Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbassata

Numero di risultati: 5 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245272
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
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Ed ecco d'un tratto l'uomo che stava sdraiato cominciò ad agitarsi stranamente: dapprima buttò via il sacco, scoprendo le grosse spalle rivestite di una giacca da cacciatore; poi sollevò la testa grossa pur essa e avvolta da una nuvola di capelli neri polverosi, infine puntò i gomiti sulla stuoia, ma tosto si lasciò ricadere come impotente ad alzarsi: dopo qualche attimo, però, si volse e si mise a sedere, d'un colpo, con le gambe lunghe distese, le mani aperte appoggiate a terra, la testa così abbassata sul petto che i capelli gli velavano il viso grigio e duro come scolpito sulla pietra: aveva gli occhi chiusi e tutto un aspetto di Sansone cieco. Davide lo guardava con un po' di derisione. - Adesso sentiremo anche il suo verbo, - pensò; ma intanto si rimise a fumare sospendendo la sua decisione di alzarsi e di uscire. - Davide D'Elia, - cominciò a dire I'uomo, dapprima come parlando fra sè poi a poco a poco alzando la voce e in tono alquanto declamatorio, - la sua serva vecchia ha perfettamente ragione. Manca di rispetto e di obbedienza ai suoi padroni, ma parla secondo la sua coscienza. Non si manda via così una creatura smarrita. Oh, se la famiglia D'Elia non ha un pezzo di pane da dare a un bambino povero a che è ridotto il mondo? - Ma sta un po' zitto! - gli disse Elisabetta, sebbene egli prendesse le parti di lei. L'uomo parve non sentirla, però proseguì con tono più dimesso e più sincero: - La famiglia D'Elia mantiene qui sulla stuoia come un Cristo deposto il suo servo cieco, buono più a niente, e rifiuta ospitalità a una creatura smarrita? Mandatemi via, piuttosto, mandatemi via. Mandatemi via, - ripetè per la terza volta con voce tremante; - io troverò sempre chi mi farà l'elemosina e non correrò pericolo come può correrlo questa creatura innocente, - E basta, - gridò a sua volta Davide masticando il cannello della sua pipa. E il cieco non replicò. Era del resto un uomo taciturno e mite: i D'Elia lo tenevano presso di loro perchè egli s'era accecato spegnendo un incendio nel loro granaio: non parlava quasi mai, non s'immischiava mai nei fatti di casa; ed era con una certa meraviglia che le donne, adesso, l'avevano sentito gridare. Anche Davide si difendeva contro un vago turbamento superstizioso: gli pareva che il cieco parlasse meccanicamente, spinto da una volontà superiore alla sua: come una marionetta che altri fa muovere. Bisognava non prender la cosa in derisione, ma pensarci su. Il cieco non replicava: rimaneva però fermo nella sua posizione, come aspettando che il padrone si alzasse per alzarsi anche lui e continuare nella sua protesta. Ma neppure il padrone si mosse. E così, per quella notte il bambino rimase in casa.

Pagina 14

In Toscana e in Sicilia

245754
Giselda Fojanesi Rapisardi 2 occorrenze
  • 1914
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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Fu abbassata la lanterna, la quale illuminò qualcosa di spaventoso, d'orribile a vedersi: un povero corpo stecchito, tutto nero, carbonizzato, irriconoscibile... I due uomini bensì lo riconobbero subito, e si guardarono in faccia, pallidi, esterrefatti... gli occhi del padre, larghi, dilatati, si empirono di lagrime: erano le prime che si versavano per quella povera creatura, morta come era vissuta, immolata all'egoismo e alla crudeltà degli altri. Cesare depose la lanterna, si chinò, prese i miseri avanzi mutilati della figlia sulle braccia, e si diresse verso casa, seguito da Nanni e dal cane. Salirono silenziosi le scale: la Nunzia, sentendoli tornare, si avvicinò all'uscio gridando: - L'avete trovata? dove s'era nascosta la sguaiata? - Ma indietreggiò terrorizzata, scorgendo il lugubre peso che il marito portava e che aveva veduto sinistramente illuminato dalla lucernetta posta sulla tavola di cucina. L'uomo, sempre muto, terreo, depose sulla stessa tavola il cadavere sformato, Io coprì col proprio cappotto e finalmente, voltandosi alla moglie le disse quasi sotto voce e con profonda amarezza: - Sarete contenta, ora! La Gigia intanto era caduta in ginocchio nascondendosi il viso con le mani e fra i singhiozzi disperati, andava ripetendo: - Per colpa mia, per colpa mia, per me... povera Betta!

