensiero, si faceva il segno della santa croce. E la sera, disse alle bambine rimaste mute all'annuncio: - Recitiamo il santo Rosario per l'anima della... Stava per dire: - della strega - ma subito si corresse. E fu la prima e l'ultima volta che gli accadde di chiamare zia colei. * * * No, non voleva morire ora che anche la casa pareva rifiorita per la bella imbiancatura recente, per l'ordine, per la pulizia, con la terrazza piena di graste di garofani, di menta, di basilico, e quel gelsomino che s'arrampicava alla parete, ricordo di Lisa che gli voleva tanto bene, e lo annaffiava, lo ripuliva delle foglie secche, e lo aveva potato di sua mano pochi giorni prima della disgrazia. Quel gelsomino don Paolo lo aveva curato tant'anni, raccogliendone i fiori e conservandoli in un cartoccio, quasi fossero stati qualcosa soprav- vivente della sua povera figliuola. Ingrossato nel tronco, si era arrampicato coi rami ai sostegni di canna; ma ora sembrava sentisse anche lui il soffio di vita che rianimava tutta la casa, e verdeggiava e fioriva per festeggiare la nuova Lisa, come non aveva verdeggiato e fiorito da un pezzo. - Il gelsomino e di Lisa, - diceva don Paolo a Giovanna. - Perchè? - domandava la bambina un po'ingelosita di quella particolarità. - Perchè si chiama Lisa. Sono tuoi i garofani, il basilico, la menta. - Ma lo innaffio anch'io. - No, deve innaffiarlo lei, soltanto lei. Voleva procurarsi tutte le illusioni, povero vecchio. Tanto più che l'autunno gli metteva in cuore una gran malinconia, come l'anno passato, quando s'era immaginato che quell'autunno dovesse essere l'ultimo di sua vita. S'era ingannato; invece gli era anzi capitata la buona fortuna di quelle due bambine. - Vuol dire che il Signore mi darà tempo di tirarle su queste due creature; è giusto che sia così. Tentava di confortarsi a questo modo; e si stizziva ogni volta che suo compare il canonico, a cui aveva parlato del testamento, glielo rammentasse, e lo esortasse a farlo subito, per non pensarci più. - O che sono coi piedi nella fossa? - rispondeva. Si sentiva bene, con le gambe solide. Aveva badato alla vendemmia e al raccolto degli ulivi, come un giovane di vent'anni; ora preparava la seminagione del grano e delle fave, e non poteva occuparsi del testa- mento; ci pensava e ripensava però, voleva maturarlo. Se ne sarebbe riparlato insieme, nel prossimo inverno, dopo Natale. - O che sono coi piedi nella fossa? E a proposito di Natale, si rammentò che l'anno scorso i suonatori della Ninnaredda (Ninna- Nanna), nelle notti della Novena, non erano venuti a suonare sotto le sue finestre; disabituati, dopo tanti an- ni, non si rammentavano più ch'egli esistesse al mondo. Ma ora che aveva in casa le bambine, egli voleva suonata la Ninnaredda sotto le finestre, come tutti gli altri; poteva regalare i suonatori meglio degli al- tri, la vigilia di Natale, quando sarebbero venuti a casa sua, di giorno, com'era costume. Dolci, càlia, vino ... e il vino quest'anno era proprio di quello! Il primo giorno della Novena appunto, aveva incontrato i suonatori che accompagnavano un Bambino Gesù di cera, toccato in sorte a una vicina nella chiesetta delle Orfanelle. Che festa mettevano per la via quei tre violini e il contrabasso, fra una trentina di ragazzi che li precedevano e li seguivano, allegri, saltellanti, quasi che il Bambino Gesù fosse toccato a loro! E mentre i suonatori passavano davanti la porta di casa, don Paolo, che faceva ferrare l'asino, accennato a mastro Gaetano e a mastro Neli, sorridendo, e aveva gridato per farsi sentire bene: - Non vi scordate di me! I suonatori tirarono innanzi senza rispondere, borbottando qualcosa tra loro, continuando a grattare i vio- lini. Ma egli si era persuaso che avessero capito. E per ciò la sera, dopo cena, mentre le bambine si dispone- vano ad andare a letto, le aveva avvertite: - Questa sera, quando sarà il momento, vi sveglierò io. Domani poi, con vino cotto e miele e farina, impa- steremo i mostaccioli pei suonatori, e faremo la càlia. Spogliandosi, Lisa disse a Giovanna: - Io non m'addormenterò. - E neppure io. Ma don Paolo, che le aveva udite dall'altra stanza soggiunse: - Addormentatevi. Vi sveglierà il nonno. - Fingiamo di dormire, - sussurrò Lisa all'orecchio di Giovanna. - Sì, sì! E finsero così bene, che si addormentarono profondamente. * * * Don Paolo, aspettando i suonatori, si era messo ad acconciare la cavezza dell'asino, e si godeva anticipa- tamente il piacere della svegliata delle bambine alle prime note della Ninnaredda. I suonatori non si facevano sentire nè da vicino, nè da lontano, ed era quasi mezzanotte. Dovevano aver cominciato il giro dall'altra punta del paese. Poveretti! Andare attorno con quel freddo e suonare con le mani intirizzite non era un divertimento; ma alla fine della Novena potevano spartirsi un bel gruzzoletto, una catasta di dolci, parecchi sacchi di càlia, senza contare il vino! Poveretti! Quei regali erano proprio ben gua- dagnati! ... - Ah! Eccoli Si sentiva, a volte sì, a volte no, secondo il vento, il grugnito del contrabbasso, ma lontano assai. Don Pa- olo s'impazientiva delle troppe fermate, e rifletteva che nella sua via essi non avevano molte case sotto cui arrestarsi: dal dottor Cipolla, dai Carcò, dal notaio Miani, e poi da lui. - Oh! Ora si udiva benissimo, oltre il suono del contrabbasso, anche quello dei violini; don Paolo si sentiva in- tenerire. E appena si persuase che i suonatori erano già sotto la casa del notaio Miani, posò per terra la ca- vezza, si levò da sedere, aperse l'uscio della camera delle bambine e aspettò per svegliarle. - Come saranno contente! Gli pareva che i suonatori lo facessero apposta indugiando colà. Non era bastata la Ninnaredda ! At- taccavano anche una suonatina allegra! - Faranno lo stesso qui sotto, - pensava. Nel silenzio della notte si sentiva sul selciato il rumore delle scarpe grosse, e le voci dei suonatori che parlavano fra loro e ridevano ... - Ora si fermano ... Invece, con gran rabbia di don Paolo, i suonatori erano passati oltre. Egli tremava dall'indignazione per quel dispetto, sperando d'ingannarsi finchè il rumore dei passi, ancora vicino, potè illuderlo un istante; poi, con le lagrime agli occhi, guardò le bambine che dormivano, e tese i pugni, minacciando quei pezzi di ub- briaconi! - E la Ninnaredda ? - domandarono le bambine la mattina appresso. - Come? Non ve ne rammentate, dal gran sonno? - rispose don Paolo, sforzandosi a ridere. - Eppure io vi ho svegliate. E andò a fare una lavata di capo a mastro Gaetano: - Vi pagherò meglio degli altri! Capite? Ora ci ho le bambine. * * * La notte di Natale aveva voluto condurle a vedere il presepe e a sentire la messa di mezzanotte. Pioviggi- nava, tirava vento; ma la chiesa era lì a quattro passi, e don Paolo non aveva creduto di commettere un'imprudenza, all'età sua, con quel tempaccio. Per tenere deste le bambine fino alla mezzanotte, s'era mes- so a giocare all'oca con loro, usando la gentile malizia di contar male i propri punti perchè il perditore fosse sempre lui, e fingendo, ogni volta, di arrabbiarsi contro la disdetta: - Santo Dio! voi mi spogliate. La posta era di venti nocciuole, ma egli invece pagava un soldo; e le bambine ridevano, vedendosi accu- mulare davanti tante belle palanche, mentre i loro mucchi di nocciuole rimanevano intatti. - Santo Dio, voi mi spogliate! Questo è l'ultimo soldo. E don Paolo faceva atto d'arrovesciare una tasca. - No, ce n'è ancora un altro. Ce n'era sempre qualcuno in questa o in quella tasca. Lisa contava i suoi; quindici! Giovanna contava dall'altra parte: dodici! - Oh!. ecco le campane. È il primo seguo per la messa cantata. Nel silenzio della notte le campane squillavano allegre, annunziando gloria in cielo e pace in terra; e già cominciava per la via il via vai della gente. - Al secondo segno, andremo in chiesa. Intanto aveva continuato a lasciarsi spogliare, come diceva. Aveva anzi finto di dover giuocare sulla paro- la, perchè non possedeva piò un soldo spicciolo. Poi tirate fuori due mezze lirette di argento, aveva detto se- rio serio: - Se mi vincete pure queste qui, domani non potrò fare la spesa. - La faremo noi, - aveva risposto Lisa, ridendo. - Brava! E don Paolo si era lasciato spogliare anche delle due mezze lirette d'argento, prima che le campane suo- nassero il secondo segno. In chiesa c'era folla, e gran confusione; la gente arrivava a frotte; un pecoraio strillava la Ninnaredda con la cornamusa, intanto che i sagrestani accendevano i lumi dell'altare. Il vento e la pioggia scotevano i vetri delle grandi invetriate; dalla porta, continuamente aperta, penetravano sbuffi d'aria umida e fredda, ma dentro si scoppiava dal caldo. - C'è da prendere un malanno all'uscita! - rifletteva don Paolo. E infatti egli lo prese,: tosse e febbri, febbri e tosse. Da prima non aveva voluto mettersi a letto, nè far chiamare il medico; ma poi aveva dovuto persuadersi che lo stare in piedi era peggio. Pure aveva aspettato fino a tardi e si era coricato l'ultimo, per illudersi che non si metteva a letto come malato. La mattina dopo però non aveva avuto la forza di levarsi; e svegliate le bambine, aveva detto: - Andate del dottor Cipolla, qui vicino; ditegli che venga a farmi una visita; prendete la chiave della porta di casa. E quando aveva inteso il rumore della porta chiusa dalle bambine, s'era sentito solo solo, abbandonato; e tutti i terrori della notte precedente gli erano piombati addosso. - Questa volta è finita! - ripeteva. - Questa volta non c'è più rimedio! Invece del medico, perchè non mando a chiamare il notaio? No, no: gli pareva quasi impossibile che Gesù Bambino volesse ripagarlo in quel modo della messa anda- ta a sentire a mezzanotte, ripagarlo facendolo morire.:No, Gesù Bambino misericordioso si sarebbe ricorda- to delle orfanelle che rimanevano senza aiuto e senza guida, se il loro tutore era portato via dalla febbre e dalla tosse che gli toglieva il respiro. Il dottor Cipolla, lungo, lungo, lungo, magro e stecchito, col bastone sotto braccio, aggiustandosi a ogni po' le punte del colletto della camicia, era entrato sorridendo, senza togliersi il cappello a staio perchè aveva paura d'infreddarsi, e s'era fermato in piedi davanti al letto. Lo chiamavano San Pantaleone chi sa perchè, forse per la statura, quasi quel San Pantaleone indicasse qualcosa di spropositamente alto col semplice suono delle sillabe. - Sedete, dottore! sedete! - disse don Paolo, con voce lamentosa, interrotta da colpi di tosse. Non poteva vederselo davanti, ritto in piedi, con quella tuba in testa che toccava la volta della camera, e il collo incastrato nell'alto colletto che non gli permetteva di abbassare il capo. - Sedete, dottore! Temeva che la sua voce di malato non riuscisse ad arrivare fino a lassù, sotto la tuba, e penetrargli dentro gli orecchi sempre turati con la bambagia. - Voialtre, andate di là, - soggiunse per allontanare le bambine. E appena esse furono uscite di camera, si mise a singhiozzare. - Dottore, ditemi la verità! Per quelle creature, che non voglio lasciare in mezzo a una via, ditemi la veri- tà! - Certe cose, caro don Paolo, - rispose il dottore, tirandosi le punte del colletto, - non bisogna mai riman- darle proprio agli estremi momenti, quando la testa non ci regge più! Così anche per le cose della santa Chiesa. - Dunque sono spacciato? - Non esageriamo caro don Paolo!... Ecco qui un calmante per la tosse! una cucchiaiata all'ora; poi pen- seremo alla febbre... Niente di grave. - La mia sentenza di morte! - pensava don Paolo, seguendo con gli occhi la mano che scriveva la ricetta sul ginocchio della gamba accavalcata all'altra. E prima che il dottore andasse via, egli lo pregò di mandargli il notaio Miani, pel testamento, erano a u- scio e bottega, non sarebbe stato troppo incomodo per lui. Il dottor Cipolla, che s'interessava molto anche della salute dell'anima dei suoi clienti, dopo il notaio, s'affrettò a mandargli pure suo compare, il canonico. Ma don Paolo, che aveva dovuto fare un bello sforzo per vincere l'idea di malaugurio del testamento, quando vide entrare il canonico, non potè frenarsi: - Venite a portarmi la jettatura anche voi? Lasciatemi in pace! - Sono venuto per una visita, - si scusava il canonico. Don Paolo però seguitava a strillare: - No, compare; se mi confesso muoio! - Siete cristiano, sì o no? - Cristianissimo; ma se mi confesso e prendo il viatico, muoio! - Le cose sante sono la miglior medicina, compare. - Ma se non debbo morire ... E non voleva morire, almeno questa volta. E ragionava, a modo suo, parlando a stento, fra un colpo di tosse e l'altro, per convincere il canonico, che si frenava a stento per non ridere. - Come? sono andato alla messa di Natale per devozione, ci ho condotto anche le bambine e il Signore, in ricompensa, mi farebbe morire? Non è possibile. Dio è giusto. Non può mandarmi all'inferno; non ho ruba- to, non ho ammazzato, non ho calunniato; ho fatto anzi un'opera di carità da meritarmi il paradiso ... - Questo non dovreste dirlo voi, - lo interruppe il canonico. - Se il Signore si avvede che mi son confessato e comunicato, dice: - Quel povero don Paolo portiamolo in paradiso, è meglio, giacchè ora si trova in grazia nostra! - No, Signore benedetto! lasciatemi star qui ... Non vedete che queste orfanelle hanno soltanto me, e che se muoio io, le spogliano, le riducono alla miseria con tutto il bel testamento che ho fatto? Lasciatemi quaggiù un altro pochino! - Il Signore sa bene quel che deve fare, non ha bisogno dei vostri consigli! ... - Non lo consiglio, lo prego! E dovreste pregarlo anche voi nella. santa messa! Io dico: Il Signore, non vuol farmi dannare. Ebbene, se muoio non confessato, mi danno... Dunque mi dia. la salute del corpo, non per me, per le orfanelle... E per ciò non mi confesso, no, no, no! Potete andarvene, compare canonico! Il canonico, dalle risa, era passato alla commozione per tanta ingenuità, che in fine significava profondis- sima fede in Dio; e non insistette, anche per non turbare il malato, che non gli sembrava così grave come il dottor Cipolla gli aveva detto. - Riposatevi; avete chiacchierato troppo! Infatti, calmatasi l'eccitazione, don Paolo era ricaduto, ansimante, con la testa sui guanciali, la bocca a- perta e gli occhi chiusi. Le orfanelle lo guardavano atterrite, senza osare di accostarsi al letto, interrogandosi con cenni: - Che dobbiamo fare? Non dovettero far altro che preparare qualche scottatura di tiglio, di cammomilla, e poi ottimi brodi di pollo durante la convalescenza. La quale, contro ogni previsione del dottore, fu così rapida, che una mattina in cui egli credeva di trovare il malato ancora a letto in attesa del permesso di alzarsi per qualche ora, lo trovò invece in cucina davanti a un fornello, mentre Giovanna grattava il cacio, e Lisa sbatteva in un piatto le uova per una magnifica frittata, e lui sminuzzava un po' di prezzemolo e di cipolla da servire pel condimento. Il dottore, che appunto tornava dalla casa di un cliente morto pochi minuti prima senza permesso di lui, ed era rimasto male davanti ai parenti in lagrime e che quasi l'accusavano di aver ammazzato il malato, visto don Paolo in atto di fare il cuoco, s'era messo a ridere e s'era sentito venire l'acquolina in bocca all'odore. - Ah, voi fate venir in casa il medico per invitarlo a colazione? - Se volete favorire, - aveva risposto don Paolo, sorridendo. Ma per levarselo di torno subito, gli aveva messo in mano una carta da dieci lire, pagamento delle visite. Non voleva conti in sospeso con nessuno, col medico soprattutti: certa gente è meglio tenerla lontana quanto più si può. - Staremo un bel pezzo prima di rivederci, caro dottore! - gli disse su l'uscio, allegro, quasi avesse in ta- sca il contratto con Domineddio, di dover campare un secolo o poco meno. E fu proprio così. * * * Erano passati dieci anni. Lisa aveva preso marito da sei mesi; si parlava già di certe trattative con un cu- gino del marito di Lisa che aveva posto gli occhi su Giovanna; e don Paolo sembrava più arzillo di quando aveva leticato con la strega per le bambine. Soltanto la testa non lo serviva bene come una volta; la memoria gli veniva meno di giorno in giorno. Chiacchierava troppo del passato, rammentandosi i più minuti particola- ri; ma gli avvenimenti vicini, anche della giornata, gli si scancellavan subito dalla mente. Le prime volte, accorgendosene, ne aveva riso egli stesso: - Comincio a istupidire, figlie mie! Da lì a qualche mese però le cose cambiarono. Non usciva più di casa; andava da una stanza all'altra come sperduto, con le sopracciglia aggrottate, le mani dietro la schiena, guardando attorno con aria diffidente, quasi andasse notando novità che gli dispiace- vano. Brontolava, si stizziva per cose da nulla, ripeteva certi atti giorno per giorno, a ora fissa, quantunque ogni volta si lasciasse subito convincere che aveva torto. A ora fissa, da una settimana, si metteva a preparare la tavola. - Che fate, nonno? - Lo vedi. Non si desina oggi forse? - Ma se abbiamo già desinato due ore fa! - Abbiamo già desinato? ... È vero, hai ragione. Stava un momentino esitante, e zitto zitto sparecchiava. Poi, da lì a un mese, non si lasciò convincere più. Era inutile ripetergli: - Abbiamo già desinato! - egli scoteva il capo, con aria maliziosa e continuava ad apparecchiare. Quando aveva finito, si sedeva a tavola, aspettando, battendo sull'orlo del piatto con la forchetta e col coltello, impazientendosi del ritardo: - Volete farmi morire di fame, povero vecchio? Ingrate, ingrate! Vi ho dato tutta la mia roba; mi sono spogliato per voi ... ed ecco la ricompensa! Dannate! L'inferno vi aspetta. Urlava, piangeva. Lisa e Giovanna un po' ridevano, un po' rimanevano stupite, afflitte di vederlo piange- re; poi, a furia di carezze e di buone maniere, riuscivano a farlo levare da tavola, a deviarlo da quella fissa- zione; suggerendogli: - È mezzanotte; andate a letto. Il sole vicino al tramonto inondava la camera dove lo conducevano, ma egli non se n'avvedeva; e mentre Lisa chiudeva gli scuretti della finestra, egli dava mano a spogliarsi, e intanto domandava: - E il santo rosario? - L'abbiamo recitato or ora. - Sì, sì, è vero; non bisogna scordarsene mai altrimenti la Madonna non ci aiuta. Andate a letto anche voi. È mezzanotte. Ma questo stratagemma giovò per poco. Una notte Lisa e Giovanna furono svegliate da forti picchi all'uscio. - Dormiglione, su, levatevi! È mezzogiorno. E d'allora in poi, a ogni mezzanotte era mezzogiorno per lui. Lisa si alzava, apriva la finestra: - Non vedete che è buio? - È annuvolato. C'è l'ecclissi ... Si rammentava dell'ecclissi di anni addietro, e affermava che il sole sarebbe ricomparso subito. Insomma ci voleva una pazienza da santi; e Lisa e Giovanna erano proprio due sante, che gli volevano bene, e lo ado- ravano, e lo compativano, povero vecchio. Lisa qualche volta leticava col marito che non aveva carità, com'ella gli rimproverava: - Forse sa quel che fa, poverino? Ora, di tanto in tanto, egli perdeva anche la conoscenza delle persone. - Chi siete? Che fate qui? Chi cercate? - Sono Lisa; non mi conoscete? - Lo so, lo so; ma costei, chi è costei? - Giovanna. A quei nomi rimaneva turbato. I ricordi delle figliuole morte e la figura delle due donne che si vedeva da- vanti lo imbrogliavano, lo rendevano dubbioso; e voltava le spalle, crollando la testa, ricominciando da capo dopo un momento: - Chi siete? Che fate qui? Il padrone sono io. La roba è mia. E si metteva a discorrere, divagando: - Avevo due figliuole ... Quella strega le mandava a chiedere l'elemosina ... E sono morte, povere creature, morte di tifo! ... Ve ne ricordate? Io ho fatto testamento; ho lasciato ogni cosa a loro ... Erano orfanelle, abbandonate da tutti ... Il Signore se l'è prese ... Sia fatta la volontà di Dio! Come vi chiamate? Lisa? Giovanna? Si chiamavano così anche le mie creature. Se volete stare con me e servirmi ora che sono vecchio, faccio testamento e lascio ogni cosa a voi ... Il padrone sono io. Ma qui non ci voglio più stare; voglio andarmene a casa mia. Prendete le chiavi; andiamo, andiamo! E bisognava secondarlo, perchè non s'arrabbiasse e non urlasse. Lisa fingeva di mettersi lo scialle - e spesso bastava buttarsi addosso una salvietta, un asciugamani - e gli dava braccio per le scale. Scendevano giù, in istalla o in cantina, e risalivano: - Eccoci in casa nostra! - Ah, come si sta bene qui! Colà non mi ci potevo vedere! ... In casa altrui uno non può fare a modo proprio. Si erano abituate a queste stranezze; spesso le prevenivano, le secondavano sempre, visto che era il mi- glior mezzo per non farle prolungare; e anche ci si divertivano quando il povero vecchio si sfogava a parlare del passato lontano, molto lontano, che gli veniva alla mente con lucidità e precisione meravigliosa. Si divertivano quasi, anche quando se la prendeva con loro, con quelle ingrate che lo facevano morire di fame, che non potevano più vederselo dinanzi, perchè il padrone era lui e loro volevano tutta la roba per sè ... - Ma le gastigherò io! So io come gastigarle! - Come? - Straccerò il testamento, le lascierò nude in mezzo a una via! - Fate bene, - gli diceva Lisa ridendo. - Dovreste lasciare la roba a noialtre. - A voialtre? Che c'entrate voialtre? La roba mia è delle mie figlie, delle orfanelle che ho cresciute, nu- trendole con la carne del mio cuore, col sangue delle mie vene! Che c'entrate voialtre? Esse soltanto mi vo- gliono bene; e pregheranno per l'anima mia quando sarò morto; che c'entrate, voialtre? * * * Per altri due anni era durata così, senza un giorno di tregua. Poi il vecchio era diventato triste, muto. Passava le ore della giornata su una seggiola, con le mani su le ginocchia, guardando di tratto in tratto le due giovani, o tirando il laccio della culla dove dormiva Paolino, il bambino di Lisa; docile e obbediente alla parola di lei: - Su, cullate il bambino. Non aveva mai domandato di chi fosse quel bambino, nè come si trovasse in casa, nè come si chiamasse. Ma un giorno avevano visto il povero vecchio alzarsi dalla seggiola dov'era stato tutta la mattinata a sede- re, e stropicciarsi gli occhi e la fronte, quasi si destasse da profondissimo sonno. - Lisa! ... Giovanna! Le chiamava sorridendo, con voce tremula dalla commozione, maravigliato, quasi le rivedesse dopo lunga assenza. E pareva ricordarsi di tutto, e pareva si vergognasse di quel che ricordava ... - Sono stato pazzo? Oh, povere figlie mie, quanto vi ho fatto soffrire! ... Ma ora me ne vado; non vi tormento più ... Me ne vado a trovare quelle altre che mi aspettano da un pezzo ... Dio vi bene- dica, povere orfanelle! E fece atto di alzar le mani per benedirle ... Le lasciò ricadere ... S'era spento tutt'a un tratto, dolcemente, tra le braccia di Lisa e di Giovanna. Roma, novembre 1893.

Racconti 1

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Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il leggiero tremito di tutta la persona, il rapido battere delle palpebre abbassate erano l'unico indizio da cui Alberto poté capire che stringeva fra le braccia un corpo vivo! Come poco prima, gl'immani alberi del viale stormivano leggermente; nel cielo, d'un nero d'inchiostro, brillavano poche stelle ... Con la testa vagellante, e il respiro affannato, Alberto si sentiva avvolto da una vampa, da capo a piedi ... Appena scostatosi dall'uscio che s'era subito richiuso ... Gli era parso? ... No; il bianco fantasma era di nuovo lí, accennante; di nuovo, un mormorio di voce femminile si perdeva inintelligibile nell'oscurità ... Egli si lanciò per esalar su quelle labbra l'anima agonizzante: - Addio! ... Addio! - ripeteva, aspirando il respiro di lei. Ella intanto, con fremito lieve della voce, dolcemente, gli mormorava all'orecchio: - Oh, no, addio! A rivederci, amore! - Napoli, maggio 1888@. 1888.

Nel salottino bianco dove ella soleva starsene sdraiata su una poltrona, il bruno della sua carnagione prendeva i toni caldi del bronzo e gli occhi sognavano sotto le palpebre abbassate a mezzo, fissati sopra le belle mani ornate di anelli che voltava di tanto in tanto. Ora che aveva rinunciato, dopo sei soli mesi, all'esercizio della sua professione, perché Cristina non poteva patire il puzzo dei contadini che aspettavano nell'anticamera il signor avvocato e urlavano nello studio, pei loro affari, Enrico passava in casa gran parte delle giornate, attorno a lei; baciandole le belle mani affusolate; baciandole la fronte alta, ombrata da ciocchettine folleggianti; baciandole le tumide labbra sanguigne che parevano fatte apposta pei baci ... - E non ne davano mai! Ella lo lasciava fare, ma non lo ricambiava; e sbadigliava allorché quegli, per isvagarla, le raccontava o una storiella letta sui giornali, o qualche ricordo della vita di studente, o gli canticchiava nell'orecchio un motivo del Ballo in maschera, solleticandole le gote con la punta dei baffi, per vedere di stuzzicarla e di scuoterla. - Via, lasciami stare! - Ti annoi? - In questa casaccia! Pare una prigione. - Andiamo dalla mamma, dalla zia. - Se per non annoiarmi debbo stare sempre in giro! ... - Ma è una casetta comoda, pulita, come ce n'è poche in paese. Forse, se vuoi, un pochino fuor di mano ... - Un pochino? ... E le catapecchie lí di faccia? ... E il pergolato da questa parte? ... E il sudicio stallatico dall'altra? - Che possiamo farci? - E si tormentava, vedendo che ella non gliene ragionava piú, chiusa nella sua stizza mal celata. In verità, c'era da sentirsi irritare da quelle catapecchie affumicate, da quel pergolato che dava un'aria rustica alla via, da quello stallatico che appestava col suo puzzo di concime ... Ah, se egli avesse potuto vendere quella casa, o comprarne un'altra! ... Ma non era neppure da pensarci; sarebbe stato un tracollo. Diventavano già un mezzo tracollo le troppe spese in vestiti, in oggetti di oro, in cosettine capricciose, tutte per lei. Ma ad ogni vestito nuovo che doveva umiliare amiche e invidiose, Cristina gli si mostrava, senza eccessive tenerezze, cosí riconoscente; ma ad ogni incalzante regalo di un paio di buccole, d'un anello, d'un braccialetto, usciva cosí a un tratto, sebbene per poco, da quel suo contegno d'altiera riserva: ma ad ogni bizzarro gingillo, lo ricompensava con cosí strano lampo d'affettuosa intim ità, che Enrico - no, non era possibile! - non sapeva resistere alla tentazione di quelle attrattive. La sua fissazione oramai era una casettina allegra in via Lunga o, meglio, nella piazza della Collegiata. Le poche volte che andava fuori solo, ronzava attorno a questa o a quella casetta di via Lunga, facendo calcoli e progetti; o, seduto davanti il casino, sotto la casa comunale, guardava con occhiate gelose i palazzetti che si pavoneggiavano nella gran piazza, coi terrazzini, le terrazze e le loro facciate ingrigite dagli anni ma ridenti di sole. - Cosí avrebbe fatto fra non molto la bella casa dell'arciprete, ancora in costruzione! - E sospirava, quasi ogni palmo di muro che cresceva sotto la cazzuola e il martello degli operai fosse stato un dispetto fatto a lui. Andando a passeggio con la moglie, trovava sempre qualche pretesto per non farla passare di là; e, se non poteva farne a meno, s'ingegnava di distrarne l'attenzione dalla casa dell'arciprete, che veniva su a vista d'occhio nell'angolo fra la piazza e la via Lunga, ostentando il bel portone, le bugne, e i capricciosi intagli delle mensole di pietra bianca di Siracusa. Cristina non gli dava retta; e squadrava la facciata e l'impalcatura da cima a fondo, da una cantonata all'altra; e il suo dispetto a quella v ista, tanto piú forte quanto piú chiuso, trapassava il cuore d'Enrico pari a una lama di coltello. - Ho comprato la casa dell'arciprete, per farti piacere! ... - Cristina aperse tanto di occhi: - Non è un cattivo scherzo? - Enrico passò cosí la piú bella giornata di vita sua, aggirandosi con lei per quelle stanze appena rivestite d'intonaco grosso, tutte ingombre di materiali - travi, imposte senza ferramenti addossate alle pareti, fra mucchi di trucioli e fra arnesi d'ogni sorta - ma splendidamente ariose per la gran luce che vi penetrava dagli otto larghi terrazzini in quella giornata d'aprile. - Povero arciprete! Non se l'è potuta godere. - Ce la godremo noi - ella rispose. E tornando a casa a braccetto, gli fece prendere un giro largo, per incontrare piú gente a cui poter rispondere: - Veniamo dalla casa nuova. Che bellezza! - Sí, è proprio una bellezza - replicavano tutti; - ma, via, l'avete pagata salatina -. Donna Momma, appena saputo quel colpo di pazzia di suo figlio, gli era piombata in casa come una bomba: - Che? Hai dunque perduto la testa? E tu, tu te ne stai lí, zitta zitta? - Io non m'impiccio di affari; mio marito fa quel che gli pare e piace - rispose Cristina. Allora donna Momma alzò la voce contro suo figlio: - Grullo! Ti fai menare pel naso. Peggio per te! ... Sí, mangerai sassi, con quella casa! Tuo padre ammassò la roba a furia di stenti, e tu la butti dalla finestra; non ti è costata nulla. Hai preso anche la laurea per chiasso. - Zitta, mamma, zitta! - Tua madre è una villana - gli disse Cristina quasi con le lagrime agli occhi. Per piú giorni ella non riparlò della casa nuova, né di altro. Quando suo marito sfoggiava fantastici progetti per l'avvenire, si degnava appena di sorridergli, o gli domandava solamente: - E questi lavori? Non finiscono piú. La colpa è tua; non sai far nulla alla spiccia -. Né si accorgeva delle nubi che gli oscuravano di tratto in tratto la fronte, a ogni scadenza di pagamento, a ogni nuova spesa a cui egli si lasciava andare, preso da vertigine, quantunque capisse di commettere una pazzia. Né badava alle visite di quella faccia smunta e butterata di usuraio che veniva ogni tre mesi, tenendo in testa il cappellaccio unto, brontolando: - Ma, signor avvocato! ... Ma, signor avvocato! - Pur di mandarlo via presto, Enrico firmava a occhi chiusi nuove obbligazioni sempre piú complicate e piú gravose, blandendolo, stringendogli la mano per ingraziarselo, accompagnandolo fino all'uscio, dopo che era stato strozzato peggio da quegli artigli di arpia ... E dimenticava tutto, appena sua moglie gli veniva davanti fredda, impassibile, ma sempre bella, con quei grandi occhi nerissimi, con quelle tumide labbra fresche e sanguigne che strappavano i baci. A intervalli, un dubbio gli straziava l'animo: - Tutto invano? Quel corpo divinamente modellato è dunque di bronzo? Non batte un cuore dentro quel seno? ... Non ha un'anima costei? Trovava però subito da scusarla: - Che vuoi? È fatta a questo modo: bisogna amarla qual'è! Cristina accettava quell'adorazione come cosa naturale e dovuta; e solo in alcuni rari istanti provava un senso di dispetto contro quell'uomo che le pareva non facesse mai abbastanza per lei. Allora, sdraiata sul canapè o su la poltrona, con l'aria incerta di chi guardi attraverso una nebbia, sognava a occhi aperti una piú completa felicità con un'altra persona piú degna, ma che non prendeva nella fantasticheria neppure la determinata apparenza d'uomo; e se Enrico, in quel punto, le si faceva accosto e le rompeva la delizia di quel sogno a occhi aperti, ella gli si rivoltava brusca: - Lasciami stare! - - Finalmente tutto è al posto! - Cristina trasse un sospirone: - Ah! Ed ebbe un capriccio che mise Enrico di buon umore: - Dobbiamo andarvi a sera avanzata, per svegliarci là la mattina dopo, come da un sogno diventato realtà. - Oh, brava! ... Cara! - Erano entrati difilato nella camera da letto, per non perdere l'illusione di destarsi dal loro bel sogno diventato realtà. La lampada di bronzo, come al Rosmarino, diffondeva su ogni cosa la penombra della sua tenera luce azzurrognola. Enrico gongolava. Cristina intanto si cavava lentamente le buccole con le belle manine piene di anelli, e levava via, ad una ad una, le forcine dai capelli, lasciando cascare prima le lunghe trecce nere dei lati, poi quelle della crocchia, gran mazzo fitto serpeggiante sulle spalle, che ella scosse rovesciando indietro superbamente la testa. Al sottile profumo che si diffuse nell'aria, Enrico prese sua moglie in braccio, come una bimba mezza addormentata che la mamma porti a letto; e Cristina, sguizzando con un grido fra le coperte, vi si raggomitolava, da freddolosa, voltandogli le spalle. - Smetti, Enrico. Lasciami dormire; vo' levarmi per tempo -. Egli stette cosí fino al mattino, guardando fisso la palla azzurra della lampada pendente della volta, con l'orecchio intento al leggiero respiro di lei profondamente addormentata. Quasi fosse stata lí sola sola! Quasi egli non si fosse mezzo rovinato per lei, con la pazza prodigalità di quella casa, di quei mobili, e d'ogni altra cosa messale sotto i piedi, per sgabello, pur di averne il ricambio d'un po' di affetto, d'un qualsiasi segno di gradimento! ... E invece! ... Ah! Voleva rimproverarla, appe na svegliata, domani. Ma non osò dirle nulla quando, lasciatisi baciare gli occhi ancora sonnacchiosi, ella si maravigliò, lamentandosi: - Come? Il sole è già alto? ... Oh, Dio che accapacciatura! Forse l'umido della camera ... - Dormigliona ... Ma che! - Nell'aprire, l'uno dopo l'altro, gli scuri di tutte le imposte, egli sorrideva vedendole strizzare gli occhi all'avvampare improvviso del sole che, a traverso i cristalli, accendeva mille allegri riflessi su le pareti, per le volte, su pei mobili nuovi, lucidissimi. E Cristina girava attorno l'altera testa da lo sguardo ghiaccio sotto le sopracciglia un po' aggrottate: - Guarda. Queste stanze paiono vuote ... - Eppure tu hai veduto quanta roba! ... - Si perde nello spazio, non figura. E quel giallo del canapè e delle poltrone! Fa male agli occhi. Quel tavolino là, cosí scompagnato! E queste cornici! Come sono piccine, meschine! - Rimedieremo. A poco a poco. Capisci, abbiamo fatto anche troppo. - E si comincia assai bene con la testa che mi si spacca! - Era tornata a buttarsi sul letto, scontenta, disillusa, rovesciando il proprio cattivo umore addosso al marito, che già trovava giuste le osservazioni di lei: - Infatti, queste stanze paiono vuote. Il giallo della stoffa del canapè e delle poltrone, sí, è troppo arrabbiato! - Enrico ricevette con poca buona grazia la visita della solita faccia smunta e butterata che veniva giusto per fargli il mirallegro ed anche per rammentargli le benedette scadenze che erano già lí lí ... - Auf! Non mi lasciate rifiatare! - Ma, signor avvocato! ... Voi siete una persona intelligente ... E Merluzzo, come lo chiamavano, gettando attorno furbe occhiate di stima, mettendo un prezzo a ogni cosa, per abitudine e per tranquillarsi - non si sapeva mai! - diventava insinuante, dava buoni consigli. - Giudizio, signor avvocato! Economia, economia! Dico bene, signora? - Cristina, che attraversava in quel momento la stanza, non gli rispose, non si voltò nemmeno. - Quel visaccio di marcia mi fa schifo. Pagalo - ella disse al marito. - E che faccia un crocione al nostro uscio -. Enrico la guardò, sbalordito: - Dunque sua moglie non capiva, non aveva mai capito l'enormità del sacrifizio fatto per lei! ... Pagalo! ... Ed egli già provava il capogiro sull'orlo dell'abisso scavatosi con le proprie mani sotto i piedi. Pagalo! ... - Quasi domani colui e gli altri creditori non potessero venire a spogliarlo zitti zitti, e lasciarlo fra le nude mura di quella casa che aveva già inghiottito anche il prezzo dell'altra! Pagalo! ... Pagalo! ... Enrico non trovava piú pace, giorno e notte. La notte poi c'era qualcuno che gli teneva sbarrati gli occhi per non farlo dormire, intanto che Cristina gli russava leggermente al fianco, tutta ritirata in un canto, con le belle braccia seminude stese sul guanciale attorno il capo, in delizioso ab bandono. E quelle giornate come passavano rapide, divorandosi il terribile mese che portava in coda il veleno delle fatali scadenze! - Ah, se non avessi la fierezza di non volere intaccare neppure d'un soldo la dote di lei! ... Ma dovrò arrivarvi, per forza! ... Cosí almeno la casa diverrà sua proprietà; sarà il meno peggio -. Allorché gliene fece motto, Cristina si inalberò, dura, inflessibile - No vo' saperne: no, no! - Perché ti metti in collera? Dico per chiasso -. Gli era mancato il coraggio d'insistere innanzi a quel: "No, no!" cosí recisamente pronunziato; gli era mancato il coraggio di tentar di farle intendere che era pel meglio, per la pace di lei stessa. "No, no!" E se lo sentiva rintronare dentro il cervello, come tanti colpi di mazzuolo. "No, no!" E se lo sentiva picchiare sulla schiena, su tutta la persona, ogni giorno piú, dopo che anche sua madre gli aveva risposto: - Oh, io non voglio entrarci nei vostri pasticci! La roba di tuo padre te la sei presa tutta, fino all'ultimo soldo ... La mia, aspetta che io abbia chiusi gli occhi ... E, per ora, ne ho poca voglia -. E cosí pure lo zio canonico: - Donde vuoi che li cavi i quattrini, se il governo si succhia tutto e c'è il gastigo di Dio sopra le campagne? - Cristina non badava all'insolita taciturnità del marito, a quei profondi sospiri che gli scappavano involontariamente, di tanto in tanto. Si confondeva coi vasi di fiori dei terrazzini che dovevano far bella mostra per la festa di san Michele e per la fiera, quando la processione, con gli stendardi delle confraternite, con la statua del santo su la barella, seguita dalla banda impennacchiata, sarebbe passata lí sotto, all'andata e al ritorno. Avrebbe invitati gli amici, ora che non aveva piú bisogno di scom odarsi per andare a godere la vista della processione in casa altrui. E pensava a pararsi, a lisciarsi, per godersi il fresco a vespro sul terrazzino centrale di quella bella casa nuova che tutti guardavano con invidia, e che attirava l'occhio dei passeggieri appena scendevano dalla corriera davanti la posta, lí di faccia, mentr'ella fingeva di non accorgersene, con quell'aria altiera che strappava l'ammirazione. - È la mano di Dio! - rispondeva inesorabilmente donna Momma a chi le parlava degli imbarazzi del figliuolo. - Non ha ubbidito a sua madre, ha voluto fare di suo capo ... Ben gli stia! - Enrico, a quelle parole, scrollava la testa: - La mano di Dio! - E, pur di far piacere alla sua Cristina, si sarebbe rovinato da capo, a occhi chiusi. Quel maraviglioso corpo di donna insensibile lo teneva ammaliato fortemente; lo riduceva un bambino. Con lei dimenticava subito ogni preoccupazione di interessi, ogni danno: - Oh, quel bronzo finalmente si animerà fra le mie braccia! - La notte però, quando le sue palpebre non volevano chiudersi neppure un momento e Cristina gli dormiva accanto, egli chinava ansiosamente l'orecchio sul petto di lei, scostandone con cautela, adagino adagino, la camicia: - Sí, il cuore batte regolarmente qui sotto ... Ma dunque? ... Ma dunque? E, una notte, un soffio di pazzia gli era passato sul viso: - Se avesse spaccato quel seno caldo e palpitante, per accertarsi che lí sotto c'era un cuore come in tutti gli altri! ... Aveva dovuto levarsi da letto, perché le dita gli si contorcevano. Se fosse restato un altro momentino, avrebbe conficcato in quelle belle carni, rabbiosamente le unghie, simile a una bestia feroce. E si era contentato di baciarle a fior di labbra, e scappar di camera. E, dopo, gli pareva di avere fatto un orribile sogno, e non voleva neppure rammentarselo. - Già, non sto bene. Ho la febbre -. Il dottore, a capo chino, picchiando leggermente con la punta della mazzettina sul pavimento, aspettava che la signora gli facesse qualche domanda mentre l'ammalato, assopito dalla violenza della febbre, con la testa voltata di fianco, le occhiaie livide, la bocca semiaperta sotto i biondi baffi arruffati e rovesciati in giú, respirava forte, sibilando; quasi avesse avuto dentro il petto un viluppo di cose vive che non voleva uscir fuori e gli zufolava ora in alto, nella gola, ora in basso, nello stomaco te so e gonfiante le coperte. La signora non diceva nulla, impassibile, mezza annoiata, si vedeva, di quella malattia che già durava da una settimana e non accennava a diminuire. Poi l'ammalato diè uno scossone, riaperse gli occhi intorbidati e, con le labbra riarse, esclamò: - Cristina - In ogni momento, quegli sguardi stanchi e smorti la cercavano, le si inchiodavano addosso quando l'avevano trovata, la seguivano per la camera in tutti i movimenti, la invocavano supplicanti, rivolti all'uscio donde era uscita, si rianimavano un istante appena la vedevano ricomparire: - Cristina! - Siamo qua, caro avvocato - disse il dottore. E ricominciò le sue osservazioni, tastandogli il polso, saggiando il calore della pelle su le guance e su la fronte, premendogli lo stomaco teso e rimbombante come un tamburo; e scrollava il capo, pensoso, voltando di tratto in tratto gli occhi verso la signora che, seduta da piè del letto, si guardava le belle mani quasi non avesse altro da fare. - Dottore, guaritemi presto ... per lei! - Il dottore gli rispondeva di sí col benevolo sorriso delle persone abituate agli spettacoli tristi. E cosí eran passati altri due giorni, nell'opprimente silenzio di quella camera, rotto soltanto dal fil di voce del malato che chiamava continuamente: - Cristina! - La voleva vicino, per stringerle la mano, per richiederla di un bacio, atteggiando a un bacio le labbra scottanti ... - Sta' tranquillo - gli rispondeva sua moglie. - Bada piuttosto a guarire, per la festa -. Ella pensava alla festa che già rumoreggiava nella piazza, dove rizzavano i palchetti per le bande musicali e piantavano gli ultimi pali per la illuminazione e pei festoni; e su quella fronte altiera e su quelle labbra tumide e sanguigne lampeggiava la grande stizza per la malattia di suo marito, sopraggiunta cosí male a proposito, quasi a posta per contrariarla! Merluzzo stava attorno al dottore, attendendolo a ogni visita giú nel portone, su le spine per le notizie: - Il Signore deve accordare cent'anni di vita a questo galantuomo! Ma se la disgrazia però ... - Una mattina il dottore gli disse: - L'avvocato va male. La signora, non sospetta niente; corro da donna Momma, per sgravio di coscienza -. Quegli allora montò i gradini di marmo a quattro a quattro: - Chiamatemi la signora - disse alla serva. E vedendo che la signora tardava, si era introdotto, in punta di piedi, fino all'uscio della camera del malato. Cristina si rizzò, fulminandolo dall'alto in basso con terribile sguardo. Colui però le accennò con la mano, umilmente, aspettando nell'altra stanza, togliendosi di capo il cappellaccio unto appena la vide venire, sebbene venisse repugnante. Si faceva piccino, le si strisciava dinanzi come un verme, movendo la testa di qua e di là, con occhi obliqui e voce compunta: - In questo momento non bado ai miei interessi ... In caso di disgrazia, sono garantito. Ma non è giusto che il signor avvocato si sia messo allo sbaraglio, con la grande spesa di questa casa per amore di lei; e, all'ultimo, debba venir la suocera ad afferrarla per un braccino e a metterla fuori dell'uscio ... - Cristina tese gli orecchi, fissandolo inquieta: - Ma ... mio marito non sta male. - Per l'altra vita sí, signora mia! - Quel viso bruno impallidí, quelle labbra sanguigne si scolorarono, quasi donna Momma l'avesse già afferrata per un braccino, e stesse per metterla fuori dell'uscio - Che posso fare? - Subitamente dimessa, con una preghiera negli occhi, si era accostata all'uomo dalla faccia smunta e butterata che poco prima le faceva schifo. - Senta, signora mia ... - E lasciò che colui la prendesse per una mano e la trascinasse nell'altra stanza piú appartata dove potevasi ragionare a quattr'occhi. - In caso di disgrazia, meglio aver da fare con costei, che con quel diavolo di donna Momma - pensava Merluzzo. Donna Momma, capitata mentre il notaio e i testimoni scendevano le scale, montò su col sangue alla testa, le lagrime agli occhi: - Come? Mio figlio muore e non me ne fate sapere niente? - E alla vista della nuora che, soddisfatta del testamento, teneva tra le mani una mano del moribondo: - Non te la godrai, no, la sua roba! - si mise a gridare - Enrico, Enrico! Figliuolo mio! - Il disgraziato cercava, con gli occhi che non ci vedevano piú, la figura adorata di sua moglie; e moveva le labbra senza poter piú pronunziare quel nome che doveva essere il suo estremo sospiro. Mineo, giugno 1884@. 1884.

Demetrio Pianelli

663130
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Sebbene la cerimonia non fosse ancora cominciata, già molte testine bionde e nere erano abbassate in un pio raccoglimento, i maschi da una parte, le bambine dall'altra. Arabella colla mamma passò a sinistra. Demetrio coi maschietti e col Berretta a destra, in mezzo alla folla che andava raccogliendosi. Arabella in tutti i suoi passi sentivasi seguita dall'ombra del suo papà. Aveva promesso di offrire tutti i meriti e tutte le indulgenze del Sacramento in sollievo dell'anima sua: ed ora, nel momento che il Signore stava per discendere fino a lei, la povera orfanella avrebbe voluto offrire il cuore in olocausto. Venti ragazzi sulla cantoria intonarono il Salutaris ostia Tutte le testoline raccolte intorno alla Mensa si piegarono avvolte nell'onda mistica di quelle voci bianche. Arabella sola guardava l'altare e pregava, fissa, cogli occhi quasi allucinati. Diceva colla voce del cuore: "Prenditi la mia vita, fammi morire adesso, ma salva l'anima sua" e quasi le pareva di sentire una mano fresca e leggiera posarsi sulla spalla. L'anima era lí dietro, come una persona che aspetta con pazienza. L'organo, dopo aver accompagnato i celebranti col suono ripieno delle sue canne maggiori, attenuò a poco a poco le voci, introdusse suoni teneri e palpitanti di flauto e di voce umana. Globuli d'incenso si svolsero e si colorirono nel raggio obliquo del sole, che traversava lo spazio e andava a risplendere sui marmi colorati del pulpito. Demetrio, intenerito, cercò cogli occhi Arabella per associarsi a lei nei frutti del Sacramento. Dietro la fanciulla vide Beatrice e accanto un'altra signora magra, che riconobbe per la Pardi. Beatrice, col libro delle preghiere aperto nelle mani, colla testa e le larghe spalle diritte, avviluppata anche lei dalla dolce commozione di quelle voci bianche, leggeva, alzando di tanto in tanto le larghe palpebre. Il velo, nelle sue ombre molli e oscure, attenuava un poco la materialità della sua bellezza di provincia, ne alleggeriva un poco la corporatura, la sollevava insomma verso quel che i poeti chiamano l'ideale. Chiudeva il libro, tenendovi dentro l'indice, recitava un gloria colle labbra, abbassando un poco la testa fino a toccare col naso il velluto cremisi della sua Via al Cielo , tornava a rialzare il capo, a riaprire gli occhi sereni e buoni verso l'altare. Che avesse ragione Paolino? La Pardi non stava mai tranquilla, e, piú di una volta, da vero diavolo tentatore, cercò di far ridere Beatrice sul conto di quel bellissimo suo cognato in redingotto. Dio, che bellezza!… Beatrice una volta le fece segno di finirla. La diavolessa s'inginocchiò in terra e si raccolse in una fervida preghiera. Il Signore stava per discendere in mezzo agli innocenti. I ragazzi del coro cominciarono un soave: O sacrum convivium , a sole voci, che richiamò la mente di Demetrio dalle strane divagazioni in cui cominciava a perdersi. Stese in terra il suo fazzoletto di cotone, fresco di bucato, s'inginocchiò e strinse l'anima sua a pensieri piú casti e religiosi. "C'è una grande Provvidenza al di sopra delle nostre tegole, delle nostre miserie e della nostra presunzione, e soltanto chi la nega è indegno di meritarsela. "È questa fede nella forza superiore che sorregge il povero zoppo nel momento che perde il suo bastone, che trae a riva il naufrago nell'atto che la sua barca sta per affondare, che versa la consolazione nella lampada del cuore. "Tu fa il bene per il bene e lascia che Dio aggiusti il conto. Dio è un ricco cassiere che non scappa mai. "Non è l'arte del saper vivere che fa, ma il viver bene, anche sbagliando. "Il bene che tu fai nella buona intenzione e nella carità del prossimo non si perde mai. Se hai speso tutto il tuo denaro per isfamare gli infelici, se ti sei spogliato quasi ignudo per vestire gli orfanelli, se hai asciugato le lagrime della vedova ... ." Demetrio alzò un momento la testa e lanciò un'occhiata ancora a quella donna, che spiccava sopra il fondo marmoreo del pulpito ... "Se hai fatto del bene, ringrazia Dio che ha voluto procurarti le occasioni e t'ha preferito al ricco e al potente. "Non invidiare dunque la fortuna del tuo vicino, salva il tuo credito intatto per l'eternità, e non lasciarti deviare dalle concupiscenze." "Zio Demetrio, è adesso che Arabella diventa un tabernacolo?" chiese Naldo pian pianino con una voce commossa. Arabella aveva nel cuore il suo Signore e se lo teneva ardente e stretto colle mani. Tutto l'essere suo era una fiamma, una soavissima fiamma d'amore, che s'irradiava visibilmente attraverso le rosee carni e alla nebbia del velo. Beatrice sentí gli occhi riempirsi di lagrime, e con quegli occhi lucenti andò a cercare gli altri figliuoli quasi per trarli anch'essi nella dolce comunione degli spiriti. Demetrio, che s'era tolto Naldo in braccio perché potesse vedere piú bene, sentí a quello sguardo correre una scintilla per tutto il corpo, e gli parve che la chiesa si riempisse di fiammelle e di frantumi di vetro. "Che cosa era venuto a dire quel benedetto Paolino?" Nell'uscire di chiesa egli provò una dolce vertigine, come se il profumo di tutti quei fiori lo avesse soavemente inebbriato, o fosse veramente disceso anche in lui uno spirito santo a rischiarare le povere pareti della sua vita interiore. Mamma, figliuoli e amici s'incontrarono di nuovo davanti la chiesa in mezzo al gran bisbiglio della gente che usciva. I bambini saltarono al collo di Arabella, si baciarono, fecero un lieto chiasso. Beatrice col viso ancor fresco di lagrime venne lei per la prima a stendere la mano al cognato e disse qualche parola per avviare la pace, parola che Demetrio non afferrò. "Sí, sí, sí ... " egli seguitava a ripetere, e rideva di quel riso che non esce dalla bocca e par che indurisca le mascelle. Sentiva anche lui una punta come quella d'un bastone schiacciato tra una costola e l'altra. "Sí, sí, sí ... " tornò a dire in seguito a qualche cosa che Beatrice gli domandò e di cui non arrivò ancora a prendere il senso. Quel gran sole di fuori lo abbagliava, lo stordiva; scosse il capo per togliersi d'addosso la vertigine, e gli parve, fra tanti veli bianchi che lo circondavano, di trovarsi perduto in mezzo a una nuvola. Scambiati i saluti e i complimenti coi Grissini, colla Pardi, col Bonfanti, la nostra brigatella, coi ragazzi davanti in crocchio, si avviò verso il centro. Lo zio Demetrio voleva pagare a tutti la colazione al caffè Biffi in Galleria. I ragazzi parlarono tutti insieme (c'era anche Ferruccio) saltando intorno all'Arabella, che col Signore in corpo mandava la contentezza attraverso alla nuvola bianca del suo velo. Demetrio camminava a fianco di Beatrice, distaccato, sui ciottoli, per lasciare tutto il marciapiede a lei; e pareva soltanto occupato a curar le carrozze, che sbucavano da tutte le parti. "Che bella giornata!" disse egli dopo un bel tratto, alzando gli occhi e facendo un mezzo giro sulle gambe. "Bello essere in campagna!" osservò Beatrice. "Proprio davvero ... Guardate alle carrozze!" Camminarono un altro poco in silenzio. Demetrio una volta si specchiò in una vetrina e non si riconobbe subito. Non era abituato a portare il cilindro e a far da cavalier servente a una bella signora. Beatrice osservò per conto suo che la cerimonia non poteva essere piú commovente, che pareva un giardino la chiesa. "Proprio davvero!" esclamò Demetrio, mentre si domandava in cuor suo se non era il momento di buttar fuori il nome di Paolino e di tirare il discorso sul famoso argomento; ma appunto in quel momento uscí una carrozza da una delle vie laterali e lo zio corse a prendere Naldo. Beatrice si trovò a fianco di Arabella, che si attaccò al braccio della sua bella mammetta. "Ho pregato tanto anche per te, mamma." "Brava." In quel benedetto crocevia della piazza del Duomo, da dove si irradiano gli omnibus e i tram, lo zio prese per mano anche Mario e gridò alle donne: attente alle carrozze! Pareva il capitano che salva la nave dagli scogli, e gli deve esser passata questa idea nella mente. Entrarono nella Galleria. Non c'era molta gente in quell'ora mattutina — lo zio osservò che l'orologio in cima all'arco segnava le otto e mezzo. — Il bel mosaico del pavimento, quasi sgombro, spiccava in tutta la nitidezza de' suoi marmi e de' suoi arabeschi nel chiaro riverbero che il cupolone di vetro, tocco dal sole, sbatteva nel vasto ambiente, sui cristalli dei negozi, sui globi, sugli ori delle ditte, sugli stucchi delle pareti liscie come specchi, su tutto ciò che poteva prendere e rimandare la luce in un giuoco di luci. Una fresca arietta volava attraverso ai bracci dell'edificio, che pulito e splendido, si preparava a una nuova giornata della sua vita rumorosa ed elegante. Beatrice, che da molti mesi non poneva il piede in quel magnifico salone pubblico, sollevò con un sospiro un monte di meste ricordanze, ma si lasciò subito prendere dalla curiosità delle belle botteghe, dove brillavano i gioielli, le porcellane, i ventagli, gli specchi e le avrebbe fatte passar tutte, se i ragazzi non avessero reclamato. Oltre la fame, Demetrio voleva esser all'ufficio per le nove. Entrarono subito al Biffi che rimesso a fresco da poco tempo con stucchi nuovi, specchi nuovi, velluti nuovi, pareva un pezzo di paradiso. Sedettero a un tavolino presso uno dei grandi cristalli che dànno sull'ottagono, da dove si può vedere il vasto piazzale pubblico, con tutte le botteghe in giro, con sopra la tazza immensa e trasparente della cupola, un vero barbaglio per chi ci va una volta tanto. Beatrice si rimirò subito nello specchio di fronte, badò a sedersi bene, lieta in cuor suo — senza dirlo a sé stessa — perché i camerieri s'erano voltati tutti al suo entrare. Al Biffi era venuta l'ultima volta col povero Cesarino la vigilia di Natale, ma s'era angustiata per un ufficiale di cavalleria, che non aveva mai cessato di fissarla come se avesse voluto bruciarla cogli occhi. Cesarino finí coll'accorgersene e nel tornare a casa l'aveva fatta piangere. "Pren ... prendete un caffè e latte?" domandò Demetrio, guardando in terra. "Un caffè e panna, volentieri" rispose Beatrice. "Allora, uno, due, tre, quattro, cinque e sei caffè e panna," disse al cameriere, contando col dito teso gl'invitati, "del pane e quattro paste ... ." E sedette in faccia a Beatrice, senza accorgersi che tre o quattro camerieri in fondo alla sala sbirciavano, ridendo sotto i bei baffi, il redingotto e il cilindro ancor nuovo fiammante. Mentre si aspettava, lo zio, che aveva il cuore contento, prese un'orecchia di Naldo tra le dita e la tirò. Poi si voltò a guardar fisso in faccia all'Arabella, come se pretendesse una risposta a una domanda che non aveva fatto. Guardò in alto il cupolone, e una volta l'orologio del caffè che confrontò col suo: quella donna la vedeva in ombra davanti, la sentiva presente, la pensava, ma non avrebbe osato guardarla per paura ... Paura di che? Lo sa Dio ... Finalmente arrivò un gran vassoio pieno di chicchere, di panetti, di paste dolci e lo zio ebbe a occuparsi a distribuire, a versare, a far le parti giuste. A Beatrice offrí una bella veneziana fresca e siccome essa esitava ad accettare: "Andiamo, andiamo," disse con una certa furia screanzata, "che sciocchezze!" E nel dir queste parole sentí di nuovo una vampa di fuoco pigliargli il corpo, salire al collo, alle orecchie, alla radice dei capelli. Per fortuna capitò che Ferruccio lasciasse cadere un cornetto intero di pane nella chicchera. Ciò sollevò l'ilarità di tutti, anche di Beatrice, anche del sor Demetrio, e il tempo passò presto. Invece di chiamare il cameriere, il signor zio andò al banco a pagare, cosa che non si usa piú in un caffè rispettabile, e serví anche questo a divertire quei bravi giovinotti. "Bisogna che io me ne vada ... finite con comodo" tornò a dire. "Ci rivedremo piú tardi, stasera ... ." I ragazzi gridarono: "Riverisco, zio, riverisco ... grazie." Egli uscí in fretta in fretta, senza capire ciò che gli diceva la cognata. Aveva bisogno d'aria ... Passò davanti al cristallo, guardò nel caffè, vide un gruppo di gente, ma vide annebbiato, salutò colla mano, e col suo passo di bifolco che cammina nel molle, traversò verso Santa Margherita, portato come un pezzo di legno galleggiante dalla corrente dell'antica abitudine, non piú chiaro a sé stesso di quel che sia un pezzo di legno. Una sola parola con un senso umano, uscí da quel garbuglio di sentimenti che egli portò all'ufficio, e prese nel fondo del suo silenzio la cadenza di un bastone che picchia addosso a un sacco di cenci. Questa parola, ch'egli ripeté cento volte nel breve tratto di strada fino alla porta del Demanio, era il nome del suo migliore amico: Ah, Paolino! Ah, Paolino!