Pagina 173

Maria, al ricordo del suo fallo, aveva abbassata la testa e chiusi gli occhi, come inorridita, e alla profezia del suo nuovo pentimento, avea fatto un segno energico di negazione, come se avesse sentito dire un'eresia. Roberto Catalani, ormai stanco e disgustato, uscì dalla povera stanza nella quale aveva pur passate tante belle ore, quando la Maria, rimasta sola in casa, dopo che il babbo e i fratelli erano andati a lavorare, lo avvertiva che poteva entrare da lei, e andò fuori, sull'aia, come per respirare e riaversi del suo sbalordimento. Il vecchio e i due giovanotti, seduti sur una panca all'ombra di un pagliaio, capirono dal viso di lui, come fosse andata la cosa: - Fiato sprecato eh? Me l'immaginavo - disse Sandro. - E se si provasse a adoperare un pò di sugo di bosco, chi sa che non fosse il modo di farle capir ragione - aggiunse l'altro fratello. - Mah! io ho fatto di tutto.... e non so più che dire..... Il Catalani, non sentendosi nè la forza, nè la voglia di discutere con loro che disprezzava, si avviò verso il vicino paesello, con l'idea di ritornare la sera per fare un ultimo tentativo. Camminava come un sonnambulo senza vedere, senza sentire.... con una gran confusione in testa, un gran vuoto nell'anima.... A un tratto si scosse e provò il bisogno irresistibile di rivedere la sua bambina. Andò dalla donna che l'allattava e la trovò con la piccina attaccata al petto. Questa, veduto il nuovo arrivato, sospese di poppare: spalancò gli occhietti guardandolo, rise alzando i piedini e battendo le manucce, come se avesse capito chi era.... Roberto Catalani si sentì inondato da una grande tenerezza: la bimba era bella, sana, tenuta bene, ed era sua... tutta sua, dappoichè la mamma l'aveva rigettata, con una crudeltà indegna perfino di una belva. Era possibile che una madre, dopo averla baciata, rinunziasse ad una creaturina simile? Fosse stata malaticcia, stentina, brutta..... ma così rosea, così forte e graziosa, proprio il frutto rigoglioso di due esseri belli e sani che si amano con tutto lo slancio, tutta la vitalità naturale dei migliori anni giovanili! Vi era da andarne orgogliosi, da tenersela come un tesoro benedetto, da coprirla continuamente di baci e di carezze. Allora Roberto Catalani pensò che rivedendo la bambina insieme con lui, la Maria non avrebbe saputo resistere, si sarebbe commossa e data per vinta. Pregò quindi la balia di prendere in collo la piccola Ghita e di seguirlo: ancora una volta il bel fiore della speranza tornava ad aprirsi nel cuore di lui; ancora una volta sorgevano delle illusioni ad illuminargli l'anima. Giunse alla casetta in fondo al villaggio, con la scala ripida di fuori, sull'aia, che incominciava ad annottare. In cucina era stato acceso un lume, se ne vedeva il chiarore fioco riflettarsi in una striscia chiara sul palchetto, dall'uscio aperto. Roberto Catalani entrò in casa e vide il vecchio che si accingeva ad accendere il fuoco, chino sul focolare basso e largo, ove era appeso il paiuolo. - Chiamatemi la Maria, fatemi il piacere - gli disse Roberto Catalani. Quegli si voltò accigliato e borbottò: - La Maria? O dov'è la Maria? chi l'ha più vista? Ha preso il volo - e stendendo il braccio, accennò con la mano che se n'era andata. La donna con la bambina in collo, era rimasta ritta, nel vano dell'uscio illuminato. Il vecchio le dette un'occhiataccia e soggiunse : - Sì, ora che è entrata là dentro, mettetegli il sale sulla coda: chi l'ha vista, l'ha vista; quelle mura agguantano, ma non rendono; era tanto che lo diceva, stasera poi s'è decisa... Per me, non ci metto nè sale nè pepe: guà, chi si contenta gode... Roberto era rimasto sbalordito: questa poi non se l'aspettava... La sua comparsa aveva dunque affrettata la risoluzione della Maria di chiudersi in convento! - E voi l'avete lasciata andare? Perchè non glielo avete impedito? Non siete suo padre? - Io? la ragazza ha l'età della discrezione, ognuno può far di sua pasta gnocchi. Che forse mi veniste a chiedere il permesso, quando metteste insieme quel negozio là? - e accennò la bimba col dito pollice, senza voltarsi a guardarla, sempre curvo sul focolare; poi riprese: - Ora invece pare che abbia mutato idea e si voglia far monaca: buon prò gli faccia; vuol dire che l'abbadessa, se la prende, ha buono stomaco. Il su' fratello maggiore ci s'è arrabbiato, è andato su tutte le furie, il grullo... Come se non fusse una bocca di meno a mangiare... tanto per quel che faceva in casa, da un pezzo in qua..... Roberto Catalani fremeva; capì che non aveva più nulla da fare in quella casa, e se ne andò con un saluto asciutto asciutto. Dopo pochi giorni il giovane pittore riappariva in città, in mezzo ai suoi amici, triste e taciturno. Quelli lo credevano già pentito del passo inconsiderato che stava per fare; nessuno osava perciò di interrogarlo e dirgli qualcosa su tale argomento. Ma il Catalani, natura franca e espansiva, non potè frenarsi a lungo e scoppiò a dire: - Non sapete, eh? non sapete che son tornato con le pive nel sacco? Non m'ha voluto sposare... siete meravigliati, eh? Vi pare impossibile... i preti, cari miei, le monache le han messo per la testa tanti scrupoli, che l'han persuasa a rinunziare a me, e, quello che è peggio, che è mostruoso addirittura, alla sua figliolina..... L'han fatta entrare in convento..... tutto è stato inutile, tutto: preghiere, minacce, ragionamenti, tutto... Non m'ha neppure guardato in viso, capite? Me l'hanno ammazzata... se vedeste... era un fiore... e la mia bambina, la mia povera bambina non avrà mai la madre..... A quest'ultimo grido, il nodo che gli stringeva la gola si sciolse e potè finalmente dar libero sfogo al suo dolore, piangendo a calde lagrime.