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

663946
Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Essa era gelosa di ogni fiacre, che passava opaco con le cortine abbassate. Sentendo l'acciottolio nel tinello della palazzina prospiciente, essa si rodeva, che l'amato baroncino si rimpinzasse di cibi afrodisiaci o restauratori per altra donna. Gli avvisi amorosi nella quarta pagina dei giornali le parevano diretti da sue rivali a lui, o da lui ad altre amanti: " Atalà ... Sono la tua poesia ... * Chérie Prima di partire inebbriato dalla tua presenza ... * Reseda ... I miei pensieri, il mio cuore e l'anima mia sono e saranno sempre teco ... * Queen Ti rivelasti fervida amante. Sarei felice essere sempre tuo schiavo, Regina mia ... Ti abbraccio e ti copro tutta tutta di baci dal capo ai piedini ... " . E se quelle parole fossero proprio dirette da Lui a Lei ... Oh vano sogno! Al contrario di Orlando ed Angelica, pareva che egli avesse bevuto alla fonte dell'odio, ed ella alla fontana dell'amore ... In un momento di supremo disgusto disperante e di suprema gelosia vendicativa essa dal balconcino vide passare e ripassare Lionello Orseolo, e la invase un capriccio fulmineo detronizzatore. * Dio, come è bello! Pare Garibaldi. Pare Gesù. E ritraendo il capo con una strizzata d'occhi gli fece l'invito della cortigiana. Egli salì. Dopo il congresso, gli occhi di Orseolo Lionello brillarono di acciaio come occhi di banchiere; pareva che una nube fosca fosse discesa sopra il suo splendore d'arcangelo. Egli domandò rudemente: * Dammi il resto della sterlina ... La Contessa Nerina dapprima sorrise, come di uno scherzo, non riuscendo neppure ad immaginare di quale sterlina si trattasse. Ma dovette presto atterrirsi, scorgendo una violenza chiusa, inesorabile, nella insistente pretesa menzognera. * Via, presto; ché non ho tempo da perdere ... Fuori almeno un marenghino; ché non vorrai stimarti più di uno scudo ... E fece il gesto rapido di frugarle le calze. Essa non meno rapidamente fu sul balcone per gridare soccorso; ma egli la prevenne gridando: * Guardie! guardie! Mi hanno rubato. Immediatamente comparvero le guardie Squinci e Quindi con il delegato di Pubblica Sicurezza avv. Lupastri, il quale correttamente spiegò, come spettava all'Autorità Governativa, regolare il prezzo della Prostituzione, secondo la R. tariffa fissata ed estensibile in ogni luogo di regolare esercizio. Quindi osservava con vista di rammarico, che la signora non era in grado di esibire la patente di Venere Mercenaria, per cui occorreva la investitura del magistrato particolarmente adibito. Egli era pertanto nella spiacevole necessità di ordinarne l'arresto, per regolarizzare la situazione. Nerina ebbe un lampo di offrire per il suo scampo un tesoro di gioie, di monete e di titoli, e il tesoro corporale di se stessa. Fra tre non potevano compromettersi in quel dividendo; e tacitamente il delegato e le due guardie si accordavano nella speranza di maggiore mancia, eseguendo il regolamento. La vettura era da basso, che aspettava. Nerina, affacciatasi all'uscita, volle arringare un capannello di popolo formatosi. Ma la plebe già indettata dalle guardie, credeva che la contessa sgualdrina avesse persino arraffato l'orologio al bel marinaio, e tenesse un monte di refurtiva, onde adoperando la fantasia rabbiosa, che aveva mandato in croce Gesù ed osannato a Barabba, urlò: * Al bordello la putta; in prigione la ladra! Spinta nella vettura di cui si calarono le tendine, essa si sentì condotta irremissibilmente a un trabocchetto d'infamia, mentre una raffica di fischi soffiava al suo indirizzo, frammisti ad applausi per la brillante operazione della Questura. Al rullo della vettura essa provava una sensazione vertiginosa più che nel saliscendi delle montagne russe al gioco del Taboga. Era il ricorso della sua vita ascendente, che ora precipitava, precipitava ... Le era mancata la madre, mentre la metteva alla vita. Come a una reliquia viva della defunta, il babbo le aveva tosto data una custodia di adorazione. Quel padre gigante selvaggio nel commercio venne addomesticato dal sentimento vedovile e paterno, reso balocco dei capricci di una bambina. Quindi Nerina potè spadroneggiare presto a suo talento nei capricci di conquiste fatte e lasciate lestamente senza fine con voglie indomite e sprezzi superbi. Oh il brulichio delle sue conquiste! Non ha tante margherite un prato di maggio; non ha tante lucciole la danza notturna dell'aria sul finire di giugno! ... Dapprima conquiste di studenti e commessi di negozio ... poi una ascensione sterminata nelle conquiste: ufficiali di cavalleria, dei bersaglieri, di artiglieria ed anche del Genio; dottori in ambe leggi e in lettere e filosofia; quindi eroi, deputati, illustrazioni europee, diplomatici, principi, e più in su frati splendidi come vescovi greci nel Convento delle Meteore, dove in una celebrazione sacrilega le parve di avvicinarsi maggiormente a Dio assai più che nell'udienza del Santo Padre Pio IX ... Dalla cima il faut descendre ... Eccola scivolata con un tonfo e uno spruzzo di Paradiso nel purgatorio di Terra Santa, nelle acque del Giordano. Così detersa, perché non si contaminasse più, venne avviluppata nel rifugio del Santo Oblio. Ma succede un nuovo diluvio, una nuova dispersione delle genti ... Ed essa ora discende, discende all'ultima perdizione. Dal rullo si sente scendere anche la vettura chiusa, dove la Contessa Nerina, come una prigioniera delinquente, aveva a lato il delegato e di fronte le due guardie di Pubblica Sicurezza. Mentre essa percorre con la mente profonda gli stadii della sua vita, si sente palpare oscenamente dal delegato Lupastri, a cui essa schizza negli occhi uno sputo di saliva accecante; e balza per rompere gli sportelli e lanciare ancora uno strillo di soccorso. Ma le due guardie Squinci e Quindi superiormente coadiuvate dal delegato Lupastri sono pronte ad imbavagliarla ed ammanettarla. Allora Nerina nell'anima sua corrotta provò le sensazioni verginali della martire Lucia Mondella rapita e trascinata al Castello dell'Innominato. Si sentì la vettura entrare nello scuro di un androne; e dopo l'entrata serrarsi immediatamente il portone; che parve a Nerina il finimondo, come al conte Ugolino, quando si sentì chiavar l'uscio di sotto all'orribile torre . L'istituto, a cui era tradotta Nerina, si chiamava appunto delle Chiavi d'Oro. Per una stretta scala marmorea dalle maniglie dorate e dai cordoni serici essa venne tratta e spinta su, mentre facevano capolino le numerose sacerdotesse di Venere vendereccia e patentata nelle loro bianche stole trinate, gigli ironici, da cui uscivano a grand'agio i garofani carnicini e le rose spudorate della loro bellezza prostituita. Vennero tutte assembrate nella sala maggiore, che si chiamava scherzosamente la sala del trono, per il ricevimento. La maggior parte, e più di tutte la Vacca borghina , che portava la pancia come un tamburo, esprimevano col sorriso curioso ed attento un saluto di contentezza diabolica: " Ah ci sei anche tu finalmente con noi, e starai come noi, tu che facevi liberamente la signora, rubandoci il mestiere!" Agli occhi spauriti, alle orecchie ronzanti di Nerina, in quel salone soffice, imbottito, come una cabina di bastimento, illuminato a gas di mezzogiorno parve che una voce telepatica, la voce di Spirito Losati fantasma masticasse versi infernali di Dante: terribile stita ... cruda e tristissima copia ... genti nude ... Quando essa fu liberata dal bavaglio e dalle manette, si slanciò come una tigre contro la pancia petulante della Vacca borghina . Ma allo strillo di campanello scosso dalla vecchia mammana Veronica Gibus, spulezzarono tutte le sacerdotesse, chiudendo gli usci a chiave, e con loro si erano allontanati il delegato e le due guardie di Pubblica Sicurezza, a cui pareva di avere già fatto abbastanza per meritarsi la più grossa mancia. Rimasero sole testa a testa Nerina e la direttrice Veronica Gibus, in quella sala detta del trono , perché sei cuscini sovrapposti al centro nel lato superiore del canapè, che dintornava tutte le pareti, formavano un divano da gran turco e da grande odalisca. Veronica Gibus era la maestra ostetrica smessa, che, quando era giovane allieva, era stata cacciata nel letto con un pugno scherzoso del celebre professore, e poi finite le grazie, ne era stata scacciata con un calcio iroso. Squadrandola tutta, quanta era lercia, la contessa Nerina disse: * Non voglio sporcarmi le unghie nelle vostre carni. Andatevene anche voi. Veronica, che teneva il mazzo di tutte le chiavi a cintola si ritrasse, lanciandole uno sguardo di sicuro predominio. Vistasi perfettamente sola, Nerina con un impeto di allegria trionfatrice volle dare un terribile cozzo del capo nella parete, su cui la mente confusa, rintronata sentì soltanto una mollezza recipiente; ché tutta quella sala dagli spessi tappeti all'alto divano era un batuffolo di bambagia cucita, per evitare i suicidii delle teste sventate, e perché ogni rincorsa di maschio o capitombolo di femmina s'affondasse in un nido elastico. Disperata di morire, Nerina pianse per quattordici ore di seguito. In quel diluvio di lacrime, le comparve l'iride di Gibigianna, già sua compagna al Santo Oblio ed ora coscritta come lei in quella Compagnia della Morte Morale. L'influsso fisiologico della presenza vagola e scherzosa di Gibigianna avviò Nerina agli adattamenti e agli accomodamenti della situazione. Pel digiuno fisico essa presentì quasi l'ebbrezza di toccare sino al fondo della miseria nella immoralità umana. Dall'orrore fetente dell'Imbrecciata di Napoli, riconobbe, che senza mutare mestiere il vizio umano saliva alle lenzuola profumate d'ireos. Gibigianna, che le portò dinnanzi un assortimento di pepli e velarii, in cui essa poteva apparire come una Dea tra le nubi, una imperatrice Semiramide o una regina Cleopatra sul trono; quindi una bottiglia di Sciampagna sturata opportunamente da Veronica, compirono nella ilarità vaporosa un miracolo di ultima ed unica seduzione sopra di lei, se miracoli si danno e si possono chiamare in quell'inferno di preteso paradiso. Anzi quella infima dedizione parve una concatenazione finale alla logica della sua vita capricciosa, per cui essa si era fatta una morale fuori delle leggi sociali; cessando d'andare in chiesa si era fatto un Dio naturale fuori delle leggi ecclesiastiche, e si era fatta da lei stessa tutta la legge col suo libito, al pari della prelodata Semiramide. La nuovissima colpa le diveniva un diritto dell'anima. Ed essa non avrebbe ritardato a soddisfarlo in foggia di Semiramide, se non l'avessero colta coliche nefritiche, per cui la morfinomane Veronica Gibus le fece numerose iniezioni di morfina, che le resero più ardente l'eccitazione psichica. Ma nella sua prudenza di pratica nosocomiale la mammana ritardò a mettere in commercio la straordinaria recluta, di cui l'aspettazione cresceva il valore nella cupida clientela! Nerina ebbe una nuova, ma più lieve, crisi di pianto, durante la quale le parve di sentire Spirito Losati, che intonava fantastico rimprovero: Lugete Veneres Cupidinesque , e terminava con il dire di lei consacrantesi all'erotismo venale ciò che Dante disse di Ifigenia diversamente sacrificata: Pianse Ifigenia il suo bel volto E fe' pianger di sé i folli e i savi. Ma che pianto! che pianto! Nerina esce dal lavacro delle coliche più purgata che dalle acque del Giordano. È una fiamma di Salamandra, di cui si dichiarano entusiasti, ammirati come d'una ottava meraviglia del mondo, i due primi avventori, due giovani ufficiali del Corpo Reali Equipaggi, che pur erano due portenti di bellezza bellicosa. A quella reclame fioccarono gli altri avventori. Notevoli i poeti liceali, che cercano con interrogazioni affaticanti il filo del romanzo di ogni sgualdrina, fucinando inani propositi di riabilitazione. Nel deriderne l'inesperienza Nerina avvisò quanto fosse vera l'avvertenza del Professore avv. Gioiazza riferitale dal farmacista letterato Evasio Frappa in proposito dell'iscrizione di vergini fra le prostitute: che il postribolo diviene la più attiva scuola di educazione sessuale vagheggiata da un Congresso femminile: " Sexual-Erklärung" come vuole la pedagogia tedesca di gran moda. Poco per volta nella plasticità dell'ambiente la Casa di Tolleranza detta delle Chiavi d'Oro le diventa il più bel Castello d'amore per una Marca Amorosa. Le etaire, essa ricorda, secondo il poeta neo-greco, sono infine fiori che stanno schiusi tutta la notte. Vi sono fanciulle, come tralci di vite e di glicene, che si prolungano domandando qualche cosa da abbracciare, e se non trovano nulla a cui appigliarsi disseccano nel vuoto dell'aria tentata. Ad esse provvede esuberantemente l'istituto, secondo la consumata filosofia dei Capricci di Nerina, la quale nell'erudizione rimastale dalla gran vita, nonostante il poco studio, sentiva di comprendere allora perfettamente il forte e grazioso pittore vercellese Giovan-Antonio Bazzi detto il Sodoma. Questi cominciava a disegnare le donne nude per dare loro giusta movenza, prima di vestirle dei suoi stupendi colori. E quale lezione diede il Sodoma ai calunniatori di lui e delle meretrici! Egli, calunniato dal Vasari di aver dipinto disonestamente un ballo di femmine ignude, ritrasse Fiorenzo prete che in ispreto di S. Benedetto conduceva intorno al costui monastero una teoria di meretrici a cantare e ballare per la tentazione dei padri votati alla castità. Ebbene nel bel affresco idealmente dipinto, eccettuata l'unica ballerina velata assai leggermente ma di leggiadria perdonabile, se non impeccabile, si scambierebbe quell'accolta di femmine per un corteo di principesse, o per un concilio di severe matrone, tant'è con la soavità dei volti, la compostezza degli abiti e delle attitudini. Secondo Nerina oramai incapriccita, estasiata della sua ultima parte, il decoro delle meretrici ha molto da insegnare alle scollacciature dei balli di corte, dove senza imprecazioni di predicatori o di altri moralisti professionali si mostrano brulli i promontorii dei petti ed i canali delle schiene femminili. Nerina sogna addirittura di pontificare, presiedendo ad una accademia del nudo artistico esuberante nella Scuola veneziana dal Giorgione a Paolo Veronese, che indiarono pittoricamente le cortigiane. Gli ipocriti dell'Italia ufficiale e convenzionale non possono certo scandalezzarsi, se riferiamo questi quadri e queste fantasie moralizzanti di nudo orrore, mentre i beniamini delle gonfiature scimmiesche o cointeressate non sanno più modellare un nichelino da venti centesimi, una medaglietta commemorativa di poeta iracondo, o la targhetta pel giubileo di un giornale della democrazia educativa senza stiaffare le natiche od altre indecenze muliebri. Il concettoso pittore di genere Franco Massi, bel profilo, sebbene un po' schiacciato e assai uncinante era habitué delle Chiavi d'Oro. Rincasava pentito ed imprecava sul diario alle donne usuraie del piacere, serbatoi di malattie, ghigne da schiaffi. Ma vi ritornava, con la scusa di andare dal vero per il suo quadro " Tue-la " . La romanesca Lucrezia, sentito che egli preparava un quadro intitolato " Ammazzala" non gli risparmiò il complimento: * Che possa te morì ammazzato! In grazia del Governo Italiano, il principe russo per cinque lire possedette ciò che era disposto soltanto ad ammirare per tremila lire. Si vociferò che una notte allo stesso economico serraglio delle Chiavi d'Oro accedesse in imperfetto incognito un prosaico futuro Presidente del Consiglio, cui il barone di Sapri superbamente rimproverava di non avere mai avuto per amante una duchessa. Non mancarono altri visitatori eterocliti. Non ostante il travestimento da originario bifolco, venne riconosciuto per la chierica male spersa tra i fumi della incipiente calvizie un arciprete di montagna che pareva portasse sulla fronte corna stizzose di luce diabolica. Tra gli straordinarii clienti non passò inosservato, sebbene camuffato da comico Truffaldino sbarbatello, il famigerato teologo Don Gregorio Barsizza, polemista clericale con istinti da accoltellatore, il quale aveva dovuto lasciar partire per Alessandria d'Egitto due rovinate figlie di banchiere, a cui tirava i conti; e non gli era parso sufficiente sfogo la diatriba contro il Governo bancarottiere, " ruffian, baratti e simili lordure." Artisticamente più umano che lo stesso pittore Franco Massi si mostrava il minore osservante, padre Equoreo, splendido come un sacerdote d'Apollo, dalla voce di tenore paradisiaco. Il popolo imparadisato dalla sua voce in chiesa gli risparmia le bajate, che prodiga ai frati sorpresi ad entrare in un bordello. Ed egli di facile contentatura dichiara di preferire le cortigiane di professione alle devote ammiratrici, che lo seccano a farlo cantare, mentre non c'è caso di siffatte pretese alle Chiavi d'Oro. Non l'avesse mai detto! Ché Nerina si impuntò ed ottenne di fargli vociare il più serafico pange lingua mentre essa lo accompagnava al pianoforte dai tasti frusti per le più oscene danze. Fu certo il più sacrilego dei suoi Capricci per pianoforte. Ciò suscitò uno scandalo enorme, che ebbe una ripercussione di terremoto anche alla Congregazione dei Riti a Roma. Si minacciò la scomunica, che ebbe termine nella Missione di padre Equoreo alle tribù più selvaggie dell'Africa equatoriale. I cannibali del Congo saranno convertiti dalla voce di paradiso; e si spande al maximum la voga per le carni delle Chiavi d'Oro. Si verifica la osservazione sociale sonettata da Renato Fucini. Quale è il segreto di un giovinastro ozioso gaudente e strafottente? Il padre strozzino e la madre padrona di un casino. Che più? Allargandosi la reclame dello scandalo di padre Equoreo con la contessa Nerina, si fa codazzo per entrare al bordello delle Chiavi d'Oro, come si fece al primo postribolo ufficiale apertosi dopo la breccia di Porta Pia in Roma, che già tanti ne possedeva privatamente quasi beati agli occhi semichiusi del Buon Governo, la cui massima era lasciar fare il santo commodaccio. Anche a Genova, sotto la protezione delle Guardie di Pubblica Sicurezza occorse regolare l'entrata e l'uscita con il tornio orizzontale (turniquet) come all'ingresso di un'Esposizione di Belle Arti di Gran Successo, o allo sportello della Banca Nazionale, quando preme la riscossione delle cedole. Il Questore ne fu impensierito; ed il Ministero dell'Interno, senza i voluti riguardi a un deputato, che da un anno non frequentava più la Camera, e a un commendatore della Corona d'Italia e dei Santi Maurizio e Lazzaro, che oramai abbondava nell'Obolo a San Pietro, acconsentì il trasferimento di Nerina De Ritz-Vispi dalle Chiavi d'Oro di Genova alla Casa di tolleranza di 1a categoria esercita da Mistriss Dell a Torino in via Bellosguardo. * * * Quivi Nerina, che alle Chiavi d'Oro aveva già ritrovata Gibigianna, ritrovò Bimblana, la Regina delle Gambe Fiorina Lucy, e quasi tutte le compagne del Santo Oblio, con questa differenza, che il Regio Governo le aveva disperse da quel ritiro religioso, ed ora le tiene costrette alla prostituzione profana. Di vero la norma civile per l'aggregazione di una fanciulla al postribolo concede anche riguardo all'età maggiori facilitazioni che per l'ammissione al matrimonio; ma quando le fanciulle sono attruppate alla Mala Vita, autorizza ostacoli quasi insormontabili, per il revocare gradus e ritrarsene. Tale è il debito spropositato, quasi insolvibile, che ogni padrone si affretta ad accollare su quei vivi strumenti di piacere, merce garantita dal Governo. Profittando del divieto di uscire imposto alle sue schiave, il padrone loro fa pagare al doppio ed anche al triplo del giusto valore il vitto e il vestiario. Così sulle traviate infeudate si accende un'ipoteca personale e pressoché inestinguibile, con la quale sono cedute dall'uno all'altro stabilimento: né si possono redimere senza una garanzia, che l'autorità cointeressata non giudica mai sufficiente. Nello stabilimento di Mistriss Dell, durante il soggiorno di Nerina, atteso il rigido contegno della gente subalpina, fra cui per eccezione stranissima era nata quella Dea dei Capricci, non vi fu la ressa spettacolosa della città marinara. Per converso occorse un caso di isolamento straordinario. Capita a Torino l'eroe garibaldino generale Rinaldo Fromboliè, il quale, facendo valorosamente tutte le campagne del Risorgimento italiano, aveva pure trovato tempo di combattere strenuamente i beduini in Algeria colla Legione Straniera, insegnar sapientemente matematica e tattica in una Scuola Militare di Londra e segnalarsi brillantemente in un corpo di spedizione all'Indostan. Ora egli, che nella sua anima complessa contiene la semplicità omerica dell'eroe garibaldino, e le tendenze sfarzose di un Nababbo e di un Rajà, è venuto appunto a Torino per festeggiare in un ricevimento olimpico alcuni suoi commilitoni ufficiali inglesi reduci di passaggio con la Valigia delle Indie. Strappatili alla corsa utilitaria della Valigia, li convita splendidamente al primario Albergo d'Europa , e poi offre loro un trattenimento di sciampagna ecc. nel Casino di Mistriss Dell, maison de jouissance da disgradarne tutti i serragli Orientali. Per ciò egli ebbe cura di affittare durante una notte l'intiero Istituto esclusivamente per sé e per i suoi convitati. Ne protestò un manipolo di studenti, che bussando per farsi aprire gridavano falsamente i nomi del Rettore dell'Università, del preside della facoltà di leggi e di un professore di geodesia. Le guardie li avrebbero irritati maggiormente, se non avessero loro fatto sentire, che la cittadella era occupata da un eroe garibaldino. Allora essi si ritirarono quetamente in omaggio alla epopea nazionale. Nel salone cosidetto di onore, scintillante come un negozio di cristalleria per i lunghi e fitti calici dello Champagne, il generale Rinaldo Fromboliè, che aveva un profilo grifagno da Giulio Cesare e Napoleone I barbuto presentò gli avvampanti spadoni della sua comitiva inglese a quella Corte d'amore italiana, ma ad un tratto interruppe la sua galante eloquenza fissando Nerina, e mettendo nella fissazione la ferocia acuta, che lo rendeva terribile, quando comandava una batteria o spronava il cavallo sui campi di battaglia. In illis temporibus egli pure si era innamorato di tota Nerina e della Contessa De Ritz; e se glie ne fosse rimasto tempo, avrebbe voluto conquistarla in un torneo di paladini, o in un agguato brigantesco, con dieci duelli mortali o con una spedizione di Giasone o di Garibaldi. Ma averla a vil prezzo. No! mai. Con voce tonante egli ordinò: * Sia allontanata quella Signora! * E solo dopo che fu assicurato della sua reclusione, egli diede il là all'orgia: durante la quale però gli rimase una nube pensierosa: * Perché non accorre un padre, un marito, un amante, a deportarla o meglio ad ammazzarla quella sciagurata? Come sulla tela del pittore Franco Massi, così sull'anima del generale Rinaldo Fromboliè freme il precetto di Alessandro Dumas figlio: Tue-la. * * * Quale correttivo dell'orgia indo-anglo-italiana, avvenne poco dopo nella Casa di Tolleranza riaperta al pubblico una visita di inchiesta morale scientifica volontaria. Miss Giuditta Butler, che aveva a sua disposizione le colonne fulminanti del Times , aveva ottenuto dall'arreso Governo Italiano il salvacondotto privilegiato di man forte della Pubblica Sicurezza per ispezionare tutti gli istituti di educazione ed esercitazione meretricia del bello italo regno raccogliendo i dati con cui compilare il suo onorifico edificante libro dedicato a Guglielmo Gladstone ed intitolato: Una nuova negazione di Dio, ossia la prostituzione italiana. Serrata nella sua amazzone, scintillante come acciaio nero, coi capelli mozzi, il naso adunco, su cui posavasi mezzo metro di lorgnetta, appariva la caricatura finale di Lady Morgan fatta da Angelo Brofferio nel Salvator Rosa. L'inglese apostola di redenzione delle schiave bianche si faceva accompagnare da un giovane Ercole Italiano, il dottor tosco lombardo Sebastiano Fini, il più virtuoso apostolo italiano per la cura degli scrofolosi, dei pellagrosi, delle deficienti e per la salvezza delle traviate, egregio scienziato, agitatore ed organizzatore, che la Massoneria nelle sue migliori parti umane e la stessa Reale Commissione per lo studio delle questioni relative alla prostituzione e ai provvedimenti morali ed igienici dovevano piangere presto immaturamente rapito alle lotte pel bene pubblico. Quando Nerina mortificata e meditabonda per la reiezione inflittale dal generale Fromboliè affisò il torso membruto del giovane dottore tosco lombardo, le parve inverosimile la tesi da lui sostenuta che l'uomo debba conservarsi immacolato al pari della donna prima delle iuxtae nuptiae , e scandolezzata, come un giornale delle pantoffole, avrebbe voluto scagliarsi contra " questa specie di quacquerismo malsano e vizioso sotto la sua veste di morbosa austerità." Maledicendo si direbbe condannasse quel torso erculeo a piegare e svanire come un gracile fiore. Invece sotto gli sguardi indagatori e correttori di Miss Butler si sentì dessa condannata. Le parve, che nella amazzone, nella spinter inglese, che da femmina si era trasformata in terzo sesso, in sesso neutro, e diventerà suffragetta rivendicatrice del suffragio politico e amministrativo alle donne per attuare le riforme giuste, morali, sante, di cui gli uomini si mostrarono e si mostrano incapaci, le parve che si fosse trasfigurata Suor Crocifissa. Poi Nerina diede un grido di verace riconoscimento. Essa riconobbe nella odierna sacerdotale visitatrice l'inglesina, con cui si era incontrata visitando per curiosità viaggiatrice la turpe, orrenda Imbrecciata di San Francisco a Napoli. Ora la miss dallo spettacolo dell'infamia di Napoli si era elevata a missione redentrice; era divenuta la più alta colonna della Society for the suppression of the vice ; invece essa Nerina era sprofondata nell'abisso dei corpi di reato, che si studiano dai laboratorii di scienza sociale. Nerina non poté più oltre resistere all'ispezione, e si involò nella più alta stanzuccia. L'erculeo dott. Sebastiano Fini, scotendo amaramente la nera testa da Sansone, sentenziò: * Quella superba degenerata non resiste più alla grave caduta. Essa è precipitata qui solo per una effrazione plumbea delle ali. Quantunque egli sostenesse la morale assolutista, semplicista dell'astensione assoluta dai piaceri venerei prima del matrimonio sia per le femmine, sia per i maschi, cionondimeno guidato dalla malleabilità dell'ingegno italiano ammetteva, che oltre i tipi refrattarii, vi erano tipi muliebri, che ingrassavano nell'ambiente meretricio, come nella loro beva. Egli aveva rimarcato un tipo speciale di vocazione sessuale mercenaria: mostaccino tondo, tendenza generale alla sfericità, assenza di affettività reale, pretese filodrammatiche, felicità nello sgarbo, che fa soffrire i gentili, inesorabilità nel far pagare a un povero studente il doppio per un bacio, o come dicono mercantilmente, per un passaggio replicato. Alcune chiamate invano da questa vocazione, restano rovina crudele e beffarda delle famiglie popolane, borghesi e patrizie, ed invece molte creature di finezza femminile, che sarebbero dolcezza e sostegno della propria famiglia, vengono trascinate dal vortice della Venere vaga. Miss Butler, che al becco, al lucco pareva dantesca, correggeva il suo giovane Sansone, predicando che non ci doveva essere vocazione per nessun briciolo di umanità al male; tanto esso è orribile. E traeva la filosofia dall'Inferno di Dante per l'ispezione, a cui aveva voluto compagno il giovane dottore tosco lombardo: Per lui campare non c'era altra via che questa per la quale mi son messa . Mostrato ho lui tutta la gente ria. E questa è pure la ragione morale del presente romanzo verista. * * * Verso il tocco pomeridiano nel tempo della canicola pesava un'afa così plumbea sulla via Bellosguardo, che neppure i cani randagii si attentavano a percorrerla. Soltanto l'arditissimo esploratore africano Gelsomino Mauroceni, che abitava dirimpetto all'istituto di Mistriss Dell scommetteva con la propria jattanza di compire la traversata in mutande. Ma mentre egli spiava dalle stecche mobili delle persiane, la vista di un veglio tragicamente biblico lo fece ritrarre dalla buffa baldanza. Era il commendatore Atanasio Vispi, padre di Nerina. Avuta certezza, anche per le sparate del generale Fromboliè, che la figlia sua era piombata e si batteva in quel fango, egli si recò a consultare l'avvocato Gioiazza per una necessaria definitiva liberazione. Pur di sottrarla dall'ignominia della città natia, egli avrebbe accompagnata la sua Nerina anche all'inferno. L'avv. prof. Gioiazza, facendo la faccia più severamente compunta, gli spiegò, come nel diritto italiano né patria potestà, né potestà maritale valevano contro il Regolamento privilegiato della Prostituzione. Allora la mente poco colta, ma tuttavia robusta del droghiere emerito, concepì in embrione, senza che sapesse spiegarlo, un giudizio di Dio. Quando manca o si guasta la legge umana, resta la vendetta della Natura, che è ministra, figlia, esponente di Dio. E nella creazione un padre è investito dei diritti della Natura, è investito del vero diritto divino. Così egli votavasi al Dio della vendetta, mentre la figlia sua gemente ritrovava il Dio del dolore e dell'abbandono. Attratto dal titolo, il comm. Vispi aveva comperato sopra un bancherottolo la Vendetta paterna , romanzo di Francesco Domenico Guerrazzi. Ma si accorse che non era punto il caso suo. Si trattava in quel romanzo storico di una maledizione divina, che aveva perseguitati a varii generi di morte squisitamente crudeli tutti i figli di primo letto rei di avere ammazzato la bella e giovane seconda moglie del vecchio padre. Invece, quando a lui era mancata l'angelica sublime consorte regalandogli Nerina, egli aveva giurato eroica fedeltà alla memoria dell'estinta; ed aveva mantenuta quella fedeltà eroica soprattutto per la memoria di lei viva nella loro creatura Nerina; egli, così assueffatto al comando, si era reso schiavo dei capricci di una fanciulla; per essa aveva subìto tutte le novità, anche le caricature del mondo. Di sua figlia droghierina, aveva fatto la più invidiata ed invidiabile contessa. E quale compenso ne aveva in fine ricevuto? Negli occhi del portinaio, del lustrascarpe, di quanti incontra, egli legge: * Commendatore, hai la figlia in un bordello. * Da quella visione egli si sente ferocemente ingagliardito, ingigantito. Spezzerebbe coi suoi pugni le tavole della Legge di Mosè e coi suoi calci le dodici tavole del primitivo diritto romano, ed è mosso inconsciamente, storicamente da loro. Sì! È Dio che lo chiama ad un sacrifizio di Abramo. " Il padre una figlia perversa deve ucciderla, non graziarla." Con questa formola, egli senza saperlo, corrisponde al ius necis dato alla patria potestà dagli antichi romani, colla loro ragione naturale scritta da Dio per gli uomini. * * * Il Comm. Vispi entrò come la statua di un fantasma nel portone di Mistriss Dell, ed infilò la scaletta, mentre la sua Nerina accovacciata nell'alta cuccia si raggomitolava in se stessa, come per annullarsi nel massimo stringimento della sua anima. Con intima ignota poesia le pareva rifugiarsi stretta nell'idea della morte, che sola può rendere il riposo turbato dalla vita. Fiero ed impassibile, come la statua di una celata vendetta, il Commendatore la mandò a chiamare. Quando essa comparve, e vide il padre suo trasfigurato in un simbolo di storia sacra, essa tutto comprese, tutto divinò. Troppo profanamente adatte al loco, le suonarono nella mente le parole dei figli al Conte Ugolino: Padre ... Tu ne vestisti Queste misere carni, e tu le spoglia. Più tremendo del quadro infernale ritratto da Dante essa vide rispecchiato in se stessa il quadro del padre nell'ora terribile con la figlia prostituta: morte di ogni capriccio. Automaticamente accese il candeliere di pieno giorno, e precedette il padre nella stanzuola cubicolare, elegante cella del vizio, con lo specchio sotto la cupola del baldacchino. Da quello specchio balenavano spade di angeli, coltelli di sacrificatori. Giunta presso il letto, Nerina, invece dello spogliarsi professionale, si copre le spalle con la più devota decenza, e si inginocchia. * Recita pure l'atto di contrizione. Mirando la figlia, il padre dubita che sia grossa. E lo assale un'immagine rimastagli dalla lettura della Vendetta paterna del Guerrazzi: un'immagine, che gli domanda: * Prima di compiere il gran fatto o misfatto, dovresti arrestarti, quando la tua Nerina fosse madre? La maternità lava, monda la femmina, divinizza la donna. La capra Amaltea, balia di Giove, disseminò con le stille del suo latte una fiumana di stelle nel Cielo. La madonna con le goccie del seno, onde crebbe Gesù, disseminò stelle in milioni e milioni di cuori. Ma nel cuore del commendatore le stelle appaiono e spariscono, come faville in carta bruciata, che lieve si irrigidisce e si screpola nera. * Madre di chi? Madre per chi? Meglio non nascere, che nascere seme di bordello da chi abbia rubato le dieci lire. Ed ai nati, meglio nessuna madre, meglio una madre morta, che una madre fiorente, di cui debbano vergognare. * Nerina! Hai detto bene l'atto di contrizione? * Sì! padre. Il commendatore alto, la fronte indietrata, ben mirando, con il braccio destro rigidamente abbassato, sparò la pistola. Si sentì un colpo tale da spaccare una testa.

Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

E come tutte le cime all'intorno erano abbassate! E come il lago, giù nel profondo, pareva diventato un fiume! L' avvocato guardava su amorosamente alla prima cresta del Boglia dove cominciava il gran bosco dei faggi; un'altra mezz'ora di arrampicata. "Andiamo", diss'egli. Ma Pedraglio che aveva nelle gambe la memoria dell'altra gran corsa da Loveno ad Oria per il Passo Stretto, chiese di sostare un altro poco e si mise tranquillamente a sfogliar lo scartafaccio del Puttini, un poema fratesco, inedito, d'un anonimo cremonese del secolo decimosettimo. "Andiamo!", ripeté il suo compagno dopo un paio di minuti , e si alzava già quando udì venir gente. Ebbe appena il tempo di dire "attento!" e di voltar le spalle per non lasciarsi vedere in viso. Pedraglio, pur ficcando il naso nello scartafaccio, vide spuntar sulla strada prima due guardie di finanza e poi due gendarmi. Avvertì l'amico sottovoce, non batté palpebra. Le due guardie si fermarono. Una di loro salutò: "Riverito, signor Puttini", e disse ai gendarmi: "È il primo deputato politico di Albogasio". I gendarmi salutarono pure, Pedraglio si levò il cappello, alzando un poco lo scartafaccio. Le guardie volevano fare un po' di fermata ma un gendarme intimò loro di proseguire e quando vide incamminata la compagnia venne alla Sostra egli stesso. Era di Ampezzo e parlava italiano benissimo. "Tu, cane, non mi conosci, spero", pensò Pedraglio con una torbida coscienza della sua doppia personalità. "Lascia fare a me." "Signor deputato politico", disse colui, "avrebbe veduto stamattina il signor Maironi di Oria?" "Io? Mai più. Il signor Maironi dorme, a quest'ora." "E Lei dove va?" "Vado lì su quel monte, su quel dannato Boglia lì. Vado su per l'affar del toro comunale." "Bestia", pensò l'avvocato. "Comunale me lo fa diventare!" Ma passò felicemente anche il toro comunale. Il gendarme, un muso da mastino, squadrò bene il suo interlocutore in viso. "Lei è deputato politico", diss'egli insolentemente, "e porta quella roba sul viso?" Pedraglio si prese istintivamente il suo piccolo sottile pizzo nero, barba reproba da liberale. "Taglieremo, taglieremo", diss'egli con serietà comica. "Sì signore. Va sul Boglia anche Lei?" Il gendarme se n'andò duro duro senza rispondergli, senza udire su quale ignominioso patibolo il deputato politico lo mandava. I due si rallegrarono a vicenda di averla scampata bella ma riconobbero che il giuoco si era fatto molto serio. Adesso bisognava contare con le guardie che conoscevano bene il Puttini, e saperne stare a distanza. E se quel mastino di gendarme parlasse della barba? "Su su", fece l'avvocato, "teniamo loro dietro e se li vediamo o li udiamo tornar giù, gambe in spalla e via a sinistra verso il confine." Partito disperato, quest'ultimo, perché non conoscevano il terreno, certo familiare alle guardie. Il mastino dovette sudare e ansar troppo dietro ai suoi compagni per aver poi voglia di parlar di barbe, Pedraglio e l'avvocato, salendo adagio, videro il nemico guadagnar la cresta del monte al faggio della Madonnina, fermarvisi alquanto e sparire. Il gran faggio antico che portava nel tronco una immagine della Madonna e che cedette, morendo, quest'onore a una cappelletta, era come la sentinella del gran bosco di Boglia, il soldato posto in una insellatura della cresta a spiar il pendio precipitoso, il lago, i clivi di Valsolda. Il venerabile esercito di faggi colossali stava tutto raccolto in un'altra conca silenziosa fra l'erta della Colmaregia, i facili Dorsi della Nave, le radici rocciose dei Denti di Vecchia o Canne d'Organo e l'altra sella del Pian Biscagno fra la Colmaregia e il Sasso Grande, fronteggiante le profondità della Val Colla da Lugano a Cadro. Una lista scoperta, erbosa, correva fra il faggio della Madonnina e il bosco, sull'orlo della cresta. I due fuggiaschi pensarono ai casi loro. Quale partito prendere? Cercar il sentiero sotto il faggio di cui aveva parlato la guardia salvatrice, o entrar nel bosco? No, entrar nel bosco non conveniva, con quella selvaggina che vi era entrata prima. Nel bosco avrebbero trovato un palmo di foglie secche. Era impossibile passarvi senza farsi correre addosso tutti i segugi che vi si aggiravano; e da vicino il travestimento non poteva servire. Prender il sentiero? Ce n'era più d'uno, sotto il faggio; qual era il buono? Pedraglio maledisse Franco che non era venuto con loro. Invece l'avvocato studiava la Colmaregia che si poteva salire senza entrare nel bosco. Egli era stato due volte sulla Colmaregia, il superbo, sottile vertice erboso del Boglia, tagliato per metà dalla linea di confine; sapeva ch'era possibile scendere di lassù al villaggio svizzero di Brè e risolse di tentar quella via. Sulla cresta che ascende dal faggio della Madonnina verso la Colmaregia non si vedeva nessuno. La punta era avvolta nelle nuvole. Pochi passi sotto il faggio i due furono colti da un'ondata di nebbia che venuta su per un versante si riversava rapidamente per l'altro, una nebbia fredda e densa, un "Dio fece" disse V. Non si vedeva niente a cinque passi. Così avvenne che, presso al faggio, Pedraglio andò quasi a urtare una guardia di finanza. Era uno dei quattro e aveva la consegna di sorvegliare la lista scoperta fra la cresta del monte e il bosco. Visto l'ometto dal cappellone, fece: "In Boglia, signor ...?". L'avvocato si sbarazzò immediatamente della gerla. Infatti la guardia non compié la frase, restò un momento a bocca aperta, poi esclamò: "Come?". L'avvocato non aspettò altro. "Così", diss'egli placidamente; e raccoltisi sul petto i due pugni in uno ne menò a colui nello stomaco una terribile puntata che lo buttò sul prato a gambe all'aria. Pedraglio gli saltò subito addosso, gli strappò la carabina. "Se gridi, cane, ti brucio", diss'egli. Ma che gridare? Con un pugno di V. nello stomaco non c'era, per un quarto d'ora, neanche da tirare il fiato. Infatti l'uomo pareva morto e ci volle del buono perché arrivasse a gemer sottovoce "ahi ahi!". "L'è nient, l'è nient", gli diceva V. con la solita flemma canzonatoria. "Sono scosse che fanno bene. Vedrà. Lü adess el se drizza in pee ben polito e viene con noi in Colmaregia. Vedrà come va bene. Non ho adoperato questo a posta." E gli mostrò la chiave. "Oh che pugno!", gemeva la guardia. "Oh che razza di pugno!" "La salita è un po' maledetta", riprese l'avvocato pigliando la carabina dalle mani di Pedraglio. "Ma noi le terremo su, con licenza, il di dietro con questo affare qui. A questa maniera si va su che l'è un piacere. Poi Lei viene giù con noi a Brè. La carabina gliela portiamo noi. Lei, per compenso, ci porta una piccola gerla. Parli polito? Andemm, marsch!" Il disgraziato non riusciva a mettersi in piedi e non si poteva certo lasciarlo lì a rischio che poi si mettesse a chiamar aiuto. "Mincion!", fece Pedraglio. "Ghet daa tropp fort!" V. rispose che gli aveva dato un pugno da donna, restituì la carabina all'amico e ghermita la guardia per il colletto dell'uniforme, la tirò in piedi, le fece imbracciare la gerla. "Andem, lizòn", diss'egli. "Poltronaccio, andiamo!" Su tra il nebbione freddo e denso, su, su. L'erta è ripidissima, si dura fatica a piantar la punta del piede fra i ciuffi dell'erba molle, si sdrucciola, si lavora di piedi e di mani, ma fa niente, su, su, per la libertà. Su tra il nebbione, invisibili come spiriti, prima la finta Marianna, poi la guardia che soffia e geme sotto il peso della gerla, poi il finto sior Zacomo che le promette le belle viste e la urta con la carabina. La carabina fa miracoli. In mezz'ora i tre raggiungono la cresta che scende verso Bré, pochi passi sotto il cocuzzolo. Allora siedono sull'erba e giù, e giù a precipizio, scivoloni. Si mette a piovere, la nebbia si dirada, ecco in fondo, tra i piedi, il rosso dei boschi cedui. Primo vi arriva di volo il venerabile cappellone del sior Zacomo scaraventato abbasso da Pedraglio con un "viva l'Italia!" mentre scivola a braccetto della guardia. A Bré Pedraglio fece correre tutto il paese sparando a festa la carabina, distribuì anesone triduo agli uomini e mezz'once alle ragazze, domandò al curato di poter appendere in chiesa il "marsinon" per grazia ricevuta, si attavolò a mangiare con la guardia, gli fece predicar dal prete il perdono dei pugni nello stomaco e gli diede lettura di una stanza del poema fratesco che finiva così: A questo punto il Padre Lanternone Disse: ho mutato ancor io opinione. Gli dimostrò che se aveva mutato un Padre Lanternone poteva mutar anche lui e lo persuase a disertare, gli fece buttar via l'uniforme e indossare il "marsinon" fra le risate e gli applausi. Il solo che non rideva era l'avvocato. "E quel povero Maironi?", diss'egli. Franco non attraversò Castello. Giunto alla cappelletta di Rovajà, saltò giù per il sentiero che mena alla fontana di Caslano, raggiunse la stradicciuola di Casarico, si mise a salir per quella e all'ultima svolta che fa sotto Castello, dove appare la chiesa di Puria sotto un anfiteatro di dirupi, si gittò a destra nella valle per un sentiero da capre, ne risalì sotto la chiesa di Loggio e giunse a Villa Maironi senz'aver incontrato nessuno. Carlo, il vecchio servitore che gli aperse, tramortì, quasi, dalla commozione e gli baciò le mani. In quel momento c'era il medico. Franco decise di attender che uscisse e intanto confidò al vecchio fedele che aveva i gendarmi alle calcagna. Il dottor Aliprandi uscì presto e Franco, sapendolo patriota, si confidò anche a lui, poiché gli occorreva mostrarsi, informarsi dello stato della nonna. L'Aliprandi era stato chiamato nella notte ed era venuto dopo la partenza del prefetto per Oria, aveva trovato dell'agitazione nervosa, una terribile paura di morire ma nessuna malattia. Adesso la marchesa pareva tranquilla. Franco si fece annunciare e fu introdotto dalla cameriera che lo guardò con ossequiosa curiosità e uscì dalla camera. Le imposte socchiuse della camera dove la marchesa giaceva a letto lasciavano entrare due sole oblique lame di luce grigia che non giungevano alla faccia supina sul guanciale. Franco, entrando, non la vide, udì solo la nota voce dormigliosa: "Sei qui, Franco?" "Sì, addio nonna", diss'egli e si chinò a darle un bacio. La maschera di cera non era scomposta; lo sguardo aveva però qualche cosa di vago e di scuro che pareva insieme desiderio e sgomento. "Muoio, sai, Franco", disse la marchesa. Franco protestò, riferì ciò che gli aveva detto il medico. La nonna lo ascoltava fissandolo avidamente, cercando di leggergli negli occhi se il medico gli avesse proprio detto così. Poi rispose: "Non fa niente. Son pronta". Dalla nuova espressione dello sguardo e della voce, Franco intese perfettamente che la nonna era pronta a vivere altri vent'anni. "Mi rincresce della tua disgrazia", diss'ella, "e ti perdono tutto." Non eran parole di perdono che Franco si aspettava da lei. Egli credeva esser venuto a portarlo il perdono, e non a riceverlo. Confortata, rassicurata, la marchesa di ogni giorno ricompariva poco a poco sotto la marchesa di un'ora. Voleva bene acquistar la pace ma come un sordido avaro tentato da qualche cupidigia, che spremendosi dolorosamente dal pugno il prezzo del suo piacere cerca trattenersene fra le unghie quanto può. In altri momenti Franco avrebbe scattato, avrebbe respinto sdegnosamente quel perdono; ora, con la dolce Maria nel cuore, non poteva essere così. Aveva però notato che la nonna si era rivolta, col suo perdono, a lui solo. Questo no, non glielo poteva permettere. "Mia moglie, lo zio di mia moglie ed io abbiamo sofferto molto", diss'egli, "prima dell'ultima sventura; e adesso abbiamo perduto tutta la nostra consolazione. Lo zio Ribera lo metto fuori di causa; davanti a lui bisogna che ci inchiniamo, tu, io, tutti; ma se mia moglie ed io abbiamo delle colpe verso di te, perdoniamoci a vicenda." Era un boccone amaro; la marchesa lo trangugiò e tacque. Benché non vedesse più la morte al suo capezzale aveva però nel cuore lo sgomento dell'Apparizione e di certe parole del prefetto che l'aveva confessata. "Farò testamento", diss'ella, "e desidero che tu sappia che tutta la roba Maironi sarà per te." Ah marchesa, marchesa! Misera, gelida creatura! Credeva ella di aver comperato la pace con questo? Qui veramente aveva sbagliato anche il prefetto perché il consiglio di far questa dichiarazione al nipote gliel'aveva dato egli, buon galantuomo ma privo di tatto, incapace di comprendere l'alto animo di Franco. A Franco l'idea che si potesse credere esser egli venuto per interesse, riuscì intollerabile. "No no", esclamò fremendo tutto e temendo del proprio sangue focoso, "no no, non mi lasciar niente! Basta che tu faccia pagare i miei interessi a Oria. La roba Maironi, nonna, lasciala all'Ospitale Maggiore. Ho paura che i miei vecchi abbiano sbagliato a tenerla!" La nonna non ebbe tempo di rispondere perché fu picchiato all'uscio. Entro il prefetto e fece che Franco pigliasse congedo per non stancare l'ammalata. "Bisogna sbrigarsi!", diss'egli, fuori. "Qui hai fatto più che il tuo dovere. Lo sanno in troppi, oramai, che sei qui e i gendarmi possono capitare da un momento all'altro. Ho combinato tutto coll'Aliprandi. L'Aliprandi suppone che per la marchesa ci sia bisogno di un consulto, piglia la gondola di casa e va a Lugano per cercar un medico. I due barcaiuoli sarete Carlo e tu. Piove. Ci sono i mantelli di tela incerata col cappuccio. Mettete quelli e tu sta a poppa. Adesso ti tagliamo il pizzo; col cappuccio in testa sfido a riconoscerti. Sei sicuro. Forse non vi faranno neanche approdare alla Ricevitoria. A ogni modo non ti riconosceranno. Se c'è da parlare, parla Carlino." L'idea era buona. La gondola della marchesa era sempre guardata dagli agenti dell'Austria con grande rispetto come se portasse un uovo dell'aquila dalle due teste; anche quando ritornava da Lugano non si faceva approdare alla Ricevitoria che pro forma . La gondola uscì dalla darsena dopo le otto. Le nebbie delle alte cime erano calate sul lago e pioveva. Triste triste giorno, triste triste viaggio! Né Franco, né il domestico, né l'Aliprandi parlarono mai. Passarono San Mamette e Casarico. Ecco tra i vapori, oltre gli ulivi di Mainè, le bianche mura della dimora di Ombretta. Gli occhi di Franco si riempirono di lagrime. "No, cara", egli pensa, "no, amore, no, vita, tu non sei là dentro e sia benedetto il Signore, che mi dice di non credere questa cosa orribile!" Poche remate ancora ed ecco la casetta del tempo felice, delle ore amare, della sventura; la finestra della stanza dove Luisa si perde in un dolore tenebroso, la loggia dove passerà quind'innanzi solo le sue giornate il vecchio zio Piero, l'uomo giusto che discende silenziosamente, tribolato e stanco, verso la tomba. Franco vorrebbe pur sapere cosa è successo dopo la sua partenza, se lo zio, se Luisa hanno avuto molestie dalla Polizia. Guarda, guarda, non vede persona viva né sulla terrazza né in giardinetto né alle finestre della loggia; tutto è silenzioso, tutto è tranquillo. Cessa di remare, vorrebbe vedere qualche segno di vita. Il dottor Aliprandi apre lo sportello di poppa del felze e lo supplica di remare, di non tradirsi. In quel momento la Leu si affaccia alla ringhiera del giardinetto con un vassoio in mano, guarda la gondola, entra in loggia. Dunque lo zio Piero è in loggia, quello è il solito bicchier di latte che gli portano, nulla dev'essere successo. Franco torna a remare e il dottor Aliprandi chiude lo sportello. Passa il giardinetto, passano le case di Oria, la gondola piega all'approdo della Ricevitoria. Il Biancòn, che sta pescando alle tinche, con l'ombrello, vede la gondola, abbandona le sue lenze, e viene ad ossequiare la marchesa. Ma trova invece il dottor Aliprandi il quale lo turba tanto con le cattive notizie della dama ch'egli sente il bisogno di chiamare anche la sua Peppina e di parteciparle la cosa; e la Peppina, poveretta, recita sotto l'ombrello del suo Carlascia una piccola commedia d'intenerimento. Marito e moglie eccitano l'Aliprandi a far presto, a ritornar presto. Il bestione gli permette di filar dritto, al ritorno, da Gandria a Cressogno e il dottore si volta a Franco, dice: "Andiamo!". Franco ha assistito impassibile al colloquio, con le mani sul remo, sperando apprender qualche cosa de' suoi amici e di casa sua; ma nessuno ha fiatato di Polizia né d'arresti né di fughe come se casa Ribera fosse nella China. La gondola indietreggia lentamente dall'approdo, gira la prora verso Gandria, si allontana, sfuma oltre il confine, nella nebbia. Alla riva di Lugano il dottor Aliprandi aperse lo sportello e fece entrare Franco. Si conoscevano poco ma si abbracciarono come fratelli. "Quando verrà l'ora delle cannonate", disse l'Aliprandi, "ci sarò anch'io." Convennero di congedarsi lì e che Franco uscisse prima, solo, perché Lugano era piena di spie e il dottore doveva pure usare certi riguardi. Il dottore non aveva fretta, del resto; gli premeva più di trovar un barcaiuolo che un medico. Franco si tirò il cappuccio sugli occhi e scesea terra, andò all'albergo della Corona. Alcune ore più tardi, quando la gondola era ripartita, egli usci in cerca di valsoldesi per avere notizie, si avviò alla farmacia Fontana e incontrò sotto i portici i suoi amici che uscivano appunto dalla farmacia insieme a un vecchio. Gli saltarono al collo, piansero di commozione. Erano andati anche loro a cercar notizie. Alla farmacia si diceva che Franco fosse stato arrestato. Che gioia di trovarlo e che gioia di sentirsi terra libera sotto i piedi! Mi sia permesso di ricordare il vecchio che accompagnava Pedraglio e l'avvocato, bizzarra figura del piccolo mondo antico luganese, artista e degno che un altro artista, passandogli così vicino, gli renda onore. Egli era un tal Sartorio, pittore, poeta e suonatore di chitarra, che a quei tempi si vedeva spesso balenar qua e là per le oscure vie di Lugano con la sua bella barba bianca, con il suo cappello bianco tirato sull'occhio destro, con il suo nobile abito nero e il fiore all'occhiello. Poverissimo ma pulitissimo, cavaliere con le dame e con le pedine, pronto sempre a un'anacreontica e a una chitarrinata, adoratore della propria città, egli viveva di pane, formaggio e acqua, fiutava e rincorreva i forestieri per far loro gli onori di Lugano, era sempre pieno di queste faccende, sempre in moto fra Villa Ciani, l'Hôtel du Parc e Villa Chialiva. L'Hôtel du Parc era per lui l'ottava meraviglia del mondo. Aveva aiutato a inaugurarlo e se ne compiaceva assai, godeva particolarmente citare, col suo classico accento luganese, la strimpellata e la lirica ispirategli dalla sala da pranzo: "ca l'è poeu quand ca ga disi: Le trombe squillano Nel gran salone, Ai suoni accordisi Questa canzone. Ora egli si era spontaneamente accompagnato a Pedraglio e a V. che gli avevan narrata la loro fuga. Li aveva condotti lui alla farmacia Fontana per cercarvi notizie di Franco. "Come?", diss'egli dopo l'incontro. "È questo il Loro amico? Sfuggito anche lui agli artigli dell'aquila rapace di Asburgo? Benissimo! Benissimo! Ho fatto anni sono, per altri lombardi fuggiti qua dopo la rivoluzione di Vall'Intelvi, un'ode ca l'era minga mal. Ho descritto, neh, la loro fuga per la Val Mara, la calata a Maroggia, l'arrivo a Lugano, ca l'è poeu quand ca ga disi: O baldi figli di Lombardia, V'apre le braccia Lugano mia. È una cosetta che va benissimo anche per Loro. Adesso corro a prender la chitarra e poi gliela faccio sentire all'albergo." "Madonna!", fece Pedraglio.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

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Ghislanzoni, Antonio 3 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- Tirate una retta fra Venere e Marte; dividetela in otto sezioni perfettamente uguali; alla quinta metà dell'ultima sezione d'ovest, abbassate un triangolo, e al lato a, b, c. troverete la nave. - Sta bene! - mormorò il Torresani incurvato sotto il poderoso cannocchiale. In quel momento il vecchio Capo di Sorveglianza somigliava ad un ragno, e parlava con voce chioccia, com'egli temesse di essere udito al di sopra delle nuvole. - Ecco! appunto una nave di terzo ordine a distanza di mille e novecento metri ... Presto! ... Applichiamo alla lente la nostra camera oscura ... fotografiamo! ... Ah! La nave si muove ... ! Mutano di posto ... ! se ne vanno! ... Via! non serve correr tanto, signori miei! Vi ho conosciuti, vi conosco ... - Che! ... a tanta distanza, voi avete potuto riconoscere le persone che sono là dentro! - esclamò il subalterno spalancando due grossi occhi da imbecille. Il Torresani gettò su lui uno sguardo pieno di sarcasmo e di commiserazione. - E tu, imbecille, non hai ancora capito che razza di gente sia quella, che mostra tanta paura del nostro cannocchiale? - Gente sospetta ... capisco anch'io ... - balbettò il subalterno colla persuasione d'aver fatto una grande scoperta. - Ah! quei signori tu li chiami gente sospetta, imbecille! Di' piuttosto canaglia della peggior specie, furfanti, bricconi, ladri, barattieri, e ignoranti, presuntuosi, che credono sottrarsi al rigore della legge ... che pretendono corbellare il vecchio Torresani!.., Presto! ... Scendiamo abbasso, lumacone! ... Lascia in pace quel l'ordigno maledetto ... Dire che i primati dell'ottica non hanno ancora trovato il modo di fornirci un aereoscopio, che si possa nascondere fra i polpastrelli delle dita ... Non importa! Abbiamo altre risorse ... I birboni della scienza favoriscono le ladrerie e le truffe: ma fortunatamente ci porgono mille mezzi per discoprirle e punirle ... C'è progresso da ambe le parti, signori garbatissimi! Peccato che gli statuti dell'Unione non ci permettano di violentare i cittadini! ... Le manette, la prigione, la forca, quelli erano espedienti efficacissimi per tutelare l'ordine pubblico! ... Nondimeno, parola da Torresani, fra pochi minuti io farò vedere a quei pirati di alto cielo, che anche noi siamo in grado di far rispettare le leggi e di imporre alla canaglia! ... Così parlando, il Capo di Sorveglianza giunse nella sala di diramazione, dove, appena entrato, fece scattare una molla, la quale, per varii fili elettrici, era in comunicazione coi principali dipartimenti del palazzo. Le pareti oscillarono, e dopo alcuni minuti, si apersero nei quattro lati della sala parecchie porticelle numerizzate, e a ciascuna porticella affacciossi un individuo, portante la divisa dei subalterni di sorveglianza. Il Torresani salì sovra un pulpito e prese a diramare i suoi ordini. - Numero uno: convocare i duecento nella sala di magnetismo, e arrestare nel termine di dieci minuti la nave sospetta. - Numero due: recarsi da Duroni, e far ritrarre la nave in ventiquattro copie, dodici a fotografia colorata, dodici a fotografia ponderabile.

. - Abbassate la reticella vitrea!(21)

Le porte erano abbassate, e la sala terrena sfarzosamente addobbata splendeva di fantastica luce. Una tavola oblunga, sfolgorante di preziose suppellettili e imbandita di vivande vespertine attendeva la gioconda comitiva delle ospiti fanciulle. All'entrare di Fidelia, l'anziana del palazzo e le quattro volonterose che stavano a guardia della sala, spruzzarono di faville i vasi purificatori e da questi subitamente elevossi una nuvola bianco-rosata che, dissipandosi nel vano, imbalsamava l'atmosfera di atomi odorosi. - Fra un'ora saranno qui tutte! - disse Fidelia alle donne. - Frattanto io e la mia buona sorella di amore visiteremo gli appartamenti. - Non vi sono appartamenti in questo palazzo - disse sorridendo l'anziana - o piuttosto ve ne sono tanti, quanti ne può ideare la umana fantasia; ma voi potete vederli tutti senza uscire da questa sala. Fidelia e Speranza si ricambiarono una occhiata di sorpresa. - Ebbene - domandò l'anziana. - Volete voi godere il meraviglioso spettacolo? Compiacetevi di sedere su quel piccolo divano di muschio satinato, e noi vi mostreremo una ventina di appartamenti, vi offriremo allo sguardo tale varietà di mobilie e di addobbi quale non saprebbe ideare la mente più ingegnosa. Io credo che la moderna architettura non abbia ancora prodotto un palazzo più sorprendente di questo in nessuna città della Unione Europea. Fidelia e Speranza, tenendosi per mano, quasi impaurite, andarono a collocarsi sopra il divano loro assegnato. E tosto, per un cenno dell'anziana, le quattro volonterose corsero ad occupare i quattro angoli della sala, e toccando ciascuna un bottone sporgente dalla muraglia, produssero uno di quei cambiamenti di scena che in teatro producono tanto effetto. La parete di fondo scomparve ... Ciò vi sembra prodigioso, non è vero? Orbene: eccovi in due parole la spiegazione del miracolo. Quella parete non era che un grandioso ventaglio di taffetà americano, il quale, disteso, formava un abbagliante sipario azzurro dorato come il lapislazzulì. Le quattro volonterose, premendo i bottoni che lo tenevano dispiegato, ottennero che immediatamente si contraesse, formando di tal modo una colonna quadrata per cui la vasta scena veniva a dividersi in due grandi scompartimenti. Al di là di quella colonna si apriva un mondo incantevole, che offriva allo sguardo tutte le seduzioni della natura, e non era di fatto che un meraviglioso accordo di tutte le industrie, di tutte le arti umane. Fidelia e Speranza rimasero alcun tempo assorte nella contemplazione di quel nuovo spettacolo, mentre l'anziana con affettuosa compiacenza descriveva alle due fanciulle le bellezze del quadro. - Da quella parte ... al lato destro - accennava l'anziana - voi vedete una collina di facile pendìo, dei praticelli, delle grotte, dei chioschi, dei cespugli di fiori. Sono altrettante camere, altrettanti ricoveri copiati fedelmente dalla natura. L'architetto, nel costruire quei nidi di velluto, quei chioschi di bambagia, quelle nuvole di guttaperga, era ispirato dall'amore, come il Dio della Genesi nella creazione del paradiso terrestre. Il primo palazzo di Eva, ideato dall'architetto divino, non poteva essere più confortevole e più delizioso. Voi stupite, o gentile Fidelia! ... Voi non credevate che un pensatore di case potesse elevarsi a tanta sublimità di concetti ... Quella nuvola che vedete agitarsi mollemente al di sopra della collina è la stanza che deve accogliervi fanciulla per iniziarvi ai misteri deliziosi dell'amore ... Osservate quella grotta! ... Da quelle stalattiti bianche trasudano gli unguenti più odorosi, i balsami più delicati. È il vostro gabinetto di acconciatura. Attraversandolo, ne uscirete profumata e vivificata. A poca distanza da quella grotta, una magnolia gigantesca distende i suoi rami di un bel verde opaco ... Quella è la vostra biblioteca. I libri stanno raccolti nel tronco dell'albero, e le eleganti legature formano intorno a quel tronco una corteccia di oro e di gemme. Abbassate lo sguardo a quella pianura lucente ... a sinistra della colonna! Non vi sembra che quel tappeto imiti perfettamente le onde tremolanti di un lago? È un tappeto di mercurio bianco imprigionato in una tela di vetro elastico. Voi sentite il mercurio agitarsi sotto il vostro piede, e la illusione di passeggiare sulle acque è tanto verosimile, che quasi vi meravigliate di poterne uscire a piede asciutto. Come vedete, due gondole eleganti galleggiano su quel piccolo lago artifiziale. Una di quelle gondole è destinata ad essere il vostro gabinetto musicale. Noi vi abbiamo collocato un pianoforte a corde di cigno, ed un'arpa magnetica. Assisa al pianoforte, per la rifrazione dei vari specchi mirabilmente congegnati, vi parrà di trovarvi isolata in mezzo ad un lago senza confini. I vostri canti, i vostri suoni si ispireranno nella poesia della solitudine e delle onde ... Quel pianoforte ha due pedali, per cui potrete modificare a grado vostro la calma e le procelle del piccolo oceano. Il tappeto mercuriale, sotto la pressione del vostro piede, potrà fingere tutti i commovimenti della marina. L'altra gondola è una sala di refezione; e questa, a piacere dei naviganti, può scivolare fino alla estremità della pianura, dove, per una porticiuola che da questo luogo non si scorge, essa uscirà dal lago artifiziale per islanciarsi nel lago vero. Qual sorpresa per voi, qual gioconda sensazione, al finire di una cena iniziata nel palazzo fra le carezze ed i baci dello sposo, uscire sulla prora della gondola, e veder sfilare le cento ville del Lario, una meravigliosa fantasmagoria di palazzi e di giardini emergenti dalle onde! Ma basti! ... Gli è un vero peccato quello che io sto commettendo, un peccato di indiscrezione che il vostro sposo non saprebbe perdonarmi. A che buono svelarvi tutti i misteri di questo meraviglioso palazzo? ... Che altro è la gioia se non la sorpresa del nuovo, dell'inaspettato? ... Ma pure io mi ravvedo in tempo ... Io non vi ho palesato che la millesima parte delle delizie che qui vi attendono. L'ho fatto a fine di bene; per serenare l'animo vostro, per alleviare colle promesse dell'avvenire le crudeli impazienze del presente. Ho tracciato il cammino alla vostra fantasia di fanciulla e di amante. Se in questi giorni di dilazione che ancora vi rimangono, il vostro spirito verrà a spaziare su questi prati di seta, fra questi alberi a foglie di piume che stillano rugiade di diamante, fra queste onde di metallo animato; voi troverete una distrazione soave alle cure che vi opprimono. Io però mi tengo sicuro che voi non riescirete mai ad indovinare la centesima parte delle meraviglie qui adunate da quei due creatori sublimi di poesia che sono il vostro Albani e Regolo Mengoni pensatori di edifizii Poiché l'anziana ebbe finito di parlare, la fidanzata dell'Albani, nell'ingenuità della sua anima innamorata, si lasciò sfuggire una esclamazione che rivelava tutto il suo cuore: - Ma egli! ... il mio sposo! ... - Comprendo il vostro pensiero - affrettossi a dire l'anziana. - Egli ... il vostro Albani non verrà a dimorare in questa villa, che tutta vi appartiene. Vi spiegherò il suo concetto come io credo di averlo compreso. Dell'Albani voi non dovete conoscere che l'amante e lo sposo. Egli verrà in questo luogo per portarvi il suo amore, per cogliervi il vostro, per godere dei vostri tripudii, per consolare le vostre afflizioni, per chiedere a sua volta il diletto e la forza a sostenere i dolori della vita. I vostri rapporti, in una parola, non devon essere che rapporti d'amore. Perché riesca feconda di bene, l'unione coniugale vuol essere circondata di poesia. In altri tempi, quando era obbligatorio agli sposi convivere sotto il medesimo tetto, vedersi a tutte l'ore del giorno e della notte, dividere le cure disaggradevoli e qualche volta un po' volgari del regime di famiglia, avveniva sovente una rilassatezza di affetti, che a lungo andare degenerava in fastidio, in avversione. C'è molta differenza fra il vedersi spesso e il vedersi sempre. L'augello che rinnova così frequenti i trasporti dell'amore, si allontana dalla sua compagna dopo l'ebbrezza vivace del connubio, e si perde negli spazi finché quella non lo richiami co' suoi gorgheggi, finché quella non gli dica coi suoi gemiti melodiosi: ritorna! ho bisogno delle tue carezze, dei tuoi baci! Desideriamoci, se vogliamo amarci eternamente! Il vostro Albani, ispirandosi a questo concetto, verrà in questa casa come un ospite. Egli vi apparirà inaspettato - egli giungerà fino a voi per cento vie misteriose. Lo vedrete uscire da questa gondola, lo troverete adagiato in quella grotta, udrete la sua voce carezzante rispondervi da quella nube, Quando i vostri due cuori si chiameranno per quella voce arcana che esala dall'amore, vi sentirete allacciati da soavissimo amplesso. Io credo, Fidelia, che il vostro animo gentile avrà compreso il delicato pensiero che io ho tentato di esprimervi. Lo sguardo di Fidelia splendeva di angelica luce. Quell'anima giovane era inebbriata di felicità. Si levò in piedi, e con timida voce, qual di fanciullo che non osa manifestare un capriccio per paura di vedersi contrariato, disse all'anziana: - Vi par egli che io sia troppo indiscreta nel domandarvi una concessione? ... Amerei di attraversare quel lago ... di salire in quella gondola ... di provare, sull'istromento che dovrà essere l'interprete dei miei pensieri, una canzone che ho composta per ... lui! Sarà la canzone di richiamo. E tu, mia buona Speranza, tu l'ascolterai da questo luogo, e mi dirai qual effetto essa avrà prodotto sull'animo tuo! ... E poi! ... ho in mente un pensiero ... Mi pare che i suoni di quel cembalo debbano attraversare gli spazii immensi ... e giungere fino a lui. - Non vi è ragione perché io mi opponga a così onesto desiderio - rispose l'anziana - venite! La fanciulla, dopo essersi congedata con un bacio dalla sorella di amore sorvolò con piede leggerissimo al mobile tappeto, salì nella gondola, e disparve colla sua guida. L'anziana, per un sentimento di deferenza e di rispetto che erale imposto dalla sua condizione, non si intrattenne con Fidelia nel piccolo gabinetto. D'altronde, ella aveva l'obbligo di far gli onori del palazzo, e in quel momento suonava l'ora di refezione, e le amiche della fidanzata, giusta il patto convenuto, entravano nel vestibolo. - Rilasciate il gran ventaglio! rilevate le mense! - ordinò l'anziana alle volonterose - prima che le ospiti fanciulle fossero entrate nella sala. E subito la scena mutò di aspetto, e l'incantevole panorama scomparve dietro il velario ondulato, che formava una muraglia di lapislazzulì. Nel momento in cui le fanciulle entravano nella sala, dalla sua gondola invisibile Fidelia sciolse la voce. Speranza portò il dito alle labbra, e le fanciulle ristettero ad ascoltare coll'estasi in volto. Erano le più dolci note che mai si modulassero pel labbro di una vergine innamorata. Quelle note, attraversando l'azzurro padiglione, parevano il canto di un cherubino smarrito negli spazii del firmamento. E davvero Fidelia aveva dimenticato la terra. Ella si sentiva isolata nel suo piccolo gabinetto come una sirena sugli scogli dell'oceano. Immersa negli elementi più vergini del creato, nell'aria e nelle acque, la sua anima possedeva le ali bianche e il melodioso sospiro del cigno. Le parole della sua canzone esprimevano questi pensieri gentili: «Iddio ha creato la terra, ma l'amore soltanto ha creato il paradiso. «No! questo non è il paradiso, dacché, aggirandomi fra i miracoli della creazione, io sento che il creatore è lontano. «Quando il creatore sarà tornato, quando l'aria di questo giardino sarà l'alito della sua bocca o il dolce fremito del suo cuore, allora io potrò dire: egli mi ha riportato il mio paradiso. «Oh venga presto colui che può creare il paradiso, perché il paradiso è in lui, soltanto in lui!» Il canto di Fidelia era una estasi voluttuosa. Mentre il labbro scioglieva le note, mentre il cuore modulava gli accenti, lo sguardo della fanciulla errava nelle illusioni di un mondo fantastico. Questo mondo fantastico si creava dinnanzi a lei per una combinazione di specchi metallici, i quali ritraevano perfettamente un cielo di zaffiro, un lago placido e sereno. Gli occhi di Fidelia aspettavano che quella solitudine di spazio e di acque si animasse improvvisamente di una figura umana, di una figura che per lei, per la fanciulla innamorata, avrebbe rappresentato il Dio animatore. Era delirio? ... Era sogno? ... La fanciulla sentì mancarle le forze, la sua voce si spense, un tremito le invase tutte le membra ... Quella vasta solitudine si era davvero animata: l'uomo dell'amore, il Dio era comparso ... Fidelia non osava li volgere il capo, ma lo specchio inesorabile che le stava dinanzi riproduceva una figura umana, riproduceva un essere vagheggiato e invocato, che per lei aveva nome di Redento Albani. Quell'uomo, ritto ed immobile dietro il seggio della fanciulla, pareva assorto nel contemplare le forme perfette di lei. La fronte di quell'uomo era calma; i tratti del volto non rivelavano veruna commozione; ma l'occhio irrequieto, iniettato di viva luce, aveva una espressione quasi sinistra. Fidelia ne fu atterrita più che sorpresa. Dalla sua fronte sgocciolava il sudore a grosse stille, pure non aveva forza di portarvi la mano ad asciugarle. Come si spiega questo terrore della fanciulla alla vista di un amante, di un fidanzato, di lui che era l'oggetto de' suoi ardenti desiderii, delle sue invocazioni? Se quell'uomo fosse stato l'Albani, Fidelia non avrebbe esitato un momento a levarsi dal seggio, ad avvincerlo tra le sue braccia, a inondarlo di baci. Ella esitava ... tremava ... Erano le sembianze ben note; la sua statura, i suoi capelli ondeggianti e fosforici, il suo labbro perfettamente delineato, i suoi denti pieni di sorriso. Ma pure, qualche cosa mancava a quell'uomo per essere l'amante, il fidanzato di Fidelia. Mancava la magnetica corrente che si espande dai cuori innamorati, il flusso che non si può suscitare dai nervi e dal sangue, se questi nervi, se questo sangue non sieno agitati da una vera passione. La fanciulla non poteva penetrare l'orribile inganno di quella apparizione. Ella fissava quella larva con occhio attonito; meditava quelle sembianze come si medita un sinistro problema. Quella contemplazione, quella meditazione angosciosa doveva risolversi per lei in un giudizio altrettanto erroneo che tremendo: «Egli è ben desso, ma egli ha cessato di amarmi». Era la logica più naturale che il cuore della fanciulla innamorata potesse seguire, la sola spiegazione che ella potesse ammettere dello strano turbamento che l'invadeva. A sì triste convincimento, Fidelia nascose il volto fra le mani e proruppe in dirotto pianto. Ma il Casanova (noi gli daremo il suo vero nome) non era uomo da smarrirsi di coraggio per quella fredda accoglienza. Magnetista di prima potenza, egli contava sulla forza del proprio volere per dominare quella gracile fanciulla estenuata dalle commozioni dell'amore e della paura. Egli stese la mano sul capo di Fidelia, e accarezzando le chiome odorose per innondarle del suo fluido irresistibile, parlò con accento animato: - Fidelia! ... mia buona ... mia bella Fidelia! ... non era mestieri che tu mi chiamassi ... . Sarei venuto ugualmente ... . Anch'io numerava i giorni e le ore. Avevo bisogno di vederti. Un bacio, un solo tuo bacio potrà darmi la forza per reggere a questi ultimi giorni di prova ... . Fidelia! ... I momenti sono contati. Nessuno mi ha veduto entrare, nessuno mi vedrà uscire da questo luogo ... . Non c'è a temere di nulla! ... Oh! la mia bella Fidelia! Abbandonati agli istinti del cuore ... . Poichè mi ami ... poichè hai giurato di esser mia ... . Mia sorella ... mia sposa ... . Tu mi ami: Io sapeva bene che tu non avresti negato questa gioia! ... Le tue fibre sono commosse ... . Allacciami il collo colle tue braccia di neve ... . Che io respiri il fresco alito della tua bocca! ... Le mie labbra erano arse, e la sete di amore mi avrebbe consumato, senza il refrigerio di un tuo ... bacio divino! Così parlando, il Casanova si era impadronito della fanciulla attraendola al proprio petto colla potenza affascinante della volontà. Fidelia, inebbriata da quelle parole, da quelle carezze, si abbandonò a lui come un corpo morto. I dubbi, i terrori erano svaniti. La sua faccia inondata di lacrime era divenuta radiante. In quel momento di suprema illusione, la fanciulla sognava il paradiso. Quel sogno fu un lampo. Nell'amplesso di quella larva adorata, Fidelia si attendeva una inondazione di delizie. Ma appena le labbra dell'avventuriero ebbero sfiorate le sue, la fanciulla arretrò con ribrezzo, mandò dal petto un grido affannoso, e cadde al suolo tramortita. Il bacio di quell'uomo, o piuttosto di quella maschera umana, le era sembrato gelido come il bacio di un morto. Tutta questa scena era passata rapidamente, mentre le sorelle del Circolo, nel compartimento anteriore del palazzo, attendevano che Fidelia ripigliasse la canzone, ovvero ritornasse nella sala per prendere parte al convito. Il grido della fanciulla destò lo sgomento nella piccola comitiva. L'anziana fece allentare il gran ventaglio, e le amiche di Fidelia accorsero tutte verso la gondola. Quand'esse posero il piede nel gabinetto musicale, il Casanova era già scomparso; nessun indizio, nessuna traccia di lui. Fidelia giaceva a terra coll'abbandono della morte. Le sue chiome, le sue vesti scomposte davano a supporre che ella avesse dovuto soccombere ad un assalto violento. Le fanciulle non si perdettero in vane esclamazioni. Improvvisarono una catena magnetica, e scaricando il loro fluido sulla giacente, in men che non si pensi, la ridonarono alla vita. Fidelia si levò in piedi, girò intorno gli occhi smarriti come chi, risvegliandosi da un orribile sogno, tremi di rivedere una larva. Poi sorrise alle amiche, e appoggiandosi al braccio di Speranza uscì con quella dal gabinetto. - Domani ti dirò tutto - disse Fidelia alla sua prediletta. E per quella serata non si tenne più parola del misterioso avvenimento. Durante la cena, le fanciulle ripresero insensibilmente la loro abituale gaiezza. Fidelia sorrideva alle amiche, e pareva dividere i loro ingenui tripudii. Di tratto in tratto ella trasaliva, portava la mano agli occhi come a rimuovere un velo, a dissipare una nube. E subito, dopo quel gesto, la sua fronte tornava serena, e l'occhio riacquistava la sua luce. Ai primi squilli del richiamo delle vergini quella gioconda comitiva uscì dalla villa Paradiso per disperdersi nei varii compartimenti della città. Fidelia baciò le amiche ad una ad una, e salita in una gondola volante si fece ricondurre al palazzo di famiglia. Quella sera, il Gran Proposto era di umore assai lieto. Quell'inesorabile partigiano delle antiche discipline, che non poteva tollerare nella propria famiglia ciò che egli chiamava insubordinazione legale agli ordini della natura; quel padre severo che non aveva mai perdonato a Fidelia le lunghe assenze notturne, mosse ad incontrarla con volto radiante, l'accolse con insolita profusione di amorevolezze. C'era qualche cosa di misterioso, qualche cosa di sinistro nella bonomia di quel vecchio. Le sue carezze parvero a Fidelia una affettazione di cattivo augurio, ond'ella, per sottrarsi a quell'impeto di tenerezza paterna, pose in campo un pretesto e ritirossi nel suo appartamento. Il Gran Proposto, dopo averla accompagnata com'era suo costume, e salutata col bacio del buon sogno rientrò nel suo gabinetto. Sullo scrittoio del primo funzionario dell'Olona stava spiegato un dispaccio portante il timbro del Ministero di Sorveglianza pubblica. Erano poche linee di scrittura, ma il vecchio non si saziava di rileggerle, e pareva che da quel foglio uscisse un riflesso di beatitudine ad irradiargli tutto il volto. Il dispaccio era così concepito: «Onorevole Gran Proposto, «Ho la soddisfazione di annunziarvi che il nostro zelo, le nostre sollecitudini, la nostra pertinacia hanno trionfato di ogni difficoltà. Redento Albani ha violato la legge di dilazione. Questa notte egli era a Milano, ha visitato la Villa Paradiso si è intrattenuto col Custode-direttore, ed ebbe anche un segreto colloquio con vostra figlia nel piccolo gabinetto musicale addetto alla villa stessa. Non è mestieri che io vi aggiunga altre parole; vostra onorevolezza sa troppo bene ciò che le resta a fare. Aggradite, onorandissimo Gran Proposto, gli umili ossequi del vostro subordinato devotissimo, e comandatemi in ogni occasione. «Dato dal primo gabinetto di Sorveglianza pubblica la notte del ventisette settembre 19 ... «TORRESANI DEGLI EX-BARONI.»