Pagina 25

La ballerina (in due volumi) Volume Primo

246998
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
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Lo spettacolo diurno era terminato dieci minuti prima e nella sala la illuminazione era abbassata. Sul palcoscenico, un po' fiaccamente lavoravano i macchinisti per preparare la prima scena del Lohengrin, il gran campo sulle rive della Schelda, dove viene a rendere giustizia Enrico l'Uccellatore. Fra le quinte, nei corridoi, su per le scale che conducevano ai cameroni delle coriste, dei coristi, delle comparse, era un andare e venire, un salire e scendere, affrettatamente per quelli che scappavano a godere un'ora di libertà, pian piano per quelli che restavano in teatro, quelli che abitavano lontano che non avevan soldi per andare al caffè o alla cantina. Varie ballerine si eran rivestite in fretta ed erano fuggite da quella porta a sinistra, innanzi alla quale tanti nomini hanno atteso, da che San Carlo è stato costruito e delle donne vi hanno cantato e ballato. Altre erano restate in teatro, avendo accomodato diversamente la loro giornata, non valendo la pena di uscire dal teatro, per così poco tempo: e passeggiavano, chiacchierando fra loro, alcune altre si eran gittate sovra una sedia, come estenuate e guardavano il soffitto altissimo, fra le quinte, come aspettandone Dio sa che cosa: alcune mangiavano. Le due sorelle Musto si eran fatte portare un po' di pranzo dalla casa: della lasagna al sugo di carne, il piat- to carnevalesco, imbottita di ricotta, di salciccia, di formaggio, e delle fette di polpettone nuotanti nella salsa rosso brunastra del ragù: mangiavano in un cantone del loro camerone, sovra un angolo della tavolata che serviva da toilette alle otto ballerine, fra i vasetti del rossetto, le catinelle piene di acqua sporca, e le forcinelle unte e i batuffoletti dei capelli di quelle che si erano pettinate in teatro dal parrucchiere Furlai. Esse mangiavano lentamente, in silenzio, il loro grasso pranzo napoletano; avevano invitata Checchina Cozzolino, che non aveva portato nulla, seco, a cui nessuno aveva portato niente e che per superbia, per nascondere la sua orribile povertà, aveva dichiarato seccamente di non aver fame; avevano invitata Filomena Scoppa, ma ella aveva rinunziato, ridendo, ed era discesa in istrada, da un piccolo trattore del Vico Rotto San Carlo, dove aveva comperato tre soldi di alici fritte e due soldi di pane. Ora, aperta la carta unta dalle alici sulle ginocchia, la sudiciona che era, le mangiava coli le mani tutte lucide di olio, gittando lo spine per terra. Le sorelle Musto, molto gentilmente, avevano invitato Carmela Minino che an- che era restata, ad assaggiare almeno una lasagna: la madre delle Musto era famosa per questo piatto e lei non doveva dire di no! Pure Carmela Minino disse no, sempre cortesemente, sostenendo che aveva lo stomaco chiuso: un'altra volta, sì, ma quella sera, proprio, non poteva accettare quella gentilezza. Anzi, per evitare le insistenze delle due sorelle Musto, ella uscì fuori, a passeggiare un poco, tutta sola nella penombra di quella viottola che divide i cameroni e i camerini, a diritta e a sinistra. Vi restò un poco: quando rientrò, le due sorelle finivano il largo piatto di lasagne e si servivano due fette di polpettone, della carne pesta infarcita di mollica di pane, di uova dure, di pinoli, di uva passa. Cautamente, da dietro il suo cappello, ella prese il suo pacchetto dove il pane e la carne erano pulitamente avvolte in un giornale, insieme ad una mela rosa, e senza schiuderlo, andò via, novellamente, a mangiucchiare lontano, verso la porta che conduceva al palcoscenico: per timidità, per segreta fierezza, non aveva accettato l'invito delle Musto, anche perchè non poteva mai render loro una simile amabilità, ma qualche cosa, per non basire di fame, sin dopo mezzanotte, ella doveva pur mangiare. Passavano delle coriste, delle comparse, dei facchini di scena, sogguardandola con quella familiarità del lavoro comune, del destino comune, con quella impertinenza che dànno il palcoscenico e le quinte: ella abbassava gli occhi e si fermava dal masticare, vergognandosi. Divorò a grossi bocconi la mela, non sapendo ove gittarne il cuore, senza che niuno la vedesse: circolava sempre gente. Risalì verso il fondo oscuro del palcoscenico, gittò anche il giornale, in un cantoncello. Ridiscese: aveva sete. Giusto, Maria Arneri, una piemontese di seconda fila, aveva chiesto al caffettiere del teatro un Vermouth con acqua di Seltz: il garzone se ne andava via, quando Carmela Minino gli chiese, per piacere, un bicchier d'acqua: egli si fermò e gliela versò. Gli diede un soldo: il garzone glielo restituì, galante, dichiarando: - Non si paga l'acqua. Quanto era lunga, l'ora! Almeno, per l'ora e mezzo che dura l'Excelsior, quel vestirsi e svestirsi, quel correre sul palcoscenico, quei Waltzer, quei galoppi, quel ritornare al camerone, la fretta continua, l'affanno invincibile sebbene monotono, occupavano il tempo: ma l'attesa, fra uno spettacolo e l'altro, ma l'attesa, durante lo spettacolo musicale, in quegli androni di legno, polverosi, la cui polvere non è mai vinta dall'acqua che vi si getta, sempre, la cui polvere attacca e dissecca la gola e le fauci, quegli stanzoni così caldi, pieni di pulci, esalanti ogni specie di profumo e ogni specie di nauseante puzzo, l'attesa inutile, quel perdere il tempo così, gittavano Carmela Minino in un crescente ebetimento. Talvolta, aspettando, seduta in un cantuccio del teatro, ella aveva portato seco un lavoro all'uncinetto, delle stelline di cotone bianco che dovevano unite, in numero strabocchevole, formare una grande coperta, per letto a due posti. - Non aveva ella, qualche volta, vanamente sognato di maritarsi, con qualche umile, oscuro lavoratore? - e le sue dita si erano mosse alacremente, intorno a quella fatica di ragazze del popolo: ma ella aveva avuto le beffe delle amiche e delle compagne: - Perchè non porti addirittura la calzetta, a teatro? - le gridavano, sogghignando sulla sua miseria onesta, sulle sue occupazioni di popolana. Aveva smesso. Altre volte, quando il suo spirito era più tranquillo, in quelle ore di aspettativa che la direzione del teatro le infliggeva, quando la sua schietta anima non aveva turbamenti strani, ella mentalmente, tenendosi la mano nella tasca del suo vestito dove portava sempre il rosario, ne recitava le Ave Maria, i Pater noster e i Gloria Patri: anzi, ella recitava il rosario doppio, quello di quindici diecine, per cui si libera un'anima dal Purgatorio, pronunziando con molto fervore, sempre fra se, i misteri gloriosi e i misteri dolorosi a ogni diecina. Ah, ora, no! Ella era profondamente distratta, da qualche tempo, e non ritrovava più la bella calma, la bella attenzione degli anni trascorsi: la preghiera le usciva monca, fredda dallo spirito, come un vacuo esercizio. Una profonda amarezza era in lei. Aveva già ventiquattro anni; fra scuola di ballo e ballo in teatro, stava già sulle scene da dodici anni, senza che mai nulla di bello, di dolce, di soddisfacente fosse venuto a consolare, prima, la sua adolescenza, poi, la sua giovinezza. Anzi, in quel periodo, due dolori l'avevano colpita: la morte di sua madre e la morte di Amina Boschetti. Certo, per una singolarità incomprensibile, ella aveva sofferto assai più per la morte della sua protettrice, della sua fata, che per quella della madre; ma, infine, aveva perduto tutto quello che amava. Ventiquattro anni, di già, fra tre o quattro mesi: niente che accennasse a un miglioramento, a un sorriso della vita, a un riposo dell'anima e del corpo. Come, come si sentiva stanca, in alcuni momenti, che bisogno fisico di dormire molto, di mangiare un