IL TRAMONTO D'UN IDEALE

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

Poi passò pel salone buio, colle cortine abbassate, le imposte chiuse; e gli enormi seggioloni coperti dalle fodere grigie, coi sedili sovrabbondanti e protesi, gli parvero un'adunanza di proprietari panciuti, che stessero ad aspettare con sussiego la sua domanda per discuterne fra loro. Finalmente entrò nello studio, freddo, rigido nella sua nudità. C'erano poche sedie ed una scrivania; ma ai due lati della scrivania si rizzavano due alti casellari con una infinità di cassette, e sopra ogni cassetta era scritto, in grossi caratteri di stampa, il nome di una possessione. Il signor Pedrotti stava scrivendo in un libro mastro; alzò un momento il capo e disse: "Ah! Dunque te ne vai? Aspetta un momento che finisca questa nota". Tutto il coraggio di Giovanni era svanito. Si sentiva tremare il cuore al momento d'affrontare la grande questione. Leggeva macchinalmente i nomi delle terre: Il Gentilino, La Peveraccia, Sant'Antonio al Fosso... Erano piccole proprietà, ma erano proprietà; egli le conosceva tutte, e ne ignorava il valore. Le contò; erano quattordici. E gli parvero quattordici nemici chiamati là per attestare della sua miseria. Il signor Pedrotti chiuse il libro, e si alzò tornando a dire: "Dunque te ne vai, figliolo?". "Sì. Vado a cominciare la mia carriera..." rispose Giovanni. "E fai le tue visite di congedo?" domandò il proprietario, tanto per parlare. "Sì..." "Sei stato dal conte Valli, e dal parroco?..." "No, sono venuto prima da lei..." "Bravo, ti ringrazio. Vuoi restare a colazione qui? Saluterai anche Rachele". Giovanni si sentiva venir freddo, aveva le mani diacce e bagnate di sudore, ed il cuore gli balzava così forte che ne aveva il respiro corto e la voce tremante. Ma tuttavia quell'accoglienza buona lo incoraggiava, e, fermo nel suo proposito, disse: "No, grazie. Sono venuto per parlare a lei... d'una cosa importante... pel mio avvenire...". "Di' pure; in quel che posso" rispose il signor Pedrotti con aria di protezione. Poi soggiunge, vedendolo intimorito: "Ma non aver paura, il tuo avvenire è sicuro; hai ingegno, sei appoggiato ad un avvocato valente... Lavora, abbi coraggio, e vedrai; sai che ho sempre avuto fede in te. Il mondo è dei giovani, mio caro". "Sì; ma bisogna che i vecchi, cioè, quelli che non sono più giovani, ci aiutino un poco". "E ti hanno aiutato mi pare" disse il Pedrotti un poco adombrato dalla parola vecchi, e dalla paura che Giovanni non apprezzasse abbastanza le sue larghezze passate e ne domandasse di nuove. "Sì: e se sono qualche cosa, lo devo a loro" assentì Giovanni sempre più tremante. "Ma sa, tutti abbiamo delle aspirazioni; io vorrei diventare qualche cosa di più". "È giusto. L'ambizione fa i grandi uomini e le grandi cose" sentenziò il Pedrotti, usando una frase che aveva letta nel suo giornale. "Ebbene, mi fa piacere che dica così, perché ho una grande, grande ambizione" balbettò Giovanni, che ormai non poteva più frenare gli sbalzi della sua voce soffocata e commossa. "Bravo! E, si può conoscerla quest'ambizione?" domandò bonariamente il proprietario. "Vuoi diventare deputato?". "No. Voglio... voglio... sposare sua figlia" susurrò Giovanni con un mormorio appena percettibile. Il signor Pedrotti si rizzò sulla poltrona; lo guardò fisso cogli occhi sgranati, e stette un tratto senza trovare una parola da rispondere. Poi ripeté, come se non fosse certo d'aver capito: "Sposare mia figlia!". Giovanni chinò il capo come un colpevole, e lanciò il suo miglior argomento cavato dal fondo del cuore: "Le voglio tanto bene!". "Ti ringrazio dell'onore" disse con ironia il signor Pedrotti. "E lei pure vuol bene a me" soggiunse Giovanni, in cui l'indignazione era pronta, e ravvivava il coraggio. "Me ne congratulo tanto, ma sai cos'ha di dote mia figlia?" "Io non gliel'ho domandato, e la sposerei soltanto quando avessi altrettanto anch'io". "Ah bene: allora ne riparleremo". Ed il proprietario si rizzò indispettito come per chiudere la seduta. Ma Giovanni aveva ripreso ardire a quel rifiuto scortese, ed insistette: "Mi basta che lei prometta di non darla ad altri, e di concederla a me quando mi sarò fatto un nome ed una rendita". "Oh! io non firmo cambiali a così lunga scadenza" disse il signor Pedrotti facendo una spallucciata ed avviandosi all'uscio. "Non m'ha detto che ha fede in me?" domandò Giovanni con accento di rimprovero. "Oh, mi pare che basti!" gridò il possidente con un impeto di rabbia e picchiando un piede in terra. "T'ho dato retta anche troppo. Cosa ti credi d'esser diventato, per quello straccio di laurea che abbiamo pagato noi? Mia figlia non è per te, né ora, né mai. Mettitelo bene in testa. Voglio che faccia un matrimonio degno di lei e di me". "Ma posso diventarlo anch'io degno di lei" ribattè Giovanni fremente di sdegno. "Nossignore!" proruppe l'altro gettandogli quella parola in faccia come una ceffata. "Nossignore! Il figlio del Dottorino non sarà mai degno di mia figlia. Vattene, e che io non ti veda mai più vicino alla mia casa. Per Dio!" E sbatacchiò l'uscio dietro il povero innamorato, con un rumore più eloquente delle sue stesse parole. Giovanni traversò il paese quasi di corsa, col viso infiammato, e tutti i nervi vibranti di sdegno. Salì nella sua stanza; vi si rinchiuse con impeto, come se, alla sua volta, sbatacchiasse l'uscio in faccia a quel ricco che lo aveva disprezzato. Poi si mise a scrivere a Rachele: "Tuo padre è un villano, tuo padre non ha cuore" e tirò via a narrare febbrilmente tutto il dialogo avuto col castellano, intercalato da continui io dissi, egli rispose Ma dopo i primi periodi, fermandosi per riordinare il discorso nella sua memoria, si trovò nel falso in quella parte di denigrare il padre presso la figlia. Gli parve di rimetterci della sua dignità, e preferì scrivere quanto gli stava più a cuore. Ieri fummo troppo ottimisti. Non abbiamo voluto prevedere il male, ed il male è venuto, e ci trova impreparati. Tuo padre mi ha negata la promessa che imploravo, e mi ha chiusa la porta della tua casa. Sono profondamente offeso: ma se tuttavia potessi sperare in te, non sarei scoraggiato. Mi sentirei capace di provargli che l'ingegno è assai più della ricchezza. Ieri m'hai detto una parola terribile. M'hai detto che non potresti resistere a tuo padre. Dunque gli obbedirai? Mi respingerai da te, per sposare qualche ricco, proprietario di fondi più o meno irrigatorii? Non ho il coraggio di pensarlo. Desidero, spero e domando che tu mi serbi la promessa d'esser mia, d'aspettarmi. È una domanda ardita, e sarebbe da parte tua una grave promessa. Pensaci. Amante e disperato come sono, non voglio tuttavia strappartela con un'illusione. Non verrà presto il giorno della felicità. Saranno degli anni che dovrai aspettarmi; io mi sento l'energia e la capacità di fare una bella carriera. Ma per presentarmi a tuo padre, dopo quanto m'ha detto, non basta che io abbia una bella rinomanza, e buoni guadagni. Debbo avere un capitale da mettere sull'altro piatto della bilancia, per far riscontro a quell'odiosa dote che ti darà; ed un capitale non si accumula facilmente. Forse passerà lungo tempo, prima ch'io possa reclamare l'adempimento della tua dolce promessa. Ed intanto saremo divisi, nessuno ti parlerà di me. Tuo padre ti presenterà altri pretendenti cari al suo cuore, e tu dovrai respingerli, lottare; e s'egli indovinerà la causa de' tuoi rifiuti, saranno scene di discordia che ti avveleneranno la vita. È molto, è troppo domandare tanto ad un povero cuore di donna; ed io stesso, che ti rivolgo quest'ultima preghiera in nome del mio amore, del nostro amore, non oso sperare che tu l'esaudisca. Ma se mai, se nel tuo cuore c'è forza bastante per questo sacrificio, metti una parola, un sì, nel volume dei Promessi Sposi che ti prestai e che la Matta ridomanderà per avere un pretesto di presentarsi in casa tua, dove io sarei discacciato. O Rachele! Se troverò quella parola scritta da te, ti benedirò dal fondo dell'anima; e mi darà tanta forza, tanto ardore, che mi sentirò padrone del mondo. Consacrerò tutte le ore, tutti i minuti della mia vita a lavorare per compensarti del tuo nobile sacrifizio, e quando sarò spossato, consacrerò ancora i miei riposi ad adorarti. Ma è troppo sperare. Non voglio illudermi. Tu sei donna e sei giovine. Tuo padre ti ama, e ti sei avvezza ad obbedirlo in tutto. È il tuo dovere, povera cara. Il libro verrà senza la gioia che aspetto. Ed io penserò che mi ami, che soffri, che piangi, ma che ti rassegni, e mi abbandoni al mio destino. Mi farai un gran male, cara; un gran male. Ma ti amo tanto, che ti perdonerò. Quand'ebbe scritto, chiuse la lettera, e scese a cercare la Matta. La trovò in cucina accoccolata sullo scalino del focolare che si dondolava gemendo. La chiamò, e le disse, spiccando le parole perché potesse capirle: "Vai al castello. Di' che ti mando io a riprendere quel libro che ho prestato alla signorina". La Matta stava tutta imbronciata ed a capo chino, come se non volesse obbedire. "Hai capito?" domandò Giovanni. Ella si contorse tutta e borbottò: "Io non so". Ma Giovanni s'impazientì, ed insistette colla voce alterata: "Ho assolutamente bisogno che tu faccia quest'imbasciata. Ripeti come dico io". E tornò a dire: "Mi manda il signor Giovanni...". La Matta lo guardava fisso; lo vide pallido, agitato, tremante; allora, con tutta l'attenzione di cui era capace, imparò la lezione. Quand'ebbe detto, Giovanni riprese dandole una lettera: "Quando sarai entrata dalla signorina, e nessuno ti potrà vedere, le darai questa lettera; ma bada, che non veda nessuno". La Matta prese la lettera esitando, ed uscì lentamente e di mala voglia. "Sbrigati!" le gridò dietro Giovanni. "Per amor del cielo, sbrigati!". Ella accelerò un momento il passo; ma, appena ebbe svoltato la cantonata, si fermò, cavò di tasca la lettera, la osservò da tutte le parti, guardò la soprascritta; ma non seppe leggere che gli o. La ripose sospirando, e tirò via lentamente verso il castello. Giovanni intanto fremeva; contava i minuti. Finalmente, non reggendo più alla sua impazienza, uscì incontro alla serva. La vide che tornava rasentando il fossato del castello, a passo lento, a capo chino. Appena s'accorse di lui, voltò indietro come se volesse sfuggirlo. Ma egli la raggiunse, e le tolse di mano il libro. "No, lo porto io" disse la Matta. Giovanni non diede retta. Ella stese la mano per pigliare il volume. Tremava, era turbata e diceva: "Vuol portarlo lei? Tocca a me di portarlo". Ma Giovanni la respinse e corse a casa, tenendo stretto il libro fra le mani. Appena fu in camera aperse la copertina tremando, e non ci trovò nulla; scosse nervosamente il volume, e non ne uscì nulla. Allora, pallido, ansimante, colle mani convulse, passò tutti i fogli ad uno ad uno. Ma non trovò nulla. "Ah, lo prevedevo!" sospirò. "L'ha detto che non avrebbe mai potuto resistere a suo padre". Poi soggiunse: "Anche lei! Ebbene vedrà...". Uscì, camminò frettoloso pel paese, entrò a congedarsi dai suoi protettori, coll'aria spavalda, parlando con agitazione febbrile del suo avvenire, della sua prossima fortuna. Aveva un'aria di sfida che quei signori trovavano strana. Gli rispondevano meravigliati: "Ma bene, bene, ragazzo. Se farai fortuna, meglio per te. Io te l'auguro". E poi quand'era uscito pensavano crollando il capo: "Con chi l'ha? Sembra che abbia bevuto". Giovanni tornò a casa col carrozzino che doveva condurlo a Borgomanero alla stazione della strada ferrata. Entrando nella sua camera per pigliare la valigia, sorprese la Matta che guardava ancora curiosamente il volume riportato dal castello. "Lascia stare!" le disse con dispetto. E strappandoglielo dalle mani, gettò la preziosa seconda edizione dei Promessi Sposi sull'ultimo palchetto in alto della libreria. Poi salutò in fretta suo padre, salì nel biroccino e partì. "Anche lei! Ebbene, vedrà!" aveva borbottato ancora Giovanni ripassando, nel calessino sgangherato, accanto al fossato del castello. O la Rachele s'era lasciata convincere dalle ragioni grossolane di suo padre, o aveva ceduto, anche non convinta, alla sua autorità. Ad ogni modo non aveva saputo amarlo coll'energia ch'egli sperava; aveva diffidato di lui. Questo gli metteva una grande amarezza nell'anima; ma non lo scoraggiava; lo spronava più che mai a lavorare, a conquistare un posto in società per poterle dire: "Vedi che hai avuto torto a dubitare di me!". Aveva creduto un momento d'aver bisogno d'una promessa di lei per sostenere il suo coraggio; ed ora invece la mancanza di quella promessa rinfocava il suo ardore, perché gli dava la paura di non giungere in tempo. Bisognava che s'affrettasse, che diventasse rinomato e ricco presto, subito, finché la Rachele era fanciulla, prima che un altro la sposasse. Quest'idea gli accendeva la febbre nel sangue. Egli confondeva il lungo avvenire col fuggevole presente, gli pareva di dover correre sempre, affrettarsi sempre, non perdere un minuto, come se incominciasse una gara alla corsa con un competitore immaginario. Il passo del ronzino malandato che lo trascinava trotterellando verso la stazione di Borgomanero lo faceva fremere d'impazienza. Quando fu nella carrozza di ferrovia trovò lenta la locomotiva come il ronzino, si dimenò sul sedile, alzò ed abbassò i vetri, cavò fuori l'orologio, poi l'orario, contò le stazioni, fece il controllo dei minuti, ed a Novara si lagnò con un impiegato, perché c'erano stati novantacinque secondi di ritardo. Quasi due minuti perduti pel suo avvenire. I primi tempi del suo soggiorno a Milano furono come un secchio d'acqua su quell'ardore. Il signor Pedrotti, nel raccomandare quel povero figliolo all'avvocato Berti un mese prima, gli aveva scritto: "Badi che non ha altro, fuorché quello che potrà guadagnare nel suo studio; cerchi di procurargli un alloggio economico, e se è possibile, anche una pensione adatta a' suoi mezzi, da povero figliolo com'è". L'avvocato Berti gli aveva assegnate cinquanta lire al mese, e gli aveva trovata una camera presso un fabbricante di zoccoli e forme da scarpe, a due passi dal suo studio. Non era veramente una camera; anzi, due anni prima, faceva parte dei metri cubi di spazio che costituivano la bottega. Poi il fornaio aveva preso moglie, ed allora aveva fatto dividere per metà la bottega tagliandola orizzontalmente, e nel mezzanino superiore aveva posto il letto coniugale. Più tardi la moglie, che era sparagnina, aveva immaginato di rizzare un tramezzo nel mezzanino, e farne due. Così, da una sola bottega, avevano finito per cavar fuori una bottega e due stanze. La prima stanza, però, era una specie di atrio aperto, perché vi metteva capo, mediante un largo buco praticato nell'assito, la scala a chiocciola che poneva in comunicazione la bottega coi mezzanini. Ma questo non aveva impedito di collocarvi un letto contro la parete, una tavola greggia dall'altra parte, due seggiole, e di affittare quella stanza mobiliata per dodici lire al mese. La scarsità dei mobili però non lasciava il vuoto nella stanza. Le pareti ed il soffitto erano riccamente ornati da mazzi enormi di zoccoli e forme, che, riuniti pei talloni, si allargavano come i raggi d'una ruota, come le punte d'una bomba. Intorno all'arco della bottega, che serviva di finestra al mezzanino, lungo la scala, e tutt'intorno all'apertura che sbucava nella stanza, pendevano disuguali ed appuntati quegli innumerevoli piedi. Bisognava salire guardinghi, badar bene dove si arrivava col capo, e non portar mai il lume acceso. Era l'alloggio toccato a Giovanni; egli non era schifiltoso. "Poiché costa poco" aveva detto, "e per questo prezzo non si può aver di meglio...". E la moglie del fornaio, incoraggiata da quella facilità di contentatura, s'era arrischiata a dirgli: "Se poi volesse adattarsi anche a mangiare la minestra con noi...". "Ma ti pare!" l'aveva interrotta il marito. "Eh! Lascia, lo dico nel suo interesse, perché gli costerebbe poco; del resto se non gli conviene..." Ed a Giovanni era convenuto, a trenta centesimi al giorno, compreso un sorso di vino. Ma alla bella prima aveva dovuto convincersi, che, pel suo stomaco di vent'anni, quella non poteva essere che la colazione; ed ancora, lasciandogli un florido appetito pel pasto seguente. Pel desinare aveva quindi dovuto pensare a trovarsi una pensione, dove pagava trenta lire al mese. Così furono collocate le cinquanta lire del suo stipendio, più una. Quell'una e le spese di lume, lavatura, stiratura, vestiti, scarpe e tutto il resto, bisognò che il giovine avvocato s'industriasse a guadagnarsele. Dallo stesso avvocato Berti poté avere l'incarico di copiare atti legali, di riordinare e di mettere in netto dei vecchi minutari, e tratto tratto di tradurre qualche brano d'un trattato inglese o tedesco. A questo modo Giovanni riuscì a sbarcare alla peggio il suo magro lunario. Ma il Berti lo occupava nello studio tutte le ore del giorno, e non gli rimanevano, per quei lavori e guadagni supplementari, che le prime ore del mattino, e la sera. Per poco che dormisse, nelle ventiquattro ore della giornata non ce n'era una di troppo per lui. Quel mezzanino non aveva camino né stufa. L'assito mal connesso lasciava entrare l'aria fredda della bottega, dov'era un continuo aprire l'uscio, e dove le mura stillavano umidità. Il fornaio diceva che era meglio così, perché non c'era pericolo che la sua mercanzia di legno secco prendesse fuoco. Ma questa considerazione non impediva a Giovanni di sentirsi le membra irrigidite e le mani paralizzate dal gelo nelle lunghe sere d'inverno, che passava solitario a scrivere al lume d'una lucernetta a petrolio. Ed anche questa era causa di continui rabbuffi da parte del fornaio. Appena la sua grossa testa, ricciuta in giro e calva nel mezzo come quella d'un san Giuseppe, spuntava dal suolo, alzandosi a misura che saliva la scala, si cominciavano a sentire delle ispirazioni rumorose, come di chi cerca di riconoscere un odore; poi una serie di "Uhm! Uhm!" gli contraeva le grosse labbra, e finalmente, mentre il passo pesante dell'omaccione faceva tremare la stanza, lo s'udiva borbottare: "Questo maledetto petrolio! Con tanto legno intorno! Ma! Ma!". Giovanni tirava via a scrivere. Ma le recriminazioni proseguivano dall'altra parte del tavolato fra i due coniugi, che in causa di quel tenue tramezzo, non aveva segreti pel loro inquilino. Del resto non erano cattiva gente; ed il giovine avvocato, che badava alla sua meta, li lasciava dire. Sovente nel dicembre, quando il freddo era più intenso, l'udire quei due, che si voltolavano tepidamente nel loro letto di foglie di grano turco, evocando quelle immagini ardenti di fuoco e d'incendio, gli dava una tale smania, che avrebbe voluto erigere una pira di forme, di zoccoli e di trucioli, e sgranchirsi deliziosamente alla vampa. Ma poi pensava a Rachele, e diceva: "Un giorno saprà quanto ho sofferto per lei". E ci metteva dell'orgoglio a sfidare quei patimenti, ed a sentirsi eroico. Nel segreto della sua stanza trovava modo di gloriarsi così della sua povertà. Ma fuori ne era sovente umiliato. Fin dai primi tempi della sua entrata nello studio, gli altri praticanti gli avevano detto ch'era l'uso fra loro di festeggiare con un pranzo la venuta di un nuovo compagno, il quale poi, dal canto suo, ricambiava con un pranzo la cortesia ricevuta. Giovanni aveva lasciato cadere il discorso. Ma l'anziano dello studio, che conosceva le circostanze d'un esordiente povero, aveva soggiunto per incoraggiarlo: "Non sono banchetti da Lucullo, sa? Si desina a cinque lire a testa". Ma erano quattro; e venti lire erano ancora una somma esorbitante per Giovanni. Per qualche tempo non se n'era riparlato, ed egli pensava, tra contento e mortificato: "L'avranno capita". L'avevano capita infatti, e dopo tre settimane l'anziano disse a Giovanni a nome di tutti, e presenti tutti: "Sa? Abbiamo combinato di pregarla di venire a desinare con noi alla Magnetta, per festeggiare il suo ingresso nello studio. È il solito pranzo... se vuol favorirci...". Giovanni rimase male, e si fece tutto rosso. Sentiva che avrebbe dovuto rispondere che ringraziava, e sperava che il tal giorno, prossimo, avrebbero favorito tutti loro a pranzo con lui... Ma pensava a' suoi pochi quattrini, al nessun credito, e l'impossibilità gli strozzava le parole in gola. Allora l'anziano, che era uomo di buon cuore, soggiunse: "Non importa che lei ce lo renda, sa! Senza complimenti...". Era una ceffata, e Giovanni se ne sentì tutto indolorito. Quella sera la sua povertà gli fu grave di molto; avrebbe dato dei pugni contro il cielo. Entrando nella bottega i trucioli che scricchiolavano sotto i suoi passi lo impazientirono; li cacciò di qua e di là coi piedi, borbottando, e s'avviò su per la scala, senza badare ai pendagli di zoccoli e forme che sporgevano da tutte le parti. Al primo mazzo di forme che gli urtò un fianco, lo respinse con mal garbo. "Badi!" gridò il fornaio dalla bottega. Ma Giovanni aveva esaurita la sua misura di pazienza; crollò dispettosamente le spalle e riprese a salire in furia, spingendo gli ingombri a destra ed a manca. Nell'arrivare in cima, urtò col capo in un mazzo enorme di zoccoli, che uscì dall'uncino, e cadde rotolando, percotendo, rimbalzando con un fracasso di cocci e di ghiaia. Il fornaio e la moglie balzarono in piedi urlando tutti e due, e per tutta la sera, dalla bottega, coi rumori della pialla e della sega, salirono al mezzanino le recriminazioni dei due coniugi scandolezzati. Più tardi Giovanni, che, incapace di lavorare, s'era cacciato in letto a ruminare la sua vergogna, li vide traversare la sua stanza portando con aria funebre il mazzo di zoccoli caduto, come un ferito che la loro pietà fosse costretta a ricoverare altrove, per metterlo al sicuro contro gli attentati di quel nemico violento, a cui lanciavano occhiate sdegnose. Dopo d'allora la vita del giovine avvocato si fece anche più penosa. In casa nessuno gli rivolgeva più la parola. Mangiava la colazione in silenzio, mentre la zoccolaia si agitava per la bottega sfaccendando e scopando, ed il marito le diceva tratto tratto con ironia: "Bada a non spingere i trucioli fra i piedi al signore. Aspetta a scopare che non lo impolveri". E la sera, quando Giovanni saliva in camera, il grosso operaio lo precedeva lungo la scala colle braccia stese per allontanare gli zoccoli e le forme, facendogli come un derisorio arco di trionfo. Allo studio poi, era sempre imbarazzato per quel pranzo che non aveva ricambiato. Era un'ombra che si frapponeva tra lui e gli altri praticanti, ed impediva la confidenza. C'era una serie di discorsi che evitava per non richiamare quell'idea che lo faceva arrossire. Non parlava di locande, né di pranzi, né d'inviti, e, se un altro domandava ad un compagno: "Vuoi che oggi pranziamo insieme?", gli pareva un'allusione ironica e si sentiva rodere. Un giorno s'accorse che i praticanti avevano un pranzo in comune pel natalizio d'uno di loro, e ne parlavano piano per non essere uditi da lui. Questa delicatezza lo ferì come un insulto. Si propose di ricambiare ad ogni costo il banchetto ricevuto. Soppresse il vino nel suo pranzo d'ogni giorno, vegliò più tardi al lavoro, e, dopo due mesi, si trovò in caso di fare il grande invito, con venticinque lire raggranellate e lesinate a soldo a soldo. Aveva calcolato che non ci voleva di meno per la mancia al cameriere, il caffè, i sigari, e le spese imprevedute. Erano venticinque goccie del suo sangue. Ma quando uscì dalla locanda seguito dai tre praticanti, colla testa un po' grave per un bicchiere di cattivo vino di più, e la borsa leggera per quelle venticinque lire di meno, gli parve d'avere ottenuta una riabilitazione, e pensò rivolgendo la mente a Rachele: "Voglio poterle dire che, anche nei giorni più difficili, non mi sono lasciato avvilire". E l'approvazione di lei, che sentiva d'aver meritata, lo compensò delle privazioni sofferte, assai più che la vanità d'aver ricambiato l'invito. C'erano delle epoche in cui la sua povertà gli riesciva penosa di molto. Una era il carnevale, e specialmente la fine, l'ultima settimana. Tutto il giorno, fra i suoi compagni di studio, era un continuo ciarlare di serate godute e da godere; un discorrere sconclusionato, a sbalzi, con delle allusioni che Giovanni capiva alla sua maniera e che lo eccitavano: "Quale preferivi ieri sera? La bionda? Non sei di cattivo gusto. Che carnagione! E che abbigliatura! Quella ne spende de' quattrini! Brrr!". Giovanni si metteva a scrivere in fretta, faceva scricchiolare la penna per assordarsi; ma quelle parole s'insinuavano tra le frasi legali che andava stendendo sulla carta, gli empivano la fantasia di visioni, di desideri, di curiosità acute. Era impaziente d'uscire di là per distrarsi da quelle idee; ma quando ne usciva era peggio: le strade erano affollate di gente rumorosa, allegra, ben pasciuta; pareva che la città fosse piena di denaro; i più umili operai ne spendevano e si davano bel tempo. C'era un formicolio di piccoli industriali e commercianti vagabondi, che andavano vendendo stampe, caricature, bosinate, fiori di carta, coccarde, medaglie, e decorazioni burlesche del Carnevalone; a Giovanni però non offrivano la loro mercanzia; lo guardavano con un ghigno ironico, come se dicessero: "Costui è a secco". I negozi di comestibili avevano delle mostre tentatrici; le oche grasse, i polli grossi e bianchi protendevano i loro ventri enormi accanto alle aragoste melanconiche, che movevano tratto tratto una zampa colla languidezza della loro vita agonizzante. I salami prendevano in quei giorni delle proporzioni esagerate, ed i formaggi preziosi, i tartufi, i pesci rari, i vini squisiti ingombravano le vetrine, attestando il grande assegnamento che i negozianti potevano fare sulla ghiottoneria e sulla prodigalità della gente. Presso ogni osteria, presso ogni caffè in certe ore si udiva un formidabile acciottolare di piatti, un acuto tintinnìo di bicchieri, di posate, e dalle cucine sotterranee salivano delle vampate d'aria calda ed odorosa, che evocava subitaneamente nella fantasia di Giovanni l'immagine d'una bella stanza da pranzo riscaldata, d'una tavola ben imbandita ed inondata di luce con tutte le imposte chiuse, dove si potesse isolarsi dal resto del mondo, nella beatitudine d'un buon pranzo e d'una compagnia allegra e spensierata. Quei giorni il suo desinare gli sembrava stomachevole; lo mangiava dispettosamente, tribolato dai pensieri ghiotti, e la sera non poteva lavorare; aveva l'animo amareggiato; non c'era più proporzione fra quanto guadagnava col suo lavoro, e quanto avrebbe dovuto spendere per appagare i suoi desideri; ed il lavoro gli pareva inutile. Usciva, si confondeva colla folla, si fermava alla porta dei teatri, dove la gente faceva coda per entrare. Tutte quelle persone, centinaia, migliaia di persone, avevano oltre al denaro necessario per vivere, anche quello superfluo per divertirsi. Lui solo non ne aveva; e s'aggirava, vestito leggermente, colle membra assiderate, al freddo, nella nebbia, pensando con avidità l'atmosfera ardente e soffocata dei teatri. Vedeva le maschere che correvano trepidanti dalle carrozze da nolo all'ingresso della Scala, e sparivano. Erano corpi di donne ravvolti in bianchi mantelli imbottiti, che li facevano apparire enormi; e gambe rosee, cilestrine, scarlatte, terminate da stivaletti di seta, portavano quella massa sproporzionata con certi passi precipitati, impazienti quando la folla ritardava d'un minuto il loro ingresso al veglione, frementi di precipitarsi in quel vortice di danze, di salti, di follie. Vedeva le signore scendere dalle carrozze padronali in gran toletta, coi lunghi strascichi di raso e di velluto per andar a vedere decorosamente il veglione dal loro palchetto; passavano altere lasciandosi dietro un profumo acuto. Gli uomini che le accompagnavano avevano il soprabito chiuso fino al mento, e lungo che copriva tutta la persona. Ma i guanti grigioperla che sporgevano dalle maniche ed il cappello a molla, facevano indovinare l'abito nero, la cravatta bianca, il largo sparato, il costume da serata. Giovanni se li figurava come se li vedesse in teatro già usciti dalla loro crisalide, quei grandi farfalloni neri; se li figurava belli e gaudenti, ed una malinconia profonda gl'inondava il cuore. Si stringeva intorno il suo soprabito insufficiente contro il gelo, e tremando, battendo i denti, s'affrettava verso un piccolo caffè, dove beveva un ponce per riscaldarsi, si sgranchiva un momento in quell'atmosfera calda ma impregnata d'odori d'alcool e di dolciumi, densa di fumo, opprimente, poi andava a letto per non vedere i godimenti che gli erano negati. Ma nella bassa soffitta gli giungevano ancora le grida stonate delle maschere, il rotare lento delle carrozze, assordato dalla neve come da un tappeto, o stridente sul lastrico diacciato. Il carnovale lo perseguitava anche nel letto; tutto raggricchiato per riscaldarsi sotto le scarse coperte, col capo di sotto per fuggire i fili d'aria pungenti che filtravano dai serramenti, pensava i piaceri della vita, facendoli coll'ardore dell'immaginazione più belli del vero. Si figurava i palazzi delle Mille ed una notte splendori di luce non mai visti, bellezze di donne ideali, nudità improbabili, sfarzo regale di stoffe e di gemme, ed ebbrezze d'amore. Poi, quand'era prostrato dalle lotte interne, dalle lunghe brame insoddisfatte, venivano i giorni pazzi, in cui, fin dal mattino, i carri delle maschere percorrevano le contrade a suon di banda, e le botteghe erano chiuse, e le insegne coperte da una tela bianca per proteggerle dai coriandoli. Nessuno lavorava più. Nelle strade, sui balconi, tutti gridavano. Si spandevano coriandoli da ogni parte, se ne vuotavano dei sacchi, se ne sprecavano centinaia di quintali, allegramente, ridendo, come se non costassero nulla; si gettavano fiori, arance, confetti, con una smania di buttarli via, col gusto, la rabbia dello sperpero. Pareva che tutta la popolazione, soprafatta da una ricchezza improvvisa ed esuberante, s'affrettasse a cacciar fuori dalle case quella sovrabbondanza d'averi che le ingombrava, e gioisse, tripudiasse nel levarsi d'attorno il peso di quelle superiorità eccessive. Le bande suonavano inni di gioia, tutte le voci s'alzavano in un immenso grido assordante; signori e facchini, uomini e donne, tutti giubilavano, danzavano sulle piazze, ardevano roghi, si mascheravano, gestivano pazzamente; tutti invasi da una follia gioconda. E Giovanni si sentiva solo a non aver la sua parte in quella festa dell'abbondanza e dell'allegria, solo ad aver freddo e fame; e ne provava una rabbia, un rammarico così intenso, che in mezzo a quella grande pazzia di giubilo gli pareva d'impazzir di dolore. Un'altra epoca di tortura per lui era l'estate, l'opprimente estate di Milano. Nato e cresciuto in campagna, avvezzo all'aria pura, alle colline verdi, alle gite solitarie sotto l'ombra dei grandi alberi, appena veniva la primavera sentiva la nostalgia della campagna; ed a misura che l'estate progrediva, quel desiderio d'aria pura si faceva acuto come uno spasimo. Tutti se ne andavano ai bagni, alle acque, in montagna, in Brianza, sui laghi; nelle contrade di Milano Giovanni non incontrava che gente laboriosa e stanca come lui; uomini d'affari, commercianti che avevano la famiglia in villa e la raggiungevano la domenica, impiegati che aspettavano il loro mese di congedo per fare una breve villeggiatura. Lui solo non aveva nessuno da raggiungere nei giorni festivi, non aspettava nessun congedo, doveva lavorar sempre, lavorare ogni giorno per vivere ogni giorno. La sua soffitta diveniva inabitabile; c'erano dei giorni in cui il caldo saliva a trentotto fin a quaranta gradi; allora c'era un'afa pesante che toglieva il respiro: mentre scriveva, il sudore dalla fronte, dalle tempia, gli sgocciolava sulla carta; le carni gli bruciavano; aveva sempre sete, ed ingollava con disgusto bicchieri e bicchieri d'acqua tepida, indigesta, che lo metteva tutto in sudore, e lo prostrava. La sera faceva delle lunghe passeggiate in cerca d'aria; ma sulle strade maestre, arse tutto il giorno dal sole, i piedi gli affondavano fino alla caviglia nella polvere, e ne sollevavano un tal nuvolo intorno, che gli andava in gola, lo soffocava, e lo imbiancava tutto. Lungo la strada di circonvallazione ed i bastioni, non faceva che percorrere tutta la scala degli odori puzzolenti. Al puzzo stomachevole d'una conceria, succedeva l'odore agrodolce, nauseabondo d'una tintoria che faceva il solletico in gola; più innanzi una filanda appestava l'aria col fetore dei bozzoli macerati, e gli orti spandevano intorno le esalazioni malsane del guano e dei letami. Tutto quanto era suscettibile di guastarsi sotto quei calori tropicali mandava un odore di putrefazione. Le botteghe dei salumai, i macelli, le latterie, i depositi di formaggi, le latrine, gli orinatoi, i rigagnoli, il naviglio, le spazzature delle case, tutto puzzava, tutto contribuiva a corrompere l'aria con un lezzo di fracidume, di sucideria, che sollevava lo stomaco. I pochi signori che si trovavano in città andavano in giro colla cravatta sciolta, col cappello in mano, servendosene come di un ventaglio; alcuni smettevano persino il solino. Gli operai erano scamiciati, colle maniche rimboccate e lo sparato aperto sul petto peloso; i portinai uscivano la sera sulle porte in mutande, coi piedi nudi nelle ciabatte. La domenica poi tutti uscivano dai dazi, andavano ad ammucchiarsi nelle osterie suburbane sotto i piccoli pergolati piantati in un cortile arido, che danno una languida illusione di campagna; mangiavano male, bevevano peggio, mal serviti, accaldati, impolverati; poi s'affollavano, s'ammonticchiavano negli omnibus per tornare in città, sbuffando, sudando l'uno sull'altro, asfissiandosi a vicenda colle esalazioni acri delle traspirazioni, delle digestioni difficili, delle ubbriachezze. Giovanni aveva provato una volta sola quella scampagnata degli Ambrosiani, e ne aveva avuto la febbre. Stanco, snervato, si trovava più infelice che mai in quell'ambiente al quale i suoi polmoni da campagnuolo non potevano avvezzarsi. Aveva delle visioni tormentose di grandi estensioni verdi, di acqua limpida, di alberi, di ombre, di meriggi ardenti nell'alto silenzio e nell'aria pura dei monti. Sognava una casetta bianca, colle gelosie verdi, in una vasta campagna solitaria; ci pensava con un ardore da innamorato. E quando incontrava una carrozza con un baule legato a cassetta che s'avviava verso la stazione, verso i campi, verso le frescure verdi, verso l'aria fine, provava una smania ardente d'attaccarsi dietro come un monello, poi rimaneva più triste, più scoraggiato, e malediva il destino che lo inchiodava inerte e miserabile, in una città dove aveva creduto di trovare la fortuna, la gloria e tutte le dolcezze della vita. La prima volta che il Berti gli affidò una causa, Giovanni si credé giunto alla meta desiderata. Era una causa civile fra due piccoli proprietari per un muro limitrofo. Una lite di puntigliuzzi puerili che non presentava nessun interesse. Ma egli ci si pose dentro con tutta l'anima; studiò le origini dei due possidenti e delle rispettive possessioni, risalendo alle memorie più remote. Fece uno spreco enorme di zelo, scrisse dei fascicoli di appunti, studiò la questione con un'acutezza di vedute, che sarebbe proprio il caso di chiamare degna di miglior causa. La sera, invece di sgobbare sui soliti lavori di traduzione o di copiatura, riandava tutto quello studio fatto e rifatto. Si preparava in mente il discorso che voleva pronunciare all'udienza, lo allargava, lo particolareggiava. Poi voleva udirne il suono, voleva provare i gesti. E si rizzava in piedi, serio senza troppa solennità, salutava in giro l'assito del mezzanino, e cominciava ad arringare semplicemente e con calma gli zoccoli e le forme che gli pendevano intorno. A grado a grado si animava, gli pareva di vedere, tramezzo a quei piedi grotteschi di legno, comparire la faccia bianca di Rachele che gli sorrideva per incoraggiarlo, e la parola gli veniva spontanea ed elegante coll'illusione d'essere ascoltato da lei, e si riscaldava, ed alzava la voce, finché lo zoccolaio spaurito sporgeva il capo ornato del beretto da notte per vedere se prendeva fuoco la casa. Quando si metteva a letto, stanco ed esaltato, sentiva in sé l'anima d'un legale illustre e s'inebbriava colla visione d'una vittoria che doveva stabilire la sua riputazione; pensava all'impressione che quella splendida riescita doveva produrre a Fontanetto. Gli pareva di vedere i mecenati inchinarsi a lui, il Pedrotti stendergli le braccia in atto di scusa, e tutte le comari e comarette del paese uscire sulle botteghe e sugli usci, e gridarsi l'una all'altra: "Eh! Il figlio del Dottorino? L'avvocato Mazza? Che gloria! ed ora sposa la figlia del signor Pedrotti del Castello!". Allora il suo spirito si smarriva nei sogni d'amore; saliva in un vagone solo con Rachele pel viaggio di nozze e chiudeva la sportello. Infatti, quando la causa fu discussa, Giovanni parlò come avrebbe potuto fare un avvocato provetto. Un collega, che per caso si trovava presente, andò a stringergli la mano, ed il suo cliente lo pagò generosamente. Ma fuori dall'aula del tribunale, nessuno s'interessò alle vicende di quel muro limitrofo, i giornali, naturalmente, non ne fecero parola, e, tre giorni dopo, quel grande avvenimento della vita di Giovanni era completamente passato, senza lasciare nessuna traccia, senza produrre altri cambiamenti nell'esistenza del giovine praticante, fuorché un po' più di quattrini nella borsa. Alla prima egli non poteva persuadersene. Quando rientrava nella bottega del fornaio, e dava la buona sera a quell'uomo scamiciato, sentiva di fare una degnazione, e pensava: "Se sapesse chi sono!". Il mattino, quando mangiava la minestra in un angolo della bottega presso il camino, si ricordava un vecchio piatto di terraglia che una contadina della Bicocca mostrava a tutti dicendo: "Vede? Qui dentro ha mangiato due ova Carlo Alberto. Mangiava come noi, tal quale. E dopo ho saputo che era il Re. Madonna santa!". Ma i giorni ed i mesi si succedevano; passò più d'un anno; ed i formai non erano ancora nel caso di meravigliarsi che Giovanni mangiasse come loro. Anzi la donna gli faceva sentire, senza punta riverenza, che mangiava un po' più di loro. Intanto, a misura che andava innanzi estendeva il circolo delle sue relazioni; gli erano toccate altre cause di poca importanza, ed era entrato in rapporti cordiali con due o tre clienti. I suoi compagni di studio avevano assistito alle sue arringhe, si erano mostrati entusiasti del suo ingegno e s'erano offerti di presentarlo al signor Tale, al cavalier Talaltro, persone influenti... Giovanni aveva accettate con premura le loro offerte. Ma quante noie, quanti sopracapi gli costavano quelle visite! Doveva provvedersi di guanti, di cravatte; doveva avere un cappello lucido, ed una camicia fine e ben insaldata; più volte dovette rinnovare le scarpe, che, senza quel caso, avrebbero potuto durare un altro mese. Per una visita ad un Commendatore fu ridotto a farsi prestare una pezzuola dalla zoccolaia, perché le sue erano tutte rammendate. Ma era nuova, un po' grossa; gli faceva una sporgenza nell'abito come se avesse avuto un panino in tasca; e quando ebbe bisogno di servirsene, si distese in pieghe ed angoli rigidi come di carta, e scricchiolò tal quale. E, dopo tante seccature, i risultati di quelle presentazioni ufficiose si riducevano quasi sempre a nulla. Il personaggio a cui un amico zelante lo presentava enumerando le sue qualità, il grado accademico, l'ingegno, la facondia, la sventura immeritata, ecc., ecc., rispondeva: "Ma bravo, bravo! Mi fa tanto piacere...". "Se mai potesse giovargli colla sua influenza..." suggeriva l'amico. A questo appello diretto, la potenza più o meno autentica lasciava cadere dall'alto una promessa più o meno vaga: "Ma senza dubbio! Ci conti. La terrò presente...". E Giovanni non ne sentiva più parlare, se non dall'amico che lo aveva presentato, per ricordargli che era in dovere di fare una visita in quella casa dove lo avevano accolto tanto bene. Nei casi eccezionalmente fortunati lo consultavano circa una vecchia lite, gli affidavano una causa di poco momento o un incarico ingrato. Egli ci si adoprava con zelo. Lo pagavano un po' meno di quanto avrebbero dovuto, in causa dell'amico, della presentazione, ecc., ecc., e tutto finiva lì. Allora si sentiva oppresso dallo scoraggiamento. Al poco che aveva occasione di poter fare metteva tanto studio, tanto impegno, che non poteva a meno di tenerne gran conto. Sapeva d'aver fatto tutto quello di cui era capace, e diceva: "Se con tanto lavoro non m'è riescito di farmi una rinomanza, è finita: vuol dire che non ci riescirò mai". Ed allora percorreva col pensiero una lunga esistenza di sacrifici e di fatiche ignorate per mantenersi in una mediocrità punto dorata; pensava a Rachele, che, non udendo più parlare di lui, avrebbe finito per sposare un altro; e se la vedeva passare dinanzi in tutto lo splendore d'una sposa ricca, mentre egli continuava a logorarsi la vita, unicamente per mangiar pane. In un giorno di sgomento pensò: "Le donne sono onnipotenti. Se mi facessi aiutare da qualcuna?". E si fece presentare alla signora di un grande imprenditore di strade ferrate. Era una donna di spirito indipendente, che aveva fatto a meno delle cerimonie ecclesiastiche e legali nella sua unione col ricco banchiere, e nelle precedenti. Giovanni era giovine e bello, e trovò grazia agli occhi della signora. Essa gli promise la clientela del banchiere, uomo prodigiosamente litigioso, che non badava a spendere, pur d'avere un buon avvocato, ed avrebbe certo data la preferenza ad uno raccomandato da lei. Ma era necessario che Giovanni frequentasse la casa, che l'imprenditore s'avvezzasse a lui, imparasse a conoscerlo, e poi... e poi... Mille promesse, di cui la bella donna mantenne soltanto quelle che avevano fatto i suoi occhi neri, e che dipendevano esclusivamente da lei. Ma in capo ad otto giorni Giovanni ne fu tanto disgustato che pensò di non rimettere più i piedi nella sua casa. Quella breve relazione non portò la menoma alterazione nei sentimenti del giovine avvocato per Rachele. Anzi, alla prima se la figurò piangente, desolata, e nella compunzione dell'anima pentita, sentì di amarla anche più, per tutto quel dolore che le aveva dato. Quand'era solo si metteva realmente in ginocchio dinanzi all'immagine che evocava della giovinetta, e le domandava perdono, e si sfogava in proteste, in giuramenti, in lacrime amare. Dopo quel disinganno ebbe un lungo periodo di abbattimento. Non si commoveva più quando gli affidavano una causa. Le sue illusioni erano sfrondate, e sapeva che, con quelle piccole liti, non c'era per lui da cavare un ragno dal buco. Tuttavia glie ne capitavano abbastanza di frequente, ed a poco a poco perdette l'abitudine delle scarpe logore, degli abiti spelati, e lasciò il mezzanino del fornaio. Ma, insieme alla miseria, era passata anche l'illusione della futura grandezza, ed era venuta la prosaica e triste mediocrità. Ho sbagliato carriera, pensava. Coll'avvocatura non si arricchisce. E si sentiva avvilito, al pensiero che dopo tre anni non era ancora in grado di presentarsi al castellano di Fontanetto, senza farlo sorridere di compassione a' suoi famosi guadagni di trecento lire al mese o giù di lì. Gli venne la curiosa idea di tornare alle grandi economie che aveva abbandonate, per metter da parte una somma ed arrischiare poi delle operazioni alla Borsa. Sapeva di patrimoni colossali che erano stati iniziati a quel modo, e diceva: "Chissà?". S'era fatto ingegnoso, durante i suoi anni difficili, nell'arte di vivere con meno denaro possibile. Ed infervorato nel pensiero di fare quell'ultimo sforzo per arrivare a Rachele prima che gli fosse tolta, non gli riescì grave d'abbandonare la sua nuova vita relativamente agiata; lo fece con entusiasmo, godendo in sé delle privazioni che s'imponeva, e per ogni scudo che aggiungeva a' suoi risparmi, giubilava come un avaro. Dopo un anno stava per avere mille e cinquecento lire, quando ricevette una lettera da suo padre che gli scriveva: "Sono pieno di debiti e di malanni; e, dacché non sono più in grado di dire le barzellette per tenerli allegri, i signori non mi danno più da pranzo. Non ho gran fede nella generosità umana e tanto meno nella voce del sangue. Ma spero che, per non tollerare che tuo padre vada mendicando, il che ti farebbe torto, penserai a provvedermi il necessario per questi ultimi anni. Non sono mai stato un padre tenero, ma è certo che fino a dodici anni, o bene o male, t'ho dato da vivere. Ed è ben difficile ch'io ti resti altrettanto tempo sulle spalle...". Giovanni tremava tutto nel leggere quella lettera. Gli pareva di sentirsi trascinare in un abisso. S'era creato un lieve sostegno, ed ora gli mancava sotto i piedi, ed acquistava la certezza che gli mancherebbe sempre. Omai quanto guadagnava era appena sufficente per lui e pel padre. Privandosi della somma raccolta, non poteva sperare di raggranellarla di nuovo. Tuttavia non gli venne neppure un momento l'idea di sottrarsi a quel dovere. Era un pezzo che non piangeva; e pianse disperatamente su quella lettera. Suo padre aveva mangiato e bevuto e s'era divertito, mentre lui si struggeva in quel lavoro da formica, per arrivare alla fanciulla che amava. Ed ora quel padre aveva il diritto di prendere il frutto de' suoi sudori e dei suoi sacrifici, e di dirgli: "Rinuncia alle tue speranze spontaneamente, o ti ci faccio rinunciare svergognandoti collo spettacolo della mia indigenza". Il suo cuore si ribellava a quell'ingiustizia, fremeva sotto la pressione di quel dovere gravoso, e, quando chiuse il denaro in una lettera raccomandata, non provò la soddisfazione di chi sente di far del bene, non si commosse della sorte miseranda del Dottorino, ma sentì un gran vuoto nel cuore, un grande sgomento dell'avvenire, un rammarico inenarrabile per la speranza che perdeva; e calcando con ira il quinto soggello sulla cera disciolta, mormorò: "Maledizione!". Era infatti una maledizione, una iettatura, una fatalità che perseguitava lui come perseguita tanti altri e lo condannava a vivere ignorato col suo ingegno, la sua scienza e tutte le sue superiorità. Omai, stanco d'aver lottato quattro anni inutilmente, scoraggiato da quell'ultimo colpo, s'abbandonava alla sua sorte, non isperava più. Pensava a' suoi sogni di fortuna ed a Rachele come ad una gloriosa visione svanita. Scacciava con vero spavento il pensiero che avrebbe potuto incontrarla al braccio d'un altro, e desiderava non rivederla mai più. Sentiva che si sarebbe vergognato dinanzi a lei. Aveva mancato alle sue promesse audaci, era stato presuntuoso, e la cattiva riescita lo accusava d'essere stato un presuntuoso ignorante. In fondo aveva più che mai la convinzione del contrario. Ma non è dato a nessuno di salire sui tetti e gridare alle turbe: "Badate ch'io sono un grand'uomo. Lasciatemi fare questo e quest'altro, e ve lo proverò". Bisogna che le circostanze ci aiutino; noi non possiamo che profittarne. Ma le circostanze non erano state favorevoli al povero Giovanni. Un giorno l'avvocato Berti lo chiamò nel suo studio, e gli comunicò un processo pendente per omicidio. Un acquavitaio aveva ucciso in rissa un servitore. Era un assassinio volgare, non c'era da fare una brillante difesa, e l'avvocato illustre la affidava al giovine sostituto. Giovanni prese a studiare la causa con quell'interessamento da artista che metteva sempre nei suoi lavori. Ma non era possibile negare la responsabilità dell'accusato. Oltrecché risultava chiara dalle prime inchieste e deposizioni, l'accusato stesso la confessava. Egli era inoltre un uomo intrattabile. Quando Giovanni lo vide, ne fu impressionato penosamente. Stava seduto nell'angolo più buio del carcere, coi gomiti sulle ginocchia e le guancie duramente appoggiate sui pugni chiusi, che gli raggrinzavano gli zigomi, e li rialzavano a nascondere gli occhi. Aveva sessant'anni, ma pareva un vecchione; aveva la testa calva e la barba bianca. Il suo sguardo era duro; il viso imbronciato come d'un uomo collerico. La presenza del giovine avvocato parve seccarlo più che altro. Non si mosse affatto al vederlo, e quando Giovanni gli si presentò come suo difensore, si strinse nelle spalle, e rispose: "Ho ucciso quell'uomo, non nego nulla. Non c'è bisogno del difensore". Per quanto Giovanni lo interrogasse, non volle dir altro. Quel cinismo cupo parve anormale al giovine avvocato. Egli si rivolse al carceriere: "Cosa dice l'imputato del suo processo?" "Non dice nulla perché non parla mai". "Come impiega la giornata?" "Sta quasi sempre seduto a quel modo. Qualche volta legge, o scrive colla matita sul muro". Giovanni volle vedere il libro in cui leggeva. Era una bibbia sporca e sdrucita, che si apriva da sé alla pagina dove parla d'un ricco, il quale avendo cento pecore aveva rubata la pecora unica d'un povero. Sul muro trovò pure delle sentenze contro i ricchi, alcune prese da libri devoti o da canzoni popolari; altre, meno felici, di sua invenzione. Sopra un'imposta c'era scritto: "Nel cuore dei ricchi c'è un serpente". Alla testa del pagliericcio si leggeva: "Il diavolo mette i suoi demoni nella pelle bianca dei ricchi per tentare i poveri". "Se ti chiami nobile ed hai del denaro, godi a questo mondo la tua vita da ladro, perché in quell'altro sarai carbone da riscaldare i poveri". Poi c'erano i nomi famosi che la rivoluzione francese ha resi popolari anche fra noi: Marat, Robespierre, Danton e sopra c'era scritto a grandi caratteri: "Evviva!". E sotto: "Gloria eterna!" Giovanni dopo quelle strane letture domandò all'imputato: "Siete socialista?". Egli non capì e non rispose. "Non vi piace come va il mondo" tornò a dire l'avvocato, "e vorreste cambiarlo?" Il vecchio prese con violenza la brocca dell'acqua che aveva accanto, e la capovolse furiosamente, senza curarsi dell'acqua che allagò il pavimento. "Vorreste capovolgerlo?" insistè Giovanni. "Eh!" sospirò il vecchio. Poi si strinse alto nelle spalle, e sospirò più forte: "Omai, a cosa servirebbe?". "Ma c'è un ricco che v'ha fatto qualche torto?" interrogò l'avvocato. L'imputato si rizzò sdegnato, quasi minaccioso, e gridò: "A me nessuno ha fatto torto, capisce? Sono povero, ma onorato. Ho ammazzato. Ebbene? Ma sul mio nome non c'è nulla da dire". Giovanni non ci raccapezzava nulla, perché l'uomo ucciso dall'acquavitaio era un povero servitore. Questi era entrato per bere nella bottega, ed il vecchio, al vederlo, senza precedenti di parole, gli si era avventato contro, urlando: "Ah, ladro, svergognato, servo dei ricchi, te la do io, ora, te la do!" E, con un coltellaccio che aveva afferrato sul banco, gli aveva squarciata la gola. C'erano cinque testimoni che s'erano trovati nella bottega, e narravano il fatto, che l'imputato non pensava affatto a smentire. Giovanni, preso alle strette, non poté scoprire nulla a favore dell'assassino. Ma domandò una perizia medica. L'idea fissa di quell'uomo era l'odio dei signori; poteva essere una mania, o un vecchio rancore. Nel primo caso, i medici gli avrebbero fatto giustizia; nel secondo l'avvocato avrebbe potuto arrivare ad indovinare il suo segreto, e forse a salvarlo. Intanto la perizia, che il tribunale accordò, dava tempo ad altre ricerche. Giovanni non tardò a mettersi in campagna. Quell'uccisione, improvvisa e violenta, doveva essere premeditata; e, per essere premeditata, doveva avere una causa. La sola causa che confessava l'imputato era l'odio pei ricchi; aveva ucciso quell'uomo perché era il servitore d'un ricco. Ma bastarono poche informazioni presso i frequentatori del negozio, per provare che di servitori di ricchi ce ne bazzicavano parecchi, e che l'acquavitaio li trattava bruscamente, ma non ne aveva mai offeso né provocato nessuno. Era dunque quel dato servitore che odiava, e nella causa di quest'odio poteva stare la scusa, o, almeno, una forte attenuante pel colpevole. Questi però diceva che non conosceva affatto la sua vittima. Che non l'aveva mai veduta prima di quel giorno. Bisognava indagare il suo passato per risalire alla causa vera che l'aveva spinto al delitto. Ma quell'acquavitaio Galbusera aveva sloggiato tante volte in quegli ultimi anni che i casigliani dell'ultimo casamento che aveva abitato lo conoscevano da poco, e non sapevano dirne nulla. Giovanni risalì la catena di quegli sloggi, da Porta Romana andò a S. Celso. Là il suo cliente era stato sei mesi, ma la bottega l'aveva in fondo alla via Gozzadini, fin dal semestre prima, quando stava a Porta Romana. Finalmente, a forza di correre e bussare a tante porte, in una catapecchia a Porta Ticinese, dove l'acquavitaio aveva abitato molti anni prima, Giovanni seppe che in quel tempo il vecchio aveva una figlia. Avevano sloggiato improvvisamente senza aspettare la scadenza del San Michele; però non avevano lasciato debiti, e la pigione era stata pagata. Che cosa era avvenuto di quella figlia del vedovo? Giovanni andò al carcere e ne domandò a lui. "Mia figlia è morta" rispose l'imputato. "E lei, la prego di non immischiarsi altro ne' fatti miei". Il vecchio s'era fatto tutto rosso, ed aveva parlato con tanta eccitazione che Giovanni si convinse d'aver posto il dito sopra una piaga. L'uomo ucciso dal padre doveva essere il seduttore della figlia. Dalla perizia medica era risultato che l'acquavitaio possedeva le piene facoltà intellettuali. In capo a pochi giorni si dovevano riprendere i dibattimenti. Intanto i giornali, nell'annunciare che quel processo per assassinio era stato rimandato, perché il difensore dell'Ambrogio Galbusera aveva domandata la perizia medica, avevano riferite le ragioni addotte in appoggio a quella domanda, che erano le invettive furiose del Galbusera contro i signori e le sue frasi stravaganti scritte sul muro della prigione. E questo era bastato perché quel processo, che al principio non aveva inspirato nessun interesse, suscitasse alquanta curiosità. Questa curiosità crebbe enormemente, quando ad un tratto si seppe che nel seguito del processo si troverebbe implicato il principale rappresentante d'una grande famiglia milanese, notissimo, oltre che pel nome storico che portava, pel suo sfarzo, per le sue avventure galanti, pe' suoi scialosi capricci, che assai spesso fornivano materia alla cronaca cittadina. Come accade, nacque gara tra cronisti a dare le informazioni più particolareggiate sul clamoroso scandalo che si preparava; ed il nome del giovine avvocato Giovanni Mazza fu su tutte le bocche, insieme a quello del signore citato fra i testimoni a difesa. Si seppe che la scoperta delle cause segrete del misfatto era dovuta allo zelo ed all'acume finissimo dell'avvocato Mazza; e la fantasia popolare eccitata creò una leggenda su questo giovine che aveva rifatta e compiuta da solo l'istruttoria del processo, ed aveva vinta, a forza di coraggio e d'energia, l'influenza che potenti personaggi avevano tentato di esercitare, per impedire che la verità fosse chiarita. Ecco, in sunto, la storia che i giornali narrarono e che i dibattimenti confermarono. Dodici anni prima del delitto, il Galbusera aveva bottega a Porta Ticinese, era vedovo con una figlia di quindici anni, che andava da una cucitrice ad imparare il mestiere. Il cocchiere Teodoro Donadio aveva cominciato a frequentare con assiduità la bottega dell'acquavitaio nelle ore della sera. Ben presto tutti s'erano accorti che faceva la corte alla giovinetta. Allora il Galbusera lo aveva preso a parte, e gli aveva detto che le donne della sua famiglia erano sempre state oneste, e che questa era la sua gloria. Se aveva intenzione di sposare sua figlia lo invitava a dichiararlo, ed a farsi conoscere; altrimenti egli non gli avrebbe permesso di comprometterla colle sue galanterie. Il Donadio aveva domandato tempo qualche giorno a rispondere, e poco dopo era tornato, accompagnato da un sigaraio della contrada, il quale era incaricato di domandare in nome suo la mano della Maddalena Galbusera. Il Donadio aveva soggiunto che egli serviva in una buona casa, che guadagnava a sufficenza per mantenere una famiglia e che certo il suo padrone non avrebbe avuto difficoltà a permettergli di prender moglie. Il Galbusera aveva incaricato il sigaraio, nel quale aveva fiducia, di presentarsi al marchese Trestelle, che era il padrone di Donadio, a prendere informazioni del cocchiere, ed a sentire se realmente non c'era pericolo che il matrimonio avesse a fargli perdere il posto. Il sigaraio non era stato ricevuto dal marchese Trestelle, ma dal suo segretario, il quale aveva preso nota dell'imbasciata, ed il giorno dopo aveva portato egli stesso la risposta del padrone: questi diceva ogni bene del Donadio, ed approvava il matrimonio. Le nozze erano state fissate pel San Michele, perché allora il Marchese sperava di poter dare due stanze agli sposi nelle soffitte d'una sua casa. Mancavano cinque mesi, ma non erano di troppo per cucire il modesto corredo. Del resto Maddalena era tanto giovine, che il padre aveva piacere di aspettare che avesse almeno compiti i sedici anni. Quando tutto era stato combinato, Donadio aveva cominciato ad andare ogni sera a prendere la sua sposa dalla cucitrice. Sovente la incontrava anche il mattino, e la accompagnava. Al negozio del futuro suocero si fermava più poco, ed aveva finito per non fermarvisi affatto, perché tanto vedeva Maddalena fuori, e preferiva di non far scene dinanzi agli avventori. Tornando dal magazzino la ragazza diceva: "Mi è venuto a prendere. M'ha accompagnata fin qui...". Una volta però, quando la relazione durava da circa quattro mesi, Donadio era stato quindici giorni senza farsi vedere; Maddalena era malinconica, ed il padre s'accorgeva che piangeva molto. Ci doveva essere qualche guaio fra gli sposi. Egli aveva interrogata la ragazza, che per un poco aveva negato la sua afflizione, ma presa alle strette, aveva finito per confessar tutto. Ed ecco la confessione di Maddalena. Fin dai primi giorni, Donadio, nell'accompagnarla a casa, aveva incontrato il suo padrone. Erano in via Arena. Non c'era nessuno, ed il Marchese s'era degnato di domandare al cocchiere se quella era la sua sposa, e di farle dei complimenti. Poi s'erano incontrati altre volte, ed in quelle circostanze il servitore si tirava da parte, e lasciava che il signore s'intrattenesse con lei. Il Marchese era più bello, più gentile, più raffinato del cocchiere. E la giovine cucitrice si era lasciata dire delle belle parole. Se n'erano veduti degli altri marchesi e conti sposare delle ragazzette; a quindici anni si crede tutto possibile. Dacché quel signore lo prometteva... Soltanto, in causa della sua alta condizione, egli non poteva farlo sapere fino all'ultimo momento; bisognava lasciar credere che lo sposo fosse il cocchiere... Intanto ogni mattina il padrone si trovava fuori di porta colla carrozza. Donadio conduceva Maddalena fin là, ella saliva accanto al Marchese e passava la giornata con lui. Un mese circa prima del San Michele, servo e padrone avevano cessato di farsi vedere. La ragazza era andata al magazzino dove la maestra la trattava con diffidenza in causa della sua poca assiduità, e le ragazze parlavano della sua relazione signorile, che avevano scoperta. Vedendo passare i giorni e le settimane senza che il Marchese si facesse più vivo, l'afflizione aveva sopraffatta la giovinetta, che s'era confidata alla maestra cucitrice, e questa le aveva detto che da quindici giorni il Marchese Trestelle aveva sposata la figlia di un ricco banchiere di Genova, e che, dopo il viaggio di nozze, sarebbe andato a stabilirsi a Genova presso la famiglia della sposa. Quanto al cocchiere Donadio, fosse o no col padrone, era scomparso da Milano. E Maddalena era incinta. Dopo questa confessione della figlia, il Galbusera aveva lasciata improvvisamente la casa di Porta Ticinese senza aspettare la scadenza, per nascondere la sua vergogna. La maestra cucitrice, alla quale Maddalena s'era confidata, l'aveva raccomandata ad una levatrice di Monza, dove la fanciulla avrebbe potuto rimanere sconosciuta. Due mesi dopo la giovinetta era morta di un parto immaturo. Galbusera aveva passati dieci anni a ruminare la sua collera, il suo dolore e la sua vergogna, schivando i vecchi conoscenti, mutando quartiere ogni volta che sospettava d'essere riconosciuto, tremando al pensiero d'incontrare Donadio o il suo padrone. Un giorno il Donadio era entrato nella sua bottega; ed egli lo aveva ucciso. È impossibile descrivere la commozione prodotta in Milano dai dibattimenti di questo processo. E non solo in Milano, ma in tutta Italia se ne parlò. Era capitato in un momento in cui le cose politiche offrivano poco interesse, ed i giornali si gettarono affamati su quel dramma criminale. La passione di partito, come al solito, concorse ad infiammare gli spiriti. I fogli repubblicani e socialisti descrissero l'assassino come un eroe, e portarono a cielo persino le sentenze tracciate sul muro, ed i bigliettini sgrammaticati che scriveva Galbusera nel carcere. Mentre qualche giornale conservatore insinuò a mezza bocca che l'ingerenza attribuita al marchese Trestelle era una macchina montata per spillargli del denaro, e per diffamare la classe sociale a cui apparteneva. Il sapersi fatto segno all'attenzione generale, fu un colpo di sprone potentissimo per l'ingegno di Giovanni. Fino dalle prime udienze, nella discussione di alcuni incidenti, fu meravigliato egli stesso del calore della sua parola e del vigore dei suoi ragionamenti. L'udienza in cui comparve il marchese Trestelle - udienza i cui particolari furono la sera stessa telegrafati distesamente a tutti i giornali d'Italia - fu un trionfo per l'avvocato Mazza, tanta fu l'arte con cui riescì ad ottenere dal teste la confessione completa della verità, e tanto felici furono le apostrofi, ora sarcastiche, ora sdegnose, con cui umiliò l'albagia di quell'individuo, e gl'inflisse la condanna morale che la sua condotta si era meritata. La sua arringa, che coronò i dibattimenti, superò l'aspettativa dell'uditorio, ed è tuttora ricordata nel foro milanese come un modello d'eloquenza. Non fu una difesa legale; fu uno studio psicologico e sociale, nel quale le figure dell'imputato, della vittima, del seduttore e della giovinetta, furono ritratti come tipi impersonali, per modo che la discussione prese un carattere elevatissimo. Quella causa, la quale, alla prima, era sembrata nulla più che uno scandalo volgare, si trasformò grazie all'arringa del Mazza, e prese aspetti affatto nuovi. Si mutò in una grande tragedia, piena di profondi insegnamenti. Quando Giovanni si pose a sedere, affranto dalla fatica durata, il presidente non ebbe forza di frenare il clamore degli applausi e delle acclamazioni. Quanti erano nella sala, avvocati, letterati, magistrati, giornalisti, tutti unanimi pensarono: "Un grande ingegno s'è rivelato". Nessuna fortuna mancò in quell'occasione a Giovanni; il verdetto de' giurati non fu completamente negativo, ma, escludendo la premeditazione e ammettendo la "forza semi-irresistibile", ridusse leggera la pena. I giornalisti offersero un banchetto al nuovo criminalista illustre. I giovani legali ne organizzarono un secondo. Ed egli, in mezzo a quelle feste, ripensò sorridendo il lontano banchetto di cinque lire dei praticanti dello studio, che gli era costato tante umiliazioni e tanti sacrifici. E ripensò con un tripudio di gioia alle speranze che aveva credute morte. Le vide risorgere più belle, perché d'un tratto, da un giorno all'altro, aveva raggiunta quella rinomanza, che sembrava essergli sfuggita per sempre. Ormai la sua situazione era assicurata; l'avvenire gli si presentava glorioso, ed i denari non potevano mancar di venire. Ad ogni articolo di giornale che gli giungeva pieno d'encomi, pensava: "Lo leggerà Rachele; suo padre pure lo leggerà". E tornava colla fantasia a quel triste giorno d'autunno, in cui passando, sconsolato e respinto, lungo il fossato del castello, aveva esclamato: "Anche lei! Ebbene, vedrà!". Ecco; ora lo vedeva di che cosa era stato capace. "Ah! M'è costato caro, ma sono riescito!" diceva. Ed era glorioso della sua costanza, degli stenti sofferti. Era felice di sentirsi giovine e d'avere tanto avvenire dinanzi a sé. Dopo quel processo cominciò per Giovanni una vita nuova, tutta movimento, tutta azione, in cui le ventiquattro ore del giorno non bastavano ai suoi affari. I clienti si facevano sempre più numerosi. Un circolo politico lo nominò relatore per le elezioni. Fu invitato a collaborare in vari periodici legali, e scrisse articoli sopra un progetto di legge pendente, che furono commentati dai più accreditati giornali. Il suo ingegno, la sua dottrina, rimasti ignorati fin allora, si rivelarono potentemente, ed in breve tempo il suo nome acquistò grande notorietà e divenne popolare. In cinque anni che aveva passati coll'avvocato Berti, non era mai stato presentato alla moglie del principale. L'aveva veduta parecchie volte entrare con un grande fruscio di seta nello studio del marito, lasciandosi dietro un'ondata di profumo alla violetta, che gli aveva data una grande idea della sua eleganza. Qualche volta lei lo aveva guardato traverso il velo di trina, ma non gli aveva mai rivolta la parola. Il giorno dopo il famoso processo dell'acquavitaio Galbusera, l'avvocato disse a Giovanni: "Mia moglie desidera conoscerti. Vieni domani a sera a prendere il tè da noi. Ti presenterò". Non c'era mai stata intimità fra loro. Il principale gli dava del tu come ad un subalterno, ad un giovinetto, non come ad un amico. Tuttavia Giovanni aveva acquistata bastante esperienza, per comprendere quel cambiamento improvviso; e sorrise di quell'uomo d'ingegno che, conoscendolo da cinque anni, aveva aspettato, ad apprezzarlo, che lo avessero apprezzato prima il pubblico ed i giornali. L'entrare in casa di quel superiore diretto, il presentarsi a quella matrona, alla quale egli attribuiva quasi il doppio della sua età, lo metteva in soggezione. Infatti la signora Berti aveva varcata di qualche anno la quarantina. Ma non aveva figli, era bella, prendeva una cura grandissima della sua persona, vestiva con eleganza, frequentava i teatri e le feste da ballo, scollata, colle braccia nude, coi fiori in capo: danzava, faceva le chiacchierine galanti coi giovinotti, amava che le facessero la corte, e lo lasciava comprendere. Giovanni aveva capito facilmente da' suoi modi leziosi, e dalle occhiate, e dal vestire, che quella signora aveva delle pretese giovanili; ed era impensierito del modo di mettere d'accordo quelle aspirazioni coll'età di lei, e colla qualità di moglie del suo principale; due cose che lo intimidivano. Quando entrò in casa Berti, l'avvocato lo accolse come un camerata; appena lo vide, gli andò incontro colle mani stese; poi gli prese il braccio confidenzialmente e, nel fargli traversare due sale per condurlo da sua moglie, gli disse: "Trattiamoci da amici, dammi del tu. Qui non c'è più principale né sostituto. In casa mia ricevo i miei amici...". E fermandosi per ripetere una stretta di mano soggiunse: "ed i miei colleghi". Poi gli affermò che ormai, dopo il processo Galbusera, egli aveva preso posto fra gli avvocati più valenti di Milano, e tirò via a discorrere del suo genere di eloquenza forense, confrontandolo col proprio, discutendo le sue argomentazioni, ammirando le sue trovate. Giovanni fu commosso, e strinse egli pure cordialmente la mano di quell'uomo, che aveva giudicato artifizioso e rettorico, e che ora cominciava a conoscere sotto un altro aspetto. Il Berti non ci metteva studio nelle tirate sentimentali che da tanti anni formavano la sua gloria; era realmente un uomo sentimentale malgrado i suoi cinquant'anni. Aveva la fantasia poetica, il cuore appassionato; era una natura romantica. Durava fatica a tenersi un po' in sussiego coi giovani di studio, perché amava la gioventù, si univa volontieri ai suoi spassi, ne aveva l'ingenuità, la spensieratezza, lo spirito avventuroso. Dapprincipio le difese di Giovanni, serrate, positive, senza quelle tirate declamatorie colle quali egli faceva piangere le signore ed abbarbagliava i giurati, gli erano sembrate fredde: "Non ha sangue nelle vene, costui" diceva. "Non sa commovere; non fa nulla pei suoi clienti". Ma quando aveva udita nel processo Galbusera la parola del giovine avvocato attingere tanta efficacia dalla semplice esposizione dei fatti, ne era stato vivamente impressionato, ed aveva risentito un sincero piacere del trionfo del suo sostituto. Rimanendo rettorico, perché era nato ed invecchiato così, capiva il merito d'un sistema differente e più verista. La cordialità della signora fu meno candida. Lei pure era contenta realmente d'avere nel suo salotto il giovine avvocato che faceva parlare di sé tutta Milano; ma era contenta per vanità, non per sentita ammirazione di lui. Tanto lei che il marito avevano delle aspirazioni giovanili. Ma nel Berti erano effetto d'una natura entusiastica e sentimentale, che l'età non era riescita a disilludere. Nella signora erano vanità e civetteria. Tutta la sera ella prestò un'attenzione quasi esclusiva a quel nuovo venuto illustre; lo presentò alle signore, che fecero a gara nell'invitarlo alle loro serate, e ad ogni invito rispose per lui: "Sì; te lo condurrò martedì, te lo condurrò domenica. Sono io che lo patrocino, come allievo di mio marito...". Poi soggiungeva, ridendo come chi dice una cosa stravagante: "Gli faccio da mamma". E Giovanni era obbligato a protestare che era troppo giovine, e bella, e che una mammina così inspirava tutt'altro che riverenza, tutt'altro... Un po' colla sua protettrice, un po' da solo, Giovanni fece il giro delle conversazioni di Milano. La sua bella figura, i suoi modi d'una semplicità elegante, il contegno dignitoso, l'umore giocondo, e soprattutto il suo spirito brillante, lo rendevano simpatico a tutti. Gli uomini lo consultavano sulle questioni politiche e sociali, e facevano gran caso del suo parere. Le signore si dolevano perché non ballava, dicevano che alla sua età era una pedanteria, e lo invitavano loro stesse per una polka, per una quadriglia, col pretesto d'insegnargli a danzare, ma, in realtà, perché amavano di passeggiare al suo braccio per le sale, di conversare con lui, di sentirlo dire dei complimenti, un po' diversi da quelli convenzionali che udivano sempre. Infatti Giovanni cominciò a ballare, e nel carnovale seguente prese parte alle danze, sebbene molto moderatamente, e divenne uno dei giovani più ricercati ed alla moda. Ma l'impianto di uno studio e d'un piccolo quartiere, il vestire elegante, il vivere in una locanda buona e ben frequentata, come conveniva alla sua nuova situazione, erano cose dispendiose assai. C'era sempre nel suo cuore lo sgomento di avvezzarsi a farla da parassita come suo padre, e che un giorno s'avesse a dire di lui: "Vive alla mensa dei signori come il Dottorino". Misericordia! Per evitar questo, prodigava mazzi di fiori, gingilli artistici, palchi in teatro alle famiglie che lo invitavano a serate ed a pranzi. Tutto questo gli costava caro. I suoi guadagni bastavano appena per le sue spese e pel sussidio che mandava a suo padre; ed in mezzo a' suoi trionfi, era sempre lontano, lontano assai, dall'ideale del signor Pedrotti: "Un marito ricco per sua figlia". Ma questo pensiero non lo perseguitava più tanto. La memoria di Rachele, sempre soavissima quando gli tornava alla mente, vi tornava con minore insistenza. L'idea di sposarla era sempre fissa in lui, come un patto contratto con sé medesimo, come un destino. Ma le impazienze ardenti di raggiungere quella meta non le provava più, ed altri ardori, altre impazienze ne avevano preso il posto nel suo cuore. Dacché era liberato dalle cure affannose della vita materiale d'ogni giorno, dacché s'era adagiato in un'esistenza comoda e si vedeva circondato dal lusso e dalla bellezza, la sua potente vitalità giovanile gli aveva ridestata nell'anima la sete dei piaceri, tanto più viva, quanto più lunga ne era stata la privazione. Si sentiva affascinato dalla bellezza provocante delle dame, che gli sorridevano e gli stendevano la mano. Contemplava avidamente le loro spalle e le braccia nude, e quando non eran vestite da serata, le ripensava, le rivedeva coll'immaginazione, traverso i velluti e le sete. I fuggevoli amoretti delle sartorine e delle crestaie, che avevano interrotta di tratto in tratto l'uggia della sua vita da giovinotto povero senza occupargli né la fantasia né il cuore, ormai non lo allettavano più. Nella sua natura da poeta era istintivo l'amore dell'eleganza. Amava le donne belle, ben vestite, che parlano bene. Amava di entrare nella loro atmosfera signorile, di mettersi ai loro piedi sopra un ricco tappeto, di sedere con esse sui divani di raso, di sentire il profumo dei loro capelli e dei loro guanti. Anelava alla sua parte di felicità, al romanzo tempestoso della gioventù, si trovava nell'ambiente che poteva crearlo, e si compiaceva, coll'immaginazione appassionata, a figurarselo pieno di emozioni e di gioie. Una sera, che in una festa da ballo s'era nascosto fra due vasi di camelie, per abbandonarsi all'estasi snervante di quei sogni, si vide dinanzi un braccio meravigliosamente bello, ed una voce soave ed affannosa gli disse: "Per carità, venga a ballare questa quadriglia. Ho dovuto ritirarmi per ravviarmi i capelli, e sono rimasta senza ballerino". Egli si rizzò sbalordito, cogli occhi fissi su quelle braccia, su quelle spalle, su quel seno, su tutta quella pelle bianco-rosata da bionda, che gli pareva la realtà della sua visione d'amore. Seguì la bella donna trasognato e muto, sbagliò tutte le figure della quadriglia a cui non badava punto; non cessò mai di fissare la sua ballerina con uno sguardo avido. Si sentiva oppresso. Aveva incontrata parecchie volte quella signora, era stato in casa sua, la conosceva, sapeva che era bella, ma non aveva mai provata nessuna commozione accanto a lei. Si erano trattati con quella certa confidenza compagnevole e gioviale che le donne avvezze alla società accordano spesso ai gentiluomini, e spesso Giovanni parlando di lei aveva detto: "Mi piace, perché non ha la pretesa che le si faccia la corte. Si può parlare con lei come con un amico". Invece, in quel momento d'eccitazione gli parve che quella bellezza fosse fatta per lui, che la rivelazione di quelle forme, provocantemente nude, fosse una conseguenza delle sue fantasticherie amorose; che le avesse evocate, e gli fossero apparse. Non parlava affatto, ed aveva l'aria turbata ed infelice. "Che cos'ha, avvocato?" gli domandò la contessa. "Siete troppo bella!" rispose Giovanni colla voce sommessa ed affannosa d'un uomo appassionato. La contessa rimase sbalordita. Ebbe un sussulto come se avesse ricevuto un colpo nel petto. Comprese che avrebbe dovuto risentirsi, rimproverare il suo cavaliere troppo audace, oppure voltargli le sue belle spalle e piantarlo solo. Ma in realtà non provò nessun risentimento. Aveva infatti ricevuto qualche cosa come un colpo nel petto, come l'urto d'una pila elettrica. Lo stesso turbamento che opprimeva Giovanni oppresse anche lei. Finirono la quadriglia muti, agitati, in uno di quegli affannosi silenzi d'amore, più eloquenti ed espansivi di qualunque parola. Le loro mani s'incontravano tremando, si stringevano a lungo, si separavano lentamente e con rammarico; i loro sguardi s'incrociavano e rimanevano avvinti come due lame calamitate; i loro petti erano oppressi da una grande malinconia, da uno sgomento ignoto, e lei aveva voglia di piangere. La contessa Gemma Castellani di Monte era una donna ambiziosa e scettica. Fin dall'adolescenza aveva amato il lusso sfrenatamente, e quella passione, crescendo cogli anni, aveva invaso tutto il suo cuore. Da bimba in collegio aveva sempre ricercate le compagne ricche e nobili, disprezzando quelle che non avevano una mamma elegante, delle carrozze e dei servitori in livrea. Fatta più grande, poi, desiderava un ricco matrimonio ed un titolo di nobiltà con tale ardore che non le rimaneva cuore per altri sentimenti. L'amore la faceva sorridere. Se udiva di due sposi innamorati che si isolavano per vivere l'uno all'altra, crollava le spalle con disdegno e diceva: "Che gusti!". In fatto di matrimonio s'interessava soltanto di conoscere la rendita, il corredo e le toelette della sposa; se questa andrebbe in società, se riceverebbe molto, se avrebbe molti cavalli e belle carrozze. Per conto suo, in fondo in fondo all'anima, aveva anche una speranza vaga di cavalcate eleganti e di lunghi abiti all'amazzone. Ma era figlia d'un banchiere che aveva una numerosa famiglia e che, per non dissestare i suoi affari, non poteva darle più di centomila lire di dote. Sua madre le aveva fatto capire che con una dote così modesta non bisognava manifestare molte esigenze per non impaurire i pretendenti. E la bella Gemma, che per nulla al mondo non avrebbe voluto diventare una zitellona, s'era tenuto in cuore il suo cavallo da sella, salvo a tirarlo fuori e ad imporlo al marito quando fosse ben sicura che questi non potesse sfuggirle. Ma faceva grande assegnamento sulla sua bellezza, e non volle sacrificare i suoi sogni d'ambizione ai giovani agenti di cambio, avvocati, piccoli possidenti, che le offersero il loro cuore ed una situazione modesta. Un giorno le fu presentato, in una casa aristocratica, un generale in ritiro, che aveva il titolo di conte, trenta capelli bianchi per tutta capigliatura, e sessant'anni sonati. Qualcuno bene informato disse che era milionario, e la bella Gemma confidò alla padrona di casa che nessun giovinotto le aveva mai fatta un'impressione tanto buona come quell'uomo "dall'aspetto nobile e dalla fronte intelligente". Del resto non era vecchio; lei non credeva che avesse più di cinquant'anni; certo non li dimostrava; ed a cinquant'anni un uomo è sul fiore dell'età. Lei aveva diciannove anni appena; ma era sicura che, se l'avesse domandata in moglie, non avrebbe avuto difficoltà a sposarlo; un marito deve avere acquistata una lunga esperienza della vita, per essere guida sicura ad una giovine sposa. Lei non capiva come si potesse affidare il proprio avvenire, la propria felicità ad un giovinotto spensierato... Sapeva con chi parlava, la bella Gemma. La sua confidente riferì i discorsi della giovinetta al generale milionario; riferì di nuovo a lei l'espressione della gratitudine del conte, e quanto avrebbe desiderato di possedere una giovine sposa così bella e ragionevole; ma, alla sua età, non osava domandarla; temeva di rendersi ridicolo... "So bene che lui non ci pensa" disse Gemma. "Neppur io ci penso; non ho mai sognato che mi toccasse una simile fortuna. So che il babbo ha in vista un banchiere ricchissimo, un giovinetto... Lo sposerò; ma se m'avesse domandato quest'uomo serio, l'avrei accettato con maggior fiducia..." Daccapo la signora confidente riferì quegli incoraggiamenti impliciti della sua giovine amica, e, dopo due mesi, la figlia del banchiere diveniva contessa e milionaria, ed aveva fra i suoi doni di nozze un bel cavallo da sella. Erano passati i primi sette anni di matrimonio con una rapidità vertiginosa. La contessa Gemma correva con una smania febbrile di festa in festa; lusso, divertimenti d'ogni sorta, ricevimenti sfarzosi che assorbivano in una serata la rendita di un anno, villeggiature splendide, l'avevano inebbriata. S'era abituata subito al suo titolo, ma si compiaceva sempre di sentirselo dire; e gli elogi alla sua eleganza, le ammirazioni, per quanto iperboliche, non la saziavano mai. Nei primi tempi il marito, prendendo sul serio la sua missione di guida presso la giovine sposa, aveva cercato di frenare quella foga esagerata, e ne erano nati dei dissensi, che avevano rese anche più vive per la contessa quelle soddisfazioni che doveva ottenere al prezzo di lotte acerbe. Era ancora un trionfo della sua vanità l'aver vinta l'opposizione del marito. Alla fine il generale s'era rassegnato ad essere semplicemente una guida materiale, per accompagnare sua moglie dovunque ella sapeva di trovare una soddisfazione d'amore proprio o un diletto. Alle bagnature di Baden e di Vichy, alle invernate di Nizza, alle mostre mondiali di Parigi e di Londra, ai ricevimenti di corte il vecchio soldato compariva immancabilmente presentando la sua bella dama. Con un simile treno di vita cinquantamila lire di rendita sono ben poco; si fecero dei debiti, si tirò innanzi finché si poté, ma all'ultimo s'era dovuto darsi vinti ai creditori, e ridurre le spese alla modesta rendita che era rimasta per non finir male. Allora la superba signora aveva abbandonate le società aristocratiche dove, per nulla al mondo, avrebbe voluto comparire meno splendidamente di prima, e s'era messa nei circoli della borghesia, nei quali si poteva far buona figura anche con una carrozza ad un solo cavallo, e senza nessun cavallo da sella. Ed ecco in che modo Giovanni l'aveva incontrata in casa della signora Berti, e delle sue conoscenti. La galanteria aveva sempre lusingata la vanità della contessa, ma la passione non aveva mai parlato al suo cuore. Il suo stesso lusso, il suo orgoglio, avevano intimidito gli amori nascenti. Quanto a lei, amava troppo se stessa, troppo le premeva di far parlare di sé come della dama più elegante di Milano, per aver mente e cuore ad innamorarsi. Forte della sua bellezza e della sua gioventù non aveva bisogno di civetterie per farsi ammirare: e quella mancanza di civetteria, e l'altezza che le veniva dalla grande opinione che aveva di sé, le avevano fatta una riputazione d'onestà ed era stata la sua salvaguardia. Era considerata una fortezza inespugnabile. C'era voluta tutta l'eccitazione, il rapimento, la follia a cui era giunto Giovanni quella sera, nella lotta tra la sua imperiosa vitalità giovanile ed i suoi desiderii d'amore insoddisfatti, per gettare così in faccia ad una signora, che tutti giudicavano onesta, quelle tre parole ardenti come un bacio: "Siete troppo bella!". La contessa aveva ventotto anni, e di tutte le ebbrezze dell'amore non aveva conosciute che le carezze del suo vecchio marito. La passione, latente nel suo cuore, si accese come una fiamma all'urto di quello sguardo, al suono di quella voce. Ella non pensò di resistere a quel fascino come non aveva pensato mai di resistere a nessuno de' suoi desiderii. Il suo egoismo era grande come una passione; non sapeva negar nulla a se stessa. Quella notte, rientrando dal ballo, sola nella sua stanza, pianse di gioia e d'impazienza, ripensando le strette di mano e gli occhi neri e profondi di Giovanni. Dove l'avrebbe riveduto? Quando? Era tutto un orizzonte inesplorato di delizie che le si apriva dinanzi: una vita nuova. Dopo l'orgoglio di sapersi ammirata e bella, l'orgoglio più intenso di sapersi amata e la gioia d'amare. Giovanni si sentiva attirato da quella donna. La ricercava, la seguiva, la avvolgeva in una rete di passione. E quando la lontana immagine di Rachele gli si presentava alla mente, non più come una visione di cielo, ma come una meta da cui si allontanava, egli diceva come per tranquillarsi: "Questo amore passeggero per una donna maritata è un fiore che si coglie per via. Non impegna a nulla". Ma per nessuna cosa al mondo avrebbe rinunciato a cogliere quel fiore. Andava dappertutto dove sapeva di trovare la contessa; le stava sempre accanto coll'occhio avidamente fisso sulla sua persona bella. Coglieva l'occasione, nelle figure delle quadriglie, per stringerle la mano, e pareva che tra quelle mani ci fosse un filo conduttore d'elettricità che le facesse tremare all'unisono, e le congiungesse così fortemente, che il distaccarle era una pena e, separate, si ricercavano. Giovanni ballava poco. Ma una sera, trovandosi accanto alla contessa mentre intonavano una polka, le porse la mano in silenzio, ed ella accettò. Allora se la strinse al cuore come se volesse rapirla, la riscaldò, la arse in quell'abbraccio, le sfiorò i capelli, la accarezzò tutta quanta nella stretta delle due persone congiunte, poi, nel ricondurla a sedere, le serrò le mani con una forza che compendiava tutte le strette amorose, supplichevoli, ardenti, intime con cui aveva parlato a quella mano cara durante il ballo. Ma non le disse nulla. Era felice di quella passione calda che lo invadeva tutto. Si sentiva amato, s'inebriava, s'inteneriva in quelle mute dolcezze; amava di assaporarle; non sentiva il bisogno di precipitare il romanzo colle spiegazioni che lo avrebbero abbreviato. Sapeva che una spiegazione verrebbe. Vedeva la gioia suprema che lo aspettava, e lasciava che venisse da sé, di tenerezza in tenerezza, temendo quasi che, affrettando il momento supremo, avesse a perdere una di quelle sfumature del sentimento, uno di quegli episodi puerili e muti, che lo deliziavano. Pensava le spalle bianche, la vita flessibile, i capelli biondi della contessa Gemma, ricordava fremendo le sue strette di mano febbrili, i suoi lunghi sguardi innamorati; ed ardeva tutto all'idea che quella donna sarebbe sua. Dove? Come? Quando? Non ne sapeva nulla, ma era certo di possederla; e quella certezza lo inebbriava. Un giorno la signora Berti gli aveva dato appuntamento in casa sua, perché doveva presentarlo a qualcheduno misteriosamente. Infatti Giovanni trovò nel salotto della sua amica la signora del banchiere Ipsilonne, il quale era seriamente compromesso in un processo che si stava iniziando per una grossa falsificazione a danno dello stato. Una somiglianza fatale della sua scrittura con una delle firme falsificate lo accusava, e, dei due periti calligrafici chiamati dal tribunale, uno dichiarava di conoscere la mano di scritto del banchiere, e l'altro esitava, senza osare di negare la sua colpabilità. Ma in realtà egli era innocente. La moglie desolata giurava per lui, e si raccomandava a Giovanni perché ne assumesse la difesa, coll'impegno, coll'amore che aveva posto nella difesa del povero acquavitaio omicida. Era un processo interessantissimo, che prometteva all'avvocato un nuovo trionfo, e la causa di quell'uomo integro, fatalmente implicato in una truffa vergognosa, lo appassionò. Mise il suo tempo, la sua mente, il suo cuore al servizio del nuovo cliente. Impose silenzio alla sua passione, e, senza accordarsi il tempo per rivedere e salutare la contessa, si recò a Napoli, a Roma ed a Torino, per assumere documenti, prove e testimoni in favore del banchiere. Poi tornò a precipizio, perché la mattina seguente dovevano cominciare i dibattimenti. Giunse a Milano coll'ultimo treno della sera, dopo essere stato assente più di una settimana. Rientrando in casa trovò un telegramma del parroco di Fontanetto che lo aspettava da sei giorni. Partecipo con dolore morte dottor Mazza, tuo padre. Trovato esanime in letto stamane; spirato, pare, iersera. Regolamenti sanitari vietano differire sepoltura oltre ventiquatt'ore. Telegrafa ordini funerali. Dopo sei giorni i funerali dovevano essere fatti e dimenticati. Non era molto che Giovanni aveva spedita al padre una piccola somma; poi c'erano i mobili di casa. Egli pensò che ormai non c'era più bisogno de' suoi ordini, e tanto meno della sua presenza a Fontanetto, che del resto il processo del domani rendeva assolutamente impossibile. Egli aveva fatto il suo dovere, anche a costo di grandi sacrifici, sovvenendo il padre nella sua miseria; ma non era un figlio devoto. La vita da parassita, le ubbriacchezze del Dottorino, la sua servilità verso i signori, le sue violenze in casa, e l'ultimo degradamento del delirium tremens a cui lo sapeva ridotto, non lo invogliavano a correre al suo paese, per raccogliere l'eredità di sprezzo, che doveva essere l'unica successione del povero morto. Sapeva che in quel momento non avrebbe inspirata nessuna simpatia, perché era troppo viva la memoria di quell'ignobile vita e di quell'ignobile morte. E d'altra parte non gli premeva più tanto di produrre un'impressione favorevole a Fontanetto. Non s'era bastantemente arricchito per domandare Rachele, pensava. Ma in realtà, mentre cinque anni prima quel momento gli era sembrato tanto lontano, ora trovava che era troppo presto per ammogliarsi. Rispose con un telegramma, che la notizia gli era pervenuta troppo tardi e per conseguenza non aveva potuto assistere ai funerali; che confidava nel parroco, il quale certo aveva fatte le cose ammodo. Giovanni pensò con profonda tristezza la vita miserabilmente trascinata per trent'anni da suo padre, la sua morte vergognosa, tutta quell'esistenza oscura, senza elevatezza e senza affetti, e ne sentì un infinito rimpianto Il Dottorino aveva forza ed ingegno. Senza dubbio avrebbe potuto far qualche cosa; ed era passato così. Ed egli era suo figlio; forse aveva ereditato il germe del carattere paterno; forse le passioni abbiette che avevano rovinato il padre gli stavano latenti nel cuore aspettando un momento di snervatezza, d'inerzia, per svilupparsi e per vincerlo. Questo pensiero lo impaurì, gli riaccese più viva nel sangue la smania del lavoro, l'ambizione della gloria che incalza, il desiderio della ricchezza per assicurarsi l'indipendenza. E passò tutta la notte allo studio del suo grande processo per prepararsi alla difesa. I dibattimenti durarono una settimana, e furono una serie di trionfi pel giovine avvocato. Ormai era noto e famoso; ogni sua parola era aspettata, ripetuta in giro, riferita dai giornali. Il fatto solo ch'egli doveva parlare, faceva accorrere una folla di gente, stenografi, giornalisti; le sue frasi erano ridette, commentate nelle conversazioni, i suoi criterii facevano legge per molti, ed erano discussi e presi in considerazione anche dalle persone più serie. Ogni sera egli trovava alla sua porta un fascio di biglietti da visita, riceveva lettere di congratulazione, parole d'ammirazione e d'amicizia. Egli però era ancora sotto l'impressione triste della morte del Dottorino. Rientrando in casa, gli pareva sempre di doverci trovare il cadavere di suo padre, decrepito anzi tempo, morto nell'ubbriacchezza. Avrebbe voluto non pensarci, e non poteva. Ogni giorno vedeva nella tribuna la contessa che stava ad ascoltarlo. Era