po' meglio, quietamente, senza strozzarsi, di vestirsi come una persona per bene, di aver caldo sotto una buona giacchetta, sotto una buona mantellina, che bisogno di vivere, di vivere umanamente, come una giovane donna che fa una professione d'arte e non come una serva dal grossolano lavoro! Queste idee di tentazione, questi desideri corruttori costantemente ella li respingeva: costantemente essi ritornavano ad assalirla, ricondotti dall'età che era quella dei godimenti materiali, ricondotti dalle lunghe e ostinate privazioni, ricondotti, ogni giorno, ogni sera, dai contatti col teatro, con le altre ballerine, specie con quelle belle, graziose, fortunate delle prime file, che avevano dei banchieri, dei conti, dei marchesi che si rovinavano per loro. Come dire devotamente il rosario, in quell'ambiente di vizio oramai ingenito, costituzionale, su quel palcoscenico che era, ingenuamente e turpemente, un mercato di bellezza e di gioventù' Una volta, quando ell'aveva diciotto, venti anni, con quel grande timor di Dio che le veniva dal suo cuore popolano, dalle chiese intorno alla Pignasecca che l'avevano assidua frequentatrice, dal suo confessore, don Giovanni Parascandolo, il rettore della chiesa dello Spirito Santo, un piissimo e rigoroso sacerdote, dall'ambiente del Vicolo Paradiso in cui ella abitava da piccina, Carmela Minino poteva dire le orazioni del rosario, anche fra una recita e l'altra della Norma e del Faust, fra, una riproduzione e l'altra del ballo la Devadacy. Una volta! Adesso, quando macchinalmente, in quei giorni di gaudio carnevalesco, ella portava la mano in tasca per toccare i grani del suo rosario, quando le sue labbra, aduggiate principiavano le consuete preghiere, non giungeva più ad immergersi in questa tenera e familiare occupazione dello spirito: subito, la sua fantasia si distraeva in pensieri completamente profani e le sue labbra sibilanti le parole sacre in una quasi mentale ripetizione, si ammutolivano. Ella pensava a cose assai profane: alle lettere amorose di Roberto Gargiulo a cui non rispondeva, ma che leggeva con una, certa compiacenza, come tutte le donne che sono sempre lusingate di ricevere un bi- glietto d'amore, anche da persone che non amano e che non vorrebbero mai amare: alle sottane di seta di Carlotta Musto e di Marietta Sanges sospese al chiodo del camerone e messe in mostra con ostentazione: al suo busto di traliccio bianco, comperato da Carsana a due lire e settantacinque e che tutto consunto, spezzato nelle balene dei fianchi, le faceva una vita enorme, non potendolo troppo stringere, perchè le balene spezzate le sarebbero entrate nella carne: a quel pranzo di Concetta Giura con il Duca di Sanframondi, di Emilia Tromba con Ferdinando Terzi di Torregrande, a quel pranzo di Sorrento dove, certo, i due gentiluomini avevano trattato le due ballerine con la loro signorilità e la loro generosità abituale, riempiendole di buoni cibi, di Vini forestieri, di dolci, innanzi a una candida mensa, coperta di fiori, innanzi al mare sorrentino che Carmela Minino conosceva bene, essendovi andata un giorno, con un'altra ballerina, scritturata come lei allo Stabia Hall di Castellammare, in un giorno di estate, ma vi erano andate sole e avevano rosicchiato alcune gallette di Castellammare, che costano tre un soldo; ed anche ad Amina Boschetti, ella pensava, che era vissuta fra i più grandi splendori del lusso, che era stata imbalsamata come una regina e che aveva portato nella tomba di Poggioreale, intorno al suo bianco collo, un collare di grosse perle, a sette file, un dono di Otto Schulte, il tedesco innamorato, un dono di cinquantamila lire. Già, nelle quinte, si udiva il clangore delle trombe con cui gli araldi di Enrico, re di Germania, chiamano, dai quattro punti cardinali, i cavalieri che vogliono scendere in campo, per l'onore di Elsa di Brabante, accusata di maleficio dal traditore Telramondo. Carmela Minino si levò, con un sospiro, dal cantuccio dell'androne, ove si era seduta e si avvicinò alle quinte. Erano le nove di sera: la seconda edizione dell'Excelsior non sarebbe incominciata che alle undici. Ella portava il suo vestitino di panno azzurro cupo, il migliore che possedeva, il primo che si era fatto, smesso il lutto di sua madre; al collo aveva una sciarpa di merletto crema con un grosso fiocco, su cui aveva fermato lo spillo d'oro, uno spillo formante due cuori legati da una catenella, un dono antico della Boschetti, gittatole in grembo, un giorno, molti anni prima, quando la divina danzatrice la incontrava nella sua anticamera e innanzi ai grandi occhi sgranati nell'ammirazione istupidita della bimba, la leggiadrissima donna sorrideva: dono conservato con cure specialissime, strofinato sempre con un vecchio guanto, per far uscire il lucido dell'oro e che all'immaginazione della povera corifea simboleggiava il legame per la vita e oltre la tomba, fra la Boschetti e lei. Le guancie di Carmela Minino erano cariche di rossetto, quella sera; ella ne metteva sempre molto, perchè era molto bruna, molto pallida, di carnagione opaca; anzi se ne era fatto prestare un poco da Margherita De Santis, la malatina che ne portava sempre molto, anche lei pallidissima, non per temperamento, ma per l'anemia che le divorava la vita. Appoggiata a una quinta, essendosi gittata sulle spalle il suo scialletto di lana bianca, lo scialletto caratteristico di tutte le ballerine napoletane, che esse lasciano sempre in teatro, in cui esse si avvolgono, nelle quinte, fra una danza e l'altra, sempre sudate, sempre scalmanate, per garentirsi dalle orribili correnti d'aria di quel palcoscenico. E, quasi senza udirle, le arrivavano all'orecchio le note wagneriane eccelse, con cui si annunzia il miracolo, l'arrivo inaspettato e stupefacente del Cigno, del Cigno che porta il cavaliere del San Graal, chiuso in un'armatura di argento luccicante. Era così assorta, quando uno scoppio di risata la colse alle spalle: risate femminili forti e sguaiate. Dalla porticina che mena, dopo il gran corridoio di pietra, prima a larghi scaglioni, poi con un piano ascensivo, dalla porta di entrata, sino sul palcoscenico, erano giunte in teatro le due mancatrici della rappresentazione diurna, le due gitanti di Sorrento, Concetta Giura ed Emilia Tromba. Arrivavano, un po' ansanti, accaldate, con le guancie rosse assai, con un balenìo negli occhi: e rispondevano, schiattando dalle risa, al direttore del palcoscenico, che erano state malate, tutto il giorno, col medico accanto al letto, poichè avevano uno spaventoso male... e ridevano, ridevano, come matte stringendo dei fiori freschi sul petto. - Sì, sì, lo so io il vostro male, care ragazze, - gridò il direttore - Ora vi applico io il rimedio! Un bel cataplasma vi voglio applicare, una multa di cinque lire, eh, per ciascuna! - Ma noi avevamo il male di ndì ndo! - finse di piagnucolare Concetta Giura. - Cinque lire di multa, belle figliuole, cinque lire! - gridò ancora lui, che si seccava di essere burlato da loro. - Io le do in elemosina, cinque lire - disse Emilia Tromba, annusando i suoi fiori. Il direttore crollò le spalle allontanandosi, per non dire delle ingiurie più forti alle due insolenti. Concetta ed Emilia scoppiarono di nuovo a ridere, con quel clamore bestiale del riso muliebre sforzato e laido. Concetta Giura era veramente una bella creatura, bianchissima, coi capelli color rame, alta e snella, ma pure rotonda in tutte le sue linee, con un paio di occhi grigio-acciaio, assai vivi, scintillanti; di giorno, certo, le macchie di lentiggini onde era cosparso il volto si vedevano molto; le sue mani e i suoi piedi non erano fini, malgrado che vi adoperasse cure quotidiane, ma che importa, ella era bella, giovane, freschissima! Vestiva, quasi sempre di nero, molto