splendida di bellezza e d'eleganza, ed attirava tutti gli sguardi. Ma lei non guardava che il giovine difensore. Giungeva presto; quand'egli entrava era già là ad aspettarlo. Gli fissava in volto i suoi occhi d'un turchino metallico, e rimaneva immobile, cogliendo al volo lo sguardo di lui quando alzava il capo, lanciandogli un'occhiata tagliente, acuta, penetrante, che gli andava all'anima traverso le pupille. Durante la sua difesa, più volte egli la guardò; era appassionato e commosso, e sentiva il desiderio d'un volto amico. Lei era sempre nella stessa posizione, coll'occhio intento su lui, come per forza magnetica. La pupilla azzurrina era velata da uno strato vitreo: piangeva; non colla pezzuola, né con una mano sugli occhi; piangeva lasciandosi cadere lungo le guancie le lacrime lente, che pendevano tremolanti ai lati del mento, e si staccavano come perle per caderle sul seno, dove segnavano dei larghi dischi plumbei sulla seta cenerina del vestito. Giovanni era turbato da quegli sguardi, da quelle lacrime, da quella bellezza affascinante, da quell'amore prepotente che sfidava le convenienze per rivelarsi a lui. In quei giorni di tristezza sentiva d'amare la contessa con una tenerezza dolce da sposo. Non provava gl'impeti di passione sfrenata di un mese prima, non aveva il desiderio febbrile di stringerla, di stritolarla sul suo cuore, di mordere le sue carni rosee da bionda. Avrebbe voluto sederle accanto in un misterioso silenzio, e piangere sul suo seno. Ogni giorno si proponeva di andar da lei; ma differiva sempre. Si deliziava di quell'aspettativa, della stessa intensità del suo desiderio. E non cessava di pensare a lei. Il Dottorino era caduto in un tale stato d'ebetismo, che era passato dall'ubbriachezza alla morte senza forse avvedersene, certo senza poter chiamare aiuto, né aiutarsi. La Matta l'aveva trovato freddo, stecchito nel suo letto, ed era corsa ad avvertire il parroco, e questi l'aveva mandata a chiamare il procaccio per spedirlo subito a fare il telegramma a Borgomanero. "È pel signor Giovanni" diceva la Matta al procaccio. Ed era in tale orgasmo all'idea di rivedere Giovanni che non pensava più alla tragedia che era avvenuta in casa. Si fermava all'ingresso delle botteghe, e susurrava come chi teme di destare qualcuno che dorme: "È morto il padrone! È morto briaco!". E faceva atti di meraviglia; pareva che ricevesse lei quella notizia invece di darla. E quando lo stupore dei bottegai era passato un pochino, ripigliava, raggiante di gioia, come se fossero trascorsi degli anni, e non ci fosse nessun rapporto tra la nuova luttuosa della morte, e l'avvenimento felice che annunciava: "Ora il padrone è il signor Giovanni; servirò lui". La sera il parroco, vedendo che il figlio non veniva né rispondeva, disse che bisognava seppellire il cadavere. La Matta rimase atterrita. Guardò il morto, che aveva la bocca contorta come se la schernisse dalla sua cassa, e pensò che stava per andarsene. Poi pensò alla lontananza ignota del padrone giovine, e si mise a piangere ed a gemere: "Oh Dio! Come farò a trovarlo? Come farò?" Era sempre stato il suo ideale, povera donna, di servire un giorno Giovanni, di vivere con lui. Nella devozione del suo amore da schiava, non aveva mai desiderato altro che di servirlo; ma lo aveva desiderato con un'intensità passionale, ne aveva fatta la méta della sua vita in questo mondo; e quando in chiesa pensava vagamente al paradiso si figurava ancora Giovanni in alto, e lei a' suoi piedi; un atteggiamento cui non avrebbe osato aspirare nel suo stato presente, ma che le pareva d'una dolcezza paradisiaca. Intanto pregustava piaceri più terreni. Passava delle ore incantevoli ad immaginarsi di preparare un pranzo per Giovanni. Sapeva che amava il risotto, pensava tutta la cucinatura d'un risotto squisito; vi aggiungeva idealmente dei funghi, e fin dei tartufi; e rideva di gioia all'illusione di vederglielo mangiare e di sentirsi dire: "Com'è buono!". Si faceva insegnare dalle cuoche del farmacista e del parroco una quantità d'intingoli complicati, per nutrire i suoi sogni d'amore. Ed ora dov'era mai quel padrone che voleva servire con tanto cuore? Dove trovarlo? E se si fosse smarrita per via? Ed anche il morto se ne andava. Lei non lo aveva amato; ma ne aveva presa cura perché era il padre di Giovanni, e perché sentiva vagamente che quel vecchio inebetito era un legame tra la casa ed il giovine assente. Il morto fu messo sotterra; e quando la Matta tornò dal cimitero, sfigurata dal piangere lungo e disperato, trovò il parroco, che era tornato prima di lei, e faceva esaminare a parecchi creditori i mobili del defunto. I denari che riceveva dal figlio il Dottorino li spendeva all'osteria, dall'acquavitaio, dal tabaccaio; ed aveva lasciati dei debiti presso tutti i bottegai e presso il padrone di casa. "È un debito di quattrocento lire in tutto" diceva il parroco. "Poi ci sarebbe quel poco funerale, e la messa... Sul figlio non c'è da contare, perché non ha nemmanco risposto e non è venuto; ma, vendendo i mobili, se ne caverà una piccola somma che forse basterà a pagar tutti". La Matta, che era stata ad ascoltare a bocca aperta, si fece pallida e tremò. Vendere i mobili! I mobili, fra i quali aveva sognato di vivere il resto de' suoi giorni con Giovanni! Il suo letto; la tavola dove pensava sempre d'apparecchiargli da pranzo. E quei libri che gli piacevano tanto! Rimase un poco assorbita in riflessioni difficili, senza più badare ai discorsi degli altri che parlavano di vendita amichevole di asta giudiziaria di altre cose che lei non capiva. Poi se ne andò, corse ad aprire la sua cassa, e ne tolse il libretto della cassa di risparmio, che portò al parroco, ridendo di gioia cogli occhi ancora gonfi di pianto. "Cosa vuoi farne?" domandò il parroco. "Comperare i mobili..." implorò la povera donna. "Sarebbe un prestito che faresti al figlio del tuo padrone?" "Sono suoi" disse la Matta con generosa convinzione. "E il padrone è lui". "Ma dei mobili cosa vuoi farne?" "Portarli al padrone. Ma bisogna insegnarmi la strada". Il parroco rimase perplesso. Non voleva abusare della generosità stupida della povera serva. D'altra parte sapeva che i mobili del Dottorino non potevano fruttare in tutto che un centinaio di lire. Invece, le cinquecento lire all'incirca che offriva la Matta erano bastanti per pagare i creditori ed anche la parrocchia. Ci pensò a lungo, perché non aveva la mente molto svegliata; ma finì per trovare una soluzione: "Tu comperi i mobili per conto dell'avvocato" disse alla Matta. "Più, gli presti il rimanente della somma per pagare i debiti di suo padre. Io farò in modo che ti rimanga da pagare il viaggio ed il trasporto dei mobili. E tu, andando a Milano colla roba, gli dirai la cosa com'è, e ti farai restituire il fatto tuo. Gli dirai che, se non ha fede nella tua parola, scriva pure a me, ch'io attesterò del prestito che gli hai fatto di cinquecento lire...". Di tutto questo la Matta non capì nulla, assorta com'era nell'idea d'andare a Milano da Giovanni e di portargli i suoi mobili, che dovevano fargli tanto piacere. Dove fosse Milano, come potrebbe arrivarvi, non ci pensava più. Il parroco le avrebbe insegnata la strada. Andava a servire Giovanni, a fargli da pranzo, a spazzolargli i vestiti, a rifargli il letto. Come si proponeva di rivoltare le foglie del pagliericcio! di farle stare sollevate perché il letto fosse morbido! Lei non conosceva ancora i pagliericci elastici. Diceva alle vicine: "Ora non gli mancherà più nulla, poveretto. Ora sono io che lo servo!". E lo diceva con un intenerimento, con un senso d'abnegazione, come se, dacché era lontano da lei, nessuno gli avesse più resi quei servigi, e stesse squallidamente abbandonato, aspettando lei. Era trasfigurata dalla gioia. Salutava tutti dicendo: "Non mi vedrete più". Ma quella parola tristissima delle separazioni eterne, la ripeteva giubilando: non poteva cessare di ridere; quel riso era diventato una contrazione involontaria del volto; una convulsione di gioia. Passò parecchi giorni e spesso vegliò anche la notte per pulire, involgere, imballare, sempre col pensiero smarrito nelle visioni, lungamente vagheggiate, di piatti in cucinatura, destinati a Giovanni, delle scarpe di lui infilzate nel suo braccio, e lustrate, lustrate, fino alla lucentezza d'uno specchio, fino ad indolorirle la spalla pel resto della giornata. La partenza da Fontanetto sul carro, la strada ferrata, che vide per la prima volta a Novara, non la distrassero dalle sue fantasie. Osservò con ispavento i facchini che portavano i mobili verso i carri delle merci, lontani dalla carrozza di terza classe, dove il carrettiere, dandole il biglietto, aveva indicato a lei di salire; poi si avviò verso le merci per viaggiare accanto al suo deposito. Ci vollero spiegazioni infinite per farla tornare al suo posto. Guardava con diffidenza quel pezzo di carta che doveva farle restituire i mobili a Milano e lo teneva preziosamente stretto in mano, sebbene dubitasse del suo valore. Il carrettiere le disse: "Vedrete come si va presto là dentro. Altro che sul carro!" Ma lei non gli diede retta rispose soltanto: "Siete sicuro che me li restituiranno quando sarò a Milano?" Si avvide appena della rapidità della corsa; non poteva essere bastantemente rapida pel suo desiderio. Scendendo a Milano si gettò sul primo impiegato delle ferrovie che vide, col suo biglietto in mano, e non badò a nulla, fuorché alla ricerca dei mobili. Il facchino che li caricava, vedendo quella specie di selvaggia, le disse: "È la prima volta che venite a Milano?" La Matta stese ansiosamente le mani verso uno stipo sgangherato che egli stava sollevando e non rispose. "Vedrete com'è grande e bella Milano!" tornò a dire il facchino. "Più del vostro paese. Di dove siete?" "Badate che non si rompa; posatelo pianino" gridò la Matta tutta assorta nella responsabilità di quello stipo. Percorse le contrade, a piedi, dietro i due carri tirati dai facchini, cogli occhi fissi sui mobili, senza badare ad altro. In piazza del Duomo il facchino ciarliero si voltò per godere della sua meraviglia. Ma la Matta non guardava il Duomo. Pensava che stava per veder Giovanni, per comparirgli dinanzi improvvisamente, le batteva il cuore, ed aveva una inesplicabile paura. Poi pensava alla gioia che proverebbe ricevendo i suoi mobili. "Tanta bella grazia di Dio che volevano vendere!" Il facchino le gridò: "Ohe! Guardate un po' in su. È più bello del San Gaudenzio di Novara". La Matta alzò gli occhi; vide una massa bianca e smisurata colla Madonna in cima, si fece il segno della croce, poi riprese a camminare a capo chino. "Stupidi villani!" mormorò il facchino ambrosiano; e diede un urtone al carro dei mobili, per vendicarsi. La Matta aveva un bigliettino che le aveva dato il parroco coll'indirizzo di Giovanni, Via del Capuccio N... Non aveva voluto darlo al facchino, l'aveva presentato tutto spiegazzato a due o tre persone domandando ansiosamente: "Dov'è? Da che parte si va?" Ed aveva preteso di dirigere i facchini dietro quelle indicazioni. Furono essi invece che la guidarono, e si fermarono al portone che a lei, incapace di leggere i numeri, sarebbe sfuggito. Giovanni non era in casa. Lo scrivano dello studio aperse l'uscio, e rimase sbalordito al vedere quella contadina seguita da due uomini carichi di vecchi mobili. Il giovine avvocato non aveva che lo studio, con un salottino annesso, e la camera da letto. Lo scrivano esitava a lasciar ingombrare le stanze con quelle anticaglie. Ma la Matta lo guardò ben bene in aria di sfida, e gli disse: "Sono i suoi mobili, ed io sono la sua serva". D'altra parte i facchini grugnivano "che non potevano rimaner sull'uscio eternamente con quei pesi sul capo". Bisognò lasciarli deporre il carico, una volta, due, tre, finché ebbero vuotati i carri. C'era una stia sulla scrivania dell'avvocato, e la vecchia libreria vuota, posata contro l'armadio della camera da letto, ne nascondeva lo specchio. Nel vano del balcone entrò come una nicchia il cassone dei libri, e dappertutto seggiole zoppicanti, materassi rotolati, fodere da pagliaricci, credenze. La Matta contemplò avidamente il mobiglio del piccolo quartiere che le parve splendido. "Questa però non è roba sua", pensava. Aveva una vaga rimembranza di discorsi uditi quando Giovanni era all'università, che non aveva bisogno di portarsi un letto né altro perché gli dava tutti i mobili la padrona di casa. "Sono più belli dei suoi" diceva fra sé guardando il letto di ferro vuoto, e le modeste poltroncine di damasco di lana, "ma sono troppo belli, danno soggezione. Non si potrebbe prendere la rincorsa e saltare su quel tavolino, lucido a quel modo; ci resterebbe l'impronta dei piedi..." E, tutta rasserenata a quell'idea gioconda dei salti che Giovanni faceva da fanciullo, riprese a sorridere alle vecchie tavole che ingombravano il passaggio. "Come si troverà più libero fra questi mobili suoi che conosce..." E si figurò di vederlo rallegrarsi di quegli oggetti come di vecchi amici; le pareva che dovesse guardarli ad uno ad uno, e ridere delle memorie che gli richiamavano, e quasi accarezzarli, e poi dire a lei che era contento di riavere la sua roba, e che aveva fatto tanto bene a portargliela, guai se l'avessero venduta! E fregarsi le mani, e saltare, e dire: "Ora sì che mi sentirò in casa mia, e staremo bene!" Era tutta animata evocando col pensiero l'immagine del bel giovinetto che era partito dal paese cinque anni prima, ma se lo figurava più gaio, più felice pel dono che lei gli portava. Guardò i suoi abiti appesi ad un attaccapanni, li rivoltò da ogni lato, introdusse timidamente una mano nella fodera d'una manica, poi sorrise e disse forte: "È seta!" Vicina al letto c'era una poltroncina, e sul tappeto una pianella capovolta. La raccolse, cercò sotto il letto la compagna, e le dispose una accanto all'altra. Accarezzò lo schienale imbottito della poltrona, passò leggermente una mano sul sedile; le batteva forte il cuore; si sentiva opprimere; cedendo ad un'attrazione irresistibile, si guardò intorno come se temesse di venir sorpresa, poi si mise a sedere sull'orlo di quella poltroncina dove sedeva lui. Una specie di ebbrezza la invadeva; tremava tutta; era commossa e finì per abbandonarsi ad un pianto silenzioso e dolce. Finalmente s'udì il campanello. La Matta balzò in piedi e corse all'uscio dello studio. Era lui che tornava di certo; e lei era là in casa sua a riceverlo, a servirlo. Come doveva essere contento di vederla là! Le si struggeva il cuore dalla tenerezza. Diede un'occhiata rapida al letto laggiù in fondo alla camera, ed all'uscio, e le splendevano gli occhi come due fiamme. Forse pensava se traverso la toppa si potesse vederlo dormire, come laggiù nella stanza di Fontanetto. S'udì lo scrivano aprire l'uscio del salotto, poi una bella voce, sonora come una musica di chiesa, disse in tuono di grande meraviglia: "Che cosa c'è?" "È giunta una contadina... La sua serva..." rispose lo scrivano. La Matta che s'era sentita commossa fin nelle viscere da quella voce, ringoiò un singhiozzo che la strozzava, e s'affacciò all'ingresso del salotto gridando: "Son io, signor Giovanni, son io!". Poi si mise le mani giunte fra le ginocchia, e stette a guardarlo dondolandosi e ridendo, ridendo finché gliene rimasero gli occhi pieni di lacrime. "Oh! sei tu, poveretta! Come va? Come va?" disse Giovanni cordialmente. La Matta non poté che rimettersi a ridere, perché quel gruppo in gola non la lasciava parlare. "Mi fa piacere di vederti" soggiunse l'avvocato, battendole una mano sulla spalla. "Brava! mi fa piacere". Questa volta il gruppo uscì dalla gola in un singhiozzo, e la povera donna si nascose il volto nelle cocche della pezzuola del capo che le pendevano sotto il mento. "Via via" tornò a dirle Giovanni affettuosamente, "non agitarti. Siedi. Riposati. Parleremo più tardi". Ed entrò nella sua camera. Ma ne uscì presto, stette un momento sull'uscio per assicurarsi che il primo impeto di commozione era passato poi disse: "E così? Com'è che hai portati questi mobili?" "Sono suoi" rispose la Matta, ed il suo volto s'irradiò di gioia nel dargli quella nuova consolante. "E tu hai fatto il viaggio apposta per accompagnarli?" domandò Giovanni, senza esternare il piacere che la Matta s'aspettava. "Sei stata ben buona, e te ne ringrazio". La Matta ripeté ancora: "Era giusto; sono suoi". "E non ci sono debiti da pagare laggiù?" "No, no. È pagato tutto". Giovanni aveva mandato sufficiente denaro a suo padre per poter credere facilmente che fosse morto senza lasciar debiti, ed avanzando da pagare i funerali. Fece un giro nello studio, guardando la stia sulla scrivania, due panche da letto ritte contro un casellario, pigliando in mano una vecchia cassetta pel sale, che era sulla tavola dello scrivano; poi tornò dalla Matta e ripeté i ringraziamenti. "Sei stata troppo buona davvero. Non metteva conto di venire fin qui per questi cenci. Si sarebbe potuto venderli là; oppure avresti potuto tenerli". "Oh, sono suoi" disse per la terza volta la povera donna col cuore serrato. "Non importa" riprese Giovanni, "te li regalerei volentieri in compenso delle cure che hai avute pel povero babbo". La Matta si sentiva gelare il sangue di dentro. Non era l'accoglienza che s'era aspettata; le pareva che la mettesse fuori dell'uscio, e tremava tutta di vedersi sola nel mondo. Giovanni, vedendo che rimaneva a capo chino senza rispondere, credette di comprendere, e ripigliò: "Ma forse non sapresti dove metterla questa roba; non puoi portartela in casa dei padroni. Dove andrai ora?" le domandò con affettuosa premura. "Hai trovato da collocarti?" Fu un colpo di pistola in mezzo al cuore per quella serva devota. Non la voleva! Non ci pensava nemmeno di tenerla con sé! Quella delusione la colpì così dolorosamente che si lasciò ricadere sulla sedia e si mise a piangere ed a sospirare: "Oh povera me! O povera donna me!" Giovanni le sedette accanto, cercò di consolarla. "Non affliggerti così. Se non hai padrone, lo troverai; intanto puoi rimanere qualche giorno qui, e poi ti darò del denaro perché tu possa aspettare in casa della tua balia finché non ti capiti da collocarti bene. Sai che non sei una donna abbandonata. Ho de' doveri verso di te, e li riconosco volentieri..." Passeggiò su e giù per la stanza, come impacciato dalla presenza di quella donna, poi guardò l'orologio e vide che erano le sei: "Ma tu avrai fame" disse con premura. "Io pranzo alla locanda e qui non ho nulla da darti. Ti farò accompagnare ad un albergo qui accanto, dove ti daranno da mangiare, ed anche da dormire. Potrai fermarti due, tre giorni, fin che vorrai. Sono buona gente. Le ragazze ti condurranno fuori a vedere Milano". La Matta non si moveva. S'era tirata giù la pezzuola fin sulla fronte, e rimaneva muta colla testa bassa. "Non vuoi venire? Che cosa vuoi fare?" domandò Giovanni con un lieve tono d'impazienza. Lei sentì che doveva rispondere, e facendo uno sforzo sovrumano balbettò: "Io non so". Egli era avvezzo a quella parola inconsapevole della povera scema, ma in quel momento, vedendo che rifiutava di andare a mangiare e dormire, mentre doveva averne tanto bisogno, pensò che forse le mancava il denaro, ed aprendo il cassetto della scrivania, ne trasse un biglietto da cento lire, e glielo mise in mano dicendole: "Prendi. Questo è per te. Ti pagherai le spese all'albergo, ed il viaggio quando vorrai tornare al paese. Ed in ogni occorrenza che tu abbia bisogno, fammi scrivere, perché sei sempre stata buona e non ti abbandonerò". Era una sentenza definitiva. Non voleva tenerla con sé. Era finita, non c'era più speranza. Il lungo sogno della sua povera vita svaniva, il suo grande amore da schiava era respinto dal padrone. In quella immensa rovina parve alla Matta che il mondo crollasse intorno a lei, che la spingessero sola in un immenso deserto. Le venne in mente l'asino del mugnaio che girava sempre sempre intorno ad un palo per far girare la macina, e, quand'era vecchio e non girava più, lo conducevano a Borgomanero e lo vendevano per poche lire. E pensò che lei era come quell'asino. Si rizzò convulsa, scese le scale barcollando, Giovanni la seguì. Provava una grande pietà per quella povera creatura. La condusse egli stesso in un piccolo albergo modesto, dove altre volte aveva mangiati i suoi modesti pranzi da una lira, e la raccomandò all'albergatrice. Poi le disse prendendole una mano come avrebbe fatto con una signora: "Sei stanca, poveretta. Ora mangerai bene, berrai un buon bicchiere di vino, e ti metterai a letto. Addio; stai di buon animo. Vieni a trovarmi prima di partire. E se hai bisogno di me, ricordati". Se ne andò commosso e pensoso. Quella comparsa gli faceva tornare alla mente vaghe e lontane le immagini del passato: il suo poetico amore, mezzo morto, soffocato dalla passione che lo divorava. Ma quello era l'amore dell'avvenire, l'amore dell'età tranquilla, il riposo, la pace. Ora aveva nell'anima la tempesta. Quell'ultimo giorno la contessa lo aveva magnetizzato, bruciato coi suoi lunghi sguardi. In certi momenti era penetrata nel suo cuore fino a fargli tremare la voce, a mettergli un singhiozzo in gola. Colla fissità innamorata di quegli occhi larghi e chiari gli aveva detto ancora ed ancora che lo amava, che era sua. Ed egli sentiva che era vinto, che non potrebbero più vivere separati, che avevano assaporate tutte le note dell'incantevole preludio dell'amore, che erano giunti a quello stato d'esaltamento che rende felici od uccide. E per essi non c'erano ostacoli, non dovevano morire. Quella notte vegliò febbrilmente sognando l'ultimo rapimento dell'amore confessato, la gioia ineffabile e crudele di possedere quella donna, d'abbandonarsi a lei, di confondere le loro vite in una passione colpevole. Il mattino fece sgombrare lo studio dei vecchi mobili di suo padre. Incaricò lo scrivano di farli mettere sul solaio, e di riporre i libri nella libreria. Aspettava qualche cosa; era agitato; avrebbe voluto che la sua casa fosse bella. Non osava pensare che la contessa poteva venire; ma aspettava qualche cosa da lei; era certo di vederla; quel giorno sarebbe andato e le avrebbe detto che la amava. Ma sperava che lo scrivesse prima lei. Andò a sedere alla scrivania; ma era impaziente. Ad ogni scampanellata guardava l'uscio ansiosamente; se tardavano ad entrare, gridava allo scrivano che era andato ad aprire: "Chi è?" Una volta lo scrivano gli rispose: "È il cameriere della locanda. Viene per quella donna di ieri..." "Ah! Va bene, pagalo" rispose Giovanni distratto. Ma poco dopo lo scrivano rientrò: "Dice che vuol parlare con lei". Giovanni accennò col capo di sì, e guardò il cameriere per invitarlo a parlare. Questi crollò il capo, poi disse: "Era disperata, povera donna!" "Disperata! Perché?" "Non so. Non ha voluto parlare. Andò a rannicchiarsi in un angolo della bottega e rimase tutta la sera cogli occhi da spiritata. Urlava come un cane rabbioso, e si cacciava le unghie nella fronte". "Ma cosa aveva?" domandò Giovanni. "Sie... Aveva un bell'interrogarla in tutti modi, anche la padrona. Non rispondeva nulla, la respingeva ed urlava più forte. C'è voluto tutto a farla andare in camera quando si dovette chiudere l'albergo. E tutta notte l'abbiamo udita gemere. Poi questa mattina la padrona la trovò ancora rannicchiata in terra; non s'era messa a letto. Disse che voleva tornare al suo paese, e non ci fu verso. Bisognò metterla nell'omnibus e condurla alla stazione pel primo treno di Novara. Non sapeva neppure prendere il biglietto; l'ho preso io..." Giovanni rimase impensierito. Aveva ascoltato un po' distrattamente, ma pure s'interessava della povera serva; disse a mezza voce: "Cosa potrà avere? Ma!". Poi pensò che i campagnoli non sanno stare lontano dai loro paesi. Quella poi non se ne era scostata mai, ed era un po' scema; s'era spaurita... Prima che il cameriere uscisse, s'udì un tocco del campanello; e portarono una lettera a Giovanni. Era la lettera della contessa. Egli si alzò, e corse a leggerla solo nella sua stanza. Alla Matta non pensò più. La bella contessa Gemma, avvezza ad appagare tutte le sue brame ad ogni costo, appena s'era sentita nascere nel cuore un amore, vi si era abbandonata senza la minima resistenza; l'aveva anzi fomentato coll'immaginazione, aveva pregustate con delizia le sorprese di quella nuova gioia che si prometteva. S'era figurata l'ora inebbriante e soave della confessione; le parole ardenti, gli sguardi innamorati e profondi, le carezze febbrili; ed aveva vissuto quell'ora col pensiero, coll'ansia del desiderio; ne aveva provate le emozioni, intense fino allo spasimo, fino al delirio; e di giorno in giorno aveva detto: "Sarà domani". Poi i domani s'erano succeduti monotoni e lenti senza portare nessun avvenimento nel suo romanzo d'amore; ed allora la contessa s'era sentito stringere il cuore da apprensioni paurose: "Se non lo vedessi più? Se non mi amasse? Se quella sera avesse ceduto ad un'eccitazione momentanea e poi l'avesse scordata come si scorda un'ora d'ubbriachezza?". Ed allora le era parso che le mancasse qualche cosa di profondamente caro, di necessario alla sua esistenza; aveva provato un bisogno potente che, comunque fosse, ubbriachezza, eccitazione, delirio, quella sensazione durasse nell'animo di Giovanni; oppure si rinnovasse, se quel breve tempo l'aveva dissipata. E s'era data a cercarlo affannosamente nelle case ch'egli frequentava, ai teatri, alle feste, studiando le abbigliature e le scollature più provocanti, facendosi bella e seducente per riconquistare quella dolcezza, che l'aveva inebbriata un momento ed era svanita. E da ogni ricerca tornava prostrata, irritata, nervosa; s'abbandonava a pianti convulsi, ed accessi di furia; spezzava quanto le cadeva sotto mano, maltrattava la cameriera, lacerava abiti e trine, scriveva lettere disperate, poi le lacerava anch'esse. Finalmente aveva saputo che egli era assorto in un processo di grande importanza; e lei era corsa a cercarlo alle udienze, aveva preso il posto più in evidenza nella tribuna, aveva fatto pompa delle commozioni che provava nell'ascoltarlo, s'era gloriata superbamente di quel sentimento tutto nuovo pel suo cuore frivolo, e che metteva una nota romantica nella sua vita. Per tutta la durata dei dibattimenti, aveva scandagliato il giovine avvocato colla fissità delle sue pupille metalliche; gli aveva trasfusa nell'anima traverso gli occhi un'onda d'amore, l'aveva attirato a sé colla potenza d'una passione imperiosa, d'una volontà irresistibile. E lo aveva veduto arrossire, impallidire, tremare, commoversi sotto suoi sguardi, ed aveva riprovata la gioia suprema di sapersi amata. Ma ancora i giorni s'erano succeduti, e Giovanni non era andato da lei. Tornando dalla grande seduta quell'ultimo giorno, ardente d'entusiasmo, ardente d'amore per quel giovine dalla voce armoniosa e profonda che strappava lacrime ed applausi a tutti, la contessa aveva rotto ogni freno di riserbo femminile, e, nella sua impazienza, aveva scritto: "Perché non venite? Non sapete che vi amo?" Quella lettera mise la febbre nel sangue a Giovanni. Dopo il lungo studio e la lunga fatica di quel processo che lo aveva occupato esclusivamente, si gettò con un ardore da assetato in quella festa d'amore che la fortuna gli offriva. Corse come un pazzo dalla contessa, dimentico dell'ora, delle convenienze, di tutto. Erano appena le undici del mattino. Fu introdotto in sala da pranzo, dove il generale e sua moglie stavano a colazione. Giovanni rimase istupidito come uno che si svegli improvvisamente da un bel sogno. Non gli pareva possibile che quella signora, seduta compostamente a tavola, che mangiava una bistecca discorrendo del più e del meno con quel marito vecchio, fosse la stessa eroina da romanzo che gli aveva scritto: "Non sapete che vi amo?" In un momento tutta la sua illusione inebbriante si dissipò, gli parve di aver delirato, e che non fosse vero nulla, e che dovesse trattare sempre quella bella donna come la trattava in quel momento davanti al conte. Quell'ambiente tutto impregnato d'odori di vivande, colla mensa coniugale, coi cerchietti dei tovaglioli marcati coi nomi dei due sposi, colle biancherie colle loro cifre, con una quantità di cosette di uso comune che li vincolavano, non era fatto per udire proteste d'amore, e le soffocava in gola. Un momento Giovanni pensò che quella lettera era stata un artificio per ottenere una visita che egli tardava troppo, e forse anche per ischernirlo di quel momento d'aberrazione, in cui egli s'era lasciato sfuggire quell'esclamazione stravagante: "Siete troppo bella!" Stette ad assistere alla colazione, comprendendo appena le domande che gli facevano sui particolari del processo, rispondendo lungamente come se, per giustificare in qualche modo la sua presenza a quell'ora, volesse persuadere il generale che era andato appunto per portare quelle nuove. Era imbarazzato di trovarsi là, e non sapeva come andarsene. Guardava la contessa e la vedeva così tranquilla, sorridente, felice, che non poteva più figurarsela tribolata da una grande passione. Senza dubbio il solo pazzo era lui. Finalmente il conte si alzò da tavola, porse la mano al visitatore, e, coll'aria rassegnata d'un uomo avvezzo a piegarsi alla volontà della moglie, domandò di uscire per fumare un sigaro: "Gemma non può tollerare l'odor di tabacco in casa". E se ne andò. Appena egli fu scomparso parve che l'ambiente della stanza si mutasse; la prosa era uscita con lui. La contessa, ritta accanto all'uscio che aveva chiuso dietro il generale, sembrava trasfigurata. Le sue pupille turchine mandavano lampi acuti come punte d'acciaio; tremava tutta. Giovanni le si fece incontro, e sentì che le parole d'uso, i saluti convenzionali non erano più possibili. S'erano compresi e spiegati troppo; erano due innamorati, soli per la prima volta, l'uno in faccia all'altra. Stese le mani in silenzio; Gemma gli porse le sue, e stettero così un momento colle mani strettamente congiunte, cogli occhi fissi, muti, palpitanti, inteneriti. Poi Giovanni se l'attirò accanto, la serrò in un abbraccio ardentissimo, silenzioso, mentre lei, sopraffatta dalla violenza dei suoi sentimenti, si abbandonava ad un pianto convulso. Da quel giorno Giovanni e la contessa Gemma divennero inseparabili. Dovunque essa andava, si era certi di vederla accompagnata da lui. Alle sue serate, ai suoi pranzi d'invito il giovine avvocato era immancabile come uno della famiglia. Era difficile giungere prima di lui e partire dopo. Dal canto suo la contessa era assidua in tribunale quando Giovanni perorava qualche causa; si teneva al corrente di tutti i processi che gli erano affidati, e si gloriava dei trionfi di lui come d'una cosa che la riguardasse. Quel primo amore a trent'anni, nella pienezza del suo sviluppo fisico, della sua esperienza di donna, s'era rivelato alla prima imperioso, violento, intollerante d'ogni freno. Pareva che ella si compiacesse a far pubblica la sua relazione con Giovanni come per dire alla gente: "Badate, questo uomo è mio". Vivevano quanto più potevano insieme; in mezzo ad un circolo di conoscenti sapevano cogliere il momento per rivolgersi qualche parola sommessa, per isfiorarsi la mano nel porgersi una tazza di tè, nel leggere insieme un giornale. Davano appena, lui al lavoro, lei alle esigenze della vita elegante, il tempo e l'attenzione che erano strettamente necessari. Poi si cercavano, si rinvenivano, dimenticavano ogni cosa per assorbirsi l'uno nell'altra. Sovente, a tarda sera, uscendo dal teatro, si facevano condurre fino ai bastioni lontani di Porta Nuova, poi mandavano la carrozza ad aspettarli a Porta San Celso e facevano a piedi sulla neve quel lungo tratto di strada, rabbrividendo di freddo, stringendosi l'uno all'altra per riscaldarsi, correndo, parlando poco, beati di sentirsi uniti e soli e liberi nella misteriosa oscurità. Se per necessità di professione Giovanni doveva allontanarsi da Milano, la contessa scompariva al tempo stesso, e ricompariva soltanto quand'era tornato lui. Si dava appena la briga di immaginare una parente lontana che era stata a visitare in campagna, ma senza curarsi di farlo credere. Inventarono alcune di quelle follie temerarie che i giornali pettegoli amano di narrare, nascondendo male i nomi dei protagonisti sotto il trasparente velo dell'anonimo Fecero l'ascensione del Monte Rosa vestiti tutti e due della medesima stoffa grigia, colla stessa cravatta, gli stessi stivaletti, lo stesso cappello di feltro ornato d'un pennacchietto e di una sciarpa bianca, gli stessi guanti. Sull'alpenstok, sotto il nome del picco e la data dell'ascensione, fecero incidere le loro iniziali riunite, e, lungo il viaggio, sugli album degli alberghi, s'inscrissero sempre come sposi in viaggio di nozze, mettendo accanto ai loro nomi delle frasi sentimentali. Un'altra volta andarono a Monte Carlo, giocarono fin all'ultimo soldo, e dovettero rimanere in pegno all'albergo finché Giovanni ebbe telegrafato a Milano, e gli fu spedito il denaro del ritorno. Il generale ignorava forse quelle spedizioni di sua moglie; oppure le conosceva, e si era rassegnato. Comunque fosse, la relazione della contessa col giovine avvocato non era un mistero per nessuno. Era una di quelle situazioni che la gente tollerante accetta malgrado la loro illegalità, che le persone ammodo tengono a distanza, ma a cui tutti finiscono per avvezzarsi. Anche i due amanti ci si avvezzarono, e dopo qualche tempo, esaurito il repertorio delle follie amorose, tirarono via ad amarsi tranquillamente come due sposi. Era un amore troppo sicuro e palese per creare situazioni da romanzo. Non c'era il mistero né la paura affannosa d'essere scoperti. Tutto procedeva liscio in quella passione spensierata e gioconda che si alimentava più di monellate che di sentimentalità languenti; era un amoretto più che un amore, e per questo durava. Tuttavia Gemma, sotto quell'apparenza giuliva d'amoretto galante, nutriva una forte passione nella quale aveva concentrata tutta la poesia d'un primo amore, tutto l'ardore dell'età matura. Mentre invece Giovanni, sedate le prime tempeste, s'era fatto de' suoi rapporti con la contessa una dolce abitudine, che lo riposava da' suoi lavori senza distrarnelo troppo, che non lo turbava con impazienze ardenti né con gelosie, che gli lasciava tutta la sua serenità di spirito. E gliene era grato, e le era affezionatissimo. Tratto tratto ripensava le sue lontane ambizioni di farsi ricco per strappare al signor Pedrotti il consenso di sposare Rachele. Ora era ricco, guadagnava cinquantamila lire all'anno. Ma quanto tempo c'era voluto! Fortuna che quella giovinetta non s'era impegnata ad aspettarlo. Ormai doveva essere maritata, e madre di famiglia. In certi giorni noiosi, monotoni, sospirava che anche lui avrebbe voluto esser padre di famiglia, e che invecchiava solo, e più tardi non avrebbe nessuno intorno per amarlo... Ma poi rivedeva la contessa, passava delle buone ore con lei, e non ci pensava più. Così passarono degli anni, durante i quali la fama, la fortuna, la situazione sociale di Giovanni si consolidarono. Non era più un giovinotto; aveva trentacinque anni: era un uomo serio; si trovava alla testa di uno dei principali studi legali di Milano; possedeva un appartamento signorile; era decorato della croce dei Santi Maurizio e Lazzaro, ed era certo d'essere portato candidato alle prime elezioni. La contessa era sempre bella, e, con quella tenacità che è particolare alle donne, sempre innamorata. Finché Giovanni fu assiduo presso di lei, e devoto ai suoi desideri, fu felice anche lei di quell'amore sereno in cui tutto era piacere e diletto. Ma venne il tempo in cui anche le formalità della galanteria furono messe da parte, e, gradatamente, senza quasi avvedersene, Giovanni trascurò di mostrarsi innamorato, e lasciò troppo comprendere che considerava l'amore coll'occhio d'un uomo serio. "Questa" diceva, "è la parte privata della mia vita: non deve invadere il terreno della parte pubblica. Ho altri doveri: lo studio, il tribunale, gli affari, la politica. Debbo leggere i giornali, frequentare i circoli. Quando sono libero non domando di meglio che stare con te. Ma non posso passare le giornate a farti la corte. Sai che ti voglio bene..." La bella Gemma invece s'era fatta delle idee da romanzo; sognava la passione esclusiva ed eterna, non poteva rassegnarsi a quel cambiamento di Giovanni, ne cercava le cause, scriveva lunghe lamentazioni, e quando rivedeva l'amante, occupava le poche ore ch'egli poteva dedicarle a fare scene di risentimento e di gelosia. Giovanni, in realtà non aveva fatto nessun cambiamento. Egli, che l'aveva sempre amata ad un modo, e soltanto aveva smessa un po' la galanteria e le dimostrazioni a misura che era cresciuta l'intimità, non capiva di che cosa ella si lagnasse, la trovava esigente ed ingiusta. "Alla nostra età" le diceva, "non possiamo più abbandonarci alle follie amorose come due giovinetti". Quelle parole sembravano crudeli alla contessa. Si disperava ch'egli la trovasse vecchia. "Ecco" diceva, "è per questo che non mi ama più". E si torturava di gelosia se egli avvicinava una donna più giovine di lei. Giovanni ci metteva della buona volontà per renderla contenta; tornava studiatamente alle frasi amorose, si metteva in ginocchio, le baciava le mani. Ma era troppo uomo per non avere un certo sussiego in società: ed in presenza della gente ripigliava il suo contegno serio che affliggeva tanto Gemma. "Debbo farlo per rispetto alle convenienze" diceva, "per rispetto a te stessa". Ma lei, che ripensava sempre con rimpianto il tempo in cui egli pure non si curava di quel rispetto, non rinunciava alla speranza di vederlo rinascere, ed insisteva a cercare la causa che rendeva freddo il suo amante. Più d'una volta lo mise nell'imbarazzo frapponendosi tra lui ed una supposta rivale. Una sera, mentre egli si disponeva ad accompagnare al pianoforte la giovine sposa d'un suo amico che doveva cantare una romanza, la contessa dichiarò che stava male, che aveva bisogno di ritirarsi immediatamente perché si sentiva svenire, e obbligò Giovanni ad uscire per ricondurla a casa, prima che la signora avesse potuto cantare. Giovanni uscì irritatissimo, ed appena fu solo in carrozza con lei si lagnò che lo rendesse ridicolo con quelle scene. Ne seguì una lite aspra, che durò per tutta la strada, poi un lungo malumore, uno scambio di lettere desolate, supplichevoli, umili da parte della contessa, fredde da parte di lui, e finalmente una riconciliazione stentata. Così tirarono avanti del tempo ancora, un po' in pace, un po' in guerra, ritrovando tratto tratto qualche raggio della passata felicità, illudendosi d'averla ricuperata, poi ricadendo nelle liti, nei malumori per una puerilità, per un saluto che Giovanni rivolgeva ad un'altra, per un atto di poco riguardo verso Gemma. Nell'inverno una signora, artista di canto, che aveva una lite con un impresario teatrale, andò a consultare l'avvocato Mazza e gli affidò la sua causa. Giovanni dovette recarsi più volte da lei per avere informazioni ed istruzioni. Era una bella donna e la gente pettegola non perdette l'occasione di ciarlare a proposito di quella nuova relazione dell'avvocato. La contessa divenne inquieta, sospettosa, pazza di gelosia. Pretendeva che Giovanni rinunziasse a quella causa. Implorava questo come una prova d'amore, e non poté ottenerla. Giovanni era infastidito di quelle esigenze strane, e diventava meno condiscendente ogni giorno. Fu un tristo carnovale per la contessa, che si sentiva trascurata, e vedeva con dolore il suo amante sfuggirle a misura ch'ella metteva più passione e studio per trattenerlo; sfogava il suo malcontento in dispettucci meschini che inasprivano tutti e due. Una sera in teatro uscì improvvisamente dal palco a metà dello spettacolo perché Giovanni aveva salutata la sua cliente, che era nel palco di contro. Poi venne la quaresima; non c'erano più spettacoli teatrali, e poteva meno sorvegliare Giovanni. Se non andava da lei, se non lo incontrava in qualche casa di comuni amici, si figurava che fosse dalla cantante; nessuna ragione valeva a persuaderla del contrario. Giovanni finì per impazientarsi e non iscusarsi più. Allora ella s'abbandonò ad una vera persecuzione contro l'artista. Fece inserire degli articoli malevoli sul suo conto in un giornale teatrale, e giunse persino a scriverle delle lettere anonime, accusandola di fingere una lite per sedurre un avvocato illustre e ricco. Giovanni, a cui la cantante comunicò quelle lettere, rimase male; s'irritò della situazione ridicola in cui lo metteva la contessa, e nel suo giusto sdegno le rimproverò acerbamente la sua ignobile azione. Fu la crisi decisiva che doveva rompere quella relazione già troppo prolungata e violenta. La contessa, quando si vide abbandonata, nella sua gelosia insensata, non pensò che a ravvivare l'amore di Giovanni rendendo lui pure geloso. E si fece vedere in pubblico accompagnata da un giovinotto che la corteggiava da qualche tempo, ed ostentò di trattarlo con confidenza, di accordargli delle libertà che lasciavano supporre relazioni molto intime fra loro. Giovanni lo vide, e ne provò un profondo disgusto; ma non fu geloso, non andò a rimproverare alla bella infedele la fede tradita, non scrisse lettere disperate. Il suo cuore s'era fatto freddo per lei e rimase freddo. Allora, nella sua nervosità febbrile, la contessa si abbandonò davvero ad un amore che non sentiva, per vendetta, o per dispetto, o per amor proprio, o per tutte e tre le ragioni unite; ed, eccessiva in tutto, prese una risoluzione pazza, che annunciò lei stessa a Giovanni, in un'epistola insensata e crudele. Forse prese quella risoluzione unicamente per scrivere quella lettera. Vi avevo giudicato troppo bene - diceva per concludere una serie di periodi amari e pungenti -. E voi non meritate il mio amore. Finché aveste bisogno d'una relazione nella società alta per farvi strada, fingeste d'amarmi. Ora che avete una situazione, mi abbandonate come un ingrato. Ma non vi state a figurare d'avermi avvilita col vostro disprezzo, e ch'io debba passare il resto de' miei giorni a rimpiangervi; non siete degno di tanto. Se voi non mi trovate più troppo bella, e neppure bella a sufficienza per riscaldare il vostro cuore d'uomo positivo, c'è chi mi trova ancora bastantemente bella per consacrarmi tutta la sua vita, per sacrificarmi la sua posizione come voi non avete saputo sacrificarla mai, per sfidare l'opinione del mondo, il vostro idolo. Siate felice colla vostra conquista da palcoscenico; io cercherò di dimenticare, nell'amore d'un uomo generoso, un altro che non lo fu mai... Prima che Giovanni ricevesse quella lettera violenta e verbosa da amante offesa, tutta Milano parlava della fuga della contessa Gemma col suo nuovo amante. Quella vendetta mostruosa di passare freddamente, e per pura pazzia gelosa, da un uomo che amava ad un indifferente, finì di disgustare Giovanni; si sentì deluso, oltraggiato, diffidò della dignità umana. Certo, nel suo amore per la contessa, non aveva mai posta molta idealità. Aveva subito il fascino della bellezza, dell'eleganza. L'aveva conosciuta quando egli era nel completo sviluppo della sua gioventù, dopo una vita di privazioni, e col cuore e la fantasia eccitati da un lungo amore contrariato. Aveva ceduto alle tendenze della sua età, ed era stato felice ed infelice con quella donna, senza averne un alto concetto morale, curandosi appena del suo animo, del suo carattere. Era certo di non trovarsi mai nel caso di darle il suo nome, e s'appagava di trovarla bella, spiritosa, ammirata. Era un'amante che lusingava il suo amor proprio, che lo rendeva felice e lo manteneva di buon umore, senza che egli la mettesse nel suo pensiero al disopra di tutte le donne. E tuttavia, la sua parte di vanità umana non gli avrebbe mai permesso di credere che la donna amata da lui potesse scendere tanto in basso. E quando dovette riconoscerlo, dubitò di tutte le donne, pur di non credere che gli era toccata appunto la peggio. E, mentre, non amando più la contessa, non provava alcun dolore nel perderla, si sentiva desolato, infelice, solo. Era la sua ultima illusione che la bella fuggitiva s'era portata con sé; ed era quella che egli rimpiangeva. Ebbe un momento di aberrazione, in cui si buttò a corteggiare disperatamente la sua cliente artista di canto, come per ravvivare con un'altra passione, o apparenza di passione, i sentimenti che si sentiva morire nell'anima. Ma quella giovine era talmente avvezza ad essere corteggiata, che trovò naturale di esserlo da lui, e non ne fece caso. Soltanto quand'egli volle spingere le cose più innanzi, gli disse netto netto che, in quel momento, aveva una relazione di cuore. Era facile capire che, senza quella circostanza, avrebbe accolte ad ogni modo le sue profferte, quand'anche la sua relazione con lui non avesse potuto essere di cuore. Fu una nuova amarezza per Giovanni. Egli si trovava appunto in quell'età in cui l'esperienza della vita è completa. Aveva provate tutte le illusioni poetiche della gioventù. Poi ne aveva compresi gli errori, aveva imparato a considerare il mondo dal suo lato più positivo, a riguardare come sogni giovanili i sentimenti puri, le passioni disinteressate, a prendere il mondo dal suo lato piacevole e gaio. Ed ora, anche di questo secondo apprezzamento comprendeva gli errori, e, fatto il confronto, si persuadeva che gli errori di prima erano preferibili. E ricordava con rimpianto il nobile ardore che lo infiammava altre volte per le prime cause sostenute, il lavoro fervente ed amoroso del giorno, le veglie, impazienti d'altro lavoro e d'altre scoperte. Ora le cause affluivano al suo studio senza procurargli nessuna gioia. Le esaminava coll'occhio freddo e sicuro dell'esperienza, le sosteneva senza eccitazioni, senza lacrime, qualche volta senza metterci neppure interessamento. Ricordava il suo punto di partenza. Un'estrema povertà, ed un grande amore. E ricordava la meta che s'era prefissa. La gloria e la ricchezza, sempre per quell'amore. Ora aveva ottenute la ricchezza e la gloria; ma l'amore lo aveva perduto per via. Forse, se, appena conseguita una situazione onorevole ed agiata, si fosse affrettato a domandare Rachele, sarebbe giunto in tempo prima che altri l'avesse ottenuta. Ma allora le mille curiosità della vita cittadina lo spronavano per un'altra via; la poesia serena di quell'amore verginale, la pace del matrimonio non l'avrebbero reso felice; avrebbe portate nella calma della vita coniugale le febbri ardenti del suo cuore giovine, le aspirazioni illusorie della sua inesperienza. C'eran voluti la vita burrascosa del mondo galante, gli amori adulteri ed avventurosi, per appagarlo, e restituirgli la pace; e lo avevano, più che appagato, saziato, deluso. E lo lasciavano malcontento di sé, sfiduciato degli altri, solo, senza speranze, col cuore assiderato. Furono i giorni più tristi della sua vita. Nel suo quartierino elegante, o nei salotti aristocratici dov'era accolto, ripensava con invidia il mezzanino del fornaio, l'assito mal connesso. Nell'aula affollata del tribunale, fra ammiratori, giornalisti, stenografi, che pendevano dalle sue labbra, fra gli applausi e le lodi, ripensava la sua prima arringa fatta agli zoccoli appesi nella sua stanza; ed avrebbe voluto tornare a quei tempi, povero ed ignorato, pur di avere ancora la speranza e la fede d'allora in quel trionfo che, conseguito, lo lasciava freddo. Non aveva fatto nulla di tanto anormale che dovesse rimproverarsi. Giovine e libero, aveva seguite le inclinazioni naturali della sua età. Ognuno al suo posto avrebbe fatto altrettanto. Ma gli doleva che le inclinazioni naturali fossero così; s'accorgeva troppo tardi che la prima strada era la buona; ed avrebbe voluto riprenderla; ma ormai non era più in tempo. La seconda festa di Pasqua ricevette un invito per una festa da ballo; e per abitudine vi andò. Si era fatto talmente alla vita elegante, era egli stesso così raffinato, così gentiluomo, e così uomo di mondo, che si trovava nel suo centro nelle sale sfarzose e nelle società delle belle dame, degli uomini illustri, dei diplomatici, degli artisti celebri, della nobiltà eletta. Da qualche tempo non danzava più, non giocava, non si divertiva; ma era nel suo ambiente. Quella sera era più triste del solito, e s'era messo a discorrere di politica con un vecchio senatore. Nel più bello d'una discussione seria sul macinato, che era allora la questione più interessante, il senatore sorrise da lontano a qualcuno, che poi s'avvicinò a salutarlo. "Il conte Tale; uno dei nostri futuri diplomatici..." disse il vecchio presentando a Giovanni il nuovo venuto, un giovinotto sui venticinque anni. Giovanni balbettò una delle solite frasi: "che era fortunato di fare quella conoscenza". "Ma la nostra conoscenza non comincia ora" rispose il giovinotto; "e se non mi sbaglio data per lo meno da sedici anni". Giovanni lo guardò attentamente, ma non lo riconobbe. "Non avevo che otto anni allora" riprese il giovine sorridendo. "E quand'ero invitato a pranzo mi mettevano alla tavola dei bambini..." Allora Giovanni si risovvenne del nome di quella famiglia, e riconobbe uno de' suoi piccoli commensali di casa Pedrotti. Tutta quella scena fresca, quell'ombra estiva, quelle mense signorili, quei vecchi barbassori, quella giovinetta bionda, gli si ravvivarono al pensiero come in quel giorno lontano; e stringendo le mani con effusione al suo nuovo conoscente esclamò: "Come mi fa piacere! Come mi fa piacere!" Era vero; gli faceva un grande piacere quel ritorno sul passato. L'imbarazzo che aveva provato allora, i suoi risentimenti feroci contro gli orgogliosi mecenati, la paura d'avvilirsi che lo rendeva scontroso, si erano dissipati per sempre colle circostanze che li avevano suscitati, colla gioventù che non torna. Quel quadro remoto di agiatezza e di pace gli appariva nella luce simpatica che gli dava l'esperienza de' suoi trent'anni, raggiunti traverso un lungo periodo d'avventure e di disinganni. Non si figurava d'esser laggiù ragazzo, seminarista, selvatico e disprezzato come era allora; ma nelle sue circostanze attuali, col suo bel nome, la sua sicurezza, e l'anima stanca anelante alla quiete. Gli rinacque in cuore tutt'ad un tratto una grande tenerezza pel suo paese patriarcale, per le sue colline verdi, pel vasto giardino del castello, e pei muraglioni neri che lo ombreggiavano. Tutto codesto gli parve bello e grandioso e pittoresco; e pensava che sarebbe stata una delizia di ritirarsi là, e di vivere in pace... S'impadronì del giovine diplomatico, e pel rimanente della serata se lo tenne al braccio, interrogandolo su Fontanetto e sulla gente ch'egli vi aveva lasciata. Quel giovinotto aveva dei ricchi possedimenti in paese, e vi faceva una corsa ogni anno, per cui era bene informato. Il signor Pedrotti era morto di gotta da parecchi anni e Rachele aveva continuato a vivere solitaria nel suo vasto castello. Né prima della morte del padre né poi, non aveva voluto saperne di prendere marito. L'aveva domandata l'ingegnere X di Maggiora, che era divenuto famoso fra gli architetti di Roma. Poi le avevano proposto il figlio d'Ipsilonne, quel possidente proprietario di quasi tutto il territorio di Fontanetto e Cavaglio e Ghemme, tanto ricco che lo chiamavano il Rotschild d'Italia. Poi era tornato a stabilirsi in paese quel fabbricante di violini, figlio della Tognina la mugnaia, il quale s'era fatto un patrimonio colossale ed un'educazione in America, e anche lui aveva offerto la sua mano ed il suo cuore ed i suoi milioni ed i suoi violini alla signorina Pedrotti; ma lei aveva rifiutati tutti. Alcuni dicevano che avesse un amore segreto, altri la credevano bigotta. Giovanni, nella disposizione di spirito in cui si trovava da qualche tempo, preferì la prima supposizione: che Rachele coltivasse un amore segreto nel cuore. Infatti perché non ammettere che avesse aspettato lui? Quando era partito da Fontanetto era certo che lo amava. Alla prima s'era lasciata intimidire dall'autorità del padre, e non aveva osato scrivergli né fargli una promessa contro la volontà espressa di lui. Ma col tempo aveva trovata la forza di resistere; dopo aver rifiutata una prima proposta di matrimonio, aveva capito che le era possibile, persistendo in quella via, restar fedele al suo primo amore senza mettersi in aperta ribellione con suo padre. Si sapeva amata, aveva fede nel suo innamorato, e rimaneva fanciulla per aspettarlo. Quella sera Giovanni, rientrando presto dalla festa, portò nel suo quartierino da uomo ricco, tutta la poesia de' suoi vent'anni. Salì le scale canticchiando la vecchia romanza della segretaria di Fontanetto, dimenticata da tanti anni, e che gli era tornata in mente coi ricordi del suo paese: "Non mi chiamate più biondina bella, Chiamatemi biondina sventurata..." Entrò nelle sue stanze col passo forte e la fronte alta, sorridendo come un giovinetto che torni dal primo convegno d'amore. Non aveva fin allora nessuna idea precisa, ma si deliziava nella dolcezza delle memorie; aveva la visione d'un paesaggio verde, d'un grande isolamento, d'una pace soave nella quale egli s'abbandonava all'ebbrezza d'un lungo idillio. E sorrideva al vuoto dinanzi a sé, come se dicesse: "Ora ho trovato il mio pezzettino di paradiso; il mondo non mi gabba più". Si buttò a sedere nella poltroncina accanto al letto, e cominciò a svestirsi lentamente, distratto da quei nuovi pensieri sereni, cercando collo sguardo i pochi mobili dell'eredità paterna che non aveva relegati cogli altri sul solaio, contemplandoli con amore, evocando da ciascuno una memoria, una persona, una scena d'altri tempi. E tutte queste cose, nel riapparire alla sua mente dopo tanti anni, si erano spogliate delle amarezze che le avevano accompagnate altre volte. Rivivevano soltanto nella loro parte bella, come le farfalle, che nel risorgere abbandonano la forma ingrata e lo strisciamento del bruco. Giovanni vi fissava sopra il pensiero intenerito. Quando fu coricato, prese il libro che era avviato a leggere; una relazione dei processi famosi di Londra. Ma quella sera le birbonate della grande capitale dell'Inghilterra non lo interessavano punto. Balzò dal letto, andò ad aprire la libreria, ed in punta di piedi, col lume alzato quant'era lungo il suo braccio, si mise a cercare nel piano più alto, dove teneva le opere letterarie, che non erano la sua lettura abituale. Ad un tratto fissò gli occhi sopra un volume ricoperto di marocchino rosso, lo prese vivamente come se avesse trovata una cosa smarrita e cara, e tornò a coricarsi lasciando la libreria spalancata. Era la seconda edizione dei Promessi Sposi che, tanti anni prima, aveva prestata a Rachele. Era il libro che aveva ridomandato al momento di abbandonare definitivamente il suo paese, nella speranza di trovare fra quelle pagine una promessa implorata, e che gli era tornato senza una parola, portandogli invece una delusione. Se allora vi avesse trovata quella promessa, sarebbe venuto a Milano vincolato da una parola d'onore; e non avrebbe badato ad altro che a mantenerla ad ogni costo. Appena fosse stato nella condizione di farlo senza paura di nuove umiliazioni, sarebbe corso a ridomandare la sua fidanzata; e la sua vita avrebbe preso tutt'altro indirizzo. Ora si troverebbe da parecchi anni ammogliato, alla testa d'una famiglia, e quel triviale disinganno della contessa non l'avrebbe avuto. Egli pensava queste cose colla rapidità vertiginosa con cui si pensa, mentre andava sfogliando quel volume, nel quale aveva fatte delle note in margine, degli appunti, dei segni che gli richiamavano tante memorie giovanili. Ad un tratto, nel voltare un foglio trovò una lettera. Una lettera un po' sucida, un po' gualcita ma ancora suggellata nella sua busta. Si sentì tutto rabbrividire, e gli prese un tremito, un batticuore, come se avesse veduto ricomparire un morto. Era la scrittura di Rachele. Era la lettera implorata tanti anni prima; era la promessa che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla sua vita. E non l'aveva trovata allora! La aperse agitatissimo, colle mani tremanti, colla mente ottusa. Gli pareva di essere appunto ancora a quell'epoca remota, e di stare aspettando, coll'angosciosa ansietà d'allora, quella sentenza che doveva decidere del suo avvenire. Erano poche parole: "Non mi metterò in ostilità con mio padre per esser tua (perdona questa debolezza al mio cuore di figlia). Ma non isposerò mai altri che te. Lo giuro". Giovanni rimase sbalordito, convulso. Era certissimo che quella lettera non era nel libro quando la Matta glielo aveva riportato. "Quella stupida donna!" pensò. "L'avrà tolta fuori per la curiosità di cercare gli o sulla soprascritta. Poi l'avrà rimessa a posto troppo tardi". E si ricordò con una lucidezza fenomenale tante circostanze che gli erano sfuggite allora. L'improvviso voltarsi della Matta per evitarlo quand'egli era andato, nella sua impazienza amorosa, ad incontrarla per via; il suo imbarazzo, la resistenza a dargli il libro, l'insistenza con cui reclamava ancora di portarlo lei quand'egli lo avea già ripreso; e finalmente l'averla trovata nella sua camera col libro in mano quand'era salito l'ultima volta per pigliare il baule. Coll'abitudine delle induzioni e delle ricerche acquistata nella sua lunga carriera legale, tutto questo gli risultò chiaro, e disse: "Allora aveva riposta la lettera nel volume". E si perdé a fantasticare da che piccole cause dipendono i nostri destini; e che cosa sarebbe stato di lui, se da bambino non gli fosse venuta l'idea di insegnare ad una serva scema le lettere dell'alfabeto... E tutto quel romanzo alla Dickens d'amor puro, di gioie intime, di vita casalinga che sarebbe stato la sua vita senza quella circostanza affatto casuale, gli si presentò alla mente, e gli parve un sorriso di cielo. Si fermava con compiacenza su certi particolari d'una dolcezza calma e serena, su certe scene tenerissime d'un amore senza lotte, senza vergogne, senza paure. E tutto codesto gli appariva tanto più bello, quanto più era differente dall'esistenza avventurosa e dagli amori burrascosi che lo avevano disgustato. A forza di fissarsi su quel pensiero, il rimpianto del tempo passato si dissipò. La gioia, la fede, l'amore gli rinacquero nell'anima. Infatti non gli avevano detto quella sera stessa che Rachele aveva rifiutate tutte le offerte di matrimonio? Ecco. Era appunto, com'egli pensava poc'anzi, per amor di lui. Aveva mantenuto il suo giuramento; l'aveva aspettato. Ed egli era libero, e l'amava più che non l'avesse amata mai. Cosa importava che quella lettera non gli fosse pervenuta? Che egli avesse ignorata la fedeltà generosa di lei? La situazione era la stessa; ritardata di parecchi anni, ma non alterata. Rachele era buona ed intelligente; era onesta, incapace di menzogne. Da lei non avrebbe mai a temere una bassezza né un atto sleale. Vegliò, vegliò a lungo, pensando a lei. Non poteva più essere una giovinetta. Doveva avere, poco più, poco meno, l'età della contessa: ma la contessa era piacevolissima, giovine ancora, e per lungo tempo. Rachele era bella e bionda come lei, ma i suoi lineamenti erano più regolari. Era certo di trovarla ancora più bella nel suo pieno sviluppo di donna. Se la figurava più alta, un po' più tondeggiante che a diciotto anni, e più disinvolta, più spiritosa, colle maniere cordiali ed espansive che si acquistano cogli anni e coll'abitudine del mondo. Aveva fin da giovinetta molta grazia naturale, un gusto fine, un'eleganza di modi, ed un'intelligenza... Doveva essere ormai una donna affascinante. Ed era orfana; l'avrebbe accolto sola, coll'ospitalità d'una castellana. Dopo tanto tempo forse non lo sperava più. Che commozione doveva provare al rivederlo! Doveva essere una scena da medio evo, rappresentata da una bella donnina moderna e da un lion. Si figurava di giungere a cavallo, sollevando un nembo di polvere, e di vedere la sua dama salita sull'alto della torre come la moglie desolata di Malbourough, pour voir s'il reviendra. S'addormentò in mezzo a quelle fantasie rosee, e sognò sogni di poesia e d'amore. La mattina si alzò presto, impaziente di correre a Fontanetto, di rientrare in quel romanzo d'amore giovanile e puro, di portare quella sorpresa di piacere alla donna onesta e fedele che lo aveva aspettato. Ma dovette occupare molte ore a riordinare le cose sue, a dare le disposizioni necessarie perché i suoi sostituti potessero supplirlo nello studio durante la sua assenza. Soltanto nel pomeriggio poté partire. Quanto poteva stare assente? Non lo sapeva, non volle dirne nulla. Andava incontro a tali gioie, che voleva esser libero d'abbandonarvisi senza misura di tempo, senza sopraccapi d'affari. Alla stazione di Novara dovette aspettare circa un'ora il treno per Borgomanero. Si ricordò come gli era sembrato bello altre volte il caffè della stazione. Appunto nella primavera era il ritrovo del mondo elegante di Novara. A Fontanetto se ne parlava come d'un luogo di delizie. Chi ne tornava, raccontava per un pezzo il lusso della sala, le cornici dorate ed i grandi specchi, i mobili di velluto, il marmo candidissimo delle tavole ed il sontuoso buffet apparecchiato con ogni ben di Dio. E poi si facevano descrizioni enfatiche dell'eleganza sfrenata delle signore, che nel pomeriggio di estate stavano ad udire la banda dai tavolini esterni nel giardino del caffè, mentre prendevano un gelato. Questa volta invece Giovanni si sentì soffocare entrando in quella piccola sala, che era rimasta fin allora senza riforme dopo la sua inaugurazione. I mobili di velluto di lana erano scoloriti, ed andavano perdendo il pelo come teste di vecchi. Le cornici dorate erano annerite e scrostate malgrado la mussola rosa ingiallita che le ricopriva. Sugli specchi migliaia di generazioni di mosche avevano depositate tante traccie che il viso vi si rifletteva cosparso di puntolini neri come dopo una malattia di vaiuolo. Il marmo delle tavole era deturpato da scritte e figure stupide. Era una rovina, tanta rovina, che poco dopo venne rimesso a nuovo ed ampliato, per farne una sala confortable. Al banco stava una giovine, a cui due giovinotti maturi, tra il cittadino ed il campagnuolo, facevano dei madrigali che ella accettava come roba che le fosse legalmente dovuta. Se ne stava impettita nel busto con una vitina sottile sottile da perderne il fiato: ed il capo, ornato da una pettinatura piramidale, liscia e simmetrica da parrucchiere, troneggiava dietro due piramidi di scatole da biscottini che ingombravano i due lati del banco. Di fuori un organetto suonò una polka, e la giovine caffettiera, con quella mania sfrenata pel ballo che distingue le provinciali, corse a pigliare un'altra ragazza in cucina, ed uscì a danzare con lei sotto il porticato della stazione, sbirciando i suoi due galanti, e ridendo colla compagna in modo provocante ad ogni osservazione un po' temeraria che essi facevano sulla sua persona. Poi cominciarono a giungere alcune famiglie borghesi; le signorine camminando innanzi coi vestiti chiari, ed i cappellini più stravaganti dei figurini di moda, il babbo e la mamma pochi passi indietro. Alcune giovani spose, in gran lusso, con molti gioielli, sfoggiando le ultime mode con più esagerazione che le signorine. Finalmente dei giovani eleganti che salutarono con un cenno la bella caffettierina, senza togliersi il cappello per non farsi scorgere dalle signore. Quella non era la società scelta di Novara; era la piccola borghesia; ma era quella appunto di cui si parlava molto a Fontanetto, dove si diceva una Novarese come in un villaggio del Poitou si direbbe una Parigina. Giovanni guardava quelle scene di provincia, e sorrideva tra sé dell'impressione che gli avevano fatta nella sua prima gioventù, e si abbandonava alle riflessioni di circostanza. "A misura che ci veniamo raffinando, avvezzandoci al benessere, al lusso, a tutte le delicatezze della vita signorile, ci rendiamo più difficile l'esistenza, perché soffriamo se ci troviamo in una cerchia meno eletta di quella in cui viviamo; troviamo tutto meschino, tutto brutto, tutto ridicolo, a torto ed a ragione, e non siamo mai contenti... Cos'aveva guadagnato lui diventando un personaggio ricco ed illustre? Di stare a disagio in quello ed in altri luoghi che altre volte l'avevano abbagliato addirittura..." Per fortuna il treno stava per partire, ed il sermone fu interrotto. Giovanni prese un coupé per esser solo e comodo, si sdraiò sul sedile, e, coll'occhio fisso sul vasto piano verde che gli si stendeva dinanzi traverso la vetrata, pensava Rachele, la sua visita, il loro incontro. Si ricordava benissimo il disegno grandioso del castello, le sale vaste dalle volte immense, dai cornicioni a bassorilievo; i mobili di lusso. Rachele, che aveva ricevuta un'educazione fine, aveva certo saputo mantenergli il suo carattere antico. Ma lei era moderna, e doveva essersi fatto un nido più simpatico. Si figurava un salottino un po' piccolo, con dei mobili piccoli, delle poltroncine basse e morbide, delle sedie a dondolo, dei piccoli divani turchi, dei tavolini di lacca, un pianoforte, una tavola da lavoro ingombra di ricami e di fiori; dei begli arazzi antichi drappeggiati artisticamente da un lato della parete, delle statuine di terra cotta, delle mensole di ceramica, una pelle di tigre, un tappeto turco, una scrivania aperta con tanti oggetti di bronzo artistico, calamaio, tagliacarte, premicarte, portapenne, tutte le inezie costose e belle che sa trovare il buon gusto delle signore. E dei libri, i libri moderni, che una donnina intelligente si fa mandare dal suo libraio man mano che escono. E dei fiori sulle tavole, sulle mensole, nelle giardiniere di ferro a rabeschi addossate alle finestre, dei fiori da per tutto. Ed in mezzo a quell'eleganza semplice e di buona lega, Rachele, vestita con uno di quegli abiti neri o scuri, tagliati col garbo inimitabile delle sarte più rinomate, che disegnano le forme senza stringerle, che adornano senza sfarzo, e senza impacciare i movimenti della persona. Colla sua ricchezza le era stato facile di procurarsi tutti i raffinamenti delle dame cittadine; vivendo in quel castello isolato aveva potuto mantenersi esente dal pettegolismo, dalle grettezze, dalle ridicolaggini delle donne di provincia. Egli conosceva una signora che viveva da parecchi anni in una sua villa della Brianza, ed era una delle donne più attraenti che frequentasse. La trovava sempre in una serra di cui aveva fatto il suo salotto da lavoro. Una grande vetrata che occupava il posto di tutta una parete apriva sulla campagna, chiusa in lontananza dalle montagne rocciose ed irte del lago di Lecco. Le altre pareti ineguali, formate di tufi su cui crescevano delle felci, dei licopodii, delle edere, ogni sorta di sempre verdi, davano l'illusione d'una grotta naturale, alla quale si fosse applicata semplicemente quella vetrata per abitarla anche l'inverno. Accanto alla serra c'era il salottino; e là quella dama giovine, bella ed elegante, viveva solitaria tra i fiori, la musica, i libri, vedendo appena qualche amico ogni tanto, scrivendo delle lunghe lettere piene di spirito, passando la sera con pochi conoscenti, spesso uno solo, che venivano da Milano per vederla; senza teatri, senza feste. I suoi discorsi avevano sempre un'elevatezza speciale, perché erano scevri da qualsiasi personalità. Il tempo che non perdeva nelle visite e nelle corse come si fa a Milano, le rimaneva tutto libero di dedicarlo alle letture, alla musica, al disegno; e dal suo stesso isolamento traeva una certa indipendenza dai pregiudizi e dalle convenzioni sociali, che le dava una superiorità sulle donne comuni. Giovanni si figurava Rachele così, e pensava che conducendola a Milano, dove egli doveva continuare a stare in causa della sua professione, non le lascerebbe frequentare che le signore più ammodo, d'un'educazione squisita, d'una riputazione immacolata. Ed invocava le immagini di quelle sposine del gran mondo che lo accoglievano amichevolmente nei loro salotti; e si compiaceva di immaginarsi la sua sposa a far parte di quel gruppo eletto, ed a figurarvi al pari e meglio delle altre. Alla stazione di Borgomanero prese un carrozzino per Fontanetto. Era domenica, e quando vi giunse era l'ora della benedizione. Le strade erano deserte. Il castello nereggiava in lontananza co' suoi muraglioni vecchi ed il largo fossato. Era la sola cosa che avesse conservato l'aspetto solenne d'altre volte; era la dimora signorile che conveniva alla sua bella castellana. Tutte le finestre erano aperte per lasciar entrare l'aria profumata della primavera, ma non ci si vedeva nessuno affacciato, non c'era movimento, pareva un maniero disabitato. Infatti, quando Giovanni scese dal carrozzino, tutto freddo e pallido per la commozione, e bussò al portone, il giardiniere che venne ad aprirgli disse che la signora era alla benedizione. Giovanni lasciò andare la carrozza, e s'avviò a piedi verso la chiesa. Il sole era tramontato, ma c'era sempre quella bella luce chiara ed uguale dei lunghi giorni di primavera, che non hanno serata. Tutta la campagna era verde, del bel verde lucido e fresco dell'aprile, e l'aria era leggiera e profumata. Tuttavia Giovanni si trovava un po' perduto in quel paese silenzioso, con tutti i portoni chiusi, che pareva un paese di morti. Si ripeteva ancora ed ancora che era l'ora dei vespri, che tutti erano in chiesa; ma che dopo le funzioni e prima, le case erano abitate, e nelle contrade circolava la gente. Avvicinandosi alla chiesa, udì il canto alto e stonato del Tantum ergo. Dovevano star poco ad uscire. Si mise a passeggiare di fuori aspettando. Era veramente strano di vedere quella bella figura da gentiluomo su quel rustico sagrato di villaggio. Da tutta la sua persona traspariva la lunga abitudine del lusso e della ricchezza. Nella furia di partire non aveva pensato a provvedersi una toletta da viaggio, e la sua vestitura da città, lucida, scura, attillata, le scarpine scollate, le calze di seta a colori, i guanti di pelle del Tirolo, stonavano in quella scena campestre. La chiesa era affollata e la porta era aperta. Molti devoti, che non erano giunti in tempo per prender posto di dentro, erano inginocchiati fuori sul sagrato. Appena alcune donne s'avvidero di quel bel signore, urtarono col gomito le vicine, si misero a ridere, poi tornarono a sbirciarlo ripetutamente, e tornarono a ridere fra loro, guardandosi e dimenticando di cantare. Gli uomini intanto, avvisati da quella mimica, si voltavano colla bocca spalancata nello sforzo del canto, e fissavano lungamente quel nuovo venuto, mandandogli contro le note rauche, come se fosse lui il Padre Eterno dal quale imploravano il raccolto, nel suo stravagante linguaggio latino che non capivano. Finalmente tacquero. S'intese la voce del prete dire l'oremus, poi tutti chinarono il capo, si sparse intorno un buon odore ed un fumo denso d'incenso, vi fu un momento di silenzio profondo, poi, senza organo, senza canto, sorse la voce baritonale del parroco a dire: "Dio sia benedetto!" E tutti risposero: "Dio sia benedetto!" E per una decina di minuti s'udì il cinguettio alto ed ingrato dell'orazione di Pio Nono, come il gracchiare d'un volo di cornacchie. Poi i contadini cominciarono ad uscire pigiati e lenti, parlucchiando tutti del bel signore di Novara, che era arrivato durante le funzioni e non s'era inginocchiato, e non aveva fatto il segno della croce: "Quella Novara era una Gomorra, un centro di corruzione, uno scandalo. Non era per nulla che ogni anno c'erano tempeste, o siccità, ed i raccolti andavano male, ed i bachi pure. I proprietari non avevano più religione, e il Signore li castigava, ed intanto i poveri contadini non avevano da mangiare; pativa il giusto pel peccatore..." Le donne non la pensavano tanto lunga, e s'accontentavano di dire: "Hai visto gli scarpini lustri? Oh! Ha le calzette di seta. Ha la pezzuola col ricamo come una signora" e nel passargli vicino si accorsero che aveva buon odore; e risero nascondendosi l'una dietro l'altra. Soltanto i bambini, che non si pigliano tante soggezioni, gli facevano cerchio intorno, e, col capo rovesciato indietro fin sulla nuca, e le mani dietro il dorso, stavano a guardarlo fisso, come se fosse uno spettacolo messo là per divertirli. E, man mano che ne sopraggiungevano di nuovi, davano spinte di qua e di là per entrare nel cerchio che i primi avevano fatto intorno al signore, e, se questi tenevano sodo, dicevano rinnovando le gomitate: "Fammi un po' di posto. Vuoi veder tu solo?" Le ultime ad uscire furono le signore. La moglie del farmacista, una donnina bruna, piccina, la quale era sempre stata tanto scarsa di capelli e di denti, e tanto incartapecorita, che il tempo le era passato sopra senza poterle fare gran danno; la segretaria che non si sarebbe potuta più chiamare né biondina bella né biondina sventurata, perché era tutta incanutita, ma che camminava sempre solennemente, diritta, colla testa alta ed il viso arcigno, mentre discorreva con due giovinette di cose affettuose; quelle due giovinette cresciute troppo di recente perché Giovanni potesse conoscerle, e finalmente Rachele. Era vestita di seta nera, con un velo nero. Il suo bel colorito roseo da bionda aveva presa una tinta un po' troppo viva; la persona alta e ben fatta, ingrassando aveva perduta la sua sveltezza. I capelli, sempre d'un biondo cinereo, erano ravviati e lisci, tirati sulle tempia, e raccolti stretti stretti sulla nuca; una pettinatura che scopriva la fronte, ed incorniciava l'ovale del volto alla maniera di certe Madonne di Raffaello; ma, come quelle, apparteneva all'arte antica. Ella non portava, come le eleganti di provincia, le mode dell'anno precedente, e neppure l'ultima moda, copiata troppo fedelmente dal figurino con tutte le sue esagerazioni di cattivo gusto e gli ardimenti di colori. Il suo vestito si componeva semplicemente d'una vita e d'una gonna, senza guarnizioni né gale: ed il bel velo di trina di Chantilly era messo semplicemente sul capo e sulle spalle, e raccolto dinanzi come il pezzoto delle donne genovesi. Quella vestitura che non ostentava nessuna pretesa d'eleganza, e realmente non ne aveva, non era neppure ridicola perché nella sua estrema semplicità non attirava l'attenzione, ed in quel paese rusticano era più adatta che i fronzoli cittadini. Ma le dava un'aria vecchia. Giovanni ebbe una rapida visione della figura che avrebbe fatta quella giovine matronale vestita come una massaia ricca, in mezzo alle donnine nervose, brillanti, graziose della società ch'egli frequentava; e gli parve che dovesse riescire ridicola; e stette ad esaminarla con espressione di malcontento. In quella Rachele rivolse verso di lui i suoi grandi occhi limpidi ed il suo volto calmo, e quell'espressione quasi sprezzante non le sfuggì. L'aveva subito riconosciuto; ma a lei pure avevano fatta un'impressione dolorosa la figura giovanile, l'apparenza di lusso e d'eleganza di Giovanni, ed aveva sentita la distanza enorme che li separava. Si fece rossa fino sulla fronte, rivolse altrove la faccia e continuò la sua strada senza più guardarlo, come se non l'avesse riconosciuto. Nell'isolamento in cui viveva, non aveva potuto avvezzarsi a nascondere i suoi sentimenti sotto l'apparenza d'una cordialità gioviale, a salutare sorridendo un uomo che, al solo apparire, mette il cuore in sussulto, a porgergli la mano con apparente serenità, ed a parlargli delle cose più estranee ai loro rapporti. Il suo primo impulso al vedere Giovanni era stato di corrergli incontro colle braccia stese, e di sfogare nel suo seno l'impeto di pianto che quella sorpresa di gioia le faceva salire alla gola. Ma la timidezza naturale, che cogli anni e colla solitudine era aumentata, la paralizzò. Tutto questo non aveva occupato che il primo istante, l'attimo del vederlo e del conoscerlo; nel secondo istante aveva indovinato il sentimento di spiacevole sorpresa che aveva prodotto in lui, s'era sentita ricadere dal sommo della gioia ad uno sconforto infinito. Giovanni le tenne dietro coll'occhio lungamente. Camminava lenta, a passi lunghi e misurati. Era alta e forte, ed il suo incedere riesciva un po' pesante e matronale come la sua persona. In quella vasta cornice di campagna e di monti, quella figura semplice, quell'abbigliatura semplice, quei modi d'una timidezza selvaggia, stavano bene e piacevano. Un pittore avrebbe copiata Rachele per farne appunto una Rachele figlia di Labano. Uno scultore avrebbe ammirate quelle belle forme da Giunone. E Giovanni pure l'ammirava, ma come si ammira la bellezza d'una contadina un po' matura. L'idea ch'egli si era fatta della sua sposa era tutt'altra. Come per istinto, provò il desiderio di correre daccapo a Borgomanero, e di riprendere il treno per Milano senza neppur presentarsi a Rachele; di fuggire. Pure, un pensiero lo intenerì. Gli tornava in mente la bella fanciulla che aveva lasciata dodici anni prima, con tanto avvenire dinanzi a sé, e tanta gioventù, e tanta grazia naturale ed intelligenza da poter diventare una delle più attraenti fra le signore della sua età. Era ricca; avrebbe potuto maritarsi in una grande città, fare una vita brillante. Ed invece s'era rinchiusa nel suo vecchio castello, aveva trascorsi solitari gli anni più belli della vita, lasciando spegnersi la vivacità giovanile del suo carattere, trascurando le grazie della persona, secondando le tendenze di calma, di gravità, che il tempo veniva sviluppando nella sua anima, rinunciando onestamente ad ogni ambizione, ad ogni arte per rendersi piacevole, dacché aveva rinunciato a piacere a quelli che l'avvicinavano, ed il solo a cui avrebbe voluto piacere era lontano. E tutto questo per lui. Poi si ricordava la sera del fossato quando le aveva detto con tutto l'ardore della sua giovine anima: "Vuoi esser mia?" E la giovinetta arrossendo aveva risposto una parola d'amore. Ed egli, graffiandosi le mani, lacerandosi gli abiti, era riuscito ad arrampicarsi sulla sponda del fossato fin alla base del terrazzo, ed aveva afferrato un piede della fanciulla, e l'aveva baciato. Da quel giorno egli aveva patito ogni sorta di privazioni, di dolori, aveva lavorato degli anni, ed avevano sofferto in due, per giungere al momento in cui si trovavano. Ed ora, che quel momento era giunto, egli avrebbe data volentieri tutta la sua gloria e la ricchezza faticosamente acquistata, per risentire la gioia ineffabile che aveva provata allora, nello stringere e nel baciare quel piede. Invece quella gioia era morta e morta per sempre. Il tempo l'aveva uccisa. Bastava di vedere Rachele, per esser convinti che una lunga abitudine l'aveva trasformata così in una campagnola. Era ancora Rachele, ma non era più il suo ideale; ed il cuore di Giovanni rimaneva freddo e calmo nel ritrovarla. Fece un giro intorno al sagrato per lasciare che si disperdesse la folla; ma i bambini lo seguivano sempre, facendo un gran rumore di zoccoletti. Egli allora costeggiò un tratto il Sissone, da un lato dove la sponda addossata ad un muraglione è tanto stretta che ci può passare una sola persona alla volta; ed i piccoli selvaggi, meno insistenti di quelli dei dintorni delle città, vedendo che il signore li sfuggiva, rimasero un tratto aggruppati sulla strada a guardarlo, poi si dispersero. Giovanni percorse un lungo tratto di quella sponda dove aveva passeggiato tante volte solitario per non essere distratto ne' suoi sogni d'amore. Poi tornò in su lentamente, e si diresse verso il castello. Non gli riusciva più di figurarsi la serra pittoresca, le poltroncine a dondolo, i mobilucci artistici, e tutto il nido elegante e profumato nel quale aveva collocato la bella solitaria nella sua immaginazione. Era triste e scoraggiato. L'aria cominciava a farsi meno chiara. Tutt'intorno i colli e la pianura prendevano una tinta grigia, e dai prati sorgeva una nebbiolina bianca che dava l'illusione d'un lago. I contadini s'erano ritirati nelle case per la cena. Le cicale tacevano, ed appena qualche grillo interrompeva tratto tratto l'alto e mesto silenzio della campagna. Giovanni guardò il castello, e vide Rachele che era rimasta sul portone, curva sul ponte come se guardasse nel fossato. "Mi aspetta" pensò. Ma Rachele era così assorta ne' suoi pensieri che non l'aveva veduto. Soltanto quando fu a poca distanza lo sentì venire; si rizzò sgomentata, ed invece di movergli incontro, rientrò precipitosamente in casa come se fuggisse. Quell'eccesso di selvatichezza sconcertò più che mai il gentiluomo cittadino. Il rossore che l'aveva infiammata tutta al riconoscerlo laggiù sul sagrato, e quel fermarsi sola e pensosa sul ponte, erano prove che la presenza di lui l'aveva commossa. E tuttavia scappava dinanzi a lui come una selvaggia. Egli crollò il capo in atto di sconforto, e passò sotto il portone sospirando. Nel cortile trovò una serva che lo introdusse nella grande sala del castello. Quella sala, che gli aveva imposta tanta soggezione il giorno della sua ultima visita al signor Pedrotti, ora gli parve grottesca. I grandi seggioloni panciuti erano vecchi senza essere antichi, e la loro forma moderna, e le imbottiture stonavano coi cornicioni e le portiere medioevali della sala. Sul camino troneggiava un grande orologio di bronzo dorato, fiancheggiato da due candelabri monumentali, tutti e tre religiosamente protetti da campane di vetro. Accanto al vecchio pianoforte a coda, erano disposti in ordine sulla scansia dei fascicoli di musica fuor di moda. Non c'erano gingilli artistici, né libri, né fiori, né piante, né giornali, né fotografie, né incisioni, né nessuna delle cose interessanti e belle di cui amano circondarsi le donne di buon gusto. Invece del profumo acre dei coni fumanti, o di quello soave della violetta, si sentiva quell'odore di ammuffito delle stanze lungamente rinchiuse. Era la sala inutile e disabitata delle case dove non si riceve punto. La solitudine di Rachele non era quella della elegante amica di Giovanni, interrotta dalla visita di pochi eletti, da un tè con alcuni privilegiati, che mantengono viva l'abitudine della conversazione, tengono lo spirito in esercizio, e non lasciano morire quell'ombra di vanità femminile che serve a conservare ed a mettere in risalto le attrattive naturali. Era solitudine vera, era obblio, era distacco del mondo nel quale egli viveva, e del quale s'era fatto una necessità come dell'aria che respirava. Rachele entrò rossa in volto e con fare impacciato. S'inchinò dicendo: "O signor Giovanni, come sta?" Poi si pose a sedere sul divano. Anche Giovanni provò un minuto di soggezione dinanzi a quella matrona timida e muta. Ma, senza spiegarlo ben chiaro a se stesso, si sentiva più rinfrancato da quell'accoglienza contegnosa, che non sarebbe stato da dimostrazioni d'affetto più vive. Prese dunque coraggio, e porgendo la mano, nella quale Rachele pose la sua lentamente, per ritrarla subito, le disse: "Ho tardato molto a venire, Rachele?" Ella arrossì più vivamente. Dunque era venuto per lei? Si ricordava la promessa? Non era tutto finito? Non poteva quasi crederlo. Dopo tanto tempo, s'era avvezza a considerarsi dimenticata, a pensare che non si mariterebbe mai più... Quella grande sorpresa di piacere le diede un tal sussulto al cuore che quasi le mancava il respiro, e non le fu possibile di rispondere. Giovanni, imbarazzato da quel silenzio tornò a dire: "Non mi rimprovera questo lungo ritardo?" "Meglio tardi che mai" rispose Rachele tanto per parlare. Ma il senso preciso di quelle parole applicato al caso suo le sfuggiva. Troppi pensieri le turbinavano nel cervello, nuovi, vitali, e che la coglievano di sorpresa. Quel sogno della sua gioventù non era morto; s'era creduta vecchia per l'amore, ed invece poteva ancora essere amata; ed il suo cuore si risvegliava! Ma era possibile che quel bel signore dal volto altero e freddo fosse lo stesso Giovanni di tanti anni prima? E sentisse allo stesso modo? O no; tanti anni prima si sarebbe commosso al vederla, i suoi occhi fissandosi su di lei si sarebbero empiti di lacrime, o avrebbero mandato lampi di passione. Quelli che aveva dinanzi non erano occhi da innamorato; quei modi sicuri, disinvolti, quella voce tranquilla, quello sguardo acuto, indagatore, che la esaminava come per contarle i capelli sul capo e per cercarle una ruga sul viso, non avevano nulla di comune coll'amore. Quel bel cittadino non l'amava. Ed allora perché era venuto? Perché? Ecco; era lui che rispondeva a quella domanda che lei non aveva espressa. "Ah! sicuro; meglio tardi che mai" aveva ripetuto dietro lei. E dopo una pausa, una breve pausa durante la quale Rachele aveva fatte tutte quelle riflessioni rapidissime, riprese: "Dunque crede che non sia troppo tardi?" Troppo tardi! Eccola la spiegazione di quella freddezza. Credeva suo dovere di tornare a lei, ma dopo esser tornato, dopo averla veduta, s'era accorto che, sulla giovinetta che amava altre volte, erano passati dodici anni; dodici anni di vita solitaria, fra gente zotica, fra occupazioni triviali; e quei dodici anni l'avevano invecchiata, inselvatichita; avevano distrutto l'ideale ch'egli aveva vagheggiato giovine, elegante, gentile, per farne una buona donna campagnola. O di certo era troppo tardi. La bella fanciulla aveva perdute le sue grazie, ma aveva serbato il suo buon senso per comprenderlo. "È vero" pensò. "Sono troppo vecchia per l'amore, sono troppo provinciale per lui; è disposto a sposarmi per sentimento d'onestà, soltanto per questo". Ed un gran dolore, un immenso sconforto le strinse il cuore. Il dubbio che l'aveva colta per via d'avergli fatta un'impressione sfavorevole, si confermò, divenne certezza. Si sentì morire di dentro, mentre stava là ritta, immobile sul divano, colle mani incrociate in grembo e gli occhi sulle mani. Giovanni dovette ricominciare a parlar lui; ma andava cauto; era andato là col proposito di sposare Rachele; ed ora aveva paura di compromettersi. Ma tuttavia era impossibile evitarlo. La loro situazione reciproca, tutto il passato li comprometteva. Bisognava parlare di quello ad ogni costo, abbandonarsi al destino. "Sicuro; meglio tardi che mai" disse. "Siamo ancora in tempo a mantenere le nostre promesse..." "O Dio! No" esclamò Rachele col pianto alla gola dinanzi a quella calma fredda che la umiliava. "Non parliamo del passato". "Perché?" domandò Giovanni col tono di voce indulgente che si usa per confortare una persona a cui si vuol molto perdonare. "Perché non è più tempo per me di pensare a... certe cose...". Egli l'ascoltò con aria afflitta, e disse per cortesia: "Ma che, le pare? È ancora molto giovine..." Ma i suoi occhi la fissavano con aria di pietà come se dicessero: "Pur troppo è vero, che peccato!" "No no" riprese lei. "Ci siamo avviati per due vie differenti..." Aveva cominciato a dire con fermezza; ma intanto che parlava, le si erano empiti gli occhi di lacrime e la voce s'era alterata; se avesse aggiunta una parola di più, se avesse detto come aveva in mente di dire: "Le nostre promesse erano ragazzate" sarebbe scoppiata in pianto; perché, soltanto il pensiero di dire quella cosa crudele, le aveva gonfiato il petto d'un singhiozzo, e l'aveva obbligata a star zitta per frenarlo. Giovanni, vedendola turbata a quel modo volle lasciarla sola, e se ne andò dicendo: "Ci ripenserà, Rachele. Ora l'ho presa all'improvviso; ci ripenserà; tornerò quando sarà più calma..." Sicuro; Giovanni pensava di tornare. Non poteva decorosamente troncar tutto così. A Fontanetto non c'erano alberghi dove una persona a modo potesse alloggiare. Dovette riprendere solo ed a piedi la strada di Borgomanero. "Mi fermerò alcuni giorni" diceva, "intanto lei rifletterà meglio". La strada era lunga, e tutta dritta e bianca alla luce fredda della luna. Durante quella camminata solitaria di più d'un'ora, egli ripensava tutto quello che s'erano detto laggiù al castello. Pur troppo era vero; quei dodici anni contavano per venti su Rachele. Non aveva più nulla della giovinetta svelta, rosea, elegante d'altre volte. Non era lusinghiero pel suo amor proprio presentare nelle società di Milano quella sposa matura. Si sarebbe riso; si sarebbe detto che la sposava pel denaro; perché Rachele era anche ricca. Finché aveva vagheggiata una bella fanciulla, non s'era mai dato pensiero di questi commenti della gente sulla sua ricchezza; ma ora aveva bisogno di pretesti per giustificare le sue esitazioni. Un momento rifletteva che quei dodici anni erano passati anche per lui; ma tutti pretendono che gli uomini non invecchiano. Infatti egli ne conosceva molti che a trentasei, trentotto anni avevano sposate delle giovinette di diciotto o venti; e non erano ridicoli, per questo. Ma del resto non era all'età per se stessa ch'egli badava; che! era superiore a codeste leggerezze. Considerava la necessità in cui era di vivere nel mondo; era un avvocato famoso, doveva essere deputato alle nuove elezioni; aveva bisogno una moglie avvezza alla vita cittadina, ai ricevimenti, che sapesse presentarsi in società e fare gli onori della sua casa... Rachele tal quale l'aveva trovata, impacciata, selvatica, antiquata in tutto, non poteva convenirgli. Lei stessa l'aveva riconosciuto; aveva dato prova di buon senso, e sarebbe stato indelicato da parte di lui ritornare su quell'argomento, rinnovarle una scena che evidentemente le era riescita dolorosa. Il suo amor proprio di donna ne avrebbe sofferto, perché non è mai senza pena che una donna si rassegna a riconoscere la sua età ed i guasti che il tempo ha fatti sulla sua persona. Era una triste, triste cosa, che il suo ideale fosse svanito così. Ci pensò lungo la notte, e ci pensò il mattino in ferrovia, mentre, tutto considerato, tornava a Milano senza aver cercato di rivedere Rachele. Poi ci pensò a Milano, lungamente, sempre. Ma sempre all'ideale, come l'aveva adorato tanti anni prima, giovine, bello, gentile... Forse lo trovò ancora più tardi sul suo sentiero, perché la donna matura di Fontanetto non era più quella, non era il suo ideale. E Rachele, appena rimasta sola, s'era lasciata cadere sul vecchio divano scolorito, e s'era abbandonata ad un pianto convulso, lungo, disperato. Lei lo sapeva che Giovanni non sarebbe tornato.

Teresa

678431
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Le ampie, lunghissime strade si rifecero deserte, silenziose tra la doppia fila delle gelosie abbassate e delle alte muraglie nere, a' cui piedi verdeggiava un tappeto d'erba immacolata. Lo scheletro grandioso di quella che era stata una città, contrastando colla pochezza degli abitanti, dava all'insieme una intonazione triste, sotto quel cielo opaco della valle del Po, nell'atmosfera umida e molle, lungo il fiume cintato da malinconici boschi, che novembre sfrondava. Caramella, lo zoppo, che abitava in principio del paese, dove ci aveva l'ortaglia, incominciava il suo giro mattutino, spingendo avanti la carriola carica di mele cotte e di pere. - Oh! le belle pere ... pere ... pere! La via di San Francesco era affatto spopolata, tutte le case silenziose, un vapore grigio nell'aria, ancora qualche cosa di tenebroso e di addormentato. Caramella si fermò dal tabaccaio, abbandonando la carriola sul marciapiede, ed entrò a bere un bicchierino di grappa. - Vuol venir presto l'inverno - disse la tabaccaia, alzandosi sulla punta dei piedi, per togliere dalla scansia la bottiglia. Il fruttaiolo non rispose subito, intento ad assicurare i calzoni intorno alle reni. Prese poi il bicchierino in sul vassoio di latta, e lo tracannò d'un colpo, spalancando la bocca e facendo poi scoppiettare la lingua. - Ma! - disse allora - il peggiore di tutti gli inverni, è quello che ci sentiamo sulle spalle. Diede un'occhiata, fuori, alla carriola e un'altra al cielo bigio. - Mele per la vostra bambina non ne volete? - Oggi no; la tengo a letto, che la voglio purgare. Caramella si fece sulla soglia, colle mani in tasca. La tabaccaia gli venne presso, con una faccia misteriosa, sorridendo in pelle in pelle. - Voi che andate in casa Portalupi non sapete niente? - Di che? - Della seconda ... dicono le faccia la corte il sottoprefetto. - Crederci! Lo zoppo non disse altro. Abbrancò la carriola, lentamente, col muso per aria, l'occhio intento alle finestre. La tabaccaia lo vide allontanarsi, e lo seguì collo sguardo distratto, pensando a tutt'altro, finché un nuovo avventore la fece rientrare nella sua botteguccia. - Oh le belle pere! ... pere! ... pere! ... Al palazzo Varisi, Caramella non guardò neppure; e non guardò la casa attigua, dove stava la Calliope, quella stramba, nemica degli uomini, a cui faceva gli sberleffi come un monello, dietro le ferriate del piano terreno. Si fermò invece dirimpetto all'abitazione del pretore, e bussò alla porta, come uomo sicuro. Là difatti gli comperavano sempre le sue pere, perché il pretore aveva sei o sette marmocchi da mandar a scuola, e le pere cotte fanno bene ai bambini. Anche nel palazzo Portalupi, l'emulo del palazzo Varisi, lo zoppo aveva le sue entrate libere; forniva la dispensa dei signori Portalupi, marito e moglie, ricconi, con tre ragazze da marito; e serviva la vecchia Tisbe, una cameriera in ritiro, alla quale i Portalupi avevano ceduto due camerette al secondo piano. Niente da fare con don Giovanni Boccabadati, don Giovanni di nome e di fatto, la cui vita misteriosa ed equivoca lo additava alla curiosità delle donne e all'invidia degli uomini. Nella casa dove egli viveva, solo, con un vecchio servitore, si vedevano qualche volta entrare ed uscire ombre femminili, sulle quali la vecchia Tisbe appuntava invano i suoi occhiali, e che le tre ragazze Portalupi guardavano sdegnosamente, mordendosi le labbra. Fra la casa Boccabadati e quella del pretore, stavano i Caccia; e anche lì lo zoppo fece una breve sosta, poiché la signora Soave, udendolo passare, aveva detto a Teresina: - Compera un paio di pere per le gemelle. Teresina, mezzo assonnata ancora, tirandosi su i capelli colle mani, aveva mandato la serva sulla porta, e lei erasi messa alla finestra, guardando Caramella che sceglieva le pere, delicatamente, e le poneva sulla bilancia - belle pere piccoline e dolci, dalla buccia liscia, che si era indorata cuocendo, e che fumavano ancora in un bagno di brodetto denso. - Oh le belle pere! ... pere! ... pere! ... Lo zoppo si allontanava, giù, verso piazza, colla carriola che si lasciava dietro un buon odore, e quasi come un dolce calore di famiglia, di focolari accesi, di bambini allegri col grembialino aperto e teso; odore e calore che si fondevano in una sensazione complessa di benessere, spandendosi lieve, salendo, in quella rigidità bigia di mattino autunnale. Teresina, alla finestra, seguiva coll'occhio la carriola, e quando non la vide piú, rimase ancora a guardare la strada lunga, colle sue case allineate - quella bianca della Calliope; quella dei Varisi, annerita, e dei Portalupi, tutta gialla, colle cimase delle finestre ad uso marmo; la casaccia larga e bassa, dipinta in rosa, dove abitava il pretore colla sua numerosa famiglia; la casina misteriosa di don Giovanni colle gelosie verdi e la porticina stretta; e poi tutte le altre, in fila, serrate, perdentesi a destra ed a manca, sotto la linea irregolare dei tetti, nella striscia di cielo pallido che appariva in alto. Sulle braccia, coperte appena da un abitino di percallo, Teresina si sentiva scorrere un brividuccio punzecchiante, non molesto, simpatico quasi; e i suoi capelli giovanilmente scomposti le danzavano sulla fronte e sul collo, producendole un solletico gradito, come di carezza. Se la brezza cessava, ella scuoteva il capo per sentire ancora quelle lievi ondate attraverso il collo, e ne prolungava l'impressione con una ingenuità infantile, collo sguardo sempre errante nella lunga via, osservando con interesse l'acciottolato fitto e la rada erbetta e i due marciapiedi rossicci, fatti di mattonelle posate in costa, avvallate in molti punti. In fondo, dalla piazza, spuntò il portalettere trascinando di mala voglia gli scarponi a punta quadrata, colla borsetta di pelle nera sul fianco, la faccia burbera. Sparve un momento. Teresina pensò subito che fosse entrato in farmacia. Riapparve, facendo la strada a biscia, da destra a sinistra e da sinistra a destra, lasciando La Mode nouvelle alle signorine Portalupi e il Corriere di Cremona al loro babbo; tre lettere a don Giovanni Boccabadati. Passò davanti alla sua casa senza fermarsi; posò una grossa lettera gialla e alcuni stampati alla porta del pretore; poi riattraversò la strada, e andò a sollevare il battente irrugginito della casa della Calliope. Un sentimento incompleto, indeterminato ma nuovo, si impadroní di Teresina; una specie di mortificazione e di dispiacere. Tutti quei giornali, tutte quelle lettere portavano a chi erano destinati un mondo di sensazioni. Nella borsetta nera del procaccio c'erano gioie, dolori, speranze, ebbrezze, promesse, curiosità, fantasia, affetti - tutto l'ignoto, il desiderato, quello che la fanciulla non sapeva. C'era la vita lontana, i fili simpatici che uniscono gli assenti, il principio di storie future, l'ultima parola di cento storie passate. In quella borsetta volgare che un indifferente portava in giro di porta in porta, mille cuori sussultavano; mille interessi si incrociavano; affari e passioni, arte e fame, nobili sacrifici, raffinate vendette, viltà ignobili, santi eroismi. Ogni segreto della vita era là. Teresina non disse tutto ciò a se stessa, ma lo pensò vagamente con un recondito senso di invidia, con una avidità ignota che sorgeva in quell'istante dentro a lei, per la prima volta, e che le gonfiava il petto di un sospiro lungo, amaro. La casa della Calliope continuava a restare sbarrata, silenziosa, al pari di un sepolcro. Il procaccio, appoggiato al muro, sceglieva intanto le lettere, cavandole dal fondo della sacca: lettere larghe, colla soprascritta breve, chiara, a caratteri allungati, commerciali: lettere bianche linde, accurate, scritte su falsariga, col francobollo simmetrico, come sogliono mandarle le educande: lettere chiuse in una busta inglese, di carta consistente, color perla, profumate, misteriose: lettere con inchiostro violetto, scritte bene, a larga iniziale dorata, corrispondenza da donna a donna: grosse lettere, mal piegate, coll'inchiostro dilatato, con traccie di mani poco pulite, due righe di soprascritta e quattro errori. E la falange delle cartoline scritte verticalmente, orizzontalmente, diagonalmente; moltissimo, molto, poco, pochissimo, quasi nulla, una parola; le circolari, gli annunci, gli inviti, gli opuscoli - tutto passava rapidamente sotto la mano esperta del procaccio, che rimetteva ogni cosa nella borsa, tenendo solo una lettera in mano, e bussando per la terza o la quarta volta all'invincibile porta. Teresina non conosceva Calliope; non l'aveva mai veduta bene, ma solamente intravista tra una sbarra e l'altra della finestra, colla faccia seminascosta sotto un ampio fazzoletto giallo, parlando da sola e dicendo improperi a tutti gli uomini che passavano. Da troppo poco tempo Teresina si era fatta donna, per aver considerato la Calliope diversamente da quello che la consideravano i ragazzi del paese: una matta che faceva ridere. La sua storia l'aveva sentita raccontare a brandelli, con molte lacune tra un episodio e l'altro; lacune che l'immaginazione sobria della fanciulla non si era mai data la briga di colmare. Sapeva che era stata accolta, piccina, da una contessa, ed allevata quasi come figlia. E qui le si affacciava la prima lacuna; essendovi parecchie persone le quali affermavano che Calliope fosse veramente figlia della contessa - affermazione che sembrava assurda a Teresina - ma, comunque, la contessa le aveva voluto bene, e l'aveva fatta istruire da un vecchio prete occupandosi ella stessa di quello che poteva mancarle per la parte femminile. Vivevano allora tutte e due in un podere solitario, e già si sapeva che la Calliope aveva gusti bizzarri, uscendo sola per le campagne, coi capelli sciolti sulle spalle, un piccolo fucile ad armacollo; ardita, violenta, selvaggia. I pochi che avevano occasione di traversare il podere, la udivano zuffolare nei boschi di pioppi, imitando il canto degli uccelli, e qualche volta la vedevano correre sfrenata attraverso i campi, saltando le siepi, colle mani graffiate dalle spine e gli abiti strappati. Era stata bella, di una bellezza virile e forte. Il dottor Tavecchia, che l'aveva curata una volta, in occasione che cadendo da un albero si era fratturata un braccio, la diceva una delle piú belle donne ch'egli avesse mai viste. Gli abiti bizzarri che portava, si addicevano al suo corpo da amazzone, robusto e snello. Quando si copriva il capo, lo faceva con un cappello da uomo, nero, ampio; non portava mai trine, nastri, gioielli; vestiva di nero o di bianco; spesso si cuciva tutto in giro alla gonna dei fiori freschi e tutta di fiori si fabbricava una acconciatura strana, originale, che sarebbe stata goffa per chiunque, e nella quale ella appariva incantevole. Seconda lacuna: Teresina aveva udito sussurrare misteriosamente, di un ufficiale francese, di fuga, di tradimento, di altre cose che non capiva bene e che non l'avevano mai interessata fino allora. Poi balzava fuori la Calliope monaca. Era stata in convento due anni, modello di abnegazione e di penitenza; improvvisamente, alla vigilia di pronunciare i voti, era sparita. Terza ed ultima lacuna; la quale abbracciava una quindicina d'anni e che aveva condotta la strana donna - rimasta sola al mondo - a chiudersi in quella casa da cui non usciva mai, e dove il paese le usava la carità di non occuparsene, lasciandola in pace colla sua pazzia inoffensiva. Ma tutta quella storia, arruffata e inverosimile, si presentava ostinatamente al cervello di Teresina, intanto che il procaccio aspettava; e quando finalmente si apersero le persiane della solita finestra a pian terreno, e che la testa stralunata della Calliope apparve tra le sbarre, la fanciulla la guardò intensamente, con una pietà nuova. Non ebbe agio di osservarla molto, perché, presa sgarbatamente la lettera, la mattoide rinchiuse subito le gelosie scagliando due o tre grosse invettive contro il procaccio. Teresina rimase cogli occhi fissi come magnetizzata, sulla finestra chiusa della Calliope; lasciandosi cullare in quel fenomeno comune della mente, per cui sembra di sognare, desti. Giù, sotto i raggi del sole che si mostrava lentamente, la via usciva dalla nebbia grigia del mattino, per entrare in un bagno di luce. Qualche porta si era dischiusa. La vecchia Tisbe, fedele alle abitudini mattiniere della sua antica carica, aveva distese sul davanzale della finestra le coperte del letto; e tratto tratto appariva nel vano, grattandosi la cuffia, gettando di sbieco occhiate sospettose alla casina dirimpetto, dove le gelosie verdi restavano assolutamente chiuse, nell'isolamento tiepido e dolce di misteri ignoti ai profani. Passò il dottor Tavecchia, un po' curvo per gli anni, colla palandrana di panno scuro e il bavero di velluto; passò a capo basso, pensando a' suoi ammalati. Passò la cuoca di Monsignore, una grossona, ruvida, burbera, che pareva lei la padrona di tutto il paese, e pretendeva dai bottegai la roba migliore perché, diceva: era per Monsignore. Passò Luzzi, il segretario di Prefettura, snello, arzillo, con un soprabito di mezza stagione di un bel colorino chiaro, attillato alle reni; guardò in su a tutte le finestre, voltando un po' la testa per osservare Teresina. Passò la moglie del sindaco, tutta imbacuccata in un velo nero tenendo fra le mani un grosso manuale color pulce, spellacchiato negli angoli; andava a messa a San Francesco. Si spalancarono con gran fracasso le finestre di casa Portalupi - la vecchia Tisbe, dalla finestra in alto, ritirò subito le sue coperte - e le signorine Portalupi apparvero, l'una dopo l'altra, in mezzo alle tende di pizzo, sfoggiando tutte e tre una cuffietta rosa. Si assomigliavano in modo strano, brutte tutte e tre senza rivalità. Accennarono lievemente col capo a Teresina, tenendo la bocca stretta, le spalle alte, le braccia serrate alla vita, l'occhio socchiuso, in una posa nobile e dignitosa. Stettero un momento appoggiate al davanzale - o piú precisamente a un guancialetto lungo, imbottito, ricamato dalle loro preziose mani - e poi si ritirarono l'una dopo l'altra, com'eran venute. Dalla porta del pretore irruppero quattro bambini, seguiti dalla mamma, la quale, povera signora spettinata e in ciabatte, si affannava a rabbonire il piú piccolo, che non voleva andare a scuola, e piangeva come un rubinetto aperto. La vista dei bambini fece fare un salto a Teresina. E le sue sorelline? Ella le aveva dimenticate. Corse subito al letto delle gemelle, e le trovò che si mettevano le calze, alla rovescia, litigando per le pere di Caramella, perché ognuna pretendeva la piú grossa. Le aiutò a vestirsi in fretta, le lavò, le pettinò, fece recitar loro le orazioni, preparò le pere nel panierino, ponendovi accanto due grossi pezzi di pane. - Io non voglio quel pane lì! - Perché non lo vuoi? - Non mi piace. - Ed io voglio il cacio insieme alle pere. - La mamma non lo ha detto. - Lo voglio, lo voglio ... - Zitte, non gridate, che la mamma dorme; poverina, non ha mai chiuso occhio tutta notte in causa dell'Ida, ma l'Ida è piccina piccina, ha appena due mesi e non sa di ragione. Voi altre dovete essere buone, capite? Avete otto anni, e otto anni son molti. Le mandò a scuola, raccomandando loro di essere bravine, baciandole sulle guancie, con una tenerezza composta di giovane madre. Le guardava allontanarsi, ferma in piedi, lasciandosi riprendere da un torpore fantastico che la spingeva, quel mattino, a sognare desta.

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FIABE E LEGGENDE

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Praga, Emilio 1 occorrenze

Oh non troppo correte, non abbassate il velo! L'uomo ignoto che segue, come un povero cane, i passi onde intrecciate le vostre corse strane, che per baciar la terra dove l'orme ponete salirebbe una croce e vi morrìa di sete, che toglierebbe il serto di fronte alla doghessa per deporvelo ai piedi quando siete alla messa, è un timido poeta, né vuol né chiede nulla. La Musa e la Sventura che l'han raccolto in culla gli fur madri operose : giovane ancor, vent'anni! Gli eran compagni i dubbii, le noie e i disinganni... Oh i suoi canti! caligini cosparse di faville, raggi erranti nel buio come fatue scintille... Se voi li conosceste!... Bella, pura, felice gli appariste una sera, inconscia amaliatrice, e rinnegò dolori e disinganni e noie, e la vita gli apparve tutta piena di gioie! Oh come attese il sole quella notte, vegliando! Come accolse il suo primo raggio soave e blando! O sol! punta spietata fitta alle nostre reni, se chi è stanco di passi a risospinger vieni, a gridargli: sei vivo, su la croce, cammina!.. Quando porti a un felice la candida mattina apparenza di Dio verissima! Da un anno, bella dama, i pensieri del giovinetto stanno intorno a voi, dì e notte : la sua delizia è questa : possedervi sarebbe, lo so, più allegra festa; a lui basta vedervi qualche poco: la sposa siete di un vecchio illustre e l'amica pietosa, tale vi crede il mondo, e tal, nell'ombra, ei v'ama. Ma lontana dal tempio è già la bella dama.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

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Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Abbassate quell'arma e venite con noi. - Vengo, ma ad un patto. - Ma che patto! - Vo' sapere se colui è morto e vo' vedere il cadavere. - Andiamo, andiamo, sclamò seccato il brigadiere e si moveva. Poteva nascere disgrazia. Mi lanciai e lo trattenni. - Lasciate ch'io gli parli, dissi. E fattomi innanzi: - Beppe, volete darmi retta a me? Mi ravvisò, e togliendosi con moto istintivo la berretta: - Sì, signor pittore. - Ebbene, obbedite al brigadiere, sarà pel vostro meglio, - e la giustizia terrà conto dei vostri dolori. - Signor pittore, ditemi che il sindaco è morto ed io vengo dove vogliono. Ci teneva alla sua vendetta. - Il sindaco non è morto ma non tarderà ad esserlo - Sicuro? - Come son sicuro che stassera tramonterà il sole. Il suo volto balenò di una gioia selvaggia. Il brigadiere, che in questo momento era salito, lo disarmò e lo consegnò a' suoi uomini, che gli misero le manette. Egli li lasciò fare; pareva istupidito. Prima che lo menassero io gli presi una delle sue mani legate e gliela strinsi senza ripugnanza per l'atto di cui s'era macchiata. - Coraggio, gli dissi, i vostri amici si ricorderanno di voi. Egli mi fe' un sorriso ebete e chinò il capo. Lo trassero alla casa comunale, dove fu per il momento rinchiuso.

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Surama sempre avvolta nella coperta di seta bianca vi fu adagiata, le cortine furono abbassate, poi il drappello si mise rapidamente in marcia preceduto da due mussalchi che portavano delle torce accese. Nel palazzo nessuno si era accorto di quell'audace rapimento compiuto nel colmo della notte e nel più profondo silenzio. I rapitori percorsero diverse vie oscure e deserte, poi si arrestarono dinanzi a un vasto caseggiato che rassomigliava nella costruzione a quei comodi e graziosi bengalow che si fabbricano gli inglesi che si stabiliscono nell'India. La porta era aperta e la gradinata illuminata da una grossa lampada. Un chitmudgar, accompagnato da quattro servi, aspettava il drappello. - Fatto? - chiese. - Sì, - rispose il fakiro. - Il tuo padrone sarà contento. - Il chitmudgar sollevò una tenda del palanchino e gettò su Surama, sempre addormentata, un rapido sguardo. - Sì, - disse poi. - È la principessa misteriosa. - Fece un segno ai servi. Questi presero il palanchino, l'alzarono e salirono frettolosamente la scala. - Potete andare, - disse allora il maggiordomo rivolgendosi alla scorta, - e anche tu gussain. È meglio che non ti si veda in questa casa. Eccovi cento rupie che il mio padrone vi regala. Buona notte. - Chiuse la porta e raggiunse i servi i quali avevano deposto il palanchino in una bellissima e ampia stanza, il cui centro era occupato da un letto incrostato di laminelle d'argento e di madreperla con ricchissima coperta di seta azzurra a ricami gialli. Il chitmudgar prese fra le robuste braccia la bella indiana che pareva morta, svolse la coperta di seta bianca e la mise a letto, coprendola per bene. - Portate via il palanchino ora - disse ai servi. Erano appena usciti quando un uomo entrò: era uno dei ministri del rajah. - Eccola signore - disse il maggiordomo, inchinandosi profondamente. - Le guardie del favorito hanno agito rapidamente e senza allarmare gli abitanti del palazzo. - Il ministro sollevò la coperta e guardò Surama. - È bellissima, - disse. - Il grande cacciatore è di buon gusto. - Devo svegliarla signore? - Che cosa ha adoperato il fakiro per addormentarla? - Gli ho dato tre fiorellini di carma-joga. - Ah! - fece il ministro. - Ne coltivo molti nel giardino. - Come potremo farla parlare? - Ho previsto tutto, signore. - Colla youma? - Ho qualche cosa di meglio - rispose il maggiordomo con un' sottile sorriso. - Fino da ieri ho preparato una infusione di bâng (10)

Le stuoie di coccottiero, rimanevano ermeticamente abbassate, perfino quelle delle verande. Bindar, che era sfuggito miracolosamente ai colpi dei cipay, quantunque avesse sempre combattuto e valorosamente in prima fila, guidava Sandokan e le sue schiere, verso l'immensa piazza, in mezzo alla quale s'ergeva il superbo palazzo del rajah. I montanari stavano per irrompere nell'ultima e più ampia via che conduceva nella piazza, quando si trovarono dinanzi ad una serie di barricate, costruite è vero alla buona, con carri, materassi e panconi di legno incrociati, ma che offrivano una certa resistenza. Fra le une e le altre si erano ammassati i cipay ed i guerrieri assamesi, con un certo numero di bocche da fuoco. - Ecco l'osso più duro da rosicchiare - disse Sandokan fermandosi. - I cipay sono stati più lesti di noi ed hanno avuto il tempo di trincerarsi. - Capo, - disse Khampur, accostandosi al pirata. - Se i seikki non si muovono, corriamo il pericolo di farci schiacciare. - I seikki al momento opportuno entreranno in azione. Devono essere occupati ad impossessarsi del rajah e dei suoi favoriti, in questo istante. Quando giungeremo al palazzo reale, non avremo più nulla da fare là dentro. Fa' piazzare tutta la tua artiglieria lungo i camminapiedi e manda duecento uomini a occupare le case che si trovano presso la prima barricata. Dalle verande e dalle terrazze potranno fare dei buoni colpi di carabina. Se è possibile, fa' installare anche lassù dei falconetti. - Sì, capo. - Dammi ora quattrocento uomini per formare una solida colonna d'attacco. - Quel rapido discorso era stato fatto in mezzo ai colpi di fuoco. Gli assamesi, credendosi sicuri dietro le loro barricate, non avevano però ancora fatto uso delle loro artiglierie, che dovevano essere state caricate a mitraglia. I malesi, i dayachi ed una compagnia di montanari, avevano risposto con poche scariche e con qualche colpo di falconetto, tanto per provare la resistenza di quelle trincee e dei loro difensori. Sandokan, prima di dare il gran cozzo, attese che i suoi ordini fossero stati eseguiti, e quando vide i montanari comparire sulle verande e sulle terrazze delle case più prossime alla prima trincea, comandò alcune scariche di falconetti. Quei piccoli pezzi lanciarono per ben tre volte un vero uragano di palle, del calibro d'una libbra, sfondando parte dei carri e dei panconi, e costringendo i difensori della barricata a ripiegarsi contro le pareti delle case. Era il momento opportuno per dare il cozzo. Sandokan e Tremal-Naik fecero stringere le file alla colonna d'assalto, e mentre i montanari che occupavano le terrazze e le verande li proteggevano con un fuoco violentissimo, diretto specialmente contro i cipay, che servivano i pezzi d'artiglieria, si slanciarono all'attacco con impeto meraviglioso. A cento passi dalla barricata una poderosa scarica di mitraglia, vomitata da tre pezzi collocati ai lati della barricata, fece oscillare la colonna d'assalto, che però si rimise subito, strinse ancor più i ranghi e si spinse audacemente innanzi, malgrado avesse subito gravi perdite. Una seconda volta si trovò esposta alle scariche di mitraglia, nondimeno quei prodi montanari, incoraggiati dallo slancio ammirabile dei malesi e dei dayachi e dalle grida dei valorosissimi capi, che si esponevano intrepidamente al fuoco, mostrando un disprezzo assoluto della vita, furono ben presto sopra la barricata, caricando i difensori colle larghe scimitarre e gli affilati tarwar. I cipay ed i guerrieri assamesi tennero duro per qualche minuto, poi volsero in fuga salvandosi dietro la seconda barricata. Sandokan fece voltare verso quella i cannoni conquistati, che valevano ben meglio dei piccoli falconetti, mentre una parte dei suoi uomini sfondavano, coi calci delle carabine, le porte delle case per occupare le verande e le terrazze. Un'altra colonna, composta di trecento uomini, correva in aiuto dei vincitori. La guidava Khampur. Quel poderoso rinforzo si slanciò a sua volta, dopo alcune cannonate, all'attacco della nuova trincea, dietro la quale i cipay e gli assamesi, si preparavano ad opporre un'altra accanita resistenza, malgrado avessero subito perdite enormi. Tutto il tratto di via che correva fra le due trincee, era coperto di morti e di feriti, segno evidente che gli indiani si erano valorosamente difesi, prima di cedere al possente urto dei montanari e delle vecchie tigri di Mompracem. Il secondo attacco fu meno laborioso del primo. I soldati del rajah, scoraggiati, non ressero che pochi minuti, poi si rifugiarono nell'immensa piazza dove sorgeva il palazzo reale e dove avevano collocate le loro migliori artiglierie. I montanari però li avevano seguìti così da presso da non permettere a loro d'innalzare un'altra trincea, né di fare troppe scariche. L'urto fra le due falangi fu nondimeno sanguinosissimo. Assamesi e montanari gareggiavano per coraggio e per ostinazione. Tutti avevano gettate via le carabine, diventate inutili in un combattimento corpo a corpo, non essendo armate di baionette e combattevano colle pistole e colle armi bianche, con una rabbia crescente e con grande strage da una parte e dall'altra. La resistenza che opponeva la guarnigione, sempre ingrossata da altre truppe fresche, che giungevano ad ogni istante dai quartieri più lontani della città, era diventata così tenace, che Sandokan, Tremal-Naik e Khampur, per un momento, dubitarono dell'esito dell'impresa. I montanari cominciavano a dar segno di stanchezza e non assalivano più coll'impeto primiero, un po' scoraggiati anche di trovarsi continuamente dinanzi truppe fresche, che non cedevano facilmente ai replicati assalti. Ad un tratto però, all'estremità opposta della piazza, in direzione del palazzo reale, proprio dietro le spalle delle truppe del rajah, si udirono echeggiare improvvisamente delle nutrite scariche di fucileria, appoggiate da alcuni colpi di cannone. Un immenso urlo di gioia sfuggì dai petti dei montanari e dai petti delle vecchie tigri di Mompracem: - I seikki! - Erano infatti i saldi ed invincibili guerrieri del demjadar, che accorrevano in loro aiuto, e che avevano aperto il fuoco dalle gradinate del palazzo reale. I cipay e gli assamesi, passato il primo momento di stupore, non potendo subito credere ad un tale tradimento, vistisi presi fra due fuochi, si diedero ad una fuga precipitosa, gettando le armi onde essere più lesti. Tre o quattrocento però erano rimasti sulla piazza, abbassando le carabine e le scimitarre in segno di resa. Sandokan e Tremal-Naik si erano slanciati verso il demjadar, che marciava alla testa della sua magnifica truppa, accompagnato da un uomo vestito di flanella bianca, che portava sul capo un elmetto di tela con un lungo velo azzurro. - Yanez! - esclamarono entrambi precipitandosi fra le braccia aperte del portoghese. - In carne ed ossa, amici miei - rispose l'ex mylord ridendo. - Peccato che sia giunto un po' tardi a prendere parte alla battaglia, che assicura il trono alla mia bella Surama; ma abbiamo avuto un po' da fare al palazzo reale, è vero mio bravo demjadar? - Il capo dei seikki fece un cenno affermativo. - Il rajah? - chiese Sandokan. - È nelle nostre mani. - Ed il greco? - Si è difeso come un dannato, aiutato da un manipolo di favoriti e di bricconi degni di lui, e nella lotta è caduto con tre o quattro palle in corpo. - Morto? - Per Giove! Erano palle di carabina e di buon calibro, mio caro Sandokan. - Forse è meglio così, - disse Tremal-Naik. - I tuoi malesi sono stati egualmente vendicati. - Hai ragione, - rispose Sandokan. - Il rajah è furibondo? - È mezzo ubbriaco e credo che non abbia nemmeno capito che la corona gli cadeva dalla testa, - rispose Yanez. - Ma Surama dov'è? - È a bordo d'uno dei nostri poluar. La faremo subito avvertire. - E tutta questa gente dove l'hai scovata, tu? - Sono i sudditi del padre della tua fidanzata. Lascia le spiegazioni a più tardi. - In quell'istante giunse Khampur. - Capo, - disse volgendosi verso Sandokan. - Che cosa devo fare? Tutti i soldati del rajah o scappano o si arrendono. - Manda, innanzi a tutto, una buona scorta al poluar, onde conduca qui, il più presto possibile, Surama. Manderai poi i tuoi uomini a occupare tutte le caserme della città ed i fortini dei bastioni. Non troveranno ormai più alcuna resistenza. - Lo credo anch'io, capo. - E ripartì di corsa, mentre i suoi montanari disarmavano i prigionieri e sparavano le loro ultime cartucce contro le case, onde la popolazione non scendesse nelle vie. - Dal rajah ora, - disse Sandokan. - Guidaci, mio bravo demjadar. Tu hai mantenuto la tua promessa e la rhani dell'Assam manterrà i suoi patti. - Il capo dei seikki si diresse verso il palazzo reale seguìto da Sandokan, da Yanez, da Tremal-Naik e da una piccola scorta. I seikki guardavano le porte, dinanzi alle quali erano stati piazzati dei piccoli pezzi d'artiglieria. Il drappello salì lo scalone principale ed entrò nella sala del trono, dove si trovavano radunati i ministri ed alcuni dei più alti dignitari dello stato. Il rajah invece se ne stava, semi-coricato, sul suo letto-trono, mezzo inebetito dai liquori e dallo spavento. Certo la morte del greco, del suo fido, quantunque perfido consigliere, doveva avergli schiantata l'anima. Vedendo entrare Yanez seguìto da tutti gli altri, scese dal trono e assumendo una cert'aria di dignitosa fierezza, infusagli dal cognac bevuto, gli chiese con voce rauca: - Che cosa vuoi tu, mylord, ancora da me? La mia vita forse? - Noi non siamo assamesi, Altezza - rispose il portoghese togliendosi il cappello e facendo un inchino. - Al governo inglese premerebbero, forse, più che la mia vita le mie ricchezze? - Vostra Altezza s'inganna. - Che cosa volete dire, mylord? - Che il governo inglese non c'entra affatto in questa rivoluzione o, sollevazione, se così vi piace meglio. - Il rajah fece un gesto di stupore. - Per conto di chi avete agito voi dunque così? Chi siete? Chi vi ha mandati qui? - Una fanciulla che voi ben conoscete, Altezza - rispose Yanez. - Una fanciulla! - Sapete Altezza chi sono i guerrieri che hanno vinto le vostre truppe? - chiese Sandokan, avanzandosi. - No. - I montanari di Sadhja. - Un grido terribile lacerò il petto del principe. - I guerrieri di Mahur! - Si chiamava ben così, il forte montanaro che vostro fratello uccise a tradimento, - continuò Sandokan. - Ma io non ho preso parte a quell'assassinio! - urlò il principe. - Ciò è vero, - rispose Yanez, - però Vostra Altezza non avrà dimenticato che cosa ha fatto della piccola Surama, la figlia di Mahur. - Surama! - balbettò il rajah diventando livido. - Surama! - Sì, Altezza. A chi l'avete venduta? Ve lo ricordate? - Il rajah era rimasto muto guardando Yanez con intenso terrore. - Allora voi, Altezza, mi permetterete di dirvi che quella fanciulla, figlia di un grande capo che era vostro zio, invece di farla sedere sui gradini d'un trono, come le spettava per diritto di nascita, l'avete venduta, come una miserabile schiava, ad una banda di thugs indiani, onde ne facessero una bajadera. Vi ricordate ora? - Anche questa volta il rajah non rispose. Solamente i suoi occhi si dilatavano sempre più, come se dovessero schizzargli dalle orbite. - Quella fanciulla, - proseguì l'implacabile portoghese, - chiese il nostro aiuto e noi, che siamo uomini capaci di mettere sottosopra il mondo intero, siamo venuti qui, dalle lontane regioni della Malesia, per sostenere i suoi diritti e, come avete veduto, ci siamo riusciti, poiché voi non siete più rajah. È la rhani che da questo momento regna sull'Assam. - Il principe scoppiò in una risata stridula, spaventosa, che si ripercosse lungamente nell'immensa sala. - La rhani! - esclamò poi, sempre ridendo. - Ah! ... ah! ah! Le mie carabine ... le mie pistole ... i miei elefanti ... voglio sposare la rhani! ... Dov'è ... dov'è? Ah! Eccola! Bella, bellissima! ... - Yanez, Sandokan e Tremal-Naik si guardarono un po' atterriti. - È diventato pazzo, - disse il primo. - Bah! Vi sono degli ospedali a Calcutta, - aggiunse il secondo. - Surama è ormai abbastanza ricca per pagargli una pensione principesca. - E uscirono tutti e tre, un po' pensierosi, mentre il disgraziato, colpito improvvisamente da una pazzia furiosa, continuava a urlare come un ossesso: - Le mie carabine ... le mie pistole ... i miei elefanti ... voglio sposare la rhani! - Dieci giorni più tardi gli avvenimenti narrati, quando già il disgraziato rajah era stato condotto a Calcutta, sotto buona scorta, per essere internato in uno dei primari stabilimenti d'alienati e quando già tutte le città dell'Assam, avevano fatto atto di sottomissione completa, la bellissima Surama impalmava solennemente il suo amato sahib bianco, cedendogli metà della corona. - Eccovi finalmente felici, - disse a loro Sandokan, la sera istessa, mentre la folla, delirante, acclamava i nuovi sovrani dell'Assam, ed i fuochi d'artifizio illuminavano fantasticamente la capitale. - Ora tocca a me procurarmi una corona, quella stessa che portava sul capo mio padre. - E quando sarà quel giorno? - chiese Yanez. - Sai che noi, quantunque di tinta diversa, siamo più che due fratelli. Parla e verrò io ad aiutarti coi miei scikari e, se sarà necessario, coi montanari di Sadhja. - Chi lo sa, - disse Sandokan dopo un silenzio relativamente lungo. - Forse quel giorno è più prossimo che tu non lo creda, ma non voglio per ora guastare la tua luna di miele, come dite voi uomini dell'estremo occidente. Fra giorni mi imbarcherò pel Borneo coi miei ultimi malesi e dayachi e, quando sarò là, riceverai miei ordini. -

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682222
Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Abbassate il fucile, signor conte - rispose Buttafuoco. - Non spaventate la signora. - La signora? ... - Sí, perché sono proprio io, signor di Ventimiglia - rispose una voce deliziosa e ben nota. La marchesa di Montelimar, munita di una torcia, era comparsa sulla soglia, sempre allegra e sempre sorridente, col capo avvolto in una ricchissima manta di seta bianca che faceva spiccare piú vivamente la sua bruna bellezza di andalusa. - Voi, marchesa! - esclamò il conte. - Non credevate di trovarmi qui, è vero, signor di Ventimiglia? - No, marchesa. - Era necessario salvarvi un'altra volta, perciò ho lasciato San Domingo. Gli ospiti che hanno diviso con me la mia tavola, siano pure dei nemici della mia patria, che pur adoro coll'entusiasmo delle donne di Spagna, sono sacri. - Avevate dunque saputo che mi davano la caccia? - Vi dirò anzi che hanno messo in moto tutte le cinquantine disponibili per catturarvi prima che poteste lasciare l'isola, poiché ormai tutti sanno che siete il figlio del Corsaro Rosso ed il nipote di quegli altri due formidabili corsari che si chiamano il Nero e il Verde. - Come hanno potuto indovinarlo? - chiese il conte, il quale appariva preoccupato. - Non lo so - rispose la marchesa. - Come vi ho salvato a San Domingo, vi salverò anche qui. Anzi mi diverto in questa caccia all'uomo e vedremo se sarà più astuto il governatore di San Domingo o la marchesa di Montelimar. - Voi correte però il pericolo di compromettervi. La bella andalusa alzò le spalle, poi, mostrando i suoi magnifici denti scintillanti come perle, disse con un adorabile sorriso: - Una Montelimar sarà sempre una Montelimar in qualunque luogo vada. Anzi mi ammirerebbero di piú, quando si sapesse che io ho favorito la vostra fuga. Voi sapete quanto gli spagnuoli siano cavallereschi. - È vero - disse il conte. - Vi è però una cosa che mi preoccupa assai. - Quale? Parlate, conte ... - Che sia libera la via che conduce al capo Tiburon? La mia fregata mi aspetta là. - Ho degli uomini fedeli con me e li manderò su quella via ad informarsi. E poi troverò ben io un mezzo per farvi passare tranquillamente attraverso le cinquantine. Signor conte, la cena a quest'ora dev'essere pronta; so da questo bravo bucaniere che non avete mangiato nulla da stamane. Come avete accettato un pranzo, accettate anche una cena. - Buttafuoco è un uomo veramente meraviglioso! - mormorò Mendoza. - Pensa a tutto! La dama uscí accompagnata dal conte e dai suoi uomini. Buttafuoco stava fuori di guardia. - Nulla, bucaniere? - chiese la marchesa. - No, signora - rispose Buttafuoco. - Gli spagnuoli non sono ancora giunti. Forse aspetteranno l'alba per farci una visita. - Vengano pure: ho la cantina ben fornita e darò da bere a tutti i soldati. Signor conte, seguitemi. Il signor di Ventimiglia porse alla marchesa il braccio e s'incamminarono attraverso la piantagione di banani, da dove passarono in un bellissimo giardino. Nel mezzo sorgeva un palazzotto di stile moresco, con ampie gallerie e cupolette e un vasto cortile interno, in cui sussurravano due zampilli d'acqua che mantenevano una deliziosa frescura durante gl'infuocati pomeriggi estivi. Sotto un porticato parecchie candele, collocate su doppieri d'argento, illuminavano una tavola riccamente imbandita. - Siete una fata, marchesa - disse il conte. - Sí, una fata del bosco - rispose la bella andalusa ridendo. - o meglio dei banani, perché qui non si coltivano che quelle deliziose frutta. Signor Buttafuoco, volete farmi l'onore di cenare con noi? Pei vostri compagni ho fatto preparare sul terrazzo di ponente della casa: cosí potranno sorvegliare meglio di lassú le mosse delle cinquantine ed incoraggiare, con la loro presenza, anche i miei uomini. Il guascone fece un profondo e corretto inchino, mentre Mendoza si dimenava comicamente, non sapendo far di meglio. Ad un cenno della marchesa, due schiavi africani erano comparsi per condurre l'avventuriero ed il lupo di mare al posto loro assegnato. - Conte, ceniamo - disse la marchesa, la quale pareva di buonissimo umore, nonostante la presenza delle cinquantine. - L'ora è molto tarda, tuttavia farò del mio meglio per tenervi compagnia. Il figlio del Corsaro Rosso e Buttafuoco non si fecero ripetere due volte l'invito ed attaccarono vigorosamente le diverse vivande fredde, condite con molto pimento e assai gustose. La marchesa si accontentava di sgretolare coi suoi dentini delle piccole focacce di granoturco, coperte da un fitto strato di siroppo. - Direte che noi siamo indiscreti, signora, - disse Buttafuoco - ma in questi due giorni di caccia ostinata non abbiamo avuto il tempo di fare un pasto regolare. - Due giorni, barone di ... - Barone! - esclamò il signor di Ventimiglia, balzando in piedi, mentre il bucaniere faceva alla marchesa un rapido gesto. - Perdonate, Buttafuoco - disse la bella andalusa. - Vi avevo, in un momento di distrazione, scambiato per il barone di Giralda. Il conte aveva guardato attentamente il bucaniere, il quale era divenuto pallidissimo. - Chi siete voi dunque? - gli chiese. - Buttafuoco! - rispose l'avventuriero, con un'amarezza cosí profonda che non sfuggí al corsaro. - Voi mi nascondete il vostro nome. - Il mio l'ho sepolto nell'oceano, sotto la linea equatoriale - rispose il bucaniere con voce cupa, passandosi piú volte una mano sulla fronte, come per tergersi delle stille di sudore freddo. - Dicevate, signora marchesa? ... - Non ricordo ... ah ... sí ... mi avete detto che da due giorni le cinquantine vi danno la caccia. - E con molti cani per di piú. - E siete riusciti sempre a sfuggire agli agguati? Qui non vi troveranno; non è vero, signor conte? - Disperavo di poter raggiungere la vostra fattoria, marchesa - rispose il corsaro. - Non saprei ancora dirvi come siamo passati attraverso le cinquantine. La bella andalusa rimase qualche istante come immersa in un profondo pensiero; poi, guardando il conte, gli chiese: - Io non so che cosa darei per conoscere quale imperioso motivo ha ricondotto qui, dopo tanti anni, il figlio ed il nipote dei tre formidabili corsari. Un capriccio, qualche vendetta od altro? Non si arriva dall'Europa, né si gioca audacemente la vita, come avete fatto voi, senza un motivo grave. Credo di avervi già dato sufficienti prove di amicizia, perché possiate ritenermi una donna incapace di tradire uno dei vostri segreti e di perdervi. - Oh, marchesa! - protestò il signor di Ventimiglia. - Forse voi fra ventiquattro ore tornerete ad imbarcarvi sulla vostra fregata - proseguí la bella andalusa con un sospiro - e noi, probabilmente, non ci rivedremo mai piú ... ed il bel sogno sarà finito. Parlate; siete fra una gentildonna ed un gentiluomo. - Buttafuoco? ... - Io so chi è! - disse la marchesa. - Voi dunque volete conoscere per quale ragione io ho lasciato l'Europa per corseggiare l'America? Non per sete di avventure; non per sete di ricchezza, che io disprezzo altamente, signora, avendo laggiú sulla riviera ligure terre e castelli ... è per chiedere a vostro cognato, l'ex governatore di Maracaibo, che cosa ha fatto di mia sorella, della nipote del gran Cacico del Darien! - Del Darien! - esclamarono ad una voce la marchesa ed il bucaniere. - Mio padre, prima di salpare per l'America insieme ai suoi fratelli, il Corsaro Nero ed il corsaro Verde, per compiere una vendetta, aveva sposato una duchessa del Brabante, la quale morí giovanissima, dopo d'avermi dato alla luce, e perciò non conobbi mai - disse il signor di Ventimiglia con voce triste. - In una delle sue crociere attraverso il golfo, mio padre naufragò e trovò asilo sicuro presso il gran Cacico del Darien, nemico giurato e terribile dei vostri compatrioti, signora marchesa. Ebbe aiuti, onori e gli fu offerta in isposa una principessa del paese, dalla quale ebbe una figlia. Quando mio padre fu sorpreso nei bassifondi di Maracaibo, e fu preso ed appiccato, non come un valoroso marinaio che lottava per una santa causa, ma come un volgare malfattore, aveva con sé quella fanciulla. Che cosa ne ha fatto vostro cognato, il marchese di Montelimar, ex governatore di Maracaibo? Io lo ignoro. Perciò sono venuto qui a chiedergli stretto conto di mia sorella e, se l'ha uccisa, vi giuro, signora, che l a lama di Ventimiglia berrà il suo sangue. Allevato alla Corte dei duchi di Savoia, io ho sempre ignorato che mio padre avesse lasciata qui una figlia. Informato qualche anno fa da Morgan, il famoso conquistatore di Panama, ed ora governatore della Giamaica, di questo fatto, da lui conosciuto probabilmente per mezzo di Jolanda sua moglie, la figlia del Corsaro Nero, sono venuto a cercarla. Abbia pur nelle vene sangue indiano, è sempre mia sorella e la troverò, o vivaddio rinnoverò le gesta dei tre corsari e non tornerò in Europa senza prima aver compiuto terribili vendette. - Vorreste vendicare anche la morte di vostro padre? - disse la marchesa, la quale l'aveva ascoltato col piú vivo interesse. - Su questo argomento, marchesa, per il momento non posso parlare - disse il conte quasi con ira. - Lo leggo nei vostri occhi. - Può essere. - E questa vostra sorella dove l'anderete a cercare? - disse Buttafuoco, il quale fino allora era rimasto silenzioso. - Il marchese di Montelimar me lo dirà - rispose il conte. - Ormai so dove si trova; poi spero d'avere, fra qualche giorno, nelle mie mani il suo segretario. Se non fosse per questo, la mia fregata non mi aspetterebbe al capo Tiburon, a rischio di essere catturata dai galeoni o dalle caravelle spagnuole. Che cosa ne dite, Buttafuoco? Il bucaniere approvò con un gesto del capo. - Siete soddisfatta, marchesa? - chiese il conte. - Forse non quanto desidererei - rispose la bella andalusa.- Credo che non solamente per ritrovare vostra sorella voi abbiate lasciato l'Italia e siate venuto in questi mari lontani. - Mio padre ed i suoi fratelli diventarono corsari per compiere delle vendette - rispose il conte con voce sorda. - È probabile che anch'io debba compierne una; ma questa, signora, deve rimanere un segreto fra me e Dio. Il bucaniere riempí il bicchiere del conte, dicendo: - Bevete, signore: l'aguardiente sopisce e soffoca in me, piú di quello che credete, terribili ricordi: questo delizioso vino di Spagna calmerà i vostri. In quello stesso momento in cui il conte, forse convinto dalle parole del misterioso avventuriero, stava per vuotare la tazza, un negro si precipitò nel porticato, col viso sconvolto, la pelle grigiastra, gli occhi di porcellana dilatati, dicendo: - Sono qui, signora: sono entrati. - Chi? - chiese la marchesa aggrottando la fronte. - Una cinquantina intera. - Con qual diritto? - Ordine del governatore di San Domingo. - Comincia a diventare noioso quel signore! - disse la marchesa alzandosi. - Amici, non sarebbe prudente che voi rimaneste ancora qui. Ci hanno interrotta una notte deliziosa, ma io no ne ho nessuna colpa ... Marto, chiama subito gli uomini che cenano sulla terrazza. - Che cosa volere fare, Marchesa? - chiese il bucaniere. - Nascondervi. - Nella vostra palazzina? Con un ordine del governatore non si tratterranno dal frugarla da cima a fondo. La signora di Montelimar ebbe un sorriso. - Lasciate fare a me, conte - disse. - Avete qualche nascondiglio segreto anche qui? - Vi mando nelle mie cantine. - Bel luogo! - disse Mendoza che entrava in quel momento, seguito dal guascone. - Marto, conduci questi signori nell'ultima cantina, quella che è piena di botti. Gli spagnuoli non giungeranno fin là; rispondo io di tutto, conte. I quattro uomini seguirono il servo negro, il quale si era munito di parecchie torce e d'un paniere dove aveva messo i resti della cena. Giunti all'estremità dell'ampio cortile Marto aprí una porticina e li fece scendere per una scaletta stretta e umida, e li condusse poi attraverso spaziose cantine piene di botti grossissime. - Compare, - disse il guascone battendo sulle spalle di Mendoza - giú vi è da bere a crepapelle. - E noi berremo! - rispose il filibustiere. - Ne assaggeremo un po' da tutti quei recipienti. La marchesa non deve bere che del vino delle Canarie o di Alicante. Attraversate parecchie cantine, giunsero finalmente nell'ultima, assai lunga e stretta, e anche quella ingombra di botti e di barili. - È un paradiso un po' oscuro, ma pur sempre un paradiso, - disse Mendoza, facendo schioccare la lingua. - Passate, signori, - disse il negro - perché devo ostruire l'entrata con dei barili. - Non ci seppellirai vivi, spero - disse il guascone. - Non abbiate questo timore - rispose l'africano sorridendo. Il conte, Buttafuoco e i due avventurieri s'affrettarono a rifugiarsi nella cantina, portando le torce, gli archibugi ed il paniere, mentre Marto spingeva contro l'apertura, molto bassa e molto stretta, una grossa botte, ostruendo e nascondendo completamente il passaggio. - Speriamo che questa avventura sia l'ultima! - disse il conte, dopo aver piantata in terra una torcia. - Che ne dite, Buttafuoco? - Eh! - rispose il bucaniere, il quale non sembrava molto tranquillo. - Non so se la marchesa potrà resistere ad un ordine scritto dal governatore di San Domingo. - Che ci vengano a scovare? - Non saprei che cosa rispondere alla vostra domanda, signor conte. - Se verranno, ci difenderemo - disse Mendoza. - Qui siamo come in una casamatta. - Ma senza uscite - aggiunse il guascone. - Noi siamo come lupi rinchiusi nella loro tana con i cacciatori all'ingiro. - In attesa che i cacciatori si mostrino o si ritirino, io avrei una proposta da fare - disse Mendoza. - Quale? - chiese il conte. - Di terminare la cena, giacché quel bravo pagano dell'Africa ha avuto la buona idea di empire il canestro; e poi di assaggiare il vino di questa botte. Sono curiosissimo di sapere quali vini beve la marchesa e quali offre ai suoi ospiti. Vi pare, don Barrejo? - Un guascone non rifiuta mai di bere! - rispose l'avventuriero, con sussiego. - Signore conte, - disse Buttafuoco, il quale non aveva potuto frenare uno scoppio di risa - dove avete raccolti questi due diavoli? - Uno l'ho pescato nel mar di Biscaglia - rispose il signor di Ventimiglia. - E me fra i boschi di San Domingo, presso Puerta del Sol aggiunse il guascone. - Ma anch'io ho respirato l'aria salubre del mar di Biscaglia. Compare, terminiamo la cena, se il signor conte ce lo permette: io non ho avuto che il tempo di assaggiare una costoletta di cinghiale, coriacea come la carne d'un mulo centenario. - Fate pure - disse il signor di Ventimiglia. - Io preferisco, finché gli spagnuoli ci lasciano un po' di respiro, chiudere gli occhi. - Ed io altrettanto - aggiunse il bucaniere. - Se si dovrà impegnare nuovamente la lotta, saremo almeno riposati. Affidiamo a voi la guardia. - Un guascone non s'addormenta mai in faccia al nemico - disse don Barrejo. - E nemmeno un basco! - aggiunse Mendoza. - Si sono ben appaiati - brontolò il bucaniere. Il conte si era già coricato fra due botti ed aveva subito chiusi gli occhi. Buttafuoco non tardò ad imitarlo, mentre il filibustiere ed il suo degno compagno si accoccolavano intorno al canestro, pescando e divorando quanto vi era dentro, per nulla preoccupati dell'imminente pericolo che li minacciava. - Sapete, don Barrejo, che voi resistete meravigliosamente al sonno? - disse Mendoza, quando non vi fu piú nulla da porre sotto i denti. - E che! ... Un guascone! ... - Questi guasconi sono dunque delle macchine? - Quasi, compare. - Se provassimo la nostra resistenza al vino? - Era quello che volevo proporvi. Quel brutto negro si è dimenticato di mettere delle bottiglie nel canestro. Ma non valeva la pena che s'incomodasse; non siamo qui in una cantina marchionale? Sono qualche volta una bestia, compare - disse l'avventuriero. - Quantunque guascone! ... - Eh, qualche volta anche noi diventiamo bestioni; ma io rimedio subito ... - Guardate che bella pancia ha quel bottale! ... Scommetterei che contiene dello Xeres. - No, dell'Alicante. - Ma che! ... Xeres. - Me ne intendo io di vini di Spagna! - Anche senza assaggiarli? ... Compare! ... Voi siete un uomo meraviglioso! ... Scommettiamo uno dei vostri dobloni? - Vada per il doblone, - rispose don Barrejo, - Si troverà meglio nelle vostre tasche che in quelle degli spagnuoli. Spillate, compare, vedremo chi avrà ragione. Mendoza, che aveva già adocchiato un grosso boccale di terra, nascosto sotto una trave e che serviva probabilmente ai cantinieri per gustare il vino della marchesa all'insaputa dell'intendente, andò a spillare il panciuto recipiente, facendo uscire un bel rivoletto color dell'ambra. - Caramba! - esclamò il marinaio. - Voi avete una fortuna indiavolata, signor Barrejo. Questo è vero Alicante! ... Che i guasconi abbiano anche un fiuto meraviglioso? - Non manca nulla a noi, caro compare! Avete perduto il doblone. - Che vi pagherò quando saremo a bordo della fregata, se ci riusciremo. Il guascone fece una smorfia, poi alzò le spalle. - Bah, - disse - mi consolerò con questo deliziosissimo Alicante. Sentite che profumo, compare? La signora marchesa di Montelimar sa dove fare i suoi acquisti. Su, bevete e passate. Volete farmi morire di sete? - No, prima al vincitore! - rispose serio Mendoza, porgendo la brocca. Il guascone l'afferrò, allargò per bene le gambe e si mise a bere a garganella, senza nemmeno prendere respiro. - Carrai! - esclamò il filibustiere, facendo un gesto di spavento; - Volete ubriacarvi, don Barrejo? - Bah! ... Un guascone? ... - rispose l'avventuriero staccando per un momento le labbra. - Al diavolo tutti i guasconi! ... Io mi attaccherò alla botte e vedremo chi berrà piú a lungo. Il degno lupo di mare imboccò lo spinello e per parecchi minuti nella cantina non si udí altro rumore che quello prodotto dal gorgoglio del vino che passava attraverso le gole dei due formidabili bevitori. Chi sa quanto quel leggero rumore sarebbe continuato, se un improvviso sussurrio di voci, che proveniva dalle ampie cantine, non l'avesse interrotto. Il guascone aveva lasciato cadere il boccale senza averne veduto il fondo, mentre Mendoza chiudeva rapidamente la cannella della botte, dicendo precipitosamente al compagno: - Spegnete la fiaccola. Il guascone si affrettò ad obbedire. - Che stiano per scoprirci? - chiese il lupo di mare. - Della gente scende nelle cantine, - rispose don Barrejo, accostandosi alle botti che ostruivano l'entrata. - Vedo delle torcie brillare. - Sacco rotto! ... Che questa bevuta di Alicante ci porti sfortuna? ... Era proprio Alicante, è vero, don Barrejo? - Per Bacco! ... E del piú fino, - rispose l'avventuriero. - Peccato che siano venuti a guastarci la bevuta. Potevano aspettare un momento, diavolo! ... Svegliamo il conte? - Non credo che pel momento sia necessario, - rispose Mendoza. - Aspettiamo di vedere quello che succede. Forse avremo ancora l'occasione di riprendere la nostra bevuta senza incomodi testimoni. Ventre di foca! ... Sono proprio gli spagnuoli. Guardate, don Barrejo. S'avvicinarono entrambi alle botti che occupavano, anzi che nascondevano la porta e spinsero gli sguardi attraverso le fessure lasciate dai grossi recipienti che Marto aveva fatti rotolare. Quattro servi della marchesa, tutti schiavi negri, guidati da Marto in persona, erano entrati nella cantina, seguiti da una dozzina di archibugieri spagnuoli i quali portavano delle torcie. - Ohé, compare, - disse Barrejo, - va bene essere guasconi e baschi, ma mi pare che la faccenda diventi un po' seria. - Forse meno di quello che credete, - rispose Mendoza. - Non vedete che invece di frugare le cantine s'attaccano alle botti? Scommetterei un mezzo doblone contro cento che quei bravi armigeri sono piú assetati di noi! ... - E allora noi li imiteremo. - Adagio, signor guascone. Non scherziamo troppo con questo delizioso Alicante, specialmente in questi momenti. Potrebbero interrompere la loro bevuta e venire a scoprirci e non so che cosa succederebbe allora con troppo vino in corpo. Invece di bucare gli spagnuoli, potremmo bucare le botti. - E causare una inondazione. - È vero, signor guascone. - Ammiro la vostra prudenza. - State zitto e vediamo che cosa sta per succedere. Gli archibugieri del governatore di San Domingo pareva che avessero affatto dimenticato lo scopo principale della loro escursione nelle cantine della marchesa. I servi, guidati da Marto, avevano tratto di sotto le travi che reggevano le monumentali botti, dei grossi boccali e si erano affrettati a riempirli ed i soldati, che forse mai si erano trovati in mezzo a tanta abbondanza, vi avevano dato dentro, bevendo furiosamente Porto, Alicante, Xeres e Madera. Perfino il sergente che li guidava, afferrato un boccale e dopo essersi seduto su una trave, si era messo a trangugiare a lunghi sorsi il contenuto. - Compare, - disse don Barrejo, che da qualche istante si dimenava come avesse il diavolo in corpo. - E noi assisteremo come due statue ad una simile festa? - Avete ragione, signor guascone, - rispose Mendoza. - Quella gente non si occupa che delle botti e siccome noi non siamo botti da spillare non verranno di certo ad importunarci. - Voi continuate coll'Alicante, io darò l'assaggio a qualche altro recipiente. Vedremo chi sarà piú fortunato. - Io, di certo. - Un doblone che troverò di meglio io, invece. - Vada! - disse Mendoza. - Già non pagherò nemmeno questo. I due compari, che ormai erano legati da una profonda amicizia, stavano per riprendere la bevuta, quando una sorda imprecazione li arrestò. Buttafuoco che aveva un udito finissimo e che era abituato a dormire con un solo occhio, si era lasciato scivolare giú dalle botti, chiedendo con voce sommessa: - Che cosa succede? Perché avete spenta la fiaccola? - Gli spagnuoli ci cercano - aveva risposto Mendoza. - Sono già discesi? - Sí, ma pare che cerchino piú le botti che noi, - disse il guascone. - Potevate continuare il vostro sonno. E poi non vegliamo forse noi? - Parlavate di dar l'assalto anche voi al buon vino. - Tanto per scacciare la noia e l'umidità, signor Buttafuoco, - rispose Mendoza. - Per ora lasciate in pace le botti, - rispose il bucaniere. - Sono troppo pericolose in certi momenti. Vi rifarete piú tardi. - E questo è parlare da saggio, capitano, - disse quel volpone di guascone. Buttafuoco si accostò alla porticina e guardò a lungo, - La marchesa li ha giuocati, - disse finalmente. - Possiamo aspettare tranquillamente che quei soldati abbiano bevuto. La bevuta degli archibugieri del governatore di San Domingo durò una buona mezz'ora, poi tutti se ne andarono, piú o meno malfermi in gambe, e le cantine ridiventarono silenziose e tenebrose. - Possiamo attaccare? - chiese Mendoza. - Che cosa? - chiese Buttafuoco. - Le botti anche noi? - Andate al diavolo! ... Io riprendo il mio sonno. - E noi la guardia, - rispose il guascone. - Badate di non addormentarvi davvero di fronte al nemico. - Oh! ... Mai, signore. E mentre il bucaniere, ormai pienamente rassicurato di non rivedere piú gli spagnuoli nelle cantine, riprendeva il suo sonno, i due compari, non meno tranquilli di non correre piú alcun pericolo, ricominciavano i loro assaggi dei vini della marchesa di Montelimar.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Abbassate la scala! - gridò Sandokan. L'ordine era stato appena eseguito che la baleniera abbordava. Sir Moreland salì rapidamente a bordo, dicendogli con una certa freddezza: - Sono lieto di rivedervi, signore, e di potervi dare una notizia che gradirete assai. - Yanez ... Darma? ... - gridarono ad una voce Sandokan e Tremal-Naik. - Sono a bordo di quella nave. - Perchè non li avete condotti qui? - chiese Sandokan aggrottando la fronte. L'anglo-indiano che era diventato estremamente serio e che parlava con voce quasi imperiosa, rispose: - Vengo per intavolare delle trattative, signore. - Che cosa volete dire? - Che il comandante vi consegnerà il signor Yanez e miss Darma a condizione che voi lasciate tranquilla quella nave, che come ben vedete non sarebbe in grado di misurarsi con la vostra. Sandokan ebbe un istante di esitazione, poi rispose: - Sia pure, sir Moreland. Saprò ritrovarla più tardi. - Fate abbassare la bandiera di combattimento. Il comandante comprenderà che voi avete accettato la sua proposta e vi manderà subito i prigionieri. Sandokan fece un segno a Sambigliong e pochi istanti dopo il nastro rosso veniva fatto scendere in coperta. Quasi nel medesimo istante una seconda scialuppa si staccava dal fianco del piccolo incrociatore: vi erano sopra Darma e Yanez. - sir Moreland, - disse Sandokan, - dove vi ha raccolti quella nave? - A Mangalum, - rispose l'anglo-indiano, senza levare gli occhi dalla scialuppa che s'accostava rapidissima. - Vi eravate salvati sullo scoglio? - Sì, - rispose il capitano, che pareva avesse perduta la sua abituale cordialità e che fosse in preda a delle profonde preoccupazioni. La seconda scialuppa era giunta. Yanez e Darma avevano salito precipitosamente la scala, cadendo l'uno nelle braccia di Sandokan e la seconda in quelle di suo padre. Sir Moreland, pallidissimo, guardava con occhio triste quella scena. Quando si furono separati, si volse verso Sandokan, chiedendogli: - Ed ora mi tratterrete ancora prigioniero? La Tigre della Malesia stava per rispondere, quando Yanez lo prevenne. - No, sir Moreland, voi siete libero. Tornate a bordo dell'incrociatore. Sandokan non aveva nascosto un gesto di stupore. Probabilmente non era quella la risposta che intendeva dare all'anglo-indiano, nondimeno non replicò. - Signori, - disse allora l'anglo-indiano con voce grave, fissando bene in viso Sandokan e Yanez, - spero di rivedervi presto, ma allora saremo terribili nemici. - Vi aspettiamo, - rispose freddamente Sandokan. S'accostò a Darma e le tese la mano, dicendole con accento triste: - Che Brahma, Siva e Visnù vi proteggano, miss. La fanciulla che appariva profondamente commossa, strinse la mano senza parlare. Pareva che avesse un nodo alla gola. L'anglo-indiano finse di non vedere le mani che Yanez, Sandokan e Tremal-Naik gli porgevano, salutò militarmente e scese rapidamente la scala senza volgersi indietro. Quando però la scialuppa che lo conduceva verso il piccolo incrociatore passò dinanzi la prora del Re del Mare alzò la testa e vedendo Darma e Surama sul castello, le salutò col fazzoletto. - Yanez, - disse Sandokan, traendo da parte il portoghese. - Perchè lo hai lasciato andare? Egli poteva diventare un ostaggio prezioso. - Ed un pericolo per Darma, - rispose Yanez. - Essi si amano. - Me n'ero accorto. È un bel giovane e valoroso, ha sangue anglo-indiano nelle vene al pari di Darma ... chissà? Dopo la campagna. Stette un momento come immerso in un profondo pensiero, poi riprese: - Cominciamo le ostilità: gettiamoci sulle vie di navigazione e cerchiamo, finchè le squadre ci cercano nelle acque di Sarawak, di fare il maggior male possibile ai nostri avversari.

Poi, cambiando bruscamente tono, gridò: - Stendete la tela sul ponte, abbassate le vele sui ferri di sostegno. In acqua le maniche delle pompe e affondate le àncore. Gli artiglieri a posto! L'equipaggio che attendeva con angoscia qualche decisione, in pochi momenti issò i ferri di sostegno e ammainò le due immense vele. La Marianna, come tutti gli yacht che intraprendono dei viaggi nelle regioni estremamente calde, era fornita d'una tela per riparare il ponte dagli ardenti raggi solari e dei relativi sostegni. In un baleno fu stesa all'altezza delle bome e le due vele vi furono gettate sopra, lasciando cadere i margini lungo le murate, in modo da coprire interamente la piccola nave. - Manovrate le pompe e inaffiate, - comandò Yanez, quando l'ordine fu eseguito. Riaccese poscia la sigaretta e si spinse verso la prora, mentre torrenti d'acqua venivano lanciati contro la tela inzuppandola completamente. Gli uomini incaricati di spezzare la catena, tornavano in quel momento a bordo, arrancando disperatamente. Sopra di loro fiammeggiavano i rami degli alberi, coprendoli di scintille. - Giungono a tempo, - mormorò il portoghese. - Che spettacolo magnifico! Che peccato non poterlo vedere un po' da lontano! Lo ammirerei meglio! Una vera tromba di fuoco si rovesciava sul fiume. Gli alberi delle due rive, composti per la maggior parte di piante gommifere, ardevano come zolfanelli, lanciando dovunque mostruose lingue di fuoco e turbini di fumo denso e pesante. I tronchi, carbonizzati, rovinavano al suolo, facendo crollare le piante vicine a cui erano collegati da piante parassite e gambir e spandendo torrenti di caucciù ardente. Alberi della canfora enormi, casuarine, sagu, arenghe saccarifere, dammar saturi di resina, banani, cocchi e durion fiammeggiavano come torce colossali, contorcendosi e tuonando; poi s'abbattevano, rovesciandosi nel fiume con fischi assordanti. L'aria diventava irrespirabile e le tende e le vele che coprivano la Marianna fumavano e si contraevano, nonostante i continui getti d'acqua che le innaffiavano. Il calore era diventato così intenso che i Tigrotti di Mompracem, malgrado la protezione delle vele, si sentivano mancare. Immense nuvole di fumo e nembi di scintille, che il vento spingeva, si cacciavano entro lo spazio racchiuso fra il ponte e le tele, avvolgendo gli uomini terrorizzati, mentre dall'alto cadevano senza interruzione rami fiammeggianti, che le pompe penavano a spegnere, quantunque energicamente manovrate. Una cupola di fuoco avvolgeva ogni cosa: la nave, le rive ed il fiume. I malesi ed i dayaki che formavano l'equipaggio, guardavano con spavento quelle cortine fiammeggianti, che non accennavano a scemare, chiedendosi angosciosamente se stava per suonare per loro l'ultima ora. Solo Yanez, l'uomo eternamente impassibile, pareva che non si occupasse affatto del tremendo pericolo che minacciava la Marianna. Seduto sull'affusto di uno dei due pezzi da caccia, fumava placidamente la sua sigaretta, come se fosse insensibile a quel calore spaventevole che cucinava i suoi uomini. - Signore! - gridò il meticcio, accorrendo presso di lui, col viso smorto e gli occhi dilatati pel terrore, - noi ci arrostiamo. Yanez alzò le spalle. - Non posso fare nulla io, - rispose poi, colla sua calma abituale. - L'aria diventa irrespirabile. - Accontentati di quella poca che scende nei tuoi polmoni. - Fuggiamo, signore. I nostri uomini hanno spezzata la catena che ci chiudeva il passo verso l'alto corso. - Lassù non farà più fresco di qui, mio caro. - Dovremo perire così? - Se così è scritto, - rispose Yanez, senza togliersi dalle labbra la sigaretta. Si rovesciò sull'affusto come se fosse su una comoda poltrona, aggiungendo dopo qualche istante: - Bah! Aspettiamo! Ad un tratto alcune scariche di fucili rimbombarono sul fiume, accompagnate da clamori assordanti. Yanez si era alzato. - Come diventano noiosi questi dayaki! - esclamò. Attraversò il ponte, senza curarsi dei torrenti d'acqua che gli cadevano addosso e, alzato un lembo dell'immensa tenda, guardò verso la riva. Attraverso le cortine di fuoco scorse degli uomini che parevano demoni, correre fra le ondate di fumo, sparando contro il veliero. Pareva che quei terribili selvaggi fossero insensibili, come le salamandre, perchè osavano, quantunque quasi nudi, cacciarsi fra le fiamme per sparare più da vicino. Yanez si era fatto torvo in viso. Una bella collera bianca si manifestava in quell'uomo, che pareva avesse dell'acqua agghiacciata nelle vene e che potesse gareggiare coi più flemmatici anglo-sassoni delle razze nordiche. - Ah! Miserabili! - gridò. - Nemmeno in mezzo al fuoco volete lasciarci un momento di tregua! Sambigliong, Tigrotti di Mompracem, bordate senza misericordia quei demoni! Fu un po' rialzata la tenda, le quattro spingarde furono riunite sul tribordo, e mentre l'incendio avvampava più che mai, divorando gli enormi vegetali, la mitraglia cominciò a fischiare attraverso le cortine di fuoco, tempestando i selvaggi con uragani di chiodi e di frammenti di ferro. Bastarono sette od otto scariche per decidere quei bricconi a mostrare i talloni. Parecchi erano caduti e arrostivano in mezzo alle erbe ed i cespugli crepitanti, continuando il fuoco a dilatarsi. - Potesse essere caduto anche il pellegrino! - mormorò Yanez. - Quel furbone si sarà purtroppo ben guardato dall'esporsi ai nostri tiri. Chiamò il malese che aveva guidata la scialuppa, che era tornata a bordo nel momento in cui gli alberi costeggianti il fiume prendevano pure fuoco. - L'hai spezzata la catena? - gli chiese. - Sì, capitano Yanez. - Sicchè il passo è libero. - Completamente. - Il fuoco scema verso l'alto corso del fiume, mentre tende ad aumentare verso il basso, - mormorò Yanez. - Sarebbe meglio andarcene, prima che quei birboni possano tendere altre catene o che le loro scialuppe giungano qui. Checchè debba succedere, partiamo. La volta di verzura che copriva in quel luogo il fiume, era stata distrutta dall'uragano di fuoco che l'aveva investita, e sulle due rive più non rimanevano in piedi che pochi enormi tronchi di alberi della canfora, semi-carbonizzati e qualche tronco di durion che fiammeggiava ancora come una immensa torcia. Il fuoco invece avvampava terribile verso ponente, dove le foreste erano fino allora rimaste intatte, ossia dietro la Marianna. Il pericolo quindi che il veliero s'incendiasse, era ormai evitato. - Approfittiamo, - disse Yanez. - L'aria comincia a diventare un po' più respirabile e la brezza è sempre favorevole. Fece togliere l'immensa tela che grondava acqua, poi fece levare e quindi inferire le vele ai pennoni. Quelle manovre furono compiute rapidamente, fra una vera pioggia di cenere che la brezza avventava contro il veliero, accecando e facendo tossire gli uomini. Regnava ancora un caldo infernale sul fiume, essendo le due rive coperte da un altissimo strato di carboni ancora ardenti, tuttavia non vi era più pericolo di morire asfissiati. Alle quattro del mattino le àncore furono issate e la Marianna riprese la navigazione con notevole velocità, senza essere stata disturbata. I dayaki, che dovevano aver subite delle perdite crudeli, non si erano più fatti vedere. Forse l'incendio, che aumentava sempre verso ponente, li aveva obbligati ad una precipitosa ritirata. - Non si scorgono più, - disse Yanez al meticcio, che osservava le due rive sulle quali ondeggiavano ancora dense colonne di fumo e nembi di scintille. - Se ci lasciassero tranquilli almeno fino a che possiamo raggiungere l'imbarcadero! Che non abbiano capito che noi siamo persone risolute a difendere estremamente la pelle? Dopo le due lezioni ricevute, dovrebbero essersi persuasi che non siamo gallette pei loro denti. - Hanno capito, signor Yanez, che noi accorriamo in aiuto del mio padrone. - Eppure nessuno glielo ha detto. - Io scommetto che lo sapevano, prima ancora del vostro arrivo. Qualche servo ha tradito il segreto o ha uditi gli ordini dati da Tremal-Naik all'uomo che vi fu mandato. - Che sia così? - Quel malese che voi avete raccolto e che si offerse come pilota devono averlo mandato essi incontro alla Marianna. - Per Giove! Non mi ricordavo più di quel furfante! - esclamò Yanez. - Giacchè i dayaki ci lasciano un po' di tregua e l'incendio si spegne più in su, potremmo occuparci un po' di lui. Chissà che riusciamo a strappargli qualche preziosa informazione su quel misterioso pellegrino. - Se parlerà! - Se si ostinerà a rimaner muto, m'incarico io di fargli passare un brutto quarto d'ora. Vieni, Tangusa. - Raccomandò a Sambigliong di mantenere gli uomini ai loro posti di combattimento, temendo sempre qualche nuova sorpresa da parte di quegli ostinati nemici e scese nel quadro, dove la lampada bruciava ancora. In una cabina attigua al salotto, su un tettuccio, giaceva il pilota, sempre immerso nel sonno profondo, procurategli dalle compressioni energiche di Sambigliong. Un sonno regolare veramente non lo era. Il respiro era leggerissimo, tanto che si avrebbe potuto scambiare il malese per un vero morto, essendo anche la sua tinta diventata quasi grigiastra, come quando gli uomini di colore diventano pallidi. Yanez, che era stato istruito da Sambigliong, strofinò violentemente le tempie ed il petto dell'addormentato, poi gli alzò le braccia ripiegandole all'indietro più che potè onde dilatargli i polmoni, eseguendo quel movimento parecchie volte. Alla nona o alla decima mossa il malese aprì finalmente gli occhi, fissandoli sul portoghese con un lampo di terrore. - Come stai, amico? - gli chiese Yanez con accento un po' ironico. - Mentre noi combattevamo contro i tuoi alleati, tu dormivi saporitamente. Diventano poltroni i malesi. Il pilota continuava a guardarlo senza rispondere, passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte che s'imperlava di sudore. Pareva che cercasse di riordinare le sue idee e di mano in mano che la memoria gli ritornava, la sua pelle diventava sempre più smorta ed una espressione angosciosa gli si diffondeva sul viso. - Orsù, - disse Yanez, - quand'è che ci farai udire la tua voce? - Che cosa è avvenuto, signore? - chiese finalmente Padada. - Non riesco a spiegarmi come io mi sia addormentato di colpo, dopo la stretta datami dal vostro mastro. - È cosa tanto poco interessante che non vale la pena che io te la spieghi, - rispose Yanez. - Tu invece dovresti darmi qualche spiegazione che mi premerebbe. - Quale? - Sapere chi è che ti ha mandato verso di noi per far arenare la mia nave sui banchi. - Vi giuro, signore ... - Lascia andare i giuramenti: già non credo a quelle cose io, mio caro. È inutile che tu ti ostini a negare: ti sei tradito e ti tengo in mia mano. Chi ti ha pagato per rovinare la mia nave? Tu stavi per incendiarla. - È una vostra supposizione, - balbettò il malese. - Basta, - disse Yanez. - Vuoi farmi perdere la pazienza? Voglio sapere chi è quel maledetto pellegrino che ha messo in armi i dayaki e che domanda la testa di Tremal-Naik. - Voi potete uccidermi, signore, ma non obbligarmi a dire delle cose ch'io ignoro. - Sicchè tu affermi? - Ch'io non ho mai veduto alcun pellegrino. - E che anche non hai mai avuto rapporti coi dayaki che mi hanno assalito? - Non mi sono mai occupato di costoro, signore, ve lo giuro su Vairang kidul2 (La regina del sud). Io stavo seguendo la costa per visitare le caverne, entro le quali le rondini salangane costruiscono i loro nidi, avendo ricevuto l'incarico di fornirne ad un cinese che ne abbisognava, quando un colpo di vento mi trasportò al largo trascinandomi, assieme al canotto, verso ponente. Vi ho incontrati per un caso. - Perchè sei pallido allora? - Signore, mi avete sottoposto ad una compressione tale che credevo mi si volesse strozzare e non mi sono ancora rimesso dall'impressione provata, - rispose il pilota. - Tu menti come un ragazzo, - disse Yanez. - Non vuoi confessare? Sta bene: vedremo se resisterai. - Che cosa volete fare, signore? - chiese il miserabile con voce tremante. - Tangusa, - disse Yanez, volgendosi verso il meticcio. - Lega le mani a questo traditore, poi conducilo in coperta. Se cerca di resistere bruciagli le cervella. - La mia pistola è carica, - rispose l'intendente di Tremal-Naik. Yanez uscì dal quadro e salì sul ponte, mentre il meticcio metteva in esecuzione l'ordine ricevuto, senza che il malese avesse osato ribellarsi.

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 4 occorrenze

Il terreno scendeva sempre più rapido e le piante portavano già le prime tracce dell'arsura del deserto: apparivano tisiche, colle foglie giallicce e abbassate, coi rami deboli ed i tronchi esili. Ad un tratto, allo svolto d'una gola, il marchese ed i suoi compagni videro distendersi una pianura ondulata, coperta di sabbie e di magri cespugli, che si perdeva in un orizzonte color del fuoco a strisce fiammeggianti. "Il deserto!" esclamò Ben Nartico. "Col suo simun," aggiunse Rocco. "Guardate quella nuvola immensa che s'avanza al di sopra delle sabbie." "T'inganni," disse il marchese. "Se il simun soffiasse si vedrebbero tutte queste colline sabbiose in movimento." "Cos'è dunque quella nuvola? Che nel deserto piova? Eppure mi hanno detto che non cade mai una goccia d'acqua." "Altro errore, mio bravo Rocco." "Come! l'ho letto sui libri." "Ebbene, quei libri hanno mentito perché anche nel Sahara piove, è vero, Ben?" "Sì, marchese, fra il luglio e l'ottobre qualche acquazzone cade, solamente però in certe località del deserto. In altre passano talvolta dieci e anche quindici anni senza che una goccia scenda ad inumidire le sabbie." "Eppure quella è una nube e anche molto oscura," insistette il sardo. "La vedrebbe anche un cieco." "Dubito che siano vapori acquei," disse Ben Nartico, il quale la osservava attentamente. "C'è da compiangere quel povero vecchio che abbiamo lasciato or ora," disse in quell'istante El-Haggar, accostandosi. "E perché?" chiese il marchese. "Fra due o tre ore non gli rimarrà un filo d'erba per nutrire i suoi montoni e anche la foresta perderà le sue foglie. È bensì vero che si compenserà facendo delle abbondanti scorpacciate di cavallette." "Di cavallette, hai detto?" chiese Nartico. "Si, perché quella nube che s'avanza verso di noi è formata da milioni e milioni di quei piccoli animaletti. Le uova sepolte fra le sabbie si sono schiuse e le locuste, affamate, si gettarono sul Marocco portando dovunque la desolazione." "E non sono capaci d'arrestare l'invasione i vostri compatrioti?" chiese Rocco. "In quale modo?" "Accendendo grandi fuochi e mandando incontro alle cavallette reggimenti di contadini." "Non servirebbero a nulla," disse il marchese. "Tu non puoi farti un'idea della quantità enorme di locuste che piombano sulle campagne. Vedrai come queste piante verranno spogliate in pochi minuti. Non rimarrà più né una foglia, né un filo d'erba. Un uragano, una tromba, un ciclone sono niente in paragone ai danni che commettono le emigrazioni di questi animaletti." "Anche da noi se ne vedono, ma si arrestano, signore." "Non sempre, mio caro Rocco. Anche in Europa abbiamo avuto invasioni gigantesche che hanno distrutto i raccolti di province intere; invasioni ricordate dalla storia. "Nel 1690 per esempio, la Lituania e la Polonia furono invase da tali bande di locuste, che i rami degli alberi si piegavano fino a terra, mentre i campi erano coperti di strati alti non meno di un metro." "Che gioia per quei contadini!" "Perdettero tutto, perfino le radici delle piante, e le loro case furono invase da tali quantità di locuste che essi furono costretti a fuggire." "Un vero disastro!" disse Ben. "Anche la Francia nel 1613 si vide rovinare addosso un simile flagello che distrusse i raccolti di parecchie province e che costò somme rilevanti spese per sbarazzarsi da quei minuscoli invasori. La sola Marsiglia spese non meno di trentamila lire per assoldare gente onde li cacciasse in mare. "Nel 1750 invece comparvero nella Transilvania e così numerose che si dovette mandare un corpo di millecinquecento soldati per distruggerle." "Ecco l'avanguardia che arriva," avverti Ben Nartico. "Prima che ci piombino addosso inoltriamoci nel deserto. Dove non vedono verdura non calano." I cammelli, per un istante arrestati, scesero gli ultimi burroni, inoltrandosi con sufficiente rapidità fra le sabbie. Le prime colonne di locuste giungevano già tenendosi a cinquanta o sessanta metri dal suolo. Erano battaglioni, stretti in modo da intercettare perfino la luce del sole e altri li seguivano formando, con lo sbattere delle loro alette, un rumore strano che si sarebbe potuto paragonare al rombo che produce un salto d'acqua. "Quante sono?" si chiese Rocco, il quale guardava, con stupore, quelle immense bande volteggianti sopra la carovana. "E non poterle distruggere! Pare impossibile!" "E anche uccidendole crederesti tu che sarebbe evitato ogni pericolo?" disse il marchese. "Si salverebbero le campagne, ma quante vite umane si spegnerebbero! Lascia che quelle enormi masse si corrompano sotto questo ardente calore, e si svilupperebbe presto il colera o la peste." "È vero, marchese," disse Ben Nartico. "Molti secoli or sono, appunto sulle coste dell'Africa settentrionale, un numero sterminato di cavallette veniva spinto, da un vento furioso, nel Mediterraneo. Le onde però poco dopo rigettarono alla spiaggia quelle legioni e l'aria si infettò talmente da sviluppare una tremenda pestilenza. "Si dice che morissero ben ottocentomila abitanti, compresi trentamila soldati di guarnigione nella Numidia." "È meglio che divorino le campagne," disse Rocco. "E che noi ce ne andiamo o la carovana di Beramet andrà tanto innanzi che non potremo più raggiungerla. "Signori, salutiamo il deserto!" Pochi minuti dopo, uomini e cammelli calpestavano le ardenti sabbie del Sahara, mentre i battaglioni di locuste continuavano a volare in ranghi sempre più fitti, producendo una forte corrente d'aria ed un rombo incessante.

"Abbassate il cappuccio onde non s'accorgano che siete una donna, avvolgetevi bene nel caic e seguitemi." "Andiamo alla kasbah?" chiese Esther, con voce tremante. "Sì, signora. In un quarto d'ora noi vi saremo." Aizzarono il cavallo e l'asino e si diressero verso i quartieri centrali della città, scegliendo le vie meno frequentate. Essendovi festa in tutte le case, la festa della carne di montone, pochissime erano le persone che s'incontravano e quelle poche non erano che dei miserabili negri che non potevano certo dare impiccio. Nondimeno per maggiore precauzione El-Haggar aveva pure alzato il cappuccio, in modo da nascondere buona parte del viso, quantunque fosse più che certo di non aver lasciato tempo ai kissuri di riconoscerlo. Già non distavano dalla kasbah più di cinquecento passi, quando udirono tuonare in quella direzione un pezzo d'artiglieria. "Il cannone!" esclamò El-Haggar, trasalendo. "Ah! Signora! Disgrazia!" "Perché dici questo?" chiese Esther, impallidendo e portandosi una mano al cuore. "Il marchese ed i suoi compagni devono essersi rifugiati nel minareto del padiglione, signora." "E tu credi ... " chiese la giovane con estrema angoscia. "Che dirocchino a cannonate il minareto per costringerli alla resa." "Gran Dio! El-Haggar!" "Coraggio, signora: venite!" Sferzò l'asino costringendolo a prendere un galoppo furioso e pochi minuti dopo giungeva, sempre seguito da Esther, sulla piazza della kasbah, di fronte ai due padiglioni. La lotta era finita. Non si scorgevano che pochi curiosi che stavano radunati dinanzi alla finestra del padiglione più piccolo, osservando una larga pozza di sangue. I kissuri del sultano erano invece scomparsi. El-Haggar guardò il minareto e vide che un angolo della base era stato diroccato, probabilmente da una palla di non piccolo calibro. "Signora," disse con voce tremante, "sono stati presi." Esther vacillò e sarebbe certamente caduta dalla sella se il moro, accortosene a tempo, non l'avesse sorretta. "Badate, signora," le disse. "Ci osservano e se nasce loro qualche sospetto, prenderanno anche noi." "Hai ragione, El-Haggar," rispose la giovane reagendo energicamente contro quell'improvvisa commozione. "Sarò forte. Informati di ciò che è avvenuto. Ah! Mio povero Ben! Povero marchese!" Il moro, vedendo un vecchio dalla barba bianca che attraversava la piazza, camminando quasi a stento, gli si accostò. "È successo qualche grave avvenimento?" gli chiese, facendogli segno d'arrestarsi. "Ho udito tuonare il cannone." Il vecchio si fermò guardandolo attentamente, quasi con diffidenza. Era un uomo di sessanta e forse più anni, col volto rugoso ed incartapecorito, il naso ricurvo come il becco dei pappagalli, gli occhi neri e ancora vivissimi. Non pareva che fosse né arabo, né un fellata e tanto meno un moro a giudicare dal colore della sua pelle molto bianca ancora. "Eh, non sapete?" chiese il vecchio, dopo d'averlo guardato a lungo. "Hanno preso degli stranieri e anche un ebreo." Aveva pronunciato l'ultima parola con un accento così triste, che il moro ne era stato colpito. "Anche un ebreo?" chiese El-Haggar. "Sì," rispose il vecchio con un sospiro. "Che cosa avevano fatto quegli stranieri?" "Io non lo so. M'hanno detto che si erano rifugiati su quel minareto dove opponevano una disperata resistenza, minacciando di precipitare sulla piazza un marabuto che avevano sorpreso lassù." "Hanno poi effettuato la minaccia?" "No, perché i kissuri hanno bombardato il minareto, costringendoli ad arrendersi subito. Se avessero resistito ancora pochi minuti, tutta la costruzione sarebbe precipitata e gli stranieri insieme." "Dunque sono stati presi?" "Si, e anche quel disgraziato israelita." "V'interessava quel giovane ebreo?" chiese El-Haggar. Il vecchio invece di rispondere guardò nuovamente il moro, poi gli volse le spalle per andarsene. "Non così presto," disse El-Haggar, prendendolo per un braccio. "Vi ho scoperto." "Che cosa dite?" chiese il vecchio, trasalendo. "Voi compiangete quel vostro correligionario." "Io, ebreo?" "Silenzio, potreste perdervi e perdere anche quella giovane che monta quel cavallo. È la sorella del giovane ebreo che i kissuri hanno arrestato." "Voi volete ingannarmi." "No, non sono una spia del sultano," disse il moro, con voce grave. "Quella giovane è la figlia di Nartico, un ebreo che ha fatto la sua fortuna in Tombuctu." "Nartico!" balbettò il vecchio. "Voi avete detto Nartico! ... Chi siete voi dunque? ... " "Un servo fedele degli uomini che sono stati presi dai kissuri." "E quella donna è la figlia di Nartico? ... Del mio vecchio amico? ... " "Ve lo giuro sul Corano." Un forte tremito agitava le membra dell'ebreo. Stette alcuni istanti senza parlare, come se la lingua gli si fosse paralizzata, poi facendo uno sforzo, balbettò: "Alla mia casa ... alla mia casa ... Dio possente! La figlia di Nartico qui! ... Il figlio prigioniero! Bisogna salvarlo ... Venite! Venite! ... " "Precedeteci," disse il moro con voce giuliva. "Noi vi seguiamo." Raggiunse Esther la quale attendeva, in preda a mille angosce, la fine di quel colloquio e la informò di quella insperata fortuna. "È Dio che ce lo ha mandato," disse la fanciulla. "Quell'ebreo, che deve essere stato un amico di mio padre, salverà il marchese e mio fratello." "Ho fiducia anch'io in quell'uomo, signora," rispose El-Haggar. Raggiunsero il vecchio, il quale si era diretto verso una viuzza assai stretta, fiancheggiata da giardini e da casupole di paglia e di fango abitate da poveri negri, tenendosi però ad una certa distanza onde non suscitare dei sospetti. L'ebreo pareva che avesse acquistato una forza straordinaria; camminava con passo rapido e senza servirsi del bastone. Di quando in quando si arrestava per osservare Esther, poi riprendeva il cammino con maggior velocità. Attraversò così quattro o cinque viuzze e si arrestò dinanzi ad una casetta ad un solo piano, di forma quadrata, sormontata da un terrazzo e ombreggiata da un gruppo di superbi palmizi. Aprì la porta e volgendosi verso Esther disse: "Entrate nella casa di Samuele Haley, vecchio amico di vostro padre. Tutto quello che possiedo è vostro; consideratevi quindi come la padrona."

I kissuri si erano precipitati verso il sardo colle lance abbassate, urlando "Giù quell'arma! Arrenditi!" "Eccovi la risposta!" tuonò Rocco. Si slanciò innanzi maneggiando la pesante scimitarra come se fosse un fuscello di paglia, si coprì con un fulmineo mulinello, poi con due o tre colpi ben aggiustati tagliò le lance che gli minacciavano il petto. I ferri caddero con rumore, balzando a destra ed a sinistra, lasciando nelle mani dei loro proprietari dei semplici bastoni. "È fatto!" gridò l'isolano. "Volete ora che vi faccia a pezzi? La lama taglia come un rasoio." "Bravo Rocco!" esclamò il marchese. I kissuri, stupiti e spaventati da quel vigore straordinario e dalla rapidità di quei colpi, si erano gettati indietro, aggrappandosi dinanzi al vizir più morto che vivo. "Andiamocene, signori," disse Rocco. "Conquisteremo la kasbah." Disgraziatamente quelle grida e quei colpi erano stati uditi dai kissuri che vegliavano nelle sale attigue. Immaginandosi che qualche cosa di grave fosse accaduto nella stanza del vizir, erano accorsi in buon numero e non tutti erano armati di sole lance, perché alcuni avevano avuto la precauzione d'armarsi di moschettoni e di pistole. Rocco aveva appena tagliate le corde dei compagni, che l'orda, composta d'una ventina di guerrieri, si scagliava nella stanza mandando urla da belve feroci. Il marchese e Ben avevano raccolto le lame di due lance per servirsene come pugnali e si erano messi ai fianchi del sardo, il quale maneggiava la scimitarra così terribilmente, da temere che volesse accoppare tutti, il vizir compreso. Vedendo quell'ercole balzare innanzi, urlando come un ossesso, e troncare con pochi colpi le lance che gli erano state puntate contro, i kissuri si erano arrestati. Uno di loro, però, più coraggioso, quantunque avesse perduto la sua arma, gli si gettò addosso coll'intenzione di ridurlo all'impotenza. Rocco lo afferrò colla mano sinistra, lo sollevò come fosse stato un fanciullo e lo scagliò in mezzo agli assalitori, facendogli fare un superbo volteggio. Fu un vero miracolo se il disgraziato guerriero non si fracassò il cranio sul pavimento di mosaico. Dinanzi a quella prova d'un vigore così straordinario, i kissuri erano rimasti come storditi, guardando con terrore il gigante. Il loro stupore non doveva però durare a lungo. Incoraggiati dal vizir e ricordandosi d'aver delle armi da fuoco, le puntarono risolutamente verso i tre prigionieri, intimando loro di arrendersi. "Basta, Rocco," disse il marchese, gettando il ferro di lancia. "Queste canaglie sono più forti di noi." "Ci uccideranno egualmente più tardi, signore," disse il sardo. "Chissà cosa potrà succedere poi, amico. Disarma: stanno per fare fuoco." Il sardo scagliò la scimitarra contro la parete e con tale furia da spezzare in due la lama. I kissuri li avevano subito circondati, però non osavano ancora porre le mani su Rocco delle cui formidabili braccia conoscevano ormai la potenza. "Conduceteli via," disse il vizir, il quale non si era ancora rimesso dal suo spavento. "Questi sono demoni vomitati dall'inferno." "Sì, demoni che ti torceranno il collo se cercherai di farci del male," disse il marchese. "Via! Via!" ripeté il vizir, con voce tremante. "Andiamo," disse Rocco. "Però il primo che cerca di legarmi lo accoppo con un pugno." I kissuri si strinsero attorno ai prigionieri tenendo le pistole ed i moschettoni puntati e li fecero uscire dalla sala. Attraversarono una lunga galleria, sostenuta da bellissime colonne di stile moresco, e con ampie finestre che guardavano sui giardini della kasbah, poi aprirono una porta massiccia, laminata di ferro e li invitarono ad entrare. Si trovarono in una saletta a volta, colle pareti coperte di lastre di pietra, illuminata da una feritoia tanto stretta, da non permettere il passaggio nemmeno ad un gatto, e difesa da due grosse sbarre di ferro. Il mobilio si componeva di tre vecchi angareb e di due enormi vasi di argilla ricolmi d'acqua. "Ecco una prigione a prova di lime e anche di bombe," disse il marchese. "Il vizir ha preso le sue precauzioni per impedirci d'andarcene." "Eh, non si sa," disse Rocco. "Queste sbarre si possono piegare e strappare." "E poi?" chiese Ben. "E allargare il buco." "Non abbiamo né scalpelli, né martelli, mio povero Rocco," disse il marchese. "Se si potessero strappare queste lastre di pietra!" "Mio caro ercole, non ci rimane che rassegnarci e attendere qualche miracolo." "Su chi sperate?" chiese Ben. "Su vostra sorella e su El-Haggar," rispose il marchese. "Essi non ci abbandoneranno, ne sono certo." "Che cosa potranno fare contro i kissuri del sultano?" chiese Ben, con voce triste. "Sì, mia sorella tenterà di venire in nostro aiuto, cercherà anche di corrompere gli alti funzionari del sultano, i carcerieri, fors'anche il vizir perché il denaro non le manca, ma io dubito che possa riuscire. È una infedele, al pari di noi, e facendosi conoscere correrebbe forse maggiori pericoli." "Eppure io non dispero, Ben," disse il marchese. "Il mio cuore mi dice che sta lavorando per la nostra liberazione." "Prima di lasciarmi scannare farò un massacro dei kissuri," disse il bollente sardo. "Vi decapiteranno egualmente," osservò Ben. "Diavolo! Così non può andare." "Ebbene, cambia la nostra sorte, mio bravo Rocco," rispose il signor di Sartena. "Sì, padrone." "Provati." "Strapperò le sbarre di ferro per ora. Sono grosse e ci serviranno a rompere le costole dei kissuri." "Saranno dure da levare." "Anche le mie braccia sono solide." L'isolano s'accostò alla feritoia, s'aggrappò ad una sbarra e si provò a scuoterla. "Non si muove," disse, per nulla scoraggiato. "Torciamola." Tese le braccia, strinse le dita e sviluppò tutta la sua forza immensa, inarcando le poderose reni e puntando le ginocchia contro la parete. I muscoli si gonfiarono come se volessero far scoppiare la pelle delle braccia, mentre le vene del collo e delle tempie s'ingrossavano prodigiosamente. La sbarra resisteva, ma anche l'ercole non cedeva e raddoppiava gli sforzi. Ad un tratto, con gran stupore del marchese e di Ben, il ferro si piegò, poi uscì bruscamente dall'alveolo. "Eccolo!" esclamò Rocco, trionfante. "Mille leoni!" esclamò il marchese. "Ma tu hai una forza da gareggiare con un gorilla!" "Gigantesca!" "All'altra," disse il sardo, tergendosi il sudore che gli bagnava la fronte. Essendo i margini della feritoia ormai sconnessi, la seconda sbarra fu strappata con meno fatica e assieme ad essa cadde anche una parte dell'intonaco, allargando in tal modo il foro. Il sardo cacciò la testa attraverso l'apertura, ma subito si ritrasse. "Vi è qualche sentinella?" chiese il marchese. "Sì, vi è un kissuro che veglia sotto la feritoia," rispose il sardo. "Siamo alti dal suolo?" "No, appena tre metri." "Dove guarda questa finestra?" "In un giardino." "Ben," disse il marchese, "se fuggissimo?" "E la sentinella?" "M'incarico io di abbatterla," disse Rocco. "Allarghiamo il passaggio," disse il marchese. "Con queste due sbarre possiamo spostare una lastra, è vero, Rocco?" "Ci riuciremo, signore," rispose il sardo, il quale ormai non dubitava più della riuscita del suo piano. "E potremo poi uscire dal giardino?" chiese Ben. "Vi saranno delle muraglie da superare." "Le scaleremo," rispose Rocco. "Diavolo d'un uomo," mormorò l'ebreo. "Trova tutto facile, ma sa anche operare." Stavano per mettersi al lavoro, quando il marchese si arrestò, dicendo: "E se ci sorprendono? Ben, mettetevi presso la porta e se qualcuno s'avvicina, avvertiteci. Noi due basteremo a smuovere la lastra." Essendo le due sbarre un po' appuntite, riuscirono a sgretolare parte dell'intonaco, una specie di calce rossiccia di poca resistenza, quindi si provarono a smuovere la lastra di destra che formava uno degli angoli della feritoia. Dopo quattro o cinque colpi la pietra si spostò, quindi cadde fra le braccia del sardo. Dietro non vi era che del fango disseccato mescolato a pochi mattoni cotti al sole. "Che cosa dite, padrone?" chiese Rocco, giulivo. "Che fra un'ora noi saremo liberi," rispose il marchese. "Questi mattoni non offriranno alcuna resistenza." "Che cattive costruzioni, signor marchese." "Gli abitanti di Tombuctu non conoscono la calce. Tutte le loro case sono fatte con mattoni male seccati e con argilla." "Assaliamo la parete, signore." "Adagio, Rocco. La sentinella può accorgersi del nostro lavoro." "Faremo poco rumore." Si rimisero al lavoro, sgretolando l'intonaco e levando i mattoni che mettevano a nudo. La feritoia a poco a poco si allargava, nondimeno ci vollero non meno di quattro ore prima che fosse ottenuto uno spazio sufficiente per lasciar passare i loro corpi. Quand'ebbero finito, la notte era calata da qualche ora. "È il momento di andarsene," disse Rocco. "Puoi passare?" chiese il marchese. "Tu sei il più grosso di tutti." "Passerò, signore." "Guarda se il kissuro ha lasciato il posto." Rocco si alzò sulle punte dei piedi e sporse con precauzione la testa. "È sempre lì sotto e mi pare che si sia addormentato," disse. "Non si muove più!" "È bene armato?" "Ha una lancia e delle pistole alla cintura. Oh!" "Cos'hai?" "Invece di accopparlo con un colpo di sbarra lo afferro pel collo e lo metto al nostro posto." "Saresti capace di fare una simile prodezza?" "Guardate!" Il sardo passò il corpo attraverso la feritoia, allungò la destra, afferrò la sentinella per la gola stringendo forte onde impedire di mandare qualsiasi grido, poi lo alzò come un bamboccio e lo fece passare per lo squarcio, deponendolo ai piedi del marchese e di Ben. "Mille leoni!" esclamò il signor di Sartena. "Che braccio!" Il kissuro, rapito così di volo, non aveva nemmeno cercato di opporre resistenza. D'altronde Rocco non aveva allargato la mano. "Un bavaglio," disse l'ercole. "Presto o lo strangolo." Il marchese strappò un pezzo del suo caic, fece una fascia e aiutato da Ben l'annodò attraverso la bocca del disgraziato guerriero. "Ora le gambe e le mani," disse Rocco. "È fatto," rispose il marchese, il quale si era levato la lunga fascia di lana che gli stringeva i fianchi. Il kissuro, mezzo strangolato, era rotolato al suolo, guardando i tre prigionieri con due occhi strabuzzati. "Bada che se tu cerchi di liberarti noi torneremo qui e ti accopperemo," gli disse il marchese, con voce minacciosa. "Mi hai compreso?" Gli levò le due pistole che aveva alla cintura, due armi ad acciarino, lunghissime, col calcio intarsiato in argento, e ne diede una a Ben. "Andiamo," disse. Rocco, munito d'una sbarra, arma ben più pericolosa d'una lancia per quell'ercole, passò attraverso la feritoia e si lasciò cadere nel giardino. "Vedi nessuno?" chiese il signor di Sartena. "Passate," rispose il sardo. Un momento dopo i tre prigionieri si trovavano riuniti sotto la feritoia.

"Abbassate la testa!" Il marchese invece di curvarsi si era alzato col fucile in mano, tentando di scoprire, attraverso i folti vegetali, quei misteriosi arceri. Vedendo un'ombra umana emergere fra le canne della riva, puntò l'arma e fece rapidamente fuoco. Si udì un grido, poi un tonfo. L'uomo era caduto e si dibatteva nell'acqua, a pochi passi dalla scialuppa. Rocco con un poderoso colpo di remo lo sommerse e probabilmente per sempre, perché l'acqua tornò tranquilla e nessun rumore più si udì. Nondimeno la situazione dei fuggiaschi non era migliorata dopo quel fortunato colpo di fucile. Di quando in quando qualche freccia, scagliata forse a caso, passava sibilando sopra la scialuppa che si era impegnata nello stretto passaggio che serviva di comunicazione fra la piccola cala ed il fiume. "Ben," disse il marchese, il quale aveva ricaricato prontamente l'arma, "voi sorvegliate la riva destra mentre io guardo quella sinistra e se scorgete qualcuno fate fuoco." "Ed io?" chiese Esther. "Rimanete coricata fra le casse, per ora. Noi due basteremo." Rocco, il moro ed i due battellieri arrancavano con furore per superare lo stretto, che era fiancheggiato da foltissime piante dove i negri potevano imboscarsi e lanciare i loro dardi con piena sicurezza. Per la terza volta l'urlo dello sciacallo ruppe il silenzio che regnava nella foresta. "Ah! Questo urlo!" esclamò il marchese, le cui inquietudini aumentavano. "Che significherà? Che sia un segnale di raccolta?" Un colpo secco sul bordo lo fece balzare indietro ... Una piccola lancia, uno di quei giavellotti che i negri usano lanciare a mano, si era piantato nel fianco della scialuppa, a pochi centimetri da Rocco. Il marchese udendo le canne muoversi stava per far fuoco quando una scarica di tamburi rintronò in mezzo agli alberi, seguita da vociferazioni spaventevoli. Quasi nel medesimo istante vide delle strisce di fuoco serpeggiare velocemente fra i festoni di liane ed in mezzo ai cespugli. "Per le colonne d'Ercole!" esclamò. "S'incendia la foresta? Rocco, El-Haggar! Alle armi!" Una turba di negri, muniti di rami resinosi, si era precipitata attraverso le piante incendiando i cespugli resinosi, poi si era rovesciata sulle rive della piccola cala, urlando come una legione di demoni. Erano più di cento, armati di lance, di archi e di mazze, di scimitarre e di coltellacci. Alcuni, più audaci, vedendo la scialuppa già in procinto di entrare nel Niger, si erano gettati coraggiosamente in acqua sperando di raggiungerla. "Ben," disse il marchese, "noi occupiamoci dei nuotatori e voi altri fate delle scariche verso la riva. Tirate con calma e non impressionatevi. Questi negri valgono ben poco e li arresteremo subito." L'incendio della foresta si era propagato con rapidità incredibile. I cespugli si torcevano e scoppiettavano, mentre le fronde delle piante giganti fiammeggiavano come torce colossali. Una luce intensa illuminava tutta la cala, proiettandosi fino sulle acque del Niger, le quali pareva che si fossero tramutate in bronzo fuso. Una prima scarica arrestò, poi volse in fuga i nuotatori ed una seconda calmò lo slancio dei negri assiepati sulle rive. Le palle dei fucili a retrocarica avevano gettato a terra o calato a fondo parecchi uomini e quella dura lezione aveva raffreddato il furore degli assalitori. "Approfittiamo di questo momento di sosta," disse il marchese. "Rocco, El- Haggar, ai remi!" Mentre Ben ed Esther continuavano a sparare contro ambe le rive, la scialuppa superò velocemente lo stretto e si slanciò nelle acque del Niger, allontanandosi dalla sponda. Il pericolo non era cessato, tutt'altro! Attirati dai rulli dei noggara e più di tutto da quella luce intensa che si propagava sulla riva del fiume gigante, numerose scialuppe si erano staccate da Koromeh, montate da equipaggi armati. "Stiamo per venir presi," disse Ben, gettando uno sguardo disperato verso Esther. "Quelle scialuppe accorrono per tagliarci il passo." "E sono una ventina," mormorò il marchese, tormentando il grilletto del fucile. Le scialuppe di Koromeh avevano attraversato il fiume ed avevano formato una linea che si estendeva quasi da una riva all'altra, onde chiudere completamente il passo. Erano montate da un centinaio e mezzo di negri armati per la maggior parte d'archi e di coltellacci, però alcuni possedevano anche dei fucili. Continuando la foresta a bruciare, si distinguevano perfettamente e si vedeva anche che si preparavano a dare battaglia ai fuggiaschi. "Amici," disse il marchese. "Non perdiamo un colpo. Dalla rapidità del nostro fuoco e dall'esattezza dei nostri tiri dipende la nostra salvezza. "Quando saremo addosso alle scialuppe, tu, Rocco, e tu, El-Haggar, lasciate i remi e prendete i fucili ... Mille cannonate! I kissuri!" "Dove sono?" chiesero tutti. "Là, guardateli! Hanno lasciato or ora la riva sinistra e corrono in aiuto dei negri su due imbarcazioni!" "Maledizione!" ruggì Rocco. "Verranno a guastare la nostra vittoria." "Marchese," disse Esther. "Voi e Ben occupatevi dei negri; io apro il fuoco sui kissuri. La mia carabina ha una portata straordinaria e prima che quei bricconi si avvicinino, ne abbatterò parecchi." Il marchese e Ben aprirono tosto un terribile fuoco accelerato, mentre Esther, coricata fra le casse, sparava sulle due imbarcazioni montate dai kissuri lanciando le sue palle a sei o settecento metri. Intanto i due battellieri, Rocco ed El-Haggar, arrancavano con furore, risoluti a sfondare la linea di battaglia e passare addosso ai negri. Il fuoco accelerato del marchese, di Ben e della giovane ebrea, diventava più terribile a mano a mano che la distanza scemava. I negri cadevano in buon numero e anche i kissuri subivano perdite gravissime, perché ben poche palle andavano perdute. Erano tre formidabili bersaglieri e mancava ancora Rocco, un tiratore che forse superava gli altri. I nemici nondimeno non aprivano la loro linea, anzi le scialuppe più lontane accorrevano per ingrossarla onde opporre maggiore resistenza ed intanto rispondevano scaricando i loro moschettoni e lanciando frecce in gran numero. Né le palle, né i dardi ancora giungevano fino alla scialuppa, tuttavia il marchese cominciava a diventare assai preoccupato per l'abbondanza straordinaria di quei proiettili. "Eleviamo una barricata!" esclamò ad un tratto. "Abbiamo le casse e anche delle panche. Ben, Esther, continuate il fuoco, voi! Non domando che due minuti." Lasciò il fucile, afferrò uno ad uno i forzieri e li accumulò a prora legandoli insieme con una fune. Essendo pieni d'oro, potevano arrestare le palle dei moschettoni, anche a breve distanza. "Esther, qui voi," disse quand'ebbe finito. "La barricata è solida e non correte pericolo alcuno. Vi ho lasciato uno spazio sufficiente per la canna della vostra carabina." Accumulò poi a poppa le casse contenenti i loro effetti, formando una seconda barricata, e alzò le panche a babordo ed a tribordo in modo da riparare anche i rematori dai tiri trasversali. I negri accortisi subito di quei ripari che rendevano quasi inutili le loro frecce e anche le loro palle, avevano rotto la loro linea di combattimento per assalire la scialuppa sui due fianchi, ma le prime barche che si erano avanzate avevano dovuto retrocedere frettolosamente cogli equipaggi decimati. Il marchese ed i suoi compagni le avevano accolte con un fuoco così terribile, da rendere impossibile un nuovo attacco. "Coraggio, amici!" gridò il marchese. "La via è aperta!" Si volse e guardò le scialuppe montate dai kissuri del sultano. Si trovavano allora a quattrocento metri e manovravano in modo da abbordare l'imbarcazione a poppa. "Tre salve su costoro!" gridò il marchese. "Sono i più pericolosi!" Nove colpi di fucile rimbombarono. Cinque kissuri della prima scialuppa caddero e uno della seconda. "Eccoli calmati," disse il marchese vedendo le due imbarcazioni arrestarsi. "Avanti ora!" Una scialuppa si era messa attraverso la rotta seguita dai fuggiaschi. Era montata da otto negri fra i quali alcuni possedevano dei fucili. "Animo!" gridò Rocco. "All'abbordaggio!" Arrancando con lena disperata investono furiosamente la scialuppa, le fracassano il bordo e la capovolgono, mentre il marchese, Ben ed Esther fucilano a bruciapelo i negri. "Urrah! Avanti!" tuona il marchese. L'imbarcazione passa fra gli assalitori colla velocità d'un dardo e supera la linea, ma i negri non si danno ancora per vinti. Incoraggiati dai kissuri i quali si sono rimessi in caccia e forti del numero, si riordinano prontamente ed inseguono vigorosamente i fuggiaschi, mentre altre scialuppe si staccano dalle due rive. La battaglia diventa terribile. Anche Rocco ed El-Haggar hanno impugnati i fucili e dopo aver rinforzato la barricata di poppa con quella di prora, diventata ormai inutile, bruciano le loro cartucce senza economia. Le canne dei retrocarica sono diventate così ardenti, che il marchese, Ben ed Esther sono costretti a bagnarle nel fiume onde non bruciarsi le dita. È un miracolo se i fuggiaschi non hanno ricevuto ancora delle ferite. La lotta non può durare a lungo, malgrado il fuoco infernale dei due isolani, dei due ebrei e del moro. I negri s'accostano da tutte le parti urlando come demoni, decisi a venire all'abbordaggio. Il Niger sembra in fiamme, perché l'incendio della foresta avvampa sempre. Le sue acque sembrano di fuoco. Il marchese e Ben si scambiano uno sguardo pieno d'angoscia. Comprendono che la lotta sta per finire e che stanno per cadere vivi nelle mani dei negri e dei kissuri. "È finita," mormora il marchese, con voce strozzata. "Sì," risponde Ben, facendo un gesto disperato ... "Ci lasceremo prendere?" "No. Vi è una scure sotto il banco. Quando i negri monteranno all'assalto, sfonderemo la scialuppa." "Sì, Ben." Riprendono il fuoco, fulminando i negri più vicini. Esther pallida ma sempre risoluta, li appoggia vigorosamente, mentre Rocco si prepara a martellare i nemici col calcio del fucile. Il cerchio si restringe. I negri non si trovano che a poche diecine di passi ed impugnano le lance e le mazze mentre i kissuri urlano a piena gola "Addosso ai kafir! Ordine del sultano." Ad un tratto un fischio acuto assordante lacera l'aria e copre il rombo delle fucilate, poi delle scariche regolari, stridenti, come eseguite da una mitragliatrice, si seguono. I negri si arrestano stupiti e anche spaventati, mentre parecchi cadono fulminati sul fondo delle piroghe. Il marchese, a rischio di ricevere una palla nel cranio, balza a prora. Un urlo gli sfugge "Siamo salvi! Coraggio! Alcune scariche ancora!" Una grossa scialuppa a vapore, fornita di ponte, sbucata non si sa da dove, fende rapidamente le scintillanti acque del fiume, fischiando e fumando. A prora balenano dei lampi e risuonano delle detonazioni. È una mitragliatrice che prende d'infilata le scialuppe dei negri. Chi sono quei salvatori che giungono in così buon punto? Nessuno si cura di saperlo pel momento. Il marchese e tutti gli altri, vedendo la scialuppa avanzarsi a tutto vapore, raddoppiano il fuoco, bruciando il muso ai negri più vicini. Il cerchio si è allargato, perché la mitragliatrice comincia a far strage. Le palle fioccano sulle scialuppe, decimando crudelmente gli equipaggi. Un uomo di alta statura, con una lunga barba bionda, vestito interamente di bianco, con in capo un elmetto da esploratore, sale sulla prora della scialuppa a vapore già vicinissima, gridando: "Vorwaerts! Pronti ad imbarcarvi! Passeremo addosso ai negri!" "Dei tedeschi!" esclama il marchese, corrugando la fronte. "Bah! In Africa tutti gli europei sono fratelli. Siano i benvenuti! Amici, abbordiamo!" La scialuppa a vapore ha rallentato la sua marcia, ma la sua mitragliatrice continua a spazzare il fiume con scariche sempre più formidabili. I due battellieri con pochi colpi di remo l'abbordano sul babordo, mentre una scala di corda viene gettata. "Presto, salite!" grida l'uomo biondo. Il marchese afferra Esther e la porge all'uomo biondo, il comandante di certo, a giudicare dai gradi d'oro che gli ornano le maniche. Questi la solleva sopra la bordatura e la depone sulla tolda, quindi, levandosi galantemente l'elmo, le dice in francese: "Signora, siete fra amici: ora daremo a quei bricconi di negri la paga." Il marchese, Rocco, Ben, il moro ed i battellieri salgono precipitosamente, portando i forzieri che i marinai della scialuppa subito prendono, deponendoli dietro la murata. "Signore," dice il marchese, volgendosi verso il comandante e salutandolo militarmente, "grazie, a nome di tutti." Il tedesco gli porge la destra, gli dà una vigorosa stretta, poi grida: "A tutto vapore!" I negri ed i kissuri, furiosi di vedersi rapire la preda, quando credevano ormai di tenerla, si stringono addosso alla scialuppa a vapore tentando di montare all'abbordaggio. Urlando spaventosamente, scaricano i loro moschettoni e lanciano dovunque dardi e giavellotti. "Ah! briganti!" brontola il comandante. "Non volete lasciare andare? Ebbene, la vedremo!" Mentre la mitragliatrice continua a tuonare, lanciando i suoi proiettili a ventaglio, ed i quindici marinai, aiutati dal marchese, da Ben, da Rocco e da El-Haggar, respingono gli assalitori a colpi di fucile e di baionetta, la scialuppa indietreggia di cinquanta passi, poi si slancia innanzi a tutto vapore. La sua elica morde furiosamente le acque facendole spumeggiare. "Avanti!" tuona il comandante. "Fuoco di bordata!" La piccola cannoniera ha preso lo slancio. Si avanza fischiando, fracassa due scialuppe, passa in mezzo alle altre e scompare fra una nuvola di fumo, mentre i negri urlano a piena gola bruciando le loro ultime cariche. La sconfitta dei sudditi del sultano di Tombuctu è completa. Il fiume è ingombro di pezzi di scialuppe e di corpi umani che la corrente travolge, e la scialuppa a vapore continua la sua veloce fuga, lasciandosi indietro le piroghe sulle quali i negri sfogano la loro rabbia impotente con minacce atroci. Il marchese lascia il fucile e s'avvicina al comandante, il quale, munito d'un cannocchiale, guarda sorridendo tranquillamente i negri che fanno sforzi indicibili per dare la caccia alla scialuppa. "Signore," dice, "vi dobbiamo la vita. I negri stavano per prenderci." "Sono ben lieto, signore, di esser giunto in così buon momento. Siete francese?" "Il signor marchese di Sartena, un valoroso corso che ha attraversato il deserto per cercare il colonnello Flatters," disse Ben, avanzandosi. "Wilhelm von Orthen," rispose il tedesco, inchinandosi dinanzi all'isolano e porgendogli per la seconda volta la destra. "Avete trovato lo sfortunato colonnello, signor marchese? Sarei stato ben contento se avessi potuto salvare anche lui." "È morto, signor von Orthen." "Ne ero quasi certo." "Ma come vi trovate qui, voi, signore?" "Avevo appreso che il tenente Caron era salito fino qui colla sua cannoniera ed ero stato incaricato, dal mio governo, d'accertarmi della navigabilità del Niger." "E ne avete avuto una prova," disse il marchese, sorridendo. "Sì," rispose il tedesco. "Signor marchese, la mia scialuppa è interamente a vostra disposizione. Io ritorno verso la costa." "E noi vi seguiremo, signor von Orthen, perché la nostra missione è ormai finita." Conclusione Quindici giorni dopo, la scialuppa a vapore giungeva indisturbata alle bocche del Niger e del vecchio Calabar, e sboccava in mare arrestandosi ad Akassa, una graziosa ma anche assai insalubre cittadina del possedimento inglese. Il marchese ed i suoi compagni, dopo aver fatto degli splendidi regali ai marinai della piccola cannoniera, ai quali dovevano la loro salvezza, e dopo aver ringraziato il valoroso comandante, s'imbarcarono su un piroscafo inglese in rotta per la libera colonia di Liberia. Tutti avevano fretta di ritornare al Marocco, soprattutto il marchese, il quale ormai aveva dato il suo cuore alla bella Esther. Il 25 febbraio del 1880 sbarcarono a Monrovia, la capitale della repubblica negra, prendendo tosto imbarco su un piroscafo della Woermann Linie che faceva il servizio fra Liberia, isole Canarie, Mogador e Tangeri. Quindici giorni più tardi il marchese di Sartena, nella casa di Ben Nartico, impalmava la valorosa ebrea, che aveva imparato ad apprezzare nel deserto del Sahara, fra i mille pericoli dei feroci scorridori del deserto e fra i kissurì del sultano di Tombuctu. Il giovane marchese non ha rinunziato alle sue spalline. Egli è ancora uno dei più brillanti ufficiali della guarnigione corsa e Rocco ed El-Haggar, il fedele moro, sono le sue ordinanze, come Esther è la più bella e la più invidiabile sposa dell'isola. 1 Tombuctu fu poi conquistata dai francesi. Fu presa con un audace colpo di mano, da scialuppe a vapore che avevano rimontato il Niger. 2 Letti molto primitivi formati d'una pelle tesa su un telaio.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 5 occorrenze

con le palpebre abbassate, ma sorridente? Che ti ha detto? Una voce debole debole, nevvero? Qualche cosa che tu sola puoi aver udito? - Mio padre, voi volete che io muoia, - pronunziò ella, desolatamente. - Paure da femminetta, - diss'egli, con disdegno. - Chi è mai morto, per una comunicazione suprema? Il contatto dell'anima, con quella di uno spirito, è una fonte di vita. Bianca Maria, non essere ingrata, non essere crudele, dimmi tutto. - Voi volete che io muoia, - ripeté ella disperatamente e rassegnatamente. - Sei una sciocca. Vuoi che ti preghi, io tuo padre? Ebbene, ti pregherò, non c'è che fare: i figli sono ingrati e malvagi, rispondono al nostro amore con la crudeltà. Ti prego, Bianca, te ne prego come se tu fossi la mia santa protettrice, dimmi tutto. - Io morirò di ciò, mio padre, - mormorò lei, con la voce soffocata dai cuscini, dove frenava il suo pianto e i suoi singhiozzi. - Ascolta, Bianca - egli riprese, freddamente, frenando ancora il suo sdegno, - tu devi credermi. Io sono un uomo, sono sano, ho la mia ragione, ho la mia logica: ebbene, è per me articolo di fede, chiaro come la luce del sole, che tu hai avuto in questa notte, o avrai l'apparizione dello spirito, che verrà per benedire la nostra famiglia, che ti dirà le parole della felicità. Se ciò è accaduto, tanto meglio: ma il tuo obbligo di figlia ubbidiente, di figliuola amorosa della casa Cavalcanti, è di dirmi tutto, subito. - Non so nulla, - disse ella, seccamente. - Lo giuri? - Lo giuro. Non so nulla. - Allora questa visione verrà in queste consecutive ore della notte. Vado in cappella a pregare. Sono un peccatore, ma anche i peccatori possono chiedere una grazia. Pregherò perché tu veda e senta lo spirito. - No, non ve ne andate! - gridò ella sollevandosi sul letto e attaccandosi al suo braccio, con una stretta disperata. - E perché? - Non ve ne andate, per amor di Dio, se avete carità, restate qui! - Debbo andare a pregare, Bianca, - esclamò lui, esaltato, non intendendo lo stato convulso della sua figliuola. - No, no, restate, io non posso star sola qui, senza morire di spavento. E parlava affannosa, pallida, con le mani tremanti che stringevano sempre il braccio del padre. Non osava guardarsi intorno, aveva il capo abbassato sul petto, chiudeva gli occhi, si mordeva le labbra; mentre lui, in preda alla ostinazione della sua follia, guardava fiso la sua figliuola, credendo scorgere in lei quel disordine spirituale, che deve fatalmente accompagnare questi grandi miracoli delle anime. - Che hai? - domandò lui, profondamente, intensamente, quasi volesse strappar dall'anima la verità. - State qui, state qui, - disse ella, battendo i denti dal terrore. - Vedi qualche cosa? - chiese lui, suggestivamente, con una intensità di voce e di volontà che dovea piegare quel fragile involucro femminile, tutto sconquassato dall'urto nervoso. - Ho paura di vedere, ho paura, - ella disse, pianissimamente, appoggiando la fronte sui braccio di suo padre. - Non temete, cara, non temere, - le susurrò lui, teneramente, carezzandole con atto paterno i neri capelli. - Tacete, tacete, - diss'ella, con un tremore acuto. E rimase appoggiata alla sua spalla, nascondendo la faccia, raggricchiandosi tutta. Il marchese passò il braccio alla cintura di sua figlia, per sostenerne il debole corpo convulso: e mentre ella più si nascondeva, attaccata a suo padre, come a una tavola di salvezza, egli sentiva ogni tanto sussultare tutto quel povero corpo di creatura inferma nelle fibre, nei nervi e nel sangue. - Che hai? - egli domandava, allora. - No, no, - faceva ella, più col gesto che con la voce. - Guarda, guarda, non aver paura, - suggeriva l'allucinato. - Tacete, - replicava lei, rabbrividendo. Con pazienza, egli la sosteneva, aspettando, con la ostinazione del folle che attenderebbe ore, giorni, mesi e anni, purché la realtà della sua follia potesse avverarsi. - Figlia mia, figlia mia, - mormorava il marchese, ogni tanto, incoraggiandola teneramente. Ella rispondeva, sospirando: un sospiro che pareva un lamento, che pareva un singhiozzo di fanciullo sofferente. Tenendola appoggiata al suo petto, il marchese di Formosa sentiva la rigidità nervosa di quel povero corpo giovanile e malaticcio, percorso da lunghi fremiti. Quando la fanciulla tremava, tutta, suo padre ne sentiva il contraccolpo e parendogli che la rivelazione così invocata fosse imminente, le diceva un'altra volta, ostinato, spietato: - Che hai? Ella faceva un cenno con la mano, di orrore, come se volesse scacciare un pensiero spaventoso o una spaventosa visione. Che importava a lui lo strazio di quel cuore giovanile, lo squilibrio funesto di quei nervi? Egli in quella stanza glaciale e verginale, in quella penombra dove la lampada accesa innanzi alla Madonna gittava un cerchio di luce sul soffitto, con quel corpo convulso di fanciulla fra le braccia, con quell'anima tremante innanzi ai misteri spirituali, egli sentiva di essere in un momento solenne, in cui ogni circostanza di tempo, di età, scompariva, e lui, Formosa, si trovava finalmente in faccia al grande mistero. Dalla bocca innocente di sua figlia lo avrebbe saputo, il segreto della sua vita, del suo avvenire: le fatali cifre che contenevano la sua fortuna, sarebbero state dette a Bianca Maria dallo spirito, da Bianca Maria a lui. - Bianca, Bianca, prega lui he venga, che ti dica se dobbiamo vivere o morire. Pregalo, Bianca, poiché lui, lo spirito, è una emanazione del Divino, di dirti la divina parola...pregalo, se è qui, presso a te, o in te, se è innanzi ai tuoi occhi o alla tua fantasia, pregalo, Bianca, pregalo, ne va la vita nostra, salvaci, Bianca, salvaci, figlia mia, figlia mia... Continuava a parlare, incoerentemente, invocando la presenza dello spirito, dirigendo a lei, dirigendo a lui le preghiere più impetuose e più dolorose. La fanciulla, trasalendo, rabbrividendo, batteva i denti dal terrore; le mani che teneva strette al collo del padre, come un bambino che soffre, si avvinghiavano a guisa di tenaglia. Non parlava più, adesso: ma si capiva che l'ora, l'ambiente e le parole del padre esaltavano la sua convulsione. Un singhiozzo sommesso le sollevava il petto: e quando non singhiozzava, un piccolo lamento fioco fioco, instancabile, di bambino che agonizza, le usciva dalle labbra. Egli le parlava, sempre: ma quando le sue parole diventavano più incalzanti, quasi colleriche nel loro dolore, egli sentiva le braccia della figliuola torcersi per la disperazione. Poi, a poco a poco, un nuovo fenomeno si era manifestato. Sul principio, le mani e la fronte di Bianca Maria erano gelide, come sempre, poiché l'anemia di cui languiva, le toglieva ogni calore vitale. Anzi, in quella convulsione, egli aveva inteso, il vecchio allucinato, che era agghiacciato tutto il corpo della povera creatura. Ma ad un certo punto, in alcuni intervalli in cui il batter dei denti taceva, in cui le braccia si rilasciavano per un accasciamento, egli sentiva un sottile calore correre sotto la pelle delle mani, un sottile calore salire alla fronte della fanciulla. Pareva una fluida corrente di calore che si diffondesse in tutta la persona giovanile di Bianca Maria: un calore che inondava le vene impoverite di caldo sangue e che crescendo, crescendo, ne rendeva scottante la fronte e le mani. Egli udì che il respiro della fanciulla si facea affannoso e ogni tanto, quasi le mancasse l'aria, un lungo sospiro le sollevava il petto oppresso. Due volte egli fece per riporre il capo sui cuscini del letto, ma ella ebbe un fremito di paura. - Non mi lasciar sola, per amor di Dio, - balbettava, quasi infantilmente. - Non ti lascio: dimmi che cosa vedi, - ripeteva lui, indomito, implacabile. - Oh è orribile, è orribile...- balbettava Bianca, tremando ancora, tremando sempre, come se il suo corpo fosse diventato quello di una vecchia settantenne. - Che, è orribile? Parla, Bianca, raccontami tutto, dimmi che cosa hai visto? - Oh! - faceva lei, lamentandosi, disperandosi. Adesso, cessato il batter dei denti, col respiro corto che parea le uscisse a stento dalla gola, ella ardeva tutta, il suo alito breve bruciava il collo del padre, dove la sua testa si appoggiava. A questo fiato ardente si univa il batter rapido, rapido dei polsi pieni, e il battito rapido e pieno delle tempie. Ma il marchese Cavalcanti, preso intieramente dalla sua follia, nella notte gelida, in quella penombra misteriosa, accanto a quella povera anima addormentata in quell'involucro tormentato, aveva smarrito il senso del reale: e la sua ammalata fantasia assaporava acutamente il dramma di quell'ora, senza intenderne la crudeltà. Egli, anzi, vibrava di gioia, poiché credeva giunto il gran momento della rivelazione dello spirito: la fortuna di casa Cavalcanti, ecco, in quel minuto si decideva. Le ansie, i terrori, le convulsioni, le tronche parole di sua figlia si spiegavano: era l'approssimazione della Grazia. Tanto tempo, tanto tempo era passato nella infelicità e nella miseria: e ora tutto si risolveva: l'indomani, lui e sua figlia sarebbero ricchi a milioni. Oppressa, affannata, Bianca Maria era scivolata dal petto di suo padre sui cuscini e si udiva il sibilo del suo respiro, si vedevano i suoi occhi brillare stranamente. Inchiodato dalla morbosa curiosità, il marchese si tenea ritto presso il letto, spiando, al lume della lampada, ogni gesto, ogni atto della sua figliuola, abbattuta su quel letto di dolore. A un tratto, come per una scossa elettrica, le mani della fanciulla brancicarono convulsivamente la coltre: un grido rauco le uscì dalla strozza. - Che è? - gridò il marchese, scosso anche lui. - È lo spirito, lo spirito, - balbettò lei, con la voce cambiata di tono, profonda, cavernosa. - Dove è? - disse il padre, sottovoce. - Sulla soglia, è là, guardatelo, - disse ella, fermamente, energicamente, sbarrando gli occhi verso la porta. - Non vedo niente, niente, sono un povero peccatore! - gridò disperatamente il marchese Cavalcanti. - Lo spirito è là, - sussurrò lei, quasi che nulla avesse inteso. - Come è vestito? Che fa? Che dice? Bianca, Bianca, pregalo! - È vestito di bianco...non si muove... non dice nulla, - mormorò ella, parlando in sogno. - Pregalo, pregalo che ti parli, tu sei innocente, Bianca! - Non parla... non vuol parlare. - Bianca, scongiuralo, per il nostro Dio, per la sua forza, per la sua potenza Tacquero. Tutta l'intensa attenzione del marchese Cavalcanti era su quella porta, dove solo sua figlia vedeva lo spirito, mentre tutto l'animo di lui era una preghiera. Ella giaceva, sempre più affannata, mentre le ardenti mani sottili stringevano convulsivamente, fra le dita, le pieghe del lenzuolo. - Che dice? - Nulla, dice. - Ma perché non vuol parlare? Che è venuto a fare, se non vuol parlare? - Non mi risponde, - replicò lei, sempre con quella voce, che pareva venisse da una profonda lontananza. - Ma che fa? - Mi guarda... mi guarda fisamente... ha gli occhi così tristi, così tristi... mi guarda con pietà; perché mi guarda così, come se fossi morta? Sono forse morta, io? - Ora andrà via, senz'averti detto niente! - urlò il marchese di Formosa. - Domandagli che numeri escono, domani! La figliuola emise un lamento straziante. - Mi pare che pianga, adesso, quasi che io fossi morta, questo mi pare. Gli scendono le lacrime sulle guancie... - Il pianto, sessantacinque, - disse Formosa a se stesso, come se temesse che qualcuno lo udisse. - Leva la mano, per salutarmi... - Guarda quante dita solleva, guarda bene, non ingannarti! - Tre dita: mi saluta, mi saluta, se ne vuole andare.. - Digli che ritorni, pregalo, pregalo... - Accenna col capo di sì, - riprese, dopo una lieve pausa Bianca Maria, - se ne va, se ne è andato, è scomparso... - Lodiamo Iddio, - gridò Cavalcanti, inginocchiandosi ai piedi del letto. - Tre le dita, inque la mano, essantacinque il pianto, isogna sapere che numero fa la fanciulla morta, ingraziamo il Signore!... - Sì, sì, - mormorò la ragazza, con accento bizzarro, - bisogna che vediate quanto fa la fanciulla morta .. ..bisogna saperlo... - Lo sapremo, lo sapremo, - esclamò Formosa, ridendo come un folle. Non pensava più a sua figlia, la cui febbre era arrivata al più alto grado, con la violenza delle effimere he pare vogliano portare via in ventiquattr'ore un'esistenza. Ella affannava, bevendo l'aria dalla bocca schiusa, simile a un uccelletto che muore: il sangue batteva così precipitosamente alle pareti delle vene che sembrava le spezzasse, e tutto quel fragile corpo abbruciava come un ferro rovente. Invece, il marchese di Formosa era in preda a una impazienza giovanile: due volte era andato alla finestra, per vedere se spuntava il giorno; ancora qualche ora da aspettare, per andare a giuocare il biglietto dello spirito. Pensava di non aver più denaro: come avrebbe giuocato? Non una lira, era una cosa feroce, questa continua sete che nulla arriva a soddisfare! Oh, ma li avrebbe trovati i denari per giuocare, avesse dovuto vendere gli ultimi mobili di casa e mettere in pegno la propria persona; li avrebbe trovati, perdio, ora che la rivelazione era stata fatta, ora che lo spirito assistente si era degnato entrare nella sua casa! La sua fortuna era nelle sue mani, ci avrebbe rimesso tutto, per giuocare tutto sul biglietto dello spirito. Oh! Ecce Homo, Ecce Homo i casa Cavalcanti, eravate stato voi a fare quella grazia, per voi ci voleva una cappella apposta e quattro lampade di argento massiccio, sempre accese, in memoria della grazia che avevate fatto. I denari li avrebbe fatti trovar anche lui, l' Ecce Homo, l buono e potente Ecce Homo, rotettore della casa: i denari, i denari per giuocare! E trascinato dal suo fervido, appassionato pensiero, il marchese Cavalcanti parlava ad alta voce, passandosi la mano nei capelli, gesticolando, dandosi a girare nella stanza, come un pazzo. Sottovoce, poiché le mancava il respiro, Bianca Maria continuava a delirare, con dolcezza, parlando a frasi vaghe, nominando adesso Maria degli Angioli o parlando ogni tanto, con una infinita malinconia, di un fresco e ridente paese di campagna, di un paese verde dove avrebbe voluto andare a vivere, laggiù, lontano, lontano. Ma il vecchio, infuocato dall'attesa, non ascoltava più sua figlia e mentre l'alba fredda di marzo sorgeva, in quella stanza si confondevano i due delirii, del padre e della figliuola, tragicamente. Alla livida e glaciale luce dell'alba, pallido e con gli occhi stralunati, il marchese di Formosa girava con passo vacillante pel suo appartamento, cercando nei cassetti vuoti e sui rari mobili, qualche cosa da vendere o da impegnare. Non trovava nulla e con le mani brancolanti tornava ad aprire i cassetti, battendoli forte, macchinalmente, e si guardava attorno con la follia nello sguardo, pensando di voler vendere o impegnare le nude mura di quella casa che era stata sua. Nulla, nulla! A poco a poco, divorati dal giuoco del lotto, erano scomparsi i gioielli di immenso valore, le pesanti argenterie antiche e moderne, i quadri dei grandi pittori, i libri preziosi, le rarità artistiche di bronzo, d'avorio, di legno scolpito: la casa si era denudata, rimanendovi solo i mobili che sarebbe stato vergognoso voler impegnare o vendere. Ahi, che non trovava nulla per far denaro, per giuocare i numeri dello spirito. Egli si torceva le mani dalla disperazione, mentre aveva lasciata Bianca Maria nel sopore affannoso, febbrile, in cui ancora qualche confusa parola le sfuggiva, mentre i due vecchi servi ancora dormivano. Entrò finanche nella cappella, come un pazzo: ma le lampade che vi ardevano, erano di ottone: ma le frasche, ull'altare, egli stesso le aveva comprate, di metallo in imitazione d'argento, quando aveva venduto quelle di argento vero: pensò per un momento a prendere la coroncina di argento dal capo della Madonna Addolorata e di toglierle dal cuore quelle sette spade d'argento, le piccole spade che raffigurano i dolori della Gran Madre straziata, ma lo trattenne un timore mistico. Uscì, senz'aver potuto neppur dire una preghiera, tanto lo tenea, in quell'alba, l'allucinazione della notte, e la fretta febbrile della mattinata di sabato. Pensava, ora, a chi avesse potuto chieder denaro in prestito: ma non trovava la persona e si stringeva le tempie tumultuose fra le mani, per concentrarsi, per arrivare a ottenere lo scopo. Tutti gli amici del suo ceto, i suoi larghi parenti, dopo la morte di sua moglie, si erano allontanati da lui, ma solo dopo che egli li aveva messi a contribuzione, tutti quanti, per giuocare. Gli amici di adesso? Tutti giuocatori: tutti, in quella mattina, faceano dei tentativi disperati per giuocare ancora, e non prestavano, certo, denaro, ognuno pensava a sé, cercava per sé. Amici nuovi? Quella passione non gliene aveva fatti trovare, fuori di quella morbosa cerchia di pazzi, dannosi come lui. E ci voleva molto denaro, molto, poiché lo spirito si era degnato di rivelarsi: bisognava far fortuna in quel giorno, o mai più. A un tratto, un lampo di luce lo colpì: un nome gli si era affacciato alla mente. Costui gli potea dare del denaro; era un galantuomo, ne avea molto, del denaro, non avrebbe rifiutato un piccolo prestito a un Formosa. E mentre, seduto presso la sua scrivania, sopra un foglietto strappato da un taccuino pieno di cifre, egli scriveva al dottor Antonio Amati, pensava che non era vergogna quel prestito chiesto a un estraneo, poiché egli avrebbe restituito quel denaro la sera istessa. uando ebbe scritto, un pensiero lo fece tremare: e se Amati dicesse di no? Era un indifferente, un estraneo, il denaro indurisce tutti i cuori. - Porta questa lettera al dottor Amati e torna qui - egli disse a Giovanni, che si era presentato, mal desto, al suono del campanello. - Dormirà... - Porta! - comandò Formosa. E si mordeva le labbra, adesso, sicuro che Amati avrebbe rifiutato, sentendo il rossore della vergogna salirgli alle guance. Ma doveva aver denaro, ne doveva avere, a qualunque costo! Buttato sulla poltrona, guardando, senza vederle, le cifre scritte sulle carte disperse sulla scrivania, egli si sentiva vincere da quella collera irrefrenabile della passione, alle prese con la realtà. - Quando si sveglia, darà la risposta, - disse Giovanni, rientrando, e aspettando in silenzio gli ordini del suo padrone. - Giovanni, dammi l'altro denaro che hai, - disse sordamente Formosa. - Non ne ho, Eccellenza... - rispose l'altro, assalito da un tremito. - Non dir bugie: hai altre cinquanta lire, dammele subito... - Eccellenza, le ho prese in prestito da un usuraio, debbo restituirle a tanto la settimana, non me le togliete... - Non me ne importa niente, - disse superbamente Carlo Cavalcanti. - Non me le togliete, Eccellenza, se sapeste a che servono... - Non me ne importa niente, - replicò ferocemente il marchese. - Dammi le cinquanta lire... - Servono per far mangiare la marchesina... - Non me ne importa niente! - urlò Formosa. - Quando è così, ubbidisco, - disse disperatamente il servo. E cavò le altre cinquanta lire; il marchese le afferrò con l'atto di un ladro e se le mise in tasca rapidamente. - Tua moglie anche ha denaro, cercaglielo, - riprese Cavalcanti, freddamente. - Chi glielo ha dato, a mia moglie? - Ne ha: fattelo dare e portalo qui. Risparmiami una scena. Se tua moglie nega, potete andarvene dalla mia casa, subito. - Nossignore, nossignore, Eccellenza: vado subito, - disse umilmente il servo. Ma di là, vi fu la scena. Il dialogo fra marito e moglie fu lungo, agitato, la donna non voleva lasciarsi portar via il denaro: gridava piangeva, singhiozzava. Alla fine vi fu un silenzio: e poi come un lamento. Giovanni rientrò, con la vecchia faccia sconvolta, più curvo, quasi colpito da un tremor paralitico. E deponendo altre cinquanta lire sulla scrivania, in silenzio, con gli occhi rossi delle scarse e brucianti lacrime dei vecchi, egli colpì tanto il marchese, che costui, placato a un tratto, disse bonariamente: - Sono trecento lire, fra ieri sera e stamattina: stasera avrete tutto. - E il pranzo di oggi? - Verrò io, alle quattro, disse vagamente il marchese. - La signorina è ammalata, vorrà un po'di brodo, stamane - mormorò il servo. Allora, cercandosi in tasca, con la smorfia dolorosa dell'avaro, il marchese di Formosa diede tre lire al servo, seguendole con lo sguardo avido. Avevano bussato, Formosa trasalì, era la risposta del dottor Amati: non importa, adesso, se diceva no! Ma come ebbe nelle mani la busta, alla divinazione del tatto comprese che i denari chiesti vi erano, e rosso di gioia, si mise la busta in tasca senz'aprirla. Usciva, adesso, usciva alle otto del mattino, come se lo portasse un soffio irresistibile: usciva senza voltarsi indietro, a guardare la figlia inferma, la sua casa nuda, i suoi servi piangenti che gli avevano dato tutto, il suo vicino a cui egli non aveva pagato le visite e a cui aveva osato chieder del denaro in prestito: usciva, portando seco trecentocinquanta lire, che avrebbe messe tutte sul biglietto dello spirito, mentre aveva lasciato digiuni i due poveri vecchi servi, e aveva lesinato sopra un po'di brodo per Bianca Maria. Niuno lo rivide, in casa, sino al pomeriggio. La fanciulla era restata a letto, vinta dalla febbre, ardendo, respirando faticosamente chiedendo ogni tanto da bere, niente altro. Margherita si era seduta accanto al letto, dicendo mentalmente il rosario, due o tre volte, per lasciar passare le ore: e ogni tanto metteva la mano sulla fronte dell'inferma, sgomentandosi del calore. La malata taceva: dormiva, con la respirazione oppressa. A un tratto, aprendo gli occhi, disse nitidamente a Margherita: - Chiamami il dottore... - Ora non sarà in casa. - Quando ritorna... E richiuse gli occhi. Il dottore non venne che alle quattro e mezzo. Si fermò sulla soglia della cameretta, odorando l'aria di febbre. - Potevate chiamarmi prima, - disse ruvidamente a Margherita. - Oh Vostra Eccellenza, se potessi dirvi. Egli le ordinò di tacere. La malata lo guardava coi suoi belli e dolci occhi, sbarrati, e gli tendeva la mano. E il forte uomo, dalla testa poderosa, dalla faccia genialmente brutta, prese, innanzi a quella fragile creatura, quella profonda aria di tenerezza che gli sgorgava spontanea dal cuore. Il medico sentì subito che quella febbre sarebbe finita: già decadeva, con la rapidità delle effimere: ma a lui restava confitta in cuore la spina di quella povera esistenza, traballante fra la vita e la morte, vinta da un morbo di cui egli non trovava le cause. - Ora vi ordino una medicina, - disse lui, dolcemente, alla malata, tenendone la mano fra le sue. - No - disse lei, piano. - Non la volete? - Ascoltate, - disse lei, attirandolo a sé, per farsi udir meglio. - Portatemi via. Tremava, dicendo questo. Antonio, improvvisamente pallido, colpito da una emozione indicibile, non potette neppure risponderle. - Portatemi via, - soggiunse ella, umilmente, come se lo supplicasse. - Sì, cara, cara, - balbettò lui. - Dove voi volete, subito... - In campagna, lontano, - sussurrò la poveretta, - dove non si vedono fantasmi, nella febbre, dove non ci sono ombre, né spettri paurosi... - Che dite? - disse lui, sorpreso. - Niente, portatemi via... in campagna, fra il verde, nella pace, con vostra madre... innanzi a Dio. - Oh cara, cara... - non seppe dire altro, il grande uomo, nel turbamento supremo, nella suprema dolcezza di quell'idillio. - Lontano... - mormorò, ancora ella, guardandolo coi grandi occhi buoni. E soli, dolcissimamente, castamente, senza parlarne, parlavano d'amore.

La bocca violetta era socchiusa; le palpebre terree erano abbassate. Pareva assai più piccola, come una fanciulletta adolescente. Non aveva sul volto che l'augusta impronta della morte che tutto placa, che a tutto indulge: non la serenità, ma la pace. Dalla soglia i due uomini guardavano il piccolo cadavere, dalle lunghe trecce nere fluenti lungo la persona: non entrarono. Immobili, ambedue tenevano gli occhi su quella piccola salma; e il dottore, teneramente, ripeteva, come fra sé, come un fanciullo che nulla potrà consolare: - Ci vogliono dei fiori, dei fiori… Il vecchio non lo udiva. Guardava sua figlia morta, e senza parlare, senza trarre un sospiro, piegò il suo gran corpo, e s'inginocchiò sulla soglia, tendendo le braccia, chiedendo perdono, come il vecchio Lear innanzi al cadavere della dolce Cordelia.

Di profilo si vedeva una guancia delicata, delicatamente rosea, e una grossa treccia castana modestamente ravviata e stretta sulla nuca, si vedeva l'angolo di una bocca fine, e l'ombra che le lunghe ciglia abbassate gittavano sull'alto delle guancie. La giovane cucitrice, da un'ora che la folla si addensava nel cortile, non aveva guardato che un paio di volte giù, gittandovi una breve occhiata indifferente, e riabbassando subito la testa sull'ingranaggio lucido della macchina, trasportando lentamente con le mani il pezzo di tela, perché la cucitura venisse diritta, diritta. Nulla la distraeva dal suo lavoro, né le voci, né le vive esclamazioni, né il calpestìo crescente della folla; ella non aveva guardato mai sul terrazzino coperto, dove si sarebbe proclamata l'estrazione, fra poco. La gente la guardava, di basso, la delicata e infaticabile cucitrice di bianco, ma ella proseguiva quietamente nel suo lavoro, come se neppure un eco di quella gran passione, fra segreta e palese, arrivasse sino a lei; ella sembrava così lontana, così schiva, così assorta in un mondo assolutamente staccato, diverso, che la fantasia poteva supporla più una immagine che una realtà, più una figura ideale che una persona vivente. Ma, ad un tratto, un lungo grido di soddisfazione uscì dal petto della folla, variato in tutti i toni, saliente alle note più acute e scendente alle note più gravi: il grande balcone della terrazza si era schiuso. La gente che aspettava nella via cercò di penetrare nell'androne, quella che era nell'androne si accalcò nel cortile: vi fu come un serramento, mentre tutte le facce si levavano, prese da un'ardente curiosità, prese da un'angoscia ardente. Un grande silenzio. E guardando bene al moto delle labbra di certe donne, si vedeva che pregavano: mentre Carmela, la fanciulla dall'attraente volto consumato e dagli occhi neri infinitamente tristi, giocherellava con un cordoncino nero che le pendeva dal collo, e a cui erano attaccati una medaglina della Madonna Addolorata e un piccolo corno di corallo. Silenzio universale: di aspettazione, di stupore. Sul terrazzino, due uscieri del Regio Lotto avevano collocato un lungo e stretto tavolino coperto di un tappeto verde; e dietro il tavolino, tre seggioloni, perché vi sedessero le tre autorità: un consigliere di prefettura, il direttore del Lotto a Napoli, e un rappresentante del municipio. Sopra un altro piccolo tavolino fu collocata l'urna, per i novanta numeri. È grande, l'urna; tutta fatta di una rete metallica, trasparente, a forma di limone, con certe strisce di ottone che vanno da un capo all'altro, cingendola come i circoli del meridiano circondano la terra: sottili strisce luccicanti che ne assicurano la forza, senza impedirle la perfetta trasparenza. L'urna è sospesa, in aria, fra due piuoli di ottone, e presso un piuolo c'è un manubrio, anche metallico, che, voltato, fa rapidamente virare sul suo asse tutta l'urna. I due uscieri che aveano portato tutto questo materiale fuori il terrazzino erano vecchi, un po' curvi, come sonnacchiosi. Anche le tre autorità, in soprabito e cappello a cilindro, sembravano annoiate e sonnolente, sedendosi dietro il tavolino: così il consigliere di prefettura dai mustacchi tinti di un nero fortissimo, che pareva avessero stinto in bruno, sul bruno volto lucido e assonnato: così un consigliere comunale, che era un giovanotto dalla barbetta scura. Questa gente si muoveva lentamente, con una misura di movimenti, con una precisione di automi, tanto che un popolano, dalla folla, gridò: - Andiamo, andiamo! Di nuovo, silenzio, ma vi fu un grande ondeggiamento di emozione, quando comparve sulla terrazzina il fanciulletto che doveva estrarre dall'urna i numeri dell'estrazione. Era un fanciulletto vestito della bigia uniforme dell'Albergo dei Poveri, un povero fanciulletto del Serraglio, ome i napoletani chiamano l'ospizio di quelle creature abbandonate, un povero serragliuolo enza enzamadre e senza padre, o figliuolo di genitori che, per miseria o per crudeltà, avevano abbandonato la loro prole. Il fanciulletto, aiutato da uno degli uscieri, indossò, sull'uniforme da serragliuolo, na tunica di lana bianca: un berretto bianco, anche di lana, gli fu messo sulla testa, perché la leggenda del Lotto vuole che il piccolo innocente porti la veste bianca dell'innocenza. E lestamente salì sopra uno sgabello, per trovarsi all'altezza dell'urna. Di sotto, la folla tumultuava: - Bel figliuolo, bel figliuolo! - Che tu possa essere benedetto! - Mi raccomando a te e a San Giuseppe! - La Madonna ti benedica le mani! - Benedetto, benedetto! - Santo e vecchio, santo e vecchio! Tutti gli dicevano qualche cosa, un augurio, una benedizione, un desiderio, un'invocazione pietosa, una preghiera. Il bambino taceva, guardando, con la manina appoggiata sulla rete metallica dell'urna; e un po' discosto, appoggiato allo stipite del balcone, v'era un altro bambinetto del Serraglio, serio serio, malgrado le rosee guance e i biondi capelli tagliati sulla fronte: era il fanciulletto che doveva estrarre i numeri il sabato prossimo e che veniva là per imparare, per assuefarsi alla manovra dell'estrazione e ai gridi della folla. Ma di lui nessuno si curava: era quello vestito di bianco, quello di quel giorno, a cui si rivolgevano le mille esclamazioni della gente; era la piccola anima innocente biancovestita, che faceva sorridere di tenerezza, che faceva venire le lagrime agli occhi a quella folla di esseri tormentati, e speranzosi solo nella Fortuna. Alcune donne avevano sollevato nelle braccia i propri fanciullini e li tendevano verso il piccolo serragliuolo. le voci, tenere, appassionate, straziate, continuavano: - Pare un piccolo san Giovanni, pare! - Che tu possa trovare sempre grazia, se mi fai fare questa grazia! - Core di mamma, quanto è caro! Subito vi fu una diversione. Uno degli uscieri prendeva il numero da mettere nell'urna, lo mostrava spiegato al popolo, annunziandolo a voce chiara, lo passava alle tre autorità, che vi gettavano sopra un'occhiata distratta. Uno dei tre, il consigliere di prefettura, chiudeva il numero in una scatoletta rotonda, il secondo usciere lo passava al fanciulletto biancovestito che lo buttava subito nell'urna, dalla piccola bocca di metallo aperta. E a ogni numero che si annunziava, vi erano esclamazioni, strilli, sogghigni, risate. A ogni numero il popolo applicava la sua spiegazione, ricavata dal Libro dei sogni dalla Smorfia o da quella leggenda popolare che si propaga senza libri, senza figurine. Ed erano scoppii di risa, erano grassi scherzi erano interiezioni di paura o di speranza: il tutto accompagnato da un clamore sordo, come se fosse il coro in minore di quella tempesta. - Due! - …la bambina! - …la lettera! - … fammi arrivare questa lettera. Signore! - Cinque! - …la mano! - … in faccia a chi mi vuol male! - Otto! - …la Madonna la Madonna, la Madonna! Ma come ogni dieci numeri, chiusi nelle loro scatolette rotonde, bigie, erano stati buttati nell'urna dell'estrazione dal piccolo serragliuolo estito di lana candida, il secondo usciere chiudeva la bocca dell'urna, e, voltando il manubrio di metallo, le imprimeva un moto di giro sul suo asse, facendo rotolare, ballare, saltare i numeri. E di giù si gridava: - Gira, gira, vecchiarello! - Ancora un giro per me! - Dammi la giusta misura! I cabalisti, quelli non parlavano, non guardavano neppure i giri dell'urna: per essi non esisteva né il bimbo innocente, né il senso dei numeri, né il giro lento o vivace della grande urna metallica: per essi esisteva solo la Cabala, la Cabala oscura e pur limpidissima, la gran fatalità, dominante, imperante, che sa tutto, che può tutto e che tutto fa, senza che niun potere, umano divino, vi si possa opporre. Essi soli tacevano, pensosi, concentrati, anzi disdegnosi di quella forte gazzarra popolare, assorti in un mondo spirituale, mistico, aspettando con una profonda sicurezza. - Tredici! - …le candele! - …il candelotto, la torcia; smorziamola questa torcia! - … smorziamo, smorziamo! - rombava il coro. - Ventidue! - …il pazzo! - …il pazzarello! - …come te! - …come me! - …come chi giuoca alla bonafficiata Il popolo si sovreccitava. Lunghi fremiti correvano per la folla, che ondeggiava come se l'agitasse lo stesso bizzarro movimento del mare. Le donne, specialmente, erano diventate nervose, convulse, e stringevano nelle loro braccia i bimbi, così fortemente da farli impallidire e piangere. Carmela, seduta sull'alto macigno, aveva la mano raggricchiata intorno alla medaglina della Madonna e al piccolo corno di corallo: donna Concetta, la usuraia, dimenticava di rialzarsi lo sciallo di crespo nero che le cadeva sui fianchi poderosi, mentre le labbra avevano un breve moto convulso. Ed era affogato, il trillo sordo della macchina da cucire, sul balcone del primo piano: niuno più si curava della infaticabile cucitrice di biancheria. La febbre del popolo napoletano nella imminenza del sogno che stava per divenir realtà, si faceva sempre più acuta, dando un più vivo e più lungo sussulto quando veniva chiamato un numero popolare, un numero simpatico: - Trentatré! - … anni di Cristo! - … anni suoi! … questo esce. - …non esce! - …vedrete che esce! - Trentanove! - …l'impiccato! - … nella gola, nella gola! - …così debbo vedere chi dico io! - …stringi, stringi! Imperturbabili, sul terrazzino, le autorità, gli uscieri, il fanciulletto vestito di bianco, continuavano la loro opera, come se tutto quel tumulto di gente non arrivasse alle loro orecchie: solo l'altro bimbo, nuovo a quello stravagante spettacolo, guardava giù, dalla ringhiera, stupito, pallido, con le rosse labbrucce gonfie, come se volesse piangere: piccola anima inconscia e smarrita fra il turbine della profonda passione umana. L'operazione, sul terrazzino, procedeva con la massima calma: a ogni nuova diecina di numeri messi nell'urna, l'usciere la faceva girare più a lungo, facendo ballare e saltellare le pallottoline allegramente fra la trasparente rete di metallo. Non si scambiava una parola, lassù, non un sorriso: la febbre restava all'altezza delle persone, nel cortile, non saliva al primo piano. Giù, adesso, le persone più serie ridevano convulsamente, sottovoce, crollavano il capo, come se si fosse loro comunicato il morbo nella forma più chiassosa. L'operazione parve si affrettasse, verso la fine. Nuovi gridi accolsero il settantacinque che è il numero di Pulcinella e il settantasette che è quello del diavolo; ma un lungo, lunghissimo applauso salutò il novanta, l'ultimo numero, anzitutto perché era l'ultimo, poi perché il novanta è un numero estremamente simpatico: novanta fa la paura: ovanta fa il mare: ovanta fa il popolo: insieme ha altri cinque o sei significati, tutti popolari. Tutti applaudivano, nel cortile, uomini, donne, fanciulli, al gran novanta, che è l'omega del lotto. Poi, subito, come per incanto, un silenzio profondo si fece: una immobilità arrestò tutti quei corpi, tutte quelle facce, - la gran gente convulsa parve pietrificata nei sentimenti, nella parola, negli atti, nella espressione. Il primo usciere, quello che aveva dichiarato i novanta numeri, accostò alla balaustra una tabella di legno, lunga e stretta, a cinque caselle vuote, simile a quella dei bookmakers sui campi delle corse, mentre l'altro usciere dava gli ultimi giri all'urna riempita di tutti i novanta numeri. La tabella era voltata verso il popolo. Poi il consigliere scosse un campanello: il giro dell'urna si arrestò: il terzo usciere mise una benda sugli occhi del bimbo biancovestito; costui lestamente immerse la manina nell'urna aperta e cercò un momento, un momento solo, cavando subito una pallina col numero. Mentre questa pallina passava di mano in mano, giù, da quei petti pietrificati, da quelle bocche pietrificate, uscì un sospiro cupo, tetro, angoscioso. - Dieci, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo subito nella prima casella. Mormorio e agitazione fra il popolo: tutti coloro che avevano sperato nel primo estratto erano delusi. Nuova scossa di campanello: il bimbo immerse, per la seconda volta, la manina delicata nell'urna. - Due, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo nella seconda casella. Al crescente mormorio qualche bestemmia soffocata si aggiunse: tutti quelli che avevano giuocato il secondo estratto erano delusi: tutti quelli che avevano sperato di prendere quattro numeri erano delusi: tutti quelli che avevano giuocato un grosso temo secco cominciavano a temere fortemente la delusione. Tanto che, quando per la terza volta la manina del fanciulletto penetrò nell'urna, qualcuno gridò, angosciosamente: - Cerca bene, scegli bene, bambino! - Ottantaquattro, gridò l'usciere, dichiarando il numero e collocandolo nella terza casella. Qui scoppiò il grande urlo d'indignazione, fatto di bestemmie, di lamenti, di esclamazioni colleriche e dolorose. Questo terzo numero, cattivo, era decisivo, era decisivo per l'estrazione e per i giuocatori. Con l'ottantaquattro erano delusi già tutti quelli che avevano giuocato il primo, il secondo e il terzo estratto; erano delusi tutti quelli che avevano giuocato la quintina, la quaterna, il terno, il terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giuocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una volta sola, per caso: il terno che è la parola fondamentale di tutti quei desiderii, di tutti quei bisogni, di tutte quelle necessità, di tutte quelle miserie. Un coro di maledizioni si levava, di giù, contro la mala fortuna, contro la mala sorte, contro il Lotto e contro chi ci crede, contro il governo, contro quello sciagurato ragazzo che aveva la mano così disgraziata. Serragliuolo, serragliuolo! ridavano da basso, per insultarlo, mostrandogli il pugno. Dal terzo al quarto numero passarono due o tre minuti; ogni settimana accadeva così: il terzo numero era l'espressione paurosa della infinita delusione popolare. - Settantacinque, dichiarò con voce più fiacca l'usciere, mettendo il numero estratto nella quarta casella. Tra le voci irose che non si calmavano, qualche fischio risuonò, vendicativo. Le ingiurie piovevano sul capo del bimbo; ma le maggiori imprecazioni erano contro il Lotto dove non si può vincere mai, mai, dove tutto è combinato perché non si vinca mai, mai, specialmente per la povera gente. - Quarantatrè, - finì di proclamare l'usciere, collocando il quinto ed ultimo numero. E un ultimo soffio di collera, fra il popolo: niente altro. In un momento, dal terrazzino scomparve tutta la fredda macchina del lotto: sparvero i due bimbi, le tre autorità, l'urna con gli ottantacinque numeri e il suo piedistallo, sparvero tavolini, seggioloni, uscieri, si chiusero i cristalli e le imposte del grande balcone, in un momento. Sola, ritta, accosto alla balaustra, rimase la crudele tabella, coi suoi cinque numeri, quelli, quelli, la grande fatalità, la grande delusione. Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e li aveva abbattuti, come se avessero le braccia e le gambe spezzate, la bocca amara di bile: quelli che avevano giuocato tutt'i loro denari, quella mattina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di cuccagna nella fantasia, sognando per quella sera di sabato e per la domenica e per tutti i giorni successivi, tutta una spanciata di pranzi grassi e ricchi, divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l'infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco: altri, i più folli, caduti dall'altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti - ed erano questi folli disperati che ancora figgevano gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri, con la lunga lista bianca delle loro bollette da giuoco: - e i cabalisti, infine, non se ne andavano ancora, discutendo fra loro come tanti filosofi, come tanti loici, sempre concentrati nell'alta matematica del lotto, dove vivono le figure, e e cadenze, e triple, a ragione algebrica del quadrato maltese le immortali elucubrazioni di Rutilio Benincasa . Ma in quelli che se ne andavano, come in quelli che restavano lì, inchiodati dalla loro passione, in quelli che discutevano furiosamente, come in quelli che abbassavano la testa, smorti, perduti di coraggio, senza più forza di agire e di pensare, variava la forma della desolazione, ma la sostanza della desolazione era la stessa, profonda, intensa, faciente sanguinare le più intime fibre, intesa a distruggere le stesse sorgenti dell'esistenza. Il lustrino Michele, lo sciancato, sempre seduto per terra, con la sua cassetta nera fra le gambe contorte, aveva udito l'estrazione senza levarsi, nascosto dietro le persone che si accalcavano. Ora, mentre la folla sfilava pian piano, egli avea chinato il capo sul petto e la gialla tinta del suo volto di vecchio rachitico si era colorata di verde, come se tutta la bile gli fosse salita al cervello. - Niente? - domandò una voce sorda accanto a lui. Egli levò macchinalmente gli occhi bigi dalle palpebre rosse e vide Gaetano, il tagliatore di guanti, che mostrava nel volto scialbo l'accasciamento degli esaltati delusi. - Niente, - disse breve breve il lustrino, riabbassando gli occhi. - E niente pur io. Ci hai cinque o sei soldi, per combinazione, compare? Lunedì te li ridò. - Chi me li dà? Se ne hai dieci, facciamo cinque per ciascuno, - mormorò disperatamente il lustrino. - Addio, compare, - disse, con voce rude, il tagliatore di guanti. - Addio, compare, - rispose, nel medesimo tono, il lustrino sciancato. Ma mentre Gaetano si allontanava, sotto il portone, passò accanto a lui, seria, lenta, con gli occhi abbassati, donna Concetta, dalla catena d'oro che le ondeggiava sul petto e dalle mani inanellate. - Avete guadagnato nulla, Gaetano? - domandò ella, con un lieve sorriso. - Ho preso una saetta che mi colga! - gridò lui, esasperato dal trovarsi accanto l'usuraia, che gli ricordava tutta la sua miseria, esasperato dalla domanda in quel momento. - Va bene, va bene, - ribatté ella, freddamente. - Ci vediamo lunedì, non vi dimenticate. - Non me lo dimentico, no, vi tengo in cuore, come la Madonna, - le gridò appresso, lui, con voce fischiante. Ella crollò il capo, andandosene. Non veniva là per interessi suoi, perché ella non giuocava mai; e neppure per tormentare qualche suo debitore, come Gaetano; veniva per interesse di sua sorella, donna Caterina, la tenitrice di giuoco piccolo, he non osava presentarsi lì, in pubblico. Donna Caterina comunicava a sua sorella i numeri che più temeva, cioè quelli che più erano stati giuocati da lei e per cui avrebbe dovuto pagare più forti somme: se questi numeri temuti uscivano, allora donna Concetta spiccava un ragazzino a sua sorella, la quale era pronta a far fagotto, per non pagare nessuno. Già tre volte aveva fatto fallimento così, col denaro delle giuocate in tasca, donna Caterina: ed era fuggita una volta a Santa Maria di Capua, una volta a Gragnano, una volta a Nocera dei Pagani, restandovi un paio di mesi; ed aveva avuto il coraggio di ritornare, affrontando i giuocatori delusi, con alcuni servendosi dell'audacia, ad altri dando pochi soldi, ricominciando il giuoco, mentre i rubati, i truffati, i delusi, ritornavano a lei, incapaci di denunziarla, ripresi dalla febbre, o tenuti in rispetto da donna Concetta, a cui tutti dovevano del denaro; e la speculazione continuava, il denaro passava da una sorella all'altra, dalla tenitrice di banco che sapeva fallire a tempo, alla strozzina che osava affrontare i più malintenzionati fra i suoi debitori. Né questa fuga era considerata come un delitto, come un furto, da donna Caterina e dalla sua clientela; forse che, più in grande, non fa così anche il governo, che ha assegnato una dote di sei milioni per ogni estrazione e per ogni ruota elle otto, e quando, per una rarissima combinazione, le vincite sorpassano i sei milioni, non fallisce anche il governo, diminuendo l'entità delle vincite? Oh, ma quel giorno non vi era bisogno, per donna Caterina, di fallire, di fuggire; i numeri estratti erano così cattivi, che non aveva vinto nessuno dei suoi giuocatori, forse; e donna Concetta se ne risaliva pian piano, per via Santa Chiara, senz'affrettarsi, sapendo che quello era un sabato desolante per tutta Napoli che giuoca, e preparandosi alle sue battaglie di usuraia, del lunedì. Le passavano accanto, tutte quelle creature infelici, dalle speranze infrante: ed ella crollava il capo, saggiamente, su quelle aberrazioni umane, stringendo i lembi dello scialle di crespo nero, fra le mani inanellate. Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell'Impresa, dove ancora qualche persona si tratteneva. Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi, che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po' gracile solamente, le abbassava il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull'alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino: - Oh, Carmela! - Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso. - Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh… già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì. - Non l'ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta. - Ti assicuro che non vi era affatto. - Non lo avrai visto, - ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, iamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature! E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. - E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l'altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l'innamorato mio e…un'altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un'ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l'altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò. - Oh, povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. - Deve venire quel giorno, deve venire… - susurrò l'appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. - Possa passare un angiolo e dire amen mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. - Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di' la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, - non hai niente da dare, ai bambini, oggi? - Niente, - disse con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l'altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te lo renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell'Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela. La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull'orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene. - Ebbene? - chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica. - Niente! - disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca. - E che ti pare! - esclamò il giovanotto, irosamente. - La femmina sempre femmina è. - Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? - disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata. - Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti uoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te… - Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. - Non me lo dire più. - Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo! - Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? - osò chiedere, ella. - Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire? - Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca. - Possa morire uccisa la miseria! - bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. à qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie. - Non ci passi, per casa? - pregò lei con gli occhi, con la voce. - Se ci passo, passerò assai tardi. - Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, - disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona. - E non mi posso fermare… - Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare? - E va bene, - annuì lui, con indulgenza, - va bene. Addio, Carmela. - Addio, Raffaele. Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell'Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi. La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, - mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant'anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall'anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n'era, al giuoco del lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti. Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l'acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall'androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente: - Donna Rosa, volete chiamare Maddalena? Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano: - Maddalena, Maddalena! - Chi è? - rispose una voce roca, dall'interno. - Tua sorella ti vuole; scendi. - Ora vengo - disse la voce, più piano. - Grazie, donna Rosa, - mormorò Carmela. - Poco a servirvi, - rispose l'altra, brevemente, allontanandosi. Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l'androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un'alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, - la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa. Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po' smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno. - Come stai? - disse con voce tremula Carmela. - Sto bene, - fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. - E mamma come sta? - Come una vecchiarella… - Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta? - Oh quella sta piena di guai… - Miseria, eh? - Miseria. Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso. - Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, - disse finalmente Carmela. - Niente, eh? - Niente. - È cattiva sorte la mia, - mormorò Maddalena, a bassa voce. - Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all'Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all'Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!… - La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, - disse piano, Carmela, - speriamo quest'altro sabato. - Così speriamo, - rispose l'altra, umilmente. - Addio, Maddalena. - Addio, Carmela. Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell'androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alle cinque e mezzo il cortile dell'Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell'Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell'Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l'usciere li riportava all'Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all'usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l'ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

Dopo san Giuseppe e dopo sant'Andrea Avellino, ambedue protettori della buona morte quindi carissimi agli immaginosi napoletani che hanno la più grande paura della morte; dopo sant'Alfonso de'Liguori, che viene dolcemente e familiarmente chiamato cuolIo storto, erché ha la testa inclinata sopra una spalla; dopo san Vincenzo Ferreri che porta la fiamma dello Spirito Santo sulla testa e ha il libro della Legge aperto fra le mani; dopo che tutti questi santi popolarissimi erano passati fra le esclamazioni, i gridi, i sorrisi, le tenere invettive, un bel santo, così lucido, che pareva allora allora uscito dalle mani del cesellatore con la faccia rotonda e bonaria, con le mani schiuse e abbassate quasi a lasciar piovere grazie, era comparso, uscendo dal Duomo. Era san Pasquale Baylon, il santo protettore delle ragazze, quello cui esse fanno la novena per trovar marito, san Pasquale che manda il marito alle fanciulle, un santo accomodante, giocondo: e tutte le zitelle ne conoscono l'effigie, tutte lo riconobbero, quando egli apparve. E da un balcone dove era un'insegna di sarta, madama Juliano, ove stavano Antonietta, la bionda sartina con la sua amica Nannina, dalle mani della bionda Antonietta cadde, lentamente roteando, una rosa sul braccio di san Pasquale e tutte sentendo l'omaggio, il desiderio, in quell'atto, dai balconi, dalla via, una gran quantità di rose e di garofani furono lanciati a san Pasquale. -… come voi, tal quale, o beato san Pasquale, - pregavano le ragazze, alludendo al marito. Ora la processione si affrettava un poco; i santi passavano più presto, poiché l'impazienza della folla innanzi alla Cattedrale e per tutta la via del Duomo era diventata enorme. Correvano grandi brividi fra la gente: tutto quello sfolgorio di aureole di argento, di facce di argento, di mani di argento, tutto quel passaggio singolare sulle teste delle persone, e quell'allontanarsi laggiù, verso Forcella, e le continue nuove apparizioni argentee, nel grande vano nero della porta della cattedrale, avevano creata una emozione nervosa anche negli spettatori tranquilli. Cesarino Fragalà e l' l'assistito asqualino De Feo si erano fermati. anch'essi. sulla soglia di un caffeuccio, aspettando di veder passare la processione; e il mite pasticciere, che fuggiva oramai ogni giorno, quando poteva, la sua bottega di dolci per seguire il misterioso e scarno assistito, veva una faccia dove, all'antica giocondità giovanile e alla sicurezza della vita, si mescolava non so quale pallore morboso: una grave cura ne induriva le linee, ogni tanto. L' assistito, he ogni settimana pompava denari da tutto il gruppo dei cabalisti e da altri ancora, continuamente, aveva sempre quei suoi vestiti lerci e stracciati, quella sua biancheria non inamidata, sfrangiata al colletto e ai polsini, quelle sue cravatte aggrovigliate come un lucignolo, quella faccia gialla di febbricitante mal rimesso in salute, dove un sangue color mattone, indebolito, corrotto, veniva a mettere delle striature, simili ai filamenti malaugurati dello scirro. L'assistito si portava dietro, ormai, continuamente, Cesarino Fragalà, che si sforzava, col suo semplice cervello di commerciante, a tener dietro alle fantastiche elucubrazioni di don Pasqualino, non intendendole, arrovellandosi, prendendosela con sé stesso, per la sua mancanza di lucidità, per la sua mancanza di visione, accusando il proprio temperamento, troppo vivace, troppo sano, troppo grossolano, di non poter capire le malaticce spirituali raffinatezze di colui che aveva la fortuna di essere visitato e assistito dagli spiriti. Ora, don Pasqualino, assai chiaramente e a tutt'i suoi devoti, aveva detto che una gran fortuna sarebbe capitata loro, in quel sabato di maggio, consacrato al Prezioso Sangue di san Gennaro. Avidamente avevano intesa la parola, i giuocatori: da tante settimane, da tanto tempo, non avevano guadagnato un centesimo, i cabalisti! Salvo Ninetto Costa, l'agente di cambio che aveva fatto un grosso guadagno, con certi numeri datigli da un garzone vinaio, che era venuto a portargli una fattura da saldare, salvo l'avvocato Marzano che aveva preso un ambo di cinquanta lire, datogli dal ciabattino, nessun altro aveva guadagnato niente, malgrado il frate Illuminato, malgrado l' assistito malgrado gli spiriti buoni e cattivi, malgrado tutte le preghiere e tutte le cabale. Adesso, don Pasqualino che aveva succhiato molte ma molte centinaia di lire, in quell'inverno e in quella primavera, aveva detto che san Gennaro certamente avrebbe fatto una grazia, in quel primo sabato di maggio, e tutti i cabalisti ci avean creduto ed erano sparsi qua e là, tra la folla, per la via del Duomo, essendosi dati convegno pel vespero, a Santa Chiara. Ma Cesarino Fragalà, che più s'ingolfava nel vortice del giuoco e più si aggrappava all' assistito, vendo giuocato molto anche in quel sabato, non lo voleva lasciar più. Sottovoce, fra la gente, appena qualche santo compariva, l' assistito olgeva gli occhi al cielo e pregava fervorosamente: accanto a lui, distrattamente, Cesarino Fragalà si segnava. E tendeva l'orecchio, con ansiosa attenzione, alle parole che l' assistito ronunciava, quando un santo appariva. Ora passava santa Candida Brancaccio, una delle prime martiri cristiane napoletane, una giovanetta che guardava il cielo e che teneva nella mano destra una freccia lunga, la freccia dell'amor divino. Una voce gridò, fra la gente, prendendo la freccia per una penna: - Scrivi una lettera, per me, all'Eterno Padre, santa Candida! - Santa Candida scrive per voi, - soggiunse subito l' assistito, oltandosi a Cesarino Fragalà. - Così speriamo, così speriamo, - mormorò costui umilmente. Ma un clamore salutò san Biagio, un altro vescovo napoletano, che, nella statua, è effigiato in atto di benedire il popolo. Per due o tre anni la difterite, l'angina avevano terrorizzato il cuore delle madri napoletane, massimamente il cuore delle donne del popolo: e san Biagio è appunto il patrono dei mali di gola. Quando egli apparve, il santo d'argento, nella via, fra il clamore, vi fu un sollevamento di bimbi sulle braccia delle madri, dei padri, un tendere i piccoli figli a san Biagio, perché il santo vescovo li benedicesse e li liberasse dall'orribile flagello, che butta alla morte tanti bimbi innocenti. - San Biase, san Biase! - strillavano le madri, tenendo in alto i figli, convulse, singhiozzanti. Anche Annarella, la sorella di Carmela la sigaraia e di Maddalena l'infelice, aveva levato su i due figliuoli che le restavano: il più piccolo, dopo aver lungamente languito, era morto. Ah non l'avrebbe più aspettata sulla porta del suo basso seduto sullo scalino, mangiando un pezzo di pane, il povero piccolo Peppiniello, che pazientemente attendeva il ritorno di sua madre dal servizio, la povera creatura innocente! Non più, non più: Peppiniello era morto. Era morto di miseria, in un basso mido e puzzolente, mangiando male e scarsamente, dormendo coperto dai suoi vestitucci, attaccato a sua madre, per aver caldo: morto, morto, il piccolo fiore di sua madre, di miseria, morto per quella terribile bonafficiata, er quel terribile Lotto che perdeva Gaetano, il tagliatore di guanti, sino a fargli rubare il pane dei figli. Ah mai più si sarebbe consolata, Annarella, di quella morte! I due figliuoli che le restavano erano saggi, e buoni, e forti, ma non erano il suo piccolo fiore biondo e tenue; essi l'avevano trascinata a veder san Gennaro, e quando la misera ebbe visto in aria tanti piccoli, levò anche i suoi, piangendo, singhiozzando, pensando che il suo caro fiore non era stato salvato né da san Biase, né da san Gennaro, né da tutti i santi insieme del paradiso. Ma come l'ora si avanzava, l'emozione della gente cresceva, cresceva: ognuno era in preda a una commozione che si rinforzava dal minuto che trascorreva, che si raddoppiava dalla emozione del vicino. Agli occhi esaltati delle fanciulle, delle madri, dei poveri, degli infelici, degli sventurati colpevoli, di tutti quei bisognosi di soccorso, di soccorso morale e materiale, quella apparizione di santi diventava fantastica: li vedean passare in una visione luminosa, dove l'argento dell'aureola, del volto, della persona, dava riflessi abbaglianti, dove il nome finiva per sparire e rimaneva tutta la lunga processione di quelle beate immagini. La folla, oramai, confusa, stordita, fremente di mistica impazienza, non riconosceva più il gruppo degli antichissimi santi del primo tempo di Napoli, sant'Aspreno, san Severo, sant'Eusebio, sant'Agrippino e sant'Attanasio, santi vecchissimi, un po'oscuri, un po'ignoti: rumoreggiò come tuono, quando apparvero le statue dei cinque Franceschi che vegliano intorno a san Gennaro, nel Succorpo: san Francesco di Assisi, di Paola, di Geronimo, Caracciolo, Borgia; urlò nuovamente quando apparve sant'Anna, la madre della Madonna, a cui, dice il popolo, nessuna grazia è negata, mai: nessuno si occupò molto di san Domenico, l'inventore del rosario, poiché nessuno nella confusione di quell'ora pomeridiana, riconobbe il fiero monaco spagnuolo, salvo il fosco impiegato dell'Intendenza, don Domenico Mayer, che era stato respinto contro una muraglia dalla folla, e che teneva il cappello a cilindro abbassato sugli occhi, le braccia conserte in atto fiero e tetro sul soprabitone nero, e una dolorosa smorfia di scetticismo gli piegava le labbra. I santi passavano, passavano, sboccando dalla gran volta nera del Duomo, avviandosi verso Forcella, un po' più presto, adesso, e la folla si agitava a destra e a sinistra, quasi volesse liberarsi dall'incubo di quella attesa. La processione dei santi era lì lì per finire, durando da quasi un ora per la lentezza dell'incesso, finiva con san Gaetano Thiene, con l'angelico san Filippo Neri, con i santi dottori Tommaso e Agostino, finiva con santa Irene, con santa Maria Maddalena de' Pazzi, con la grande santa Teresa, in estasi, tutta ardore, tutta passione, la magnifica santa di Avila, che morì in una combustione di amor divino. Quando i santi cessarono la loro sfilata e i primi canonici della cattedrale comparvero, vi fu un immenso movimento nella gente che aspettava. Tutti tendevano il capo per veder meglio, per non perdere una linea dello spettacolo religioso, e l'attenzione era anche indomabile commozione. Finirono anche i canonici, e finalmente, sotto il grande pallio di broccato gallonato, frangiato di oro, pallido, con il volto raggiante di una espressione profonda di pietà, con le labbra che mormoravano una preghiera, apparve il Pastore della chiesa napoletana. Otto gentiluomini tenevano alti i bastoni del pallio: otto chierichetti, intorno, agitavano i turiboli fumanti d'incenso: e l'arcivescovo, che era un principe della Chiesa, un cardinale, camminava solo sotto il baldacchino, lentamente, con gli occhi fissi sulle proprie mani congiunte: e da tutte le genti che affollavano le vie, i portici, i balconi, le finestre e le terrazze, da tutte le donne che pregavano, da tutti i bambini che balbettavano il nome di san Gennaro, non al pallio, non ai paramenti d'oro, non alla mitria gemmata, si guardava: ma si guardava alle ceree mani congiunte dell'arcivescovo, si guardava teneramente, entusiasticamente, piangendo, gridando, chiedendo grazia, chiedendo pietà, magnetizzando ciò che l'arcivescovo stringeva fra le mani, tremanti di sacro rispetto. Lì, lì, tutti gli sguardi, tutti i sospiri, tutte le invocazioni. Il cardinale arcivescovo di Napoli teneva fra le mani le ampolline, dove era conservato il Prezioso Sangue. Nella grande e bella chiesa di Santa Chiara, tutta bianca di stucco e carica di dorature, simile a un amplissimo salone regale, la folla aspettava il miracolo di san Gennaro. Non era ancora notte, ma migliaia di ceri, sull'altar maggiore, nelle cappelle, e specialmente agli altari della Madonna e dell'Eterno Padre, illuminavano la vasta chiesa, ricca ed elegante. Sull'altar maggiore, sopra la bianca finissima tovaglia, in un piatto d'oro, era esposta la testa di san Gennaro, con la mitria vescovile gemmata, con la faccia rivestita d'oro: e più in mezzo erano le due ampolline del Prezioso Sangue coagulato, esposto alla venerazione dei fedeli. Intorno intorno all'altar maggiore, dentro la balaustra di legno antico scolpito che separa l'altar maggiore e un grande spazio dal resto della chiesa, erano le quarantasei statue di argento, che fanno la guardia di onore alle reliquie di san Gennaro: e innanzi all'altar maggiore il cardinale arcivescovo, insieme coi canonici, officianti il santo patrono di Napoli perché volesse fare il miracolo: dentro la balaustra, accanto all'altar maggiore, un solitario, e favorito, e fortunato gruppo di vecchi e di vecchie, tutti vestiti di nero, con fazzoletti e cravatte bianche al collo, gli uomini a capo scoperto, le donne col velo nero sui capelli, il gruppo osservato, commentato, invidiato da tutti gli altri devoti, il gruppo dei parenti di san Gennaro, il gruppo che solo aveva il diritto di salire sull'altar maggiore, di vedere il miracolo a mezzo metro di distanza. Poi l'immensa folla: nella grande unica navata di Santa Chiara e in tutte le cappelle laterali, fin fuori le due grandi porte, fin sugli scalini, fin nel chiostro di Santa Chiara, donde gli ultimi arrivati si rizzavano sulla punta dei piedi, presi dal bagliore di quelle migliaia di cerei, cercando di vedere qualche cosa, tormentandosi invano per spingersi un passo innanzi, mentre non vi era posto più per nessuno. E tutti agitati, inquieti, dal cardinale arcivescovo che orava, inginocchiato innanzi all'altare, all'ultima, umile femminetta del volgo, tutti attendevano che il divo Gennaro compisse il miracolo. Fervorosamente, col capo abbassato sulla sedia che aveva dinanzi, con la ingenua pietà del suo cuore giovanile, Bianca Maria Cavalcanti pregava, in quell'appressamento del miracoloso istante: pregava san Gennaro nel nome del suo Prezioso Sangue, di dar la pace al cuor di suo padre, di dar la fede al cuore di Antonio Amati: e candidamente, nella grande, saggia, profonda bontà dell'anima sua, nulla chiedeva per sé, bastandole che il cuore turbato, ammalato, straziato di suo padre avesse la tranquillità, bastandole che nel forte e fermo cuore di Antonio Amati, accanto all'amore umano, entrasse la più alta tenerezza dell'amore divino. Ecco, fra poco si sarebbe compito uno dei più grandi miracoli della religione: non poteva san Gennaro fare il miracolo in quei cuori, che essa adorava con tutte le sue forze? Bianca Maria, con le guance insolitamente accese di un sottil foco, di un sottil rossore, pregava con una forza contenuta di mistico entusiasmo, con una passione nova che era entrata a far divampare la sua gelida vita. Sull'altar maggiore, con la faccia volta al cielo, e traspirante una immensa fede, con la voce tremante di una commozione invincibile, il cardinale arcivescovo aveva detto le preghiere latine, dedicate al divo protettore di Napoli: e tutta la folla aveva risposto un lungo e tonante amen; amen vevano risposto le monache patrizie di Santa Chiara, nascoste dietro le inaccessibili graticciate del grande coro e dei coretti. Dopo gli oremus, i furono due o tre minuti di profondo silenzio, e il soffio precursore delle grandi cose parve fosse passato su quel popolo orante. Il gruppo dei parenti di san Gennaro, sull'altar maggiore, intuonò il Credo, n italiano, con grande impeto, e tutta la chiesa continuò il Credo; finito il Credo, ue minuti di aspettativa, molto inquieti, per vedere se cominciava il miracolo. Ma fu ripreso subito un secondo, un terzo Credo, on tale vigorìa d'intonazione, come se tutto il popolo proclamasse di credere, giurasse di credere sulla propria coscienza, dandosi alla fede, nello spirito e nelle fibre, con un grande fragore; inginocchiato, col volto fra le mani, il cardinale arcivescovo orava ancora, in silenzio. Dietro a lui, impetuosamente, a brevissimi intervalli, intuonati dai parenti di san Gennaro, ripetuti da tutta la folla, i Credo ontinuavano, e qua e là, fra il rombo generale, spiccava qualche nota profondamente grave di cuor desolato, spiccava qualche nota acutissima di fibre tormentate… Io credo, ridava la popolazione, con uno schianto di voce in cui parea si rompessero mille speranze, mille voti, mille preghiere. Ah! anche Luisella Fragalà, seduta in un angolo della chiesa, accanto alla malinconica signora Parascandolo, credeva profondamente: tanto che nella piccola convulsione, che cresceva nei suoi nervi di creatura pietosa e religiosa, le lagrime già le scorrevano su le guance, in silenzio: e nella oscura previsione di una sventura che ella sentiva avanzarsi, avanzarsi, senza vederla, senza distinguerla, ma sentendola implacabile nel suo viaggio, ella chiedeva a san Gennaro la forza che egli ebbe nel suo atroce martirio, per sopportare il misterioso cataclisma che le sovrastava. Anche la signora Parascandolo pronunciava il Credo, nsieme col popolo, con voce fioca: ma nelle pause quasi paurose per la trepidazione del miracolo imminente, la povera signora, orfana di tutti i suoi figli, chiedeva a san Gennaro, perché le ottenesse una grazia, perché la togliesse dalla terra d'esilio, donde tutti i suoi figliuoli erano fuggiti, lasciandola sola, brancicante nell'ombra e nel freddo. E la felice madre della rosea e bruna Agnesina come la madre infelicissima, egualmente trafitte, una dal passato, l'altra dall'avvenire, ambedue domandavano, con le lacrime negli occhi, la forza per vincere, la forza per morire. Ma l'ansia del popolo pregante cominciò al quindicesimo Credo; e parole della fede suonavano squillanti, come una sfida gittata alla incredulità, ma portavano il tremore di non so quale ignota paura: la pausa fra un Credo l'altro si prolungava, gittando il popolo in un accasciamento d'attesa, che pareva ne troncasse i nervi: la ripresa era fatta entusiasticamente, quasi il gran sentimento rinascesse formidabile, come tutti i sentimenti delle folle. Le più furiose di passione mistica erano le vecchie dell'altar maggiore: ma dietro di loro, una vampa correva da un cuore all'altro, portando l'incendio divoratore anche nei molli, indolenti temperamenti, anche fra gli scettici che fremevano, quasi una rivelazione ancora oscura li avesse colpiti e si venisse chiarendo ai loro occhi. Al ventunesimo Credo, l silenzio dell'aspettazione ebbe qualche cosa di angoscioso. Tutti gli occhi andavano dalla testa del santo, giacente nel vassoio di oro, alle ampolline di cristallo trasparentissimo, dove si vedeva il grumo nerastro e duro del sangue. La testa scintillava nella sua mitria gemmata, nella sua maschera gialla d'oro, dai riflessi metallici, un po' lividi: il sangue era lì cagliato, una pietra che le preghiere non arrivavano a spezzare, e al ventiduesimo Credo, ntuonato con uno scoppio di collera, qualche grido si udì, di chiamata, di invocazione, disperatamente: - San Gennaro, san Gennaro, san Gennaro… Le febbrili preghiere recitate dal gran popolo orante nella chiesa di Santa Chiara, le preghiere che umilmente, nervosamente, convulsamente, invocavano il miracolo dal santo patrono di Napoli, erano pronunciate con grande fervore da due donne inginocchiate tra la folla, appoggiate coi gomiti alle sedie di paglia, col volto fra le mani, con tutto un abbandono dell'anima e della persona alla grazia che chiedevano. Donna Caterina la tenitrice di lotto clandestino e donna Concetta la strozzina, si erano votate in comune a san Gennaro, per un anello vescovile di oro massiccio, con una grossa pietra di topazio, se faceva loro la grazia di risolvere il loro cruccio: o cambiar il cuore dei due fidanzati, Ciccillo e Alfonso Jannaccone, rendendoli indulgenti alle speculazioni delle due sorelle, o cambiar il cuore delle due sorelle, distaccandolo dall'amor del denaro. Un anello, un anello, un anellone magnifico al miracoloso santo, se faceva quello spirituale miracolo: così pregavano, a bassa voce, ambedue, con lo stesso fervore, col capo abbassato, ripetendo monotonamente la loro offerta, levando ogni tanto i supplici occhi inondati di lacrime, sull'altar maggiore, dove il gran mistero era imminente. Ma il popolo era già dominato dalla paura di quel ritardo: provava il gran terrore che proprio in quell'anno, dopo due secoli e mezzo, il santo, sdegnato forse dei peccati della popolazione, si rifiutasse a fare quel miracolo, che è la pruova della sua benevolenza. E il Credo, ipreso dopo pause più lunghe, più profonde e quindi più emozionanti di silenzio, aveva qualche cosa di pauroso, di collerico quasi, sgorgava come un impulso disperato: ma soprattutto le voci delle vecchie sull'altar maggiore si facevano irose, spaventate, tremanti di dolore e di terrore - e in un silenzio, a un tratto, una di esse disse, con voce dove tremava una familiarità devota, uno scherzo umile e un'impazienza invincibile: - Vecchio dispettoso, ci vuoi far aspettare, eh! - San Gennaro, san Gennaro, san Gennaro! - urlò il popolo, eccitato bizzarramente. Laggiù, verso il fondo della chiesa, presso la muraglia dove dolcifica la vista coi suoi scialbi colori quella smorta e soave Madonna, che dicono sia di Giotto, la figura di don Pasqualino l' assistito ra tutta una preghiera: stava ritto, ma aveva la testa e le spalle piegate, in un atto di profondo ossequio, e quando, ogni tanto, stanco o ispirato, levava la faccia, guardando il cielo dorato e pitturato della chiesa, il bianco dell'occhio pareva stragrande, smisurato, e ogni colore era svanito sulle guance, dove un livido pallore andava crescendo. Attorno a lui, per un magnetico potere di attrazione, tutti coloro che credevano in lui e nelle sue visioni, si erano venuti raccogliendo: tutti turbati in volto, tutti in preda a una disperazione repressa che pure scoppiava sulle diverse fisonomie: tutti giunti in fondo a un abisso di dolore, poiché anche quel sabato aveva portato loro una delusione immensa, due ore prima, con l'estrazione dei numeri: tutti curvati sotto un rimorso mordente, sentendosi ognuno colpevole verso gli altri e verso sé stesso: il marchese di Formosa, curva, quasi decrepita la bella e nobile persona, sentendo l'onta della sua vita senza decoro, dove tutto periva, anche sua figlia, in un agonia di infermità e di miseria; Cesare Fragalà, la cui situazione commerciale sempre più si complicava, sentendo egli la freddezza dei suoi amici negozianti, dei suoi corrispondenti, sentendo la malinconia palese di sua moglie e le sue segrete apprensioni, e sperando sempre, e sempre invano, di accomodar tutto, con una grossa vincita; Ninetto Costa, pallido e sorridente, con gli occhi cerchiati dalle veglie e dalle preoccupazioni, pensando, ogni tanto, alla sua catastrofe, scegliendo, ogni tanto, mentalmente, fra la fuga disonorante e il colpo di rivoltella che non assolve, ma che pacifica; il barone Lamarra, grosso, grasso, floscio, maledicente i suoi sogni ambiziosi di pezzente risalito, fremente all'idea di quella cambiale, firmata da lui e da sua moglie; l'avv. Marzano, il cui dolce sorriso pareva quello di un ebete, e che ogni settimana aumentava le sue privazioni per poter giuocare, avendo cessato di fumare, di prender tabacco, di bere vino, avendo impegnato la sua cartella di pensione, essendo malamente complicato in equivoci affari; Colaneri e Trifari, il professore e il dottore, che non trovavano più studenti, e il primo specialmente, sentendo intorno a sé il sospetto, il discredito, temendo ogni mattina, quando entrava in iscuola, di esser cacciato via da un ordine superiore, di essere accoppato dagli studenti: tutti, tutti, in preda a quella desolazione del sabato sera, l'ora negra, l'ora terribile in cui solo la coscienza parlava, alta, dura, inflessibile. Eppure erano in chiesa, e i più indifferenti, i più increduli mormoravano qualche parola di preghiera: eppure erano ancora attorno all' assistito lo guardavano ardentemente a pregare, e si capiva in quell'attrazione che ancora li aveva vinti, in quegli sguardi bruciati, che, passata la dolorosa cogitazione di quel momento, di quell'ora, la passione attendeva per riprenderseli. Ah, ma quell'ora, quell'ora, in quella grande folla che esalava nella preghiera tutta la sua infelicità, era tremenda per essi, colpevoli, come la fatale notte di Getsemani fu tremenda al Grande Innocente. Disperati, tutti, fissavano l'altar maggiore dove ardevano i cerei e si riflettevano sulla metallica faccia del santo. - San Gennaro, san Gennaro, - urlava la gente, a ogni Credo he finiva. E lo sgomento che il miracolo non accadesse soffiava su quelle teste, scoppiava in quelle voci. Le parenti di san Gennaro erano convulse di dolore e di collera; si era giunti al trentacinquesimo Credo, 'ora passava, con una lentezza di minaccia: ed esse, sentendosi nel medesimo tempo offese dal ritardo del loro santo antenato, e disperate della sua collera, lo interpellavano così: - San Gennaro, faccia d'oro, non ci fare aspettare più! - Sei in collera, eh? Che ti abbiamo fatto? - Vecchio rabbioso, fa il miracolo al popolo tuo! Ed era inesprimibile il sentimento d'ira, di tenerezza, di devozione, di agitazione, che spirava in queste ingiurie, in queste pietose invocazioni. Dice la leggenda che san Gennaro ama molto di farsi pregare e non si sdegna delle parole che le sue parenti e il popolo gli dirigono, e l'emozione del popolo era tanta che, al trentottesimo Credo, versetti della preghiera furono detti disperatamente, come se ogni parola fosse strappata da uno strazio supremo e in fondo scoppiarono le grida: - Faccia verde! - Faccia gialluta! - Santo malamente! - Fa il miracolo, fa il miracolo. Il trentottesimo Credo u clamore: lo dicevano tutti, da un capo all'altro della chiesa, il cardinale, i preti, le vecchie parenti, uomini, donne bimbi, tutti, tutti, presi da un grande furore mistico. E a un tratto, nella pausa di immenso silenzio che susseguì alla preghiera, l'arcivescovo si voltò al popolo: la faccia del sacerdote, irradiata di una luce quasi divina, pareva trasfigurata: e la bianca mano, levata in alto mostrava al popolo l'ampollina: il Prezioso Sangue, nel sottilissimo involucro di cristallo, bolliva. Quale urlo! Ne parvero scosse le fondamenta dell'antica chiesa; ebbe echi così forti e lunghi, che sgomentarono i viandanti delle strade circonvicine; e parve che le sonore campane del campanile vibrassero sole; e il gran pianto, il gran singhiozzo di tutto il popolo inginocchiato, buttato a terra, singultante con la bocca sul freddo marmo, levante le braccia, dibattendosi sotto la grande visione del Sangue che bolliva, non ebbe termine. Come morte, giacevano prostrate sull'altar maggiore le vecchie parenti; una sola possente forza aveva piegato tutta la folla; era tutto un lamento, tutto un sussulto tutta una preghiera; ognuno in quel minuto lunghissimo diceva ad alta voce, fra le lacrime calde e il tremor della voce, la sua parola di dolore. Sull'altar maggiore l'arcivescovo e il clero, tutti in piedi, a voce spiegata, superante la gran voce dell'organo, cantavano il Te Deum.

Con le scarne mani tremanti, Margherita che era anche salita nell'ampio landau raccolse lei carezzevolmente le trecce della padrona: e il dottore udiva che ella mormorava: - Figlia mia… figlia mia… Le tendine azzurre della carrozza erano state abbassate dal medico, contro gli occhi indiscreti: la carrozza andava al passo; e in quell'ombra, azzurrastra, acquitrinosa, con quel passo lento, il carattere di convoglio funebre si conservava, risaltava più forte. Anzi, a un certo punto, la carrozza si fermò; dopo un poco il cocchiere aprì lo sportello senza neppur guardare il corpo della fanciulla, e consegnò al dottore una boccettina chiusa ermeticamente, che costui fece odorare alla svenuta. Subito un acuto odore di etere si diffuse nella carrozza che continuava ad andare pian piano. Bianca Maria non si riscosse: dopo un poco, per solo segno di sensibilità, le palpebre chiuse le si arrossirono e grosse lacrime le sgorgarono fra le ciglia, rotolarono sulle guance, si disfecero sul collo. Il medico non distoglieva un momento il suo sguardo da quel viso, mentre teneva fra le sue la mano di Bianca Maria. Piangeva, ella, sempre immersa nello svenimento, senza dare altro segno di vita: come se nella mancanza di sensibilità, ancora la sensibilità del dolore le rimanesse, come se nella perdita di ogni memoria sopravvivesse ancora un ricordo angoscioso, un solo, quello. non rinveniva. Quando giunsero nel cortile del palazzo Rossi, appena aperto lo sportello, un mormorìo, un rumorìo nacque, crebbe, crebbe, impossibile a dominarsi. Vicino allo sportello la portinaia esclamava e strillava, quasi che la fanciulla fosse morta; tutte le finestre che davano sul cortile, tutte le porte che davano sul pianerottolo, si erano schiuse, e al vedere estrarre dalla carrozza la povera creatura esanime, bianca bianca, vestita di nero, con le trecce pendenti, strascicanti, accompagnata dal medico che invano cercava d'imporre silenzio, il gridìo di sorpresa, di compassione cresceva, cresceva, salendo per l'aria grave. Sul pianerottolo del primo piano era uscita Gelsomina, la nutrice di Agnesina Fragalà, tenendo nelle braccia la bella creaturina già florida: e dietro era apparsa anche la madre felice, Luisella Fragalà, vestita da uscire, col cappellino in testa. Ma appoggiata alla ringhiera di ferro, sorridendo vagamente alla sua bambina, ella s'indugiava, guardando con pietà quello strano trasporto; e una stanchezza preoccupata teneva la persona giovanile della bella borghese che, da poco tempo, ubbidendo a un istinto, a un presentimento, superando una certa fierezza, discendeva ogni giorno al magazzino di piazza Spirito Santo, legando i sacchetti dei dolci e i cartocci delle paste, con le sue mani bianche, sempre ricche di anelli. - Poveretta, poveretta… - mormorava Luisella Fragalà, con una compassione che aveva un senso più acuto, più profondo. Sollevando la tenda pesante di broccato giallo, dietro il doppio cristallo della sua finestra, anche al primo piano, era comparsa la scialba faccia della signora Parascandolo, la moglie del ricchissimo usuraio che aveva perduto tutti i suoi figli. Ella usciva raramente, chiusa nel suo magnifico appartamento che era pieno zeppo di ricchi mobili, tristi ed inutili, poiché ella non riceveva nessuno, da che le erano morti i figliuoli: solo ella compariva ogni tanto, dietro i cristalli, appoggiandovi la faccia scolorita, guardandosi intorno, con l'aria di dolente ebetismo che le era divenuta naturale. Per vedere Bianca Maria, portata in su in quel modo, la povera donna cui nulla più arrivava a scuotere, aveva aperto i cristalli, e la sua voce si univa al crescente mormorio, esclamando come una invocazione e una preghiera: - Gesù, Gesù, Gesù... Sul pianerottolo del terzo piano, lasciando le tre stanze del misero quartierino che sporgeva dirimpetto al teatro Rossini, era uscita tutta la famiglia misantropica dell'impiegato Domenico Mayer: il padre sempre con la faccia lunga e arcigna, con un par di maniche di lustrino sul soprabito, togliendosi a un lavoro di copiatura che compiva a casa tornando dall'Intendenza di Finanza; la madre, donna Cristina, guarita dal mal di denti, ma afflitta dal torcicollo: la figliuola Amalia, dai grossi occhi sporgenti, dalle grosse labbra, dal grosso naso, che aveva sempre il suo aspetto ingrugnato di fanciulla che ancora non trova marito: e Fofò, il figliuolo, sempre contristato da una fame che i suoi parenti dichiaravano una misteriosa malattia. Tutta la famiglia, si buttava giù, quasi, dalla ringhiera, per la curiosità, ed esclamava in coro, gridando, strillando: - Povera figlia, povera figlia, povera figlia!… Erano alla finestra la donna con la cuffia di batista e l'uomo in grembiale azzurro da spazzare, finanche la governante e il servitore del dottor Antonio Amati: né il vedere salire il loro padrone li distolse dal guardare, tanto l'eccitamento di tutto il palazzo Rossi, nelle sue finestre, nel cortile e sui suoi pianerottoli, era diventato invincibile. Quel trasporto per le scale, fra la compassione chiassosa di tutta quella gente diversa, fra quegli strilli metà di spavento, metà di pietà, che avevano una duplice nota esagerata, parve eterno al dottor Amati; in quanto alla vecchia Margherita, ella tremava di dispiacere e di vergogna, come se quel rumore, quella pubblicità offendessero la sua padrona. Quando la porta dell'appartamento si richiuse dietro a loro, ella disse a Giovanni, sgomento: - La marchesina sta male: non vi è Sua Eccellenza? - No, - disse quello, facendo largo a coloro che portavano la svenuta. Margherita crollò il capo, disperatamente, e accompagnò il dottore e il servo nella stanza di Bianca Maria: la fanciulla fu deposta sul suo letto. Il servo disparve. Ancora, il medico tentò di farla rinvenire con l'etere: niente. Egli si mordeva le labbra: due o tre volte disse: impossibile. ncora una volta sollevò le palpebre violacee, guardando l'occhio. Viveva, ma non rinveniva. - Il padre, dov'è? - chiese, senza voltarsi. - Non lo so, - mormorò la vecchia. - Avrà qualche posto dove va, ogni giorno: mandatelo a cercare, sbrigatevi. - Manderò… per ubbidire… - disse lei, sempre esitando, ma uscendo. Egli si era seduto presso il letto: aveva posato la boccetta dell'etere, oramai convinto della sua inefficacia. Quella piccola stanza, nuda, gelida, con un aspetto di purità nivale infantile, aveva un po' calmato la sua collera di scienziato che non giunge né a vincere il male, né a darsi ragione del male. Aveva visto, cento altre volte, dei lunghi e bizzarri deliqui: ma erano il portato di malattie nervose, o di temperamenti anormali, disordinati dal loro principio: ed erano stati vinti con mezzi ordinarii. La pallida fanciulla pareva che riposasse profondamente: e che ancora per molte ore, per molto tempo dovesse stare così, immersa nel buio regno della insensibilità. Egli si armava di pazienza, sfogliando mentalmente i volumi medici dove si parlava di questi deliqui. Due o tre volte Margherita era rientrata nella stanza, interrogandolo con lo sguardo, angosciosamente: egli le aveva detto di no, ol capo. Poi le aveva chiesto del cognac; lla era stata incerta: in casa non ve n'era; e Amati le aveva bruscamente ordinato di andarlo a cercare in casa sua, alla porta accanto. Con un cucchiarino, un misero cucchiarino che aveva perduto tutta la falsa argentatura, egli aveva aperto le labbra della fanciulla e, attraverso la chiostra serrata dei denti, aveva versato il liquore energico: senza risultato. Di nuovo, a Margherita che si agitava confusamente, egli aveva chiesto che mettesse a riscaldare dei panni di flanella; ma vedendola ancora impacciata, le aveva di nuovo ingiunto di andare a casa sua, a chiederne alla sua governante. Mentre ella era assente, rientrò Giovanni, trafelato: parlava ansando, al dottore. - Non l'ho trovato in nessun luogo, il marchese: né al posto i lotto di don Crescenzo, né alla Congregazione di Santo Spirito, né a casa di don Pasqualino l' assistito, ove si riuniscono ogni giorno. - Chi si riunisce? - chiese distrattamente il medico, udendo appena appena il discorso. Gli amici di Sua Eccellenza… ma ho lasciato detto, dovunque, che egli ritornasse a casa, perché la marchesina sta male. - Va bene: spedite questa ricetta, - disse il medico che l'aveva scritta, come al solito, col lapis, sopra un foglietto del suo taccuino. La faccia del vecchio servitore si decompose nel pallore. Il medico, sempre intorno alla svenuta, non aveva visto. - Andate, - disse, sentendolo ancora di là. - Gli è che… - balbettò il pover'uomo. Allora il medico, come aveva fatto per Annarella, la povera moglie del tagliatore di guanti, cavò dieci lire dal portamonete e gliele dette. - … non essendoci il padrone e non potendo dirlo alla padrona, - mormorò Giovanni, volendo giustificare la mancanza di denaro. - Va bene, va bene, - disse il dottore, tornando alla svenuta. Ma una forte scampanellata risuonò per tutto l'appartamento. Un passo vibrato si udì e il marchese di Formosa entrò. Parve non vedesse che la figliuola distesa sul letto e cominciò a baciarle la mano, la fronte, parlando forte, angosciandosi: - Figlia mia, figlia mia, buona figlia mia, che è, che ti senti, rispondi a tuo padre?! Bianca, Bianca, Bianca, rispondi! Dove hai il male, come ti è venuto, creatura mia, viscere mie, corona della mia testa, rispondi, rispondi! È tuo padre che ti chiama, sentimi, sentimi, dimmi che hai, io ti guarisco, buona figlia mia! E continuava a esclamare, a gridare, a singultare con parole confuse, volta a volta pallido e rosso nella faccia, mettendosi le mani nei capelli bianchi, piegando il corpo ancora robusto ed elegante, mentre il dottore, smorto, lo guardava acutamente. In un intervallo di silenzio, il marchese si accorse della presenza di Amati e lo riconobbe per il suo celebre vicino. - Oh dottore! - esclamò - datele qualche cosa, non ho che questa figliuola! - Vado provando, - disse il medico lentamente, a bassa voce, come se rodesse il freno della propria impotenza scientifica: - ma è un deliquio ostinato. - Le è venuto da molto tempo? - Da circa due ore; nel parlatorio delle Sacramentiste… - Ah! - esclamò il padre, impallidendo. Il dottore lo guardò. Tacquero. Il segreto sorgeva fra loro, avvolto nei veli più fitti e più profondi. - Datele qualche cosa… - balbettò don Carlo Cavalcanti, con la voce tremante. Ma vennero a chiamarlo. Giovanni gli parlò sottovoce: il marchese ebbe un momento di incertezza. - Ritorno subito… - disse, andandosene. Il dottore aveva raccolti i piedini della inferma nei panni caldi di flanella; ora voleva ravvolgerle le mani. Ma ad un tratto sentì una lieve pressione sulla sua mano. Bianca Maria, con gli occhi aperti, lo guardava, quietamente. La fronte del medico si corrugò per un minuto di meraviglia, fugacemente. - Come vi sentite? - chiese, chinandosi sulla inferma. Ella ebbe un piccolissimo sorriso stanco e agitò la mano, come per esprimere che aspettasse, che non poteva ancora parlare. - Va bene, va bene, - disse il medico, affettuosamente. - Non parlate. E impose anche silenzio a Margherita che rientrava. I poveri occhi stanchi della serva scintillarono di gioia, quando vide Bianca Maria sorridente. - State meglio? Fatemi un cenno, - chiese il medico affettuosamente. Ella fece uno sforzo e pian piano, invece del cenno, pronunziò la parola: - Meglio. Piccola, ma tranquilla la voce. Con la familiarità del medico, egli le aveva preso una mano e la teneva fra le sue: mano che si riscaldava. - Grazie, - diss'ella, dopo un intervallo. - Di che? - disse lui, interdetto. - Di tutto, - soggiunse lei, con un nuovo sorriso. Ora pareva che avesse riacquistato completamente la forza di parlare. Parlava, ma restava immobile, vivendo solo intensamente negli occhi e nel sorriso. - Di tutto, che? - domandò lui, punto da un'acuta curiosità. - Io ho inteso, - disse lei, con un'occhiata profonda. - Inteso? Tutto avete inteso? - Tutto: non potevo né muovermi, né parlare: ma ho inteso. - Ah! - mormorò lui, pensoso. E mandò Margherita ad avvertire il marchese di Formosa, che la signorina era rinvenuta. - Soffrivate? - Sì: molto, per non poter vincere il mio svenimento. Ho pianto. Avevo uno strazio, dentro il cuore. - Sì, sì,- disse lui, sempre più pensoso. - Non parlate più, riposatevi. Al marchese che entrava, il dottore fece cenno di tacere. Formosa si chinò sul letto della figliuola e le toccò la fronte con la mano, come se la benedicesse. Ella ebbe un battimento di palpebre e sorrise. - Vostra figlia ha avuto un deliquio lucido, na delle forme più rare di deliquio… - disse il dottore, a bassa voce. - Lucido? - chiese il marchese con una strana voce. - Sì: vedeva ed udiva tutto. È una sensibilità portata alla sua massima raffinatezza… Ora, dalla bottiglia versava ancora del cognac el cucchiaino, per farlo bere a Bianca Maria. Don Carlo Cavalcanti, la cui faccia si era stravolta, si chinò sul letto e domandò: - Che hai visto? Dimmi che hai visto? La figliuola non rispose, ma guardò il padre con una sorpresa così dolorosa che il medico, tornando, se ne accorse e aggrottò le sopracciglia. Non aveva udito che cosa avesse chiesto il padre alla figliuola, ma intese di nuovo sorgere il gran segreto della famiglia, vedendo la tenera e dolente occhiata di Bianca Maria. - Non le domandate nulla, - disse bruscamente il dottore a don Carlo Cavalcanti. Il vecchio patrizio represse un moto di sdegno. Covava la fronte della sua figliuola con lo sguardo, come se ne volesse strappare magneticamente un segreto. Ella aveva abbassato le palpebre: ma il viso rivelava sofferenza. Poi guardò il medico, quasi gli cercasse aiuto. - Volete qualche cosa? - domandò lui. - Vi è un uomo presso la mia porta; fatelo andar via, - pronunziò ella, sottovoce, paurosamente. Il dottore trasalì: trasalì don Carlo Cavalcanti. Infatti, fuori la porta, in quella sua eterna, miserevole attitudine di attesa, sporco, lacero, con la barba incolta e le guance smunte, malamente tinte di un sangue morboso, a strie, vi era Pasqualino De Feo, l' assistito. l marchese lo aveva lasciato nel salone; ma egli era scivolato sino alla soglia della stanza di Bianca Maria, con quel suo passo timido e silenzioso di straccione che teme di essere scacciato da tutti i posti. - Chi è quell'uomo? - disse il dottore con quel suo tono rude, accostandosi alla porta, come per scacciarlo. - È un amico… - rispose il marchese, con un vago gesto d'imbarazzo, affrettandosi ad accorrere. - Mandatelo via, - disse il medico, duramente. Fuori la porta, il marchese e don Pasqualino parlottarono, vivamente, sottovoce. Bianca Maria aveva un'aria d'attenzione, come se potesse udire quello che suo padre diceva di fuori: poi, a un tratto, crollò il capo. Il dottore che la guardava negli occhi, intuì il suo desiderio. - Volete che mandi via dalla casa quell'uomo? - Lasciatelo, - diss'ella, debolmente. - Farebbe dispiacere a mio padre. Ah egli non sapeva nulla di nulla, il dottore; e già, nel ritorno alla rude realtà, si rimproverava quel romanzo oscuro e doloroso che entrava nella sua vita: ma lo avvinghiava un sentimento imperioso, che egli credeva la forte curiosità scientifica. Le ore erano passate, scendeva la sera: egli non aveva fatto nessuna delle sue visite e rimaneva in quella gelida stanza di fanciulla, nobile, povera e inferma, quasi non potesse più staccarsene. - Debbo andare…- disse come fra sé. - Ma ritornerete? - chiese ella, sottovoce. - Sì…- rispose lui, risoluto a vincersi, a non tornare più. - Ritornate, - e la voce umile pregava, pregava. - Sono qui, accanto: se soffrite mandatemi a chiamare. - Sì, sì, - soggiunse, tranquillandosi all'idea della protezione. - Addio, signorina. - A dio, - fece ella, marcatamente, staccando le due parole. Margherita lo accompagnava, ringraziandolo pian piano di aver salvato la sua padrona; ma egli era ridiventato l'energico e frettoloso uomo di sempre, nemico delle parole. - Dove è il marchese? - volle sapere, senz'altro. - Nel salone, professore. E ve lo accompagnò. Giusto, don Carlo Cavalcanti e Pasqualino De Feo passeggiavano su e giù, taciturni. Era quasi notte: pure il dottore covrì l' assistito i una occhiata scrutatrice e diffidente. - Come sta Bianca? - chiese Formosa, uscendo da un sogno. - Meglio, ora, - soggiunse con voce breve e fredda, il dottore. - Ma è una fanciulla colpita prematuramente, nel morale e nel fisico, da uno squilibrio crescente: se non le date sole, moto, aria, quiete e giocondità, vi può morire, da un giorno all'altro. - Non dite così, dottore! - gridò il padre, sdegnato e addolorato. - Debbo dirlo, perché così è. La causa del suo male, di quello di oggi, mi è ignota… non voglio saperla. Ma ella è ammalata, capite, ammalata! Ci vuole sole e pace, pace e sole. Se volete un medico, io sono sempre pronto, è il mio mestiere. Ma la ricetta l'ho fatta. Mandate la fanciulla in campagna. Se rimane un altro anno in questa casa, vedendo solo voi e andando sempre al monastero, muore, ve lo affermo io. E insisteva, freddamente, come se questa verità dovesse essere proclamata in tutta la sua forza, come se volesse convincerne anche la ribelle anima sua. - Dottore, dottore! - si lamentò Formosa, cercando pietà. - È ammalata, muore. In campagna, in campagna! Buona sera, marchese. E se ne andò, quasi fuggendo. Il marchese e l' assistito he non aveva detto verbo, ripresero la loro passeggiata taciturna. Ogni tanto, Formosa sospirava profondamente. - Lo spirito che mi assiste…- soffiò l' assistito. Eh? - esclamò l'altro, trasaltando. -…mi avverte che donna Bianca Maria ha avuto una visione celeste…e che ve la comunicherà… sotto simbolo… - Voi che dite? È possibile? Questa grazia mi avrebbe concessa l'Ente Supremo? È possibile? - Lo spirito non inganna, - sentenziò l' assistito. È vero, è vero, - mormorò Formosa, con voce profonda, guardando nell'ombra con gli occhi stravolti.

STORIA DI DUE ANIME

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Serao, Matilde 1 occorrenze

I visi femminili eran tutti della medesima apparenza di giovinezza e di bellezza, con la stessa espressione immobile di dolcezza e di pietà, occhi levati al cielo o palpebre castamente abbassate, bocche socchiuse, come in atto di preghiera, o chiuse e pensose, senza sorriso: riproduzioni di Madonne antiche, di antiche sante, modelli già copiati tante volte, le cui linee si smussavano per il tempo e l'uso, deturpate dalla polvere, che si accumulava, nei cavi, negli angoli. I calchi delle fisonomie maschili erano svariati, di giovini, di vecchi, di uomini imberbi, di uomini con lunghe barbe, con atti diversi, con espressioni diverse, di pensiero, di fierezza, di sdegno, di estasi: mescolati, fra tutto questo, tanti calchi di volti infantili, teste ricciolute, visetti ridenti, visetti sorridenti, visetti di bambini Gesù o di angioletti, con le ali piccole attaccate sotto al collo pienotto, ali aperte e levate, come un'aureola. Su cavalletti di legno grezzo, su colonne, su trampoli da scultore, i santi popolavano, intorno intorno, in mezzo, la bottega, lasciando solo lo spazio ad una larga tavola coverta di vasi e vasetti, di bottiglie e bottigliette, piene di colori da dipingere, di pasta da formare; e mucchietti secchi o umidi di creta, di biacca, di stucco, sporcavano la tavola, e pennelli grossi e sottili vi si confondevano con ogni strumento di legno, di ferro, per formare, per plasmare, per dipingere, per lucidare. I santi popolavano la bottega, tanto numerosi, che appena appena, lo scultore pittore poteva girare fra i cavalletti e le colonne, e fare il suo duplice lavoro: e ve ne erano di tutte le dimensioni, da una piccola Madonna della Salette, alta quanto una bambolina, che si nascondeva, quasi, in un cantoncello, a un grande san Michele Arcangelo, posto nel centro della bottega, grande due terzi del naturale, poggiato sovra un largo piedistallo, coi piedi vittoriosi sul corpo e sul capo di un grosso dragone, vinto dal guerriero di Dio e che era lì lì per essere trapassato dalla fulminea, luminosa spada; mentre, in fondo alla bottega, sovra un piedistallo anche più maestoso, vi era una grande figura di santo o di santa: s'ignorava, poichè era completamente coperta e chiusa da un grande panno grigio, che ne celava ogni linea. Era molto più grande del naturale: una di quelle statue colossali, destinate a salire in cima a un altare, in alto, in fondo a una vasta chiesa, e a esser guardate, ammirate, adorate, da una folla di persone oranti, oranti sino laggiù, alla porta estrema del tempio. Questi santi, anche, apparivano di fattura diversa. La piccola Madonna della Salette aveva di stucco, delicatamente dipinto, solo il volto idilliaco e le mani lunghette e fini: mentre era tutta vestita di una gran veste di lana bianca, con una coroncina di rosette artificiali che le orlava la gonna, un'orlatura di rosette intorno alle ampie maniche, e una coroncina di rose sul capo. Un cordone di seta bianca le stringeva alla cintura la tunica e i suoi piccoli piedi non si vedevano. Un san Giuseppe, alto mezzo metro, era, invece, tutto di legno e di stucco; e il volto e le mani e la prolissa barba grigia dipinta finemente sullo stucco, le vesti di Nazzareno, bigie e azzurro cupo, la tonaca e il mantello, eran dipinte, a pieghe immote, sul legno; sul suo alto bastone, però, vi era un mazzolino di fiori artificiali. Un san Vincenzo Ferreri misurava due terzi della persona, appoggiato sovra una larga base; aveva un vero vestito monacale, come è raffigurato sempre, tonaca nera, scapolare e cappuccio bianco, in lana grossa: e la sua testa ardita e pensosa, opera eguale di pittore e di scultore, si ergeva, plasmata e stuccata, con una fiammicella rossa, posata, sul cranio, dipinta, con evidenza, nelle ondulazioni della vampa, la fiammicella raffigurante lo Spirito Santo: mentre, nelle sue mani, vi era un vero libro, rilegato in nero, un Evangelio aperto. Così, alcuni fra questi santi dovevano la loro forma di vita, esclusivamente al pittore e allo scultore: altri avevan bisogno, inoltre, di chi foggiasse loro le vesti, in istoffe adatte, e gliele mettesse addosso, aggiustandone le pieghe, e vi aggiungesse i simbolici attributi della loro santità, gli emblemi, i fiori, i gioielli. Non così la statua del bello e temibile e terribile san Michele, centro di tutta quella singolare e curiosa coorte. La consuetudine non vuole che il cherubino, debellatore di Satana, si adorni di stoffe, di nastri, di galloni, di gioielli, di fiori: la sua immagine sfolgorante deve essere tutta dovuta all'arte: e nel riprodurla, come le regole dei vecchi, come le antichissime tradizioni degli scultori e dei pittori di santi impongono, bisogna rispettare il sacro carattere mistico e bellicoso di Michele, che, nei Cieli, tiene il cuore del Signore, quanto Gabriele, l'Annunciatore di Maria. Nella bottega dei santi, dunque, l'arcangelo levava il suo capo fiero e indomito sotto l'elmo tutto dorato, su cui l'artefice pittore aveva molto e molto faticato, per ottenere una doratura perfetta, lucidissima, abbagliante, adoperando la migliore delle porporine, sullo stucco: il collo era stretto da una gorgiera, e il petto tutto quanto chiuso in un'armatura di argento, a larghe scaglie rotonde, ove anche l'argento, tirato su dalle esperte mani, luccicava singolarmente, mentre di sotto la corazza usciva un gonnellino a pieghe, che appena copriva le ginocchia; le gambe erano nude, muscolose, ben modellate, di un bel color carnicino, con un lieve disegno azzurro di vene; i piedi calzati di stivaletti, pestavano il dragone vinto, che si torceva di dolore e di collera. Ma, in tutto questo, il viso di san Michele era roseo come quello di una fanciulla, e dei riccioli biondi spuntavano dal suo elmetto d'oro e i suoi occhi erano d'un cilestrino infantile, e il Vittorioso conservava la sua dolcezza di cherubino, nel suo impeto di guerriero divino. Ma questa statua non era completa: mancavano ancora dei pezzi intieri dell'armatura, tutti bianchi di gesso e di biacca, su cui ancora non era stato adattato l'argento: le gambe, di fresco dipinte, erano lucidissime, come se non si fossero asciugate ancora: la spada fulgente era dorata solo per metà: il piedistallo, su cui il Maligno gonfiava di rabbia impotente le anella del suo corpo di animale feroce e orrendo, anche era tutto bianco e aspettava il color d'oro, o di argento, su cui risaltasse il verde livido del dragone, e gli occhi di fuoco, e la lingua rossa ridotta a sibilare invano, sotto le folgori celesti del cherubino. Del resto, anche qualche altra statua, ma minore, appariva non finita. Un san Rocco, per esempio, tutto di legno e stucco, posato sovra una colonnina, apriva la sua tonacella marrone, col gesto fatidico, e mostrava il suo ginocchio nudo, ove una piaga vivida rammentava che egli è protettore contro la peste: era seguito da un piccolo cane, che la cara leggenda cristiana gli assegna per fedele compagno. Di questo san Rocco, non eran completi che il viso, le mani e una delle gambe, appunto quella della piaga: tutto il resto era grezzo: e il fedel compagno era informe. Un san Biagio, un mezzo busto, appena appena iniziato, aveva il viso dipinto per metà, e l'aureola di metallo posava accanto a lui, mentre le due dita che si alzano per benedire, eran due bastoncelli di legno, sovra un pezzo di legno, che doveva esser la mano. Altri santi eran semicoperti da cenci oscuri, per non mostrare che mancavan di vesti, o che l'opera di stuccatura non era neppure cominciata e che la pittura era lontana. E, su tutta questa famiglia, s'innalzava, in fondo alla bottega, la statua ignota, grandissima, ermeticamente coperta e serrata nel suo drappo bigio, che non ne rivelava alcuna forma e lasciava sognare un santo, una santa, più possente, più ardente, più mirabile, uno dei grandi taumaturghi, a cui si piegano le ginocchia dei desolati, dei disperati! In un angolo della bottega era spinta, contro il muro, una piccola tavola, ove giacevano, alla rinfusa, due o tre libri consunti e laceri, un calamaio di terra cotta, una penna dalla punta morsicata, un calendario vecchio: su questa medesima tavola, facendo posto, il pittore mangiava il suo modesto pranzo, nei giorni in cui il lavoro premeva assai, ed egli non potea andare a casa sua, a mezzogiorno: una terrina di maccheroni, un pezzo di formaggio, un finocchio, un mezzo fiasco di vino, formavano il suo desinare, ed egli mangiava, in mezzo ai suoi santi di legno e di stucco, completi, non completi, incompleti, che guardavano il Cielo con occhi desiosi, che chinavano gli occhi sui sacri libri, piamente, e il soffio divino passava sulla loro fronte carica di pensiero; mentre si asciugava la bocca sporca di sugo di pomidoro, al tovagliolo che covriva la sua piccola mensa, egli beveva nel bicchiere di grosso vetro pesante, o beveva dal collo verdastro della caraffa. Pure, egli faceva tutto questo con modestia, curando, sempre, di non volger loro le spalle, e sogguardando, ogni tanto, verso la immensa statua che nessuno aveva mai vista, nascosta sotto quel lenzuolo oscuro, che ne celava assolutamente il viso e la persona. Dopo pranzo, si alzava subito, e il suo sciancatello portava via, immediatamente, fuori bottega, ogni avanzo: rientrava e spazzava, intorno alla tavola del pranzo, mentre il pittore prendeva dell'aria, sulla porta, guardando a sinistra, in alto, ove l'imponente palazzo Angiulli si estendeva, accanto alla Chiesa. Il pittore dei santi non fumava: suo padre, che aveva fatto lo stesso mestiere suo, glielo aveva sempre proibito, portandogli il proprio esempio, dicendo che un pittore dei santi non fuma, per rispetto alla santità delle immagini, che sorgono dalle sue dita che dipingono. Domenico Maresca, pittore di santi, aveva ventotto anni. Era di media statura, piuttosto grasso, tendente alla pinguedine; un po' goffo nei movimenti, quando non era intorno alle sue statue, come impacciato dai piedi, dalle mani, dal suo torace che si gonfiava, quasi, sulle gambe sottili e sproporzionate; molto bianco di carnagione, ma di un biancore opaco, con qualche riflesso giallo, alle tempia, alle orecchie, agli angoli del naso: biondastro, di capelli molto deboli e che cominciavano a diradarsi, sulla fronte: biondastri i baffi, sfolti, sovra una bocca dalle labbra grosse, su cui restava una costante e curiosa espressione di puerilità: gli occhi di un azzurro molto pallido, come se un latte vi fosse mescolato, un po' rotondi, un po' esterni, spesso meravigliati, sempre che si fissavano su spettacoli che le sue Madonne e i suoi santerelli non erano. Tutto l'insieme dava l'impressione di una gioventù che non fosse mai stata aitante e vigorosa, che una occupazione assorbente avesse intorpidita, che la mancanza di piaceri avesse già sfiorita: l'impressione, latente, di una salute segretamente minata da mali ereditarii, misteriosi, compromessa, forse, dall'esistenza trascorsa nei cattivi odori della creta, dei colori, delle biacche, nella umidità della bottega, respirando atomi di metalli e di minerali nocivi. E in tutto questo, solo un dettaglio della persona attraeva gli occhi, li fermava, li seduceva: la beltà delle mani, due mani bianche, dalle dita agili, dai gesti rapidi e armoniosi, due mani assolutamente belle, sane, giovani, ove viveva la forza e la grazia di un lavoro umile e nobile, insieme. Domenico Maresca discendeva da una razza antica di pittori di santi, e quest'arte singolare, poichè essa ne riassume tre o quattro, quella del plasmatore, dello stuccatore, del doratore e del pittore, quest'arte curiosa e pia, si trasmetteva, di padre in figlio, con ostinazione ereditaria, da forse duecento anni. Un antenato Maresca, quello che sembrava il capostipite di questa famiglia popolana di artisti, aveva avuto bottega, in quel singolarissimo vicolo di san Biagio dei Librai, ove non si traffica, non si vende e non si compra, cioè, che di oggetti di santità, quadri, statue, presepi, ogni sorta d'immagini, argenteria e chincaglieria sacra, dallo scintillante ostensorio, all' ex voto di cera, dai rosari di lapislazzuli a quelli che costano due soldi. I Maresca venivano di là: ma, di generazione in generazione, si erano allontanati, diffusi verso il Divino Amore, verso il Corso di Napoli, verso San Giovanni Maggiore e, infine, quasi sulla soglia della Napoli nuova, della Napoli rifatta, verso santa Maria la Nova, alla Madonna dell'Aiuto. Uno di essi, Ferdinando Maresca, verso il principio del secolo aveva, anzi, acquistato una bella rinomanza, come scultore e pittore di pastori , le piccole statue, talvolta opere d'arte, talvolta ricchissime, che servono a popolare i Presepi delle grandi famiglie divote o, semplicemente, amanti del lusso e dell'arte. Don Ferdinando Maresca aveva venduto dei pastori al Presepio della regina Maria Carolina e, forse, nelle collezioni della Reggia di Capodimonte e di Caserta, vi sono ancora dei Re Magi, dei mendicanti, delle zingare, dovuti alle sue mani sapienti. Questa gloria della umile discendenza dei Maresca era, però, tramontata con lui; nessun altro aveva raggiunto la sua perfezion d'arte, neppure il suo lontano nepote Domenico. Anzi, qualcuno di essi aveva stentata la vita, perchè, o non intendeva il lavoro, o non lo amava, o era stato sfortunato: tutti, poi, erano morti presto, prima dei cinquant'anni, corrosi da quel mestiere faticoso e pericoloso, avvelenati da quell'aria carica di odori malsani, umida e stagnante, consunti dal respirare quei corpi metallici, minerali, che eran necessari alla composizione delle loro statue. Anzi, uno zio, scapolo, di Domenico Maresca, a cui egli, pare, somigliasse molto, si era spento a trentadue anni, divorato da una piccola febbre quotidiana, datagli, dicono, da un tumore nel fegato. Suo padre, di cui egli era unico figlio, neanche aveva toccato i cinquant'anni, ed era morto di una violentissima colica epatica, lasciandolo a ventidue anni, orfano, poichè Domenico Maresca aveva perduto sua madre, piccolissimo; non se ne ricordava neppure, e suo padre, interrogato, talvolta, evitava di parlarne, troncava il discorso, un po' turbato, e subito diventato muto e triste. Aveva assai lavorato, suo padre: e, morendo, aveva lasciato a suo figlio Domenico qualche migliaio di lire, accumulate soldo a soldo, dovute a grandi privazioni, ad una vita oscura e quasi povera, a un lavoro costante. Questo lavoro, malgrado i suoi pericoli e le sue incertezze, malgrado le sue limitazioni e le sue convenzionalità, Domenico Maresca lo amava. Come, ora, lo sciancatello, figliuolo di un suo compare di cresima, adibito ai servizi infimi della bottega, imparava già a macinare i colori, a impastare la biacca, a mesticare, a preparar forme e pennelli, così, anche lui, piccino, appresso a suo padre, aveva imparato la sua arte. Un po' di scuola elementare; un po' di scuola di disegno; ma sempre in bottega, giorno per giorno, anno per anno, con una istruzione lenta, costante, pratica, sempre la medesima, non uscendo dalle regole tradizionali della pittura dei santi, regole fisse, immobili, strane, di un arcaismo mistico singolare, con un sapore ingenuo di leggenda primitiva, con una espressione dommatica venuta dall'insegnamento degli antichi. Qual Maresca, mai, avrebbe osato fare la statua di sant'Antonio abate, l'austero penitente della Tebaide, senza mettergli accanto, in segno di umiltà, o, in segno della tentazione vinta, la testina di un maialetto? Qual mai Maresca avrebbe tentato di fare una santa Lucia, senza metterle, nella mano destra, la piccola coppa di argento ove nuotano i suoi due occhi, ed ella vede, intanto, vede coi suoi stellanti occhi aperti, sotto la bianca fronte? Qual mai vero e schietto pittore di santi, venuto da una lunga discendenza di pittori, avendo ereditato tutti i dettami più assoluti della sua arte, avrebbe tentato di non mettere la piccola santa Barbara fra le folgori e le saette di argento o di metallo argentato? Tutto ciò era parto della coscienza dell'artefice: come l'azzurro degli occhi di san Giovanni Evangelista, colui che dormì sul petto di Gesù, come il fulvo dei disciolti capelli di Maddalena, come il roseo delle guance di Maria Egiziaca, come la barba a punta di san Francesco d'Assisi. Forse, Domenico Maresca, nel suo amore alla sua arte, aveva letto un po' minutamente la Vita dei Santi e sapeva qualche cosa di più, di diverso, di quanto conosceva suo padre e suo nonno, e, forse, talvolta, egli aveva trovato la storia della religione assai differente dalla tradizione popolare. Ma a che cangiare nulla del passato, poichè anche la religione diventava una cosa del passato, oramai, e il vivo amor della fede fioriva, pur troppo, solo nel popolo? Già suo nonno si lagnava della tiepidezza, della indifferenza, in materia di amor divino, poichè eran finiti i trasporti entusiastici dei ricchi, per avere una bella cappella in casa, con sontuose e artistiche statue dei santi protettori; eran finite le donazioni fatte generosamente alle chiese più amate e più protette dai ricchi, che le dotavano delle più belle immagini; eran finite le larghe elemosine, per cui curati e parroci potevano ornare la loro chiesa prediletta di qualche statua vestita maestosamente, adorna con ori e con argenti. Il culto deperiva: sovra tutto, declinava alla ristrettezza, alla economia, alla fredda parsimonia, il denaro che, un tempo, si offriva generosamente al culto. Il padre di Domenico, si lamentava anche più del nonno: anche quelli che ne avevano obbligo morale, vescovi e monsignori, anche quelli che avean fatto un voto, tutti lesinavano sopra la croce di argento che Gesù tiene sul globo, stretto nella sua manina, sul piedistallo da darsi a san Ciro, sulle frecce coperte di acciaio che avevan trafitto san Sebastiano. Le discussioni, lira a lira, soldo a soldo, facevano pena: nessuno amava più Dio, veramente, nessuno aveva più, per la Madonna, quella tenera adorazione che si deve avere per la madre di noi tutti, per la Madre delle Madri. Vi eran voluti trent'anni di fatiche, per accumulare quelle poche migliaia di lire, da lasciare a suo figlio Domenico; e le aveva riunite, perchè era stato sempre riservatissimo, austero, colpito presto da una tristezza sentimentale, di cui non parlava mai, schivo di qualunque piacere, timorato del Signore, consacrandogli segretamente il suo cuore, vedovo di un amore perduto. A che, dunque, sarebbe servita la maggior coltura di Domenico, e le sue idee più larghe, se non a guastare il suo mestiere, le cui condizioni economiche non poteano che peggiorare, fra la crescente miseria dei tempi e il crescente distacco dal culto, di tutte le persone che poteano spendere? Forse Domenico, in cui, quasi, parea che rivivesse, talvolta, il suo bisavo, don Ferdinando Maresca, il creatore dei pastori d'arte, avrebbe tentato qualche novità: ma timido, esitante, di una volontà molle, si lasciava andare alla vecchia tradizione, senza mai uscirne. Solamente, si era informato, a tempo, delle nuove forme sotto cui si venerava la Madonna, come erano fatte, cioè, la Madonna della Salette, la Madonna di Lourdes, la Madonna di Pompei, come si riproducevano, in quali vesti, con quali attributi, con quali ornamenti: qualche santo era risalito in onore, nel culto terreno, così, improvvisamente, sant'Antonio di Padova, per esempio, san Francesco di Paola, san Filippo Neri: ed egli aveva fatto anche qualche viaggetto, per vedere le statue antiche, quelle originali, o quasi originali, che potevano essere, persino, dei ritratti. Non era e non poteva diventare, quindi, un novatore, Domenico Maresca, il pittore dei santi, anche se qualche lieve movimento di libertà gli fremesse, qualche giorno, nell'anima, contro le vecchie goffaggini, contro certe bruttezze innegabili, contro certi anacronismi del mestiere: ma era un artefice pieno di coscienza, preciso, scrupoloso. La sua reputazione era così buona che, ad onta di tutto, i suoi affari prosperavano. Specialmente per le chiese di provincia, nei dintorni di Napoli e più in là, dalla bottega di Domenico Maresca partivano gli Ecce-Homo , i san Luigi Gonzaga, i san Catello, i san Matteo, in grandi casse, imballati accuratamente, come oggetti fragili e preziosi. Oltre lo sciancatello, Nicolino, egli aveva dovuto prendere un giovane stuccatore e doratore, Gaetano Ursomando, un venosino, venuto a cercar pane dalla sua povera Basilicata. Oltre che il suo mestiere, cui dava tutto il suo tempo, Domenico Maresca amava anche la Divinità. Certo, non di un amor mistico ardente, ma con un rispetto interiore e un timor vago, restatogli dall'infanzia, venutogli dal padre che era religiosissimo. Non frequentava molto le chiese, per pregarvi: ma vi entrava, per parlare coi parroci, nelle sacristie, con un senso di riverenza muta: ma, diceva, talvolta, scherzando, che tutte le statue dei santi, inviate in tante chiese e chiesette, in tante case di persone divote, pregavano per lui, peccatore, e che, quindi, egli aveva degli avvocati, in Paradiso, assai possenti, oltre la Grande Avvocata, la Madonna, che egli aveva cento volte riprodotta, sempre bella, sempre dolce, sempre soave. Egli stesso, però, come suo padre, faceva una vita molto castigata, molto seria, anche per necessità di mantenersi fedele la clientela: giacchè un pittore di santi, frivolo, scialacquatore, vizioso, sarebbe tale una singolarità da far fuggire tutti i preti, tutti i sagrestani, tutte le pinzochere, che sono la base della sua clientela. Era ritenuto virtuoso; la gente gli attribuiva più danaro di quello che egli possedesse e aveva ricevuto varie profferte di matrimonio; si era ricusato, egli, così impacciato e così dubbioso, in tutte le cose che non fossero l'arte sua, si era rifiutato recisamente. La sua vecchia serva, Mariangela, che viveva in sua casa da trent'anni, prima della sua nascita, approvava. Egli viveva scapolo, solitario, casto e spesso pensoso, spesso triste. In quel pomeriggio d'inverno, nella piccola via annottava prima delle cinque. E Domenico Maresca, a cui premeva assai di lavorare intorno al suo san Michele, domandato con grandi insistenze dal parroco di Atripalda, dalla commissione, dal sindaco, da quanti avevan messo insieme il denaro, per avere un san Michele nuovo, loro protettore, aveva fatto accendere da Nicolino, il ragazzo, due grandi lumi a petrolio che avevano, dietro, un riflettore di latta, per raddoppiare la loro luce: e lui e il doratore di Venosa, lavoravano, uno davanti al santo, uno dietro, in silenzio, un po' curvi sotto i berretti bianchi di carta, con le larghe bluse azzurre tutte macchiate di bianco, di giallo, di rosso, di oro, di argento. Faceva molto freddo, fuori: non lì dentro, ove essi stavano dalla mattina: piuttosto, lì dentro, i cattivi odori delle tinte si eran fatti più forti, più densi, poichè non si mutava l'aria. In quella grossa giornata di fatica, malgrado l'abitudine, quelle puzze finivano per stordirli, con la testa pesante e vuota. Domenico Maresca, più pallido del consueto, e il venosino quasi verdastro nel suo bruno colore di contadino, strappato alle aride terre di Basilicata. Qualcuno fece stridere la maniglia per entrare. - Buona notte, a Vossignoria - disse una voce di donna. - Buona notte, donna Clementina - rispose Domenico, senza distrarsi dal suo lavoro. Colei che era entrata, era una donna sulla quarantina, ma che sembrava molto più vecchia, coi suoi capelli grigiastri mal pettinati, con la sua faccia oscura piena di rughe e le labbra di un viola pallido. Era vestita poveramente, con uno scialle nero stretto sul collo e sul petto, che mal la doveva difendere contro il freddo: si trascinava stancamente, e cercò, subito, una delle due o tre sedie: vi si gettò sopra, con un sospiro dolente. - Che ci dite di bello, donna Clementina?- chiese il pittore, senza levare la testa dal lavoro, adoperando la frase curiosa e convenzionale del popolo. - Niente di bello, don Domenico mio, proprio niente. Tutte cose brutte. Miseria, malattie e disperazione. Non ne posso più. E la voce triste e roca le si soffocò nella gola. Gittata su quella sedia, la donna così mal vestita e sudicia, così pallida e sfinita nell'aspetto, pareva uno straccio umano. - Non vi scoraggiate, donna Clementina - mormorò vagamente Domenico, a cui quei lagni non eran nuovi, ma che lo commovevano sempre. - Dite bene, voi! Avete un'arte nelle mani, che Dio ve la benedica, la fatica non vi manca, qualche soldo da parte lo avete, siete solo: dite bene! Sapete quanti figli ho, io? Sei! E fra tre mesi sono sette. Sapete il più grande, quanti anni ha? Dodici! E il più piccolo, un anno. Ogni mattina e ogni sera queste sei bocche si aprono per mangiare, don Domenico mio, e hanno una fame, una fame! - E vostro marito che fa? - Che ha da fare, poveretto! Sta col sediario della chiesa della Pietrasanta, che lo tiene con sè, proprio per carità, dice lui, e intanto il sediario guadagna cinque o sei lire al giorno, quando non è festa, e una ventina di lire, la domenica, per l'affitto delle sedie. Pasquale mio piglia quindici soldi, i giorni di lavoro, venticinque la domenica. E fatica! fatica! Il sediario dovrebbe spazzare la chiesa, lavare i vetri, spolverare tutto, e si scarica su Pasquale mio, mentre egli fa il signore, il sediario e le sue figliuole portano il cappello! - E voi, donna Clementina? - Io? Voi lo sapete che guadagno, io! Il lavoro non mi manca, perchè, non faccio per vantarmi, poche sarte di santi sanno tener l'ago in mano, come Clementina Ascione; e se si vuol vestir bene una santa Genoveffa, un san Ciro, si deve venire da me. Don Mimì, l'anno scorso una veste per un'Assunta, che doveva andare a santa Maria di Capua, la veste e il manto, don Mimì, una bellezza! Ebbene, che ne ricavo? Quando ho messo insieme venticinque, trenta soldi al giorno, è una meraviglia. Si paga poco. Il lavoro non si capisce. Ognuno vuole spendere pochissimi soldi. Voi me lo insegnate. Non vi è più religione: non vi sono più denari. E tutti questi figli, Domenico mio! Ogni quindici mesi, uno: come se vi mancasse la razza della pezzenteria, in questo mondo: come se vi mancasse gente, per perpetuare la miseria. - E che ne fate, di tutti questi figli? - Eh, i più grandi badano ai più piccoli. Qualcuno va alla scuola pubblica; dicono che non si paga, eppure qualche soldo ve lo tirano sempre. Il primo sta col sacrestano della Rotonda, che gli dà da mangiare, un piatto caldo, ma neppure un centesimo. Don Domenico mio, voi siete un signore, ma ascoltatemi bene, non vi maritate mai! - E voi, perchè vi siete maritata? - disse, con un fiacco sorriso, il pittore dei santi. - Che volete, fu una stupidaggine! Io ero stata sempre ragazza di chiesa, mi chiamavano la bizzochella, mi volevo fare conversa a Regina Coeli e poi monaca, se ne ero degna: il Padre Eterno non mi ha voluta. Io vidi Pasquale, Pasquale vide me, non avevamo un soldo, nè io, nè lui, salvo la gioventù, la voglia di lavorare e la religione. Ah che sbaglio, che sbaglio! Non vi ammogliate, don Domenico, vi parlo come una madre. Egli tacque, pensoso. Da qualche momento non lavorava più, vinto, forse dalla stanchezza, da quel peso sulla testa che faceva vacillare, talvolta, il suo cranio troppo grosso. Si appressò alla sarta dei santi, così querula nella sua onesta e laboriosa miseria, così disfatta dalla sua esistenza, e le chiese: - Mi avete, poi, portata la veste di santa Rosalia, col manto? Io ho da mandarla a Palermo, santa Rosalia, a un monsignore. - Non l'ho potuta finire, don Domenico mio - mormorò ella, a voce bassa. - Questa giornata ho avuto tali e tanti malanni addosso, con questa gravidanza, col mio Gaetanuccio che ha la tosse convulsiva e, certo, la darà agli altri. Domani sera ve la porto, don Domenico. Solamente... questa sera... voi mi dovete aiutare... - E abbassò ancora la voce, vergognandosi di quella faccia verde e chiusa del basilisco Gaetano Ursomando, che seguitava a tirar fuori l'argento sulla corazza di san Michele. - ... anticiparmi cinque lire. - Io vi ho abbastanza anticipato, donna Clementina - le rispose, anche a voce bassa, freddamente, ma senza durezza, il pittore dei santi. - È vero, è vero, avete ragione, chi può negarvelo? Ma io sconterò tutto, ve lo giuro! Ne dovete fare Madonne, voi, don Domenico, e io vestirle, e, tutte belle, da far restare meravigliati tutti i divoti! Io sconterò tutto; ma, stasera, non mi abbandonate, datemi quest'altro anticipo, e poi faremo i conti. Ho da far la cena a sei figli e comprare la medicina per Gaetanuccio. Se mi fate questo favore, io vado da don Carluccio, qua, in piazza, e il pover'uomo, malgrado i suoi guai, mi fa risparmiare... - Voi andate da don Carluccio, il farmacista? - chiese, dopo una esitazione, Domenico Maresca. - Già. È pieno di tristezza, anche lui, perchè nessuno ne manca. Ma quando mi vede, siccome mi conosce, da tanti anni, ed io conosco lui, che era giovane e ricco, oh tanto ricco, così mi fa risparmiare qualche soldo! - Ha tanta tristezza? Era molto ricco? - Avevano carrozza e cavalli, i Dentale! Tenevano una grande fabbrica di medicine, fuori Napoli, verso san Giovanni a Teduccio: e don Carluccio sposò un'altra Dentale, sua cugina, per non fare uscire le ricchezze dalla famiglia. Che sfarzo, quel matrimonio! Io era ragazza, allora, e abitavo dirimpetto al loro palazzo e mi chiamarono su, in cucina, ed ebbi pranzo, e due gelati, e confetti! E quando nacque Anna! Che battesimo, don Domè! Solo il vestito di ricamo della bambina, valeva trecento lire. Chi glielo avesse detto, a donna Nannina, quel che le doveva succedere! - Voi la vedete, qualche volta, la signorina Anna? - soggiunse, con voce velata, Domenico. - Raramente. Che volete, era ricca, è diventata quasi povera, e non se ne può capacitare. Non parla, non si lagna, non versa una lagrima, ma io so che ne patisce moltissimo. Aveva già dieci anni, quando cominciarono i cattivi affari. Essa capiva tutto. Fu un seguito di disgrazie; a quindici o sedici anni, vi fu il fallimento, e Anna vedette morire sua madre di un tifo, una malattia nella testa, venutale pel dispiacere. Così, a poco a poco, venduto tutto, padre e figlia si sono ridotti, anni fa, con qualche migliaio di lire, in questa farmacia, e ora sono pieni di debiti, sempre, e non possono andare avanti, perchè non hanno capitali, e la farmacia è quasi vuota di medicine... - Poveretta... poveretta! - disse Domenico a occhi bassi. - Sì, poveretta, proprio lei, perchè fino adesso, almeno, ella stava sola sola, al terzo piano, in un quartino del palazzo Angiulli, e lì lavorava, in segreto, non uscendo quasi mai, vergognandosi di uscire, non avendo vestiti nuovi, perchè donna Nannina è molto superba. Adesso, nientemeno, il padre la vuole far scendere in farmacia, a vendere, e lei non vuole, non vuole... - Ha ragione! Ragione, don Domè? Quando vi sono guai, bisogna fare tutto. Don Carluccio non può più pagare nè il commesso, nè il contabile: d'altronde, donna Nannina è una bella giovane... - Voi che cosa dite, donna Clementina? - Eh già, dico questo, che, senza peccato, una bella giovane può stare al pubblico, anzi tira gente e può trovare anche un buon partito... - Queste sono le cinque lire - replicò don Domenico. asciuttamente, troncando il discorso. La verbosa sarta dei santi lo guardò, un po' stupita, prendendo il danaro. Sentiva di aver detto qualche cosa di spiacevole, ma non comprendeva che cosa. Si levò. con uno sforzo. Don Domenico era tornato presso la statua di san Michele, ma non aveva ripresa la stecca. - Tante grazie, don Domenico: Dio vi deve benedire, in ogni cosa che desiderate. Domani sera, vi porto la veste di santa Rosalia... - Va bene, buona sera. - Buona sera, buona sera. Uscita donna Clementina, il pittore dei santi girò due o tre volte per la bottega, così, come se cercasse qualche cosa che non trovava. Il mal odore della creta, delle biacche, dei colori, si era fatto anche più opprimente. - Io apro un poco: non importa che fa freddo - disse, come fra sè. Uscita donna Clementina, il pittore dei santi girò due o tre volte per la bottega, così, come se cercasse qualche cosa che non trovava. Il mal odore della creta, delle biacche, dei colori, si era fatto anche più opprimente. E schiuse la porta; la lasciò spalancata; uscì sulla via. Involontariamente, mentre faceva due o tre passi, avanti e indietro, quasi non sentendo il freddo acuto di tramontana che aveva persino disseccato l'umido della piccola strada, i suoi occhi si levarono, in alto, verso la gran muraglia del palazzo Angiulli, laterale alla chiesa della Madonna dell'Aiuto. Ivi, quattro linee di finestre e di balconi si sovrapponevano; alcuni illuminati, altri no, il secondo piano tutto chiuso e sbarrato, poichè la vecchia principessa di Santa Marta, quell'anno, non era tornata da Turi, in provincia di Bari, dove i suoi coloni si negavano di pagare i fitti, ed ella era restata in provincia per vessarli, per perseguitarli. In verità, gli occhi di Domenico erano fermi a un balconcino del terzo piano, balconcino illuminato fiocamente, come da una lampada velata. Ma niuno appariva dietro i cristalli, in quella gelida sera d'inverno. Un'ombra oscura di donna, venendo dai Banchi Nuovi, con passo leggiero, ma un po' lento, sfiorò il pittore dei santi: la persona si fermò. - Buona sera, Mimì. Era una voce assai tenue, ma musicale, quasi cristallina, nella sua tenuità. Un viso bianco, appena, si distingueva, nella cornice di uno scialle, di un cappuccio bruno. - Buona sera, Gelsomina. - Che fai, qui, a quest'ora, Mimì?- chiese la piccola voce, un po' cantante e così limpida. - Prendo l'aria. - Con questo freddo? - Dentro, vi è cattivo odore, ho lavorato troppo, oggi. E tu, dove vai? - Vado alla Congregazione di Spirito. Vi è la novena della Immacolata. - Ti vuoi fare santarella, Gelsomina? - Oh no!- disse la soave voce, con un profondo sospiro, pieno di rimpianto, pieno di rammarico. - E perchè no? - Perchè ... perchè ... perchè! - soggiunse la donna, la giovine, con un accento enigmatico, pieno di malinconia. - Di' una preghiera, per me, Gelsomina - replicò Domenico, facendo per rientrare nella bottega. - La dico, la dico. Buona sera; dopo la Congregazione, Mimì, vengo a darti la buonanotte. E la figurina di donna se ne andò, col suo passo lieve ma rapido, verso il portoncino della Congregazione di Spirito, vi sparve. Il pittore dei santi era rientrato in bottega, aveva chiuso la porta, e come ristorato dall'aria fredda bevuta, fuori, aveva ricominciato a lavorare, assiduamente, intorno al suo san Michele. Il taciturno stuccatore, accanito alla fatica, appena levava il capo, mentre le sue mani sozze di biacca, di colori, di argento, andavano, andavano, sopra le scaglie rotonde dell'armatura del cherubino. Quasi un'ora passò, in un lavoro muto e assiduo, senza che nulla e nessuno venisse a disturbare il pittore dei santi e il suo compagno di lavoro. Erano, forse, le sette, quando stridette di nuovo la maniglia della porta, e la vetrata, aprendosi, lasciò il passo a un uomo, che, subito, richiuse cautelatamente la porta. - Buona sera, signor Maresca. - Buona sera, signore. Il nuovo arrivato non si avanzava, fermo innanzi alla vetrata chiusa. Era un uomo di circa quarantacinque anni, con un volto che aveva dovuto esser molto bello e molto nobile, ma che portava le tracce di appassimento precoce, di una sfioritura dovuta, certo, ai piaceri o ai dolori, e forse ai piaceri e ai dolori, insieme, di una esistenza agitata e febbrile. Un viso consunto, infine, coi neri capelli tutti brizzolati sulle tempie: una piega di silenzio amaro, ai due lati della bocca. Alto, ben fatto, quell'uomo appariva già un po' curvo, e le sue mani, guantate con eleganza, si appoggiavano sovra un bastone dal pomo di argento, con una certa stanchezza. Egli era chiuso in una pelliccia, molto ricca, e tutto l'insieme denotava il gentiluomo, specialmente la nobiltà persistente dei lineamenti sciupati. Domenico Maresca, che lo doveva conoscere e che doveva, anzi, sapere bene lo scopo di quella visita, comprese anche che il gentiluomo non voleva inoltrarsi nella bottega: lo comprese pure dallo sguardo inquieto e sospettoso, che l'altro aveva volto verso lo stuccatore di Basilicata. Allora, il pittore dei santi si accostò al gentiluomo, presso la porta, e, in piedi, a voce bassissima, smorzando le parole, avvenne il seguente dialogo: - Io sono venuto, signor Maresca, per quella faccenda. - Sta bene, signor duca. Sono a voi. - Fatemi il piacere di non darmi il titolo - replicò subito il gentiluomo, soffocando un moto d'irritazione. - Io sono un divoto, niente altro. Che mi dite, per la mia statua? - Io non posso cominciare il lavoro che fra tre mesi. - E perchè? - Il perchè, l'ho già detto, signor... l'ho detto l'altra volta. Ho impegni, per tre mesi, per statue piccole e grandi. Sono solo, al lavoro: non mi posso fidare di nessuno. Questo qui è semplicemente uno stuccatore... - La statua mia, la voglio da voi. - Anche! - Il doppio? - Ho promesso ad altri, debbo mantenere - mormorò Domenico Maresca, crollando il capo. E perchè tanta fretta? - È un voto - disse misteriosamente, a occhi bassi, il gentiluomo. - Capisco. La Madonna, però, vede, capisce, sa, e si ricorda. La vostra intenzione le è nota. Ma se volete onorarla veramente, se volete avere una cosa molto bella, bisogna che aspettiate. - Sicuramente. La vostra Madonna è lì. E fece un cenno con la mano, alle sue spalle. - Dove? - Là. Domenico Maresca indicò la colossale statua, completamente ed ermeticamente chiusa nel grande panno bigio, di cui si distingueva solo la massa informe, ma nessuna linea. Il gentiluomo fece un paio di passi nella bottega, come a veder meglio: ma restò con gli occhi fissi su quella parete, ove la gran forma celata si rilevava. Era assorto. - Mi pare piccola - disse, poi, lentamente, senza distogliere gli occhi. - Sono le vostre misure. - Sì, ma è piccola... - Piccola? Ma in quale chiesa deve andare? - interruppe il pittore dei santi. - Questo, non debbo dirvelo - rispose seccamente il gentiluomo. - Dite che sono le mie misure; e vi credo. Forse, l'avrei voluta più grande... - Quella di santa Brigida è assai meno grande... - spiegò l'artefice, non aggiungendo altro, per discrezione. - Credete? Gli occhi s'ingannano. E non si può vedere? - Che vorreste vedere? Nulla è fatto. Fra tre mesi: vi ripeto. - Ho compreso, ho compreso. Ma, intanto, avete dato gli ordini per la veste ricamata? - Sì, di questo mi sono occupato. Ho cercato di averla dai fratelli Rota, anche pagando bene, poichè mi avevate dato carta bianca; ma i fratelli Rota hanno tutte le loro ricamatrici già prese per altri due o tre mesi, per lavori di pianete, e di altri arredi sacri. Anche qui, bisognava aspettare. Allora sono andato da donna Raffaelina Galante, una ricamatrice che lavora in casa sua, con due sue nipoti, per vedere se fosse libera ... - E lavora bene? - Ricama divinamente. Donna Raffaelina sarà libera fra un mese e acconsente a ricamare, per voi, questa veste e questo manto della Madonna Addolorata. - E quanto tempo vi metterà? - Ce ne vorrà, del tempo: tutto il davanti dell'abito e i due lati del mantello, innanzi, li deve eseguire lei, perchè le sue nepoti valgono meno di lei, come ricamatrici. Le parti di spalla, diciamo così, le affiderà a loro. Domanda sei mesi di tempo. - È enorme! Non l'avrò mai, questa Madonna Addolorata - disse, irritatissimo, il gentiluomo. - Ma una ricamatrice in oro non può far miracoli, anche in onore della Vergine! Avrete una veste e un manto che saranno tutta una schiuma di ricamo. - Sarà... sarà! Io ho tanto bisogno di sciogliere il mio voto! Sul viso consumato del duca s'impresse un sentimento vivissimo di necessità triste, di necessità dolorosa. - E che mi dite del prezzo, signor Maresca? - Per la statua, nulla posso dirvi ancora, ma c'intenderemo facilmente. Per la veste e il manto ho calcolato, così, alla meglio, che ci vorranno un cinquemila lire di oro. - Cinquemila? - Già, deve esser di finissima qualità, mi avete detto. - E le ricamatrici? - Sono tre: lavoreranno sei mesi: non si contenteranno meno di millecinquecento lire. - Benissimo! Avete pensato agli ornamenti, la corona d'argento massiccio, le sette spade, il fazzoletto di merletto? - Vi è tempo, vi è tempo - disse, con un sorriso, il paziente Domenico Maresca. - Io voglio darvi del denaro, intanto - mormorò il fremente gentiluomo, facendo atto di sbottonarsi la pelliccia. - No. Fra un mese. Man mano che servirà l'oro per donna Raffaelina Galante, voi mi darete mille lire alla volta. - Perchè non tutto? - No, non mi piace tenere troppo denaro degli altri, ed è inutile lasciare cinquemila lire di oro, in casa della ricamatrice, che può esser derubata. - Sta bene. Credete dunque, che io possa avere la mia Madonna dei Dolori, per l'agosto? - Lo credo; se non sorgono ostacoli. - La festa dell'Addolorata è in ottobre. Maresca, io debbo avere la statua prima della fine di agosto. Essa deve partire...lontano... Si pentì subito, il gentiluomo, di quello che aveva detto. La sua voce bassa diventò novellamente aspra. - Ricordatevi, Maresca, che voi non mi conoscete, che non mi avete mai veduto. Non voglio aver rapporti con l'argentiere, con la ricamatrice, con nessuno. Tutto passerà per mano vostra. - Sta bene. - Quando vi domanderanno di chi è la statua, che direte? - Io non debbo dire nulla, signore. - Avrete una moglie, una sorella, una innamorata, le racconterete tutto! - Io non ho nessuno - disse austeramente il pittore dei santi - e a mia madre istessa, benedetta anima, nulla narrerei. - Benissimo. Quando la statua sarà finita, io la manderò a prendere, per gente mia. Voi non chiederete nulla a loro, nè donde vengono nè dove vanno. Io vi avrò già pagato. E vi scorderete di aver eseguito questa Madonna, come se fosse stato un sogno; come se mi aveste visto in sogno; voi vi scorderete di tutto. - Sta bene - ribattè il pittore dei santi. - Questo è il mio voto, signor Maresca, - concluse il gentiluomo, di cui le parole, adesso, tremavano, come vinte da una fortissima emozione. - Che la Vergine lo esaudisca - replicò Domenico Maresca, commosso anche lui. - Deve esaudirlo, deve - esclamò, sempre piano, ma con forza, il duca; - se no, sono perduto. - La Vergine non permette che si perda nessuno. - Ma io sono un peccatore, un grandissimo peccatore - disse, con voce spenta, quasi parlasse a sè stesso, il gentiluomo a occhi bassi, pallido, sfinito nelle linee del viso e nella espressione. Egli null'altro aggiunse; dopo una pausa, salutò il pittore e sparve dietro la vetrata che si richiudeva. Dal vicolo di Donnalbina, pochissimo lontano, ove Domenico Maresca aveva conservato il quartinetto di tre piccole stanze, abitato da tanti anni con suo padre, e ove suo padre era morto, Mariangela, l'antica serva, aveva consegnato nelle mani dello sciancatello Nicolino, adibito al servizio della bottega dei santi, la cena del suo padrone. Difatti, sulla tavola, sbarazzata alla meglio di quanto vi giaceva sparso e confuso, distesa una tovaglia grezza, ma pulita, una larga terrina era stata collocata, piena di una zuppa spessa e fumante, di ceci mescolati con la pasta; in un piatto più piccolo, erano disposti due piedi di maiale, bolliti, cibo che Domenico Maresca prediligeva: due mele limoncelle completavano questo pasto, a cui sedettero il pittore dei santi ed il suo aiutante, Gaetano, perchè costui era solo, in Napoli. Domenico, oltre la giornata, dava anche il cibo, obbedendo segretamente a un sentimento fraterno e misericordioso, verso quell'artefice povero e solingo, che portava nel viso e nel cuore tutta la tristezza della sua onesta e povera regione di Basilicata, e che, malgrado il suo umor torbido e taciturno, era un lavoratore esperto, accanito e fedele. I due mangiarono lentamente, in silenzio, con una grossa fame di faticatori che non si erano mai fermati, in otto ore, dal lavoro: a cucchiaiate essi riprendevano la zuppa, mettendola nel loro piattello: ognuno divorò pianamente le cartilagini grigie e bianche che formano un piede di maiale, alternando il mangiare con qualche lungo sorso di vino. Nicolino, paziente, rassettava, alla meglio, la bottega, aspettando di avere la sua parte, negli avanzi. Sempre ne restava, poichè Mariangela abbondava nella quantità, trovando che il suo padrone non aveva mai abbastanza appetito, compatendolo perchè lavorava troppo, perchè faceva una vita troppo rude e malinconica, per la sua età, e sapendo, anche, la provvida serva, che altri doveva pranzare e cenare con lui, con gli avanzi del pranzo e della cena. Oh, le terrine, i piatti, ritornavano assolutamente vuoti, nel vicolo di Donnalbina, ben legati nel grosso tovagliuolo: lo storpio vivace e famelico si occupava di ripulir tutto, col cucchiaio, col pane. Finita la cena, e non più di due o tre frasi erano state scambiate, Gaetano si levò, si tolse la lunga blusa scolorita dall'uso e coperta di macchie, s'infilò una pesante giacchetta sovra un panciotto di lana, a maglia, oscuro, si tolse il tradizionale berretto di carta, si mise un cappellaccio vecchio, e salutò: - La buona notte a voi, don Domenico. - Buona notte, Gaetano. Il pittore dei santi rimase solo col ragazzino. Anche costui, dopo pochi minuti, andò via, per riportare in casa del padrone tutto ciò che era servito per la cena. Domenico Maresca ebbe un momento d'incertezza, come, ogni tanto, gli capitava, quando non si trattava dei suoi santi: ritto in mezzo alla bottega, era assorto in un dubbio, poichè la sua fisonomia esprimeva una pena leggera. - Santa notte, Mimì. - Santa notte, Gelsomina. La donna, la giovine che gli aveva parlato, nell'ombra, nel freddo, in mezzo alla strada, un'ora e mezzo prima, era entrata nella bottega dei santi, col suo passo leggerissimo e molle, un poco. La luce delle due grandi lampade, rinforzata dai riflettori, ne chiariva, adesso, nettamente, la figura. Gelsomina era una fanciulla di diciotto anni; ma nel volto pallido e lunghetto, ove appena appena si diffondeva una sottile tinta rosea, persisteva una espressione infantile, che lo ringiovaniva assai: e nello sguardo ora puerilmente malizioso dei suoi grandi occhi grigiastri, ora un po' smarrito come di bimba sgomenta, in certe mosse della bella piccola bocca, sempre un po' schiusa, dalle labbra un po' sollevate sui dentini bianchi, nelle mosse di capriccio, di noia, di breve dolore, ancora, sempre, la infantilità si manifestava. Gelsomina avea una voglia , al basso di una guancia, presso il mento: un segnetto a forma di cuore che, un po' indistinto, d'inverno, si faceva roseo in primavera e prendeva l'aspetto di quel che era, cioè una voglia di fragola. Qualcuno, per ischerzo, per l'abitudine popolare di mettere soprannomi, la chiamava fraolella , la fragoletta; ma ella s'indignava, i suoi occhi chiari si riempivano di una collera poco temibile, o di grosse lacrime. Credeva che quel segno, quella voglia, le deturpasse il viso: e non voleva che le fosse ricordato, mai. - Io mi chiamo Gelsomina - diceva, fra l'ira e il dolore. Gelsomina aveva, su quel viso ovale e pallido, sulla fronte breve, una massa fine e morbida di capelli castani che ella non sapeva mai pettinare bene, che disdegnava di farsi pettinare dalle solite acconciatrici del popolo, e il cui nodo, a treccia, le si disfaceva, sempre, sulla nuca, le cui ciocche si sfrangiavano, sempre, sulla fronte, sulle tempie. Uno dei suoi gesti favoriti era di rialzarsi le ciocche che le cadevano sugli occhi, di riannodare la treccia, sulla nuca. Usava, in questi capelli, delle forcinelle vistose, in falsa tartaruga, in chincaglieria, guarnite di perle false, di oro falso: ed era lì lì per perderne sempre qualcuna, sporgente dai capelli malfermi. Alta, snella, con una gracilità di forme che era piena di grazia, Gelsomina vestiva volentieri di nero, con una gonnelluccia attillata, che lasciava vedere i piedi, con una vitina molto attillata, su cui ella, a segnare di più la sua snellezza, portava una cintura di pelle chiara, con una fibbia d'argento falso, carica di pietre false. Sul vestito nero, al collo, aveva quasi sempre una folta cravatta di seta rosa, di seta celeste, di seta lilla, o di merletto crema, che formava un fiocco ricco, ove, volentieri, ella abbassava il volto e immergeva il mento. Pure nella cravatta portava un fermaglio chiassoso, di falsi diamanti. Camminava con un passo particolare, quasi appena toccando terra, ma senza mai correre, anzi con un certo languore: e portava la piccola testa eretta, la bocca sempre un po' aperta, quasi a bere l'aria, come un uccellino. E di uccellino era la sua voce chiarissima, cristallina, con intonazioni curiosamente musicali, con certe sillabe trillanti, certe sillabe cullanti, nel loro suono cadenzato. Per ripararsi contro il freddo della cruda stagione, quella sera, ella portava sulle spalle, sino alla cintura, una mantellinetta di panno nero, con qualche ricamo di giaietto, una povera piccola mantellina, comperata per cinque o sei lire, in un emporio a buon mercato; e, avvolto intorno al capo, uno scialletto di lana nera, a uncinetto. Teneva le mani nascoste sotto la mantellina, con un movimento di freddolosa. I suoi occhi larghi e chiari si fissarono su Domenico Maresca, con vivacità tenera, quasi interrogativa: - Hai da fare, Mimì? Posso restare? - Non ho più da fare, resta. - Hai cenato? - chiese ella, sedendosi, in un angolo, presso la tavola. - Ho cenato. - Prosit ! - E tu, non hai cenato, Gelsomina? - Io non ceno - mormorò ella, crollando il capo, togliendosi i capelli dagli occhi. - Perchè? Non hai appetito? Mammà non ti dà la cena? - Io ho appetito - rispose Gelsomina, piano. - Ma non sempre, ho appetito. Allora, siccome mammà mi dà tre o quattro soldi per la cena, io me li conservo. - E brava! - disse il pittore di santi, con un lieve sorriso. - Hai denaro da parte, allora. - Mai niente! - esclamò ella. ridendo un poco. - Appena ho due o tre lire, io le spendo. - E che compri? - Tante cose! Un metro di setina per farmi una cravatta; un fazzolettino fine; una broscia; un po' di merletto per le camicie. - Ti piace di comparire, eh? - le chiese bonariamente il pittore dei santi. - Assai! - diss'ella, con un lampo schietto di vanità, nei grandi occhi. - Mi piace assai! E non posso comparire: sono troppo pezzentella, Mimì. Una malinconia le velò il delicato viso pallido, una vera malinconia puerile, di bambina delusa nelle speranze e nei desiderii. - Perchè te ne affliggi tanto, Gelsomina? Fai all'amore, non è vero? - Io? Io? - proruppe lei, arrossendo tenuemente, sotto la pelle fine del volto. - Me lo hanno detto - soggiunse lui, per scusarsi, col suo solito tono di bontà. - Si dicono tante cose... - Sono bugie - rispose lei, un po' lentamente, abbassando le palpebre sugli occhi. - Sono tutte bugie. Io non amoreggio con nessuno. - Tanto meglio - disse lui, per conchiudere. Ella fissò di nuovo gli occhi in quelli di Mimì Maresca, quasi aspettasse, con curiosità, con ansietà, un'altra domanda. Ma egli tacque. Non la guardava neppure. Gelsomina ebbe una leggiera smorfia di dispetto sulla bocca. E, dopo un silenzio, si decise lei a riprender quel discorso. - Che ti hanno detto, le male lingue del quartiere, Mimì? Con chi ti hanno detto che io amoreggiavo? - Non vi badare. La gente parla così volentieri! - No, no, me lo devi dire, Mimì. Voglio che me lo dici. - E poi ti dispiaci, eh? - Non mi dispiaccio, se me lo dici tu. La voce della giovinetta era diventata, adesso, malinconica e carezzevole, mentre Domenico Maresca conservava il suo tono semplice e quasi indifferente. - Ebbene, giacchè lo vuoi sapere, te lo dirò. Mi hanno detto, che tu amoreggi con don Franceschino Grimaldi, il figlio della baronessa. Ella scrutò ancora la fisonomia tranquilla, affabile e un poco stanca del pittore dei santi, e invece di rispondere, affermativamente, negativamente, interrogò, a sua volta: - E tu vi hai creduto? - No, - disse lui, con una certa serietà. - Meno male! - Non potevo credere, Gelsomina, che una ragazza buona e religiosa, come sei tu, amoreggiasse con un signore. - Già... - disse lei, dopo una pausa. - Dovrei essere una pazza, a fidare nelle chiacchiere dei signori. - E non le ascolti, non è vero, Gelsomina? - Non le ascolto, Mimì, quando posso - continuò lei, pensosa, esitante. - Non sempre, posso. Certe volte, quando io mi nascondo, mentre passa don Franceschino, mammà mi sgrida. - Mammà? - Eh, si! Dice che è il figliuolo della padrona di casa; che noi siamo dei poveri portinai; che non bisogna essere screanzati; se no, ci mandano via. - E tu che rispondi? - Non rispondo nulla, certe volte. Quando sono di malumore, rispondo male, che non ho voglia di amoreggiare con don Franceschino, per farmi corbellare da lui, e che se si deve mangiare quel pane, io preferisco il digiuno. - E mammà? - Qualche volta mi schiaffeggia. - Per questo? - Per questo. E con un accento semplice e profondo, la ragazza concluse: - Tu lo sai, Mimì, che essa non mi è madre. - Povera Gelsomina! - soggiunse lui, con un accento di vera pietà. La ragazza chinò la fronte e tacque. Aveva disciolto, parlando, il nodo, sotto il mento, del suo scialletto nero e lo aveva arrovesciato sulle spalle. La luce batteva sovra quella massa folta di capelli oscuri, mezzo disfatti sul collo, sovra la metà di un piccolo orecchio bianco appena roseo, ove una grossa pietra verde pendeva, una malachite, e disegnava un profilo abbassato, giovanile, fine. L'uomo, seduto un po' lontano da lei, abbandonava sulla sedia il suo corpo tozzo, così goffo, e sotto la luce vivida le ombre giallastre diffuse sul suo volto, un poco gonfio, scialbo, meglio si vedevano, si vedevano anche le radure dei capelli sulla fronte; e le radure dei baffi che crescevano male, incolti, di un colore biondo biancastro. Pure, gli occhi di Gelsomina, risollevandosi, si fissarono in quelli di Domenico, con un effluvio di simpatia, di fiducia, di speranza. E, ancora una volta, ella parve delusa. Si accorse che, da prima sera, Domenico era profondamente distratto: e che egli aveva dovuto fare uno sforzo, per interessarsi a ciò che ella gli aveva narrato. Gelsomina non disse nulla: un sospiro le sollevò il petto. - È tardi, Mimì - ella riprese. - Che fai tu, adesso? - Chiudo la bottega e vado a casa. - Direttamente? - Direttamente. - E là, che fai? - Mi spoglio, mi corico, dormo. - Hai sonno? Sei stanco? - Spesso la stanchezza non mi fa dormire - replicò lui, con cera turbata, quasi che prevedesse l'insonnia. per quella sera. - E allora, che fai? - Penso. - E che pensi ? - chiese lei, già sorridente. - Alle pecore che hai in Puglia? - A tante cose... a tante persone - mormorò Domenico, quasi dicendolo a sè stesso. - All'oscuro, stai? - No, ho la lampada, accesa, innanzi all'Addolorata. - Io avrei più paura - disse lei, con accento bambinesco e guardandosi intorno - io avrei più paura, con la lampada accesa. Mi parrebbe di vedere delle ombre... - Quali ombre? - Gli spiriti, Mimì, i morti. - Che! - disse lui, come sognando - i morti non ritornano. - Quando ero più piccola, Mimì. io, dopo il rosario, pregavo sempre la Madonna di farmi vedere la mia mamma... sai... quell'altra ... la mamma mia vera... - e i grandi occhi di Gelsomina si fissarono, sognanti, guardando, nell'ombra, verso la strada. - E l'hai mai vista? - domandò ansiosamente Mimì Maresca. - No; mai. - E io neppure, mia madre. - Ma tu non te la ricordi? - chiese ingenuamente la fanciulla. - Non me la ricordo - disse, brevemente, il pittore dei santi. - Io sì, io sì, la mia. - Beata te! - mormorò lui. - Io non ho neppure un ritratto, nella casa mia, che mi pare un deserto. - Chi vi sta? Sola, Mariangela? - Mariangela, nessun altro. Un giorno o l'altro la povera vecchia se ne muore, e un saluto alla compagnia. - E tu... tu... perchè non ti ammogli? Gelsomina si vergognò della domanda, subito dopo averla fatta. arrossi lievemente e strinse la bocca, contegnosamente, per assumere un aspetto serio. - Non vi ho mai pensato... - disse Mimì, semplicemente. - E pensaci! - Nessuna mi vuole: sono brutto: non so dire due parole: tutte mi rifiuterebbero. - Perchè dici questo, perchè lo dici? - protestò lei, fra la collera e la tristezza. - Sei così buono! Sei un santo! Tutte ti vorrebbero! - Tutte, sarebbero troppe - rispose lui con un sorriso affettuoso, innanzi all'entusiasmo della sua amica Gelsomina. Una, basterebbe. - E perchè non la cerchi, Mimì? - Io? Non ho il tempo. Ho da scolpire i santi, ho da dipingere le Madonne. - Non ti occupi che di questo? - Così mi hanno avvezzato - conchiuse lui, malinconicamente. Tacquero, ancora. Ella sollevò lo scialletto sul capo, se lo legò sotto il mento. Era pensosa, di nuovo: incerta, anche, come se volesse fare o dire qualche cosa, e una forza intensa la rattenesse. Si mordette, un istante, il breve labbro inferiore. - È tardi, Mimì, me ne vado: buona notte. - Vuoi compagnia? - No, no. non importa: sono due passi: tutti mi conoscono: buona notte; è tardi: buona notte. - Mammà non ti sgrida, perchè hai fatto tardi? - No: sa che dico due parole con te, dopo la Congregazione. Non mi sgrida mai, per te. Tu sei un santo! La fanciulla puntò le sue ultime frasi di un piccolo riso. ove vibrava un po' di scherno. Mimì parve non avesse udito ed ella, partendo, ora, decisamente, dalla soglia. gli ripetette, con una voce, ove vibrava una tristezza profonda: - Buona notte, Mimì. Si allontanò, la figurina vezzosa, muliebre, nella oscurità della via: i passetti lievi si allontanarono. con un rumore sempre più fievole. Inconsciamente, un sospiro sollevò il petto del pittore dei santi. L'uomo veniva, in fretta, quasi, dal tetro vicolo di Donnalbina, che si distende da via Monteoliveto sino alla piazzetta della Madonna dell'Aiuto: l'aria della notte si era fatta gelida, e, ogni tanto, un rude soffio di vento spazzava la polvere, verso i Banchi Nuovi: l'uomo era chiuso in un pesante cappotto e portava intorno al collo una grossa sciarpa di lana, in cui abbassava il viso, un viso di cui si vedeva bene il colore scialbo, malgrado le ombre notturne. Poi, in piazza, il suo passo si rallentò, divenne incerto: obliquò, a diritta, verso la chiesa della Madonna dell'Aiuto, verso la bottega dei santi, che, a quell'ora, era ermeticamente serrata. Giunto nella viuzza deserta, appena rischiarata, in fondo, da una vacillante fiammella di gas, in fondo, verso santa Maria la Nova, l'uomo si fermò e levò gli occhi, in alto, verso quel lato alto e bruno del grande palazzo Angiulli. Come nelle prime ore della sera, lassù, in alto, vi era un balcone illuminato: ma illuminato senza vivacità, tenuamente, come da un povero lume modesto, che rischiarasse un lungo lavoro, un lungo pensiero, una lunga infermità, qualche cosa di paziente, di costante e di silenzioso. L'uomo, Mimì Maresca, immobile, col volto levato in alto, teneva fissi gli occhi in quella luce quieta e mite, e non pareva si accorgesse del tempo che trascorreva verso la mezzanotte, delle folate di vento che s'ingolfavano dal vicolo nella piazzetta, e che gli sbattevano sul viso, col rigore della tramontana, tutto il pulviscolo immondo della strada, che nessuno aveva spazzata, nella giornata. Un viandante passò, in gran fretta, urtando Mimì Maresca: costui, macchinalmente, si scostò, si appoggiò allo sporto della sua bottega chiusa, senz'accorgersi dello sguardo diffidente che, allontanandosi, lanciò su lui, colui che passava, lo sguardo di chi crede di essere sfuggito a un ladro. Più tardi, lentamente, da san Giovanni Maggiore, si avvicinarono due carabinieri, muti, quasi indifferenti: costoro squadrarono il pittore dei santi che restava addossato alla sua bottega, e senza dirsi nulla, tirarono avanti, ma con maggior lentezza. Egli di nulla si avvedeva, quasi che lo assorbisse il più intenso fra i pensieri che, in tutta la giornata, lo avesse perseguitato, e che fosse stato perseguitato, a sua volta, dal lavoro, dalle visite, dalle cento distrazioni dei fatti e delle persone; un pensiero che, infine, in quell'ora nera, gelida, tacita, della notte, riportasse la sua vittoria sovra ogni cosa, ogni fatto, ogni persona: un pensiero che, nella solitudine della sua triste casa del vicolo Donnalbina, avesse impedito ogni sonno e ogni riposo a Domenico Maresca, lo avesse strappato al caldo, al letto, e lo avesse spinto, a quell'ora, nella via solo, solo, solo, con gli occhi messi in quella luce fioca lontana: un pensiero! E, a un certo punto, quasi che il potere fascinante dello spirito che desidera e che invoca, avesse esercitata tutta la sua misteriosa forza, dietro i vetri del balcone alto, un'ombra apparve, oscurando metà di una impannata. La persona, una donna, era così lontana, che era impossibile discernere nessun tratto. Pareva, solo, che avesse appoggiata la fronte al vetro, poichè vi rimaneva immota, in atto silenzioso, in atto di stanchezza. Non vedeva, ella, certo, nella via, colui che, appoggiato contro il bruno legno della bottega dei santi, vi si confondeva nei suoi panni bruni, nelle tenebre notturne. Non vedeva, certo, che Domenico Maresca tremava, laggiù; le sue labbra, un po' schiuse, pareva che mormorassero incomposte parole, di cui non si udiva il suono; le palpebre battevano sugli occhi immoti. Senza aver visto, certo, l'ombra femminile si arretrò, scomparve. Poi, dopo un momento, anche la tenue luce si spense. E solo, solo, solo, il pittore dei santi, giù, piangeva.