riccamente, coperta di merletti e di jais, in estate, portando il velluto e il raso, d'inverno, volendo assolutamente avere un aspetto distinto, volendo imitare le grandi dame che incontrava nelle vie, di cui vedeva i profili nei palchi di San Carlo e specialmente la duchessa di Sanframondi, la moglie del suo amante, un angelo di virtù; quando taceva, talvolta, con la rossa bocca composta e chiusa sul volto bianco, con le palpebre socchiuse nell'atto della indifferenza, arrivava, quasi quasi, per un momento, ad aver l'aria per bene. Ma se apriva la bocca, la sua voce gutturale, canagliesca, le sue inflessioni e le sue parole in dialetto napoletano, non nel dialetto pretenzioso borghese mescolato di storpiate frasi italiane, ma il dialetto del trivio, le espressioni volgari e spesso francamente oscene, facevano fuggire ogni illusione. Eppure Sanframondi, dicevano, se ne era innamorato e l'amava, appunto perchè ella parlava così e diceva quelle cosaccie. Quandò il suo angelo di moglie lo aveva troppo seccato con la sua virtù , con la sua castità, con la sua rassegnazione serena di vittima cristiana, egli andava a trovare Concetta e la pregava di dirgli quattro buffonate, come sapeva dir lei, nel gergo più corrotto di Basso Porto. Ella fingeva di offendersi; protestava; pretendeva di esser chiamata Tina, diminutivo elegante di Concettina, e non Concetta; ma conoscendo che il solo segreto di seduzione, oltre la sua persona, sul duca di Sanframoudi, era la sua canaglieria, si lasciava andare. Sanframondi si sganasciava dalle risa, l'abbracciava, la sbaciucchiava, felicissimo, obbliando la duchessa, il duchino e la duchessina, le perdite al giuoco e i debiti di cui si copriva. Giusto quella sera, Concetta Giura, aveva un lussuoso vestito di raso nero e un grande spillo al collo, un fermaglio a foggia di ferro di cavallo, tempestato di brillanti e zaffiri che, quella mattina, Sanframondi le aveva appuntato al collo, aiutandola a vestirsi. Emilia Tromba era un altro tipo, molto bianca, con capelli nerissimi e folti, con certi stupendi occhi neri tagliati a mandorla, con una bocca espressiva nel sorriso e con un gran naso adunco che le guastava il viso, ma di cui ella si teneva molto, dicendo che era un naso nobile; sua madre, la fruttivendola del Cavone, doveva aver peccato con un gran signore. Grassotta, non alta, aveva delle spalle e delle braccia magnifiche, non portava mai busto e lasciava a posta, che nella danza, talvolta, si scomponessero, i suoi capelli stupendi. Portava, quel giorno, un elegantissimo vestito di velluto grigio, guarnito di rara e ricca pelliccia chinchilla; vi aveva messo su un mantello identico, tutto foderato di pelliccia e aveva un gran cappello nero piumato ed era coperta di braccialetti, di anelli, di spilli, di spilloni, di fibbie, un mondo di gioielli. Però, tutta questa roba le stava male addosso, come tutti i vestiti che ella portava, alla carlona, trascurata, coi merletti delle balayeuses lacerati; il suo bel vestito era macchiato di champagne, innanzi ed ella aveva schiacciato un dolce, un cioccolattino, sotto il suo gomito. Col cappello storto, odorando i fiori, la rozza, tumultuosa, screanzata amante del corretto, fine e taciturno Ferdinando Terzi, interpellò la povera Carmela Minino, che si stringeva addosso il suo scialletto di lana bianca, già lavato tre volte e che era gialliccio, oramai: - A che ne stiamo, Minino? - Finisce il primo atto dell'opera, donna Emilia - mormorò l'altra, a occhi bassi. - Siamo venute troppo presto, Concettì! - esclamò Emilia - potevamo restare fuori, ancora. - Hai ragione! Che peccato! Ce ne andiamo? - Ma che! Con chi? Dove? Ferdinando e Luigi sono andati via! Non torneranno che a prenderci. Tu sei venuta, oggi, Minino? - chiese Emilia Tromba. - Sissignore. - E perchè? Non potevi far festa? Far festa con qualcuno che ti volesse bene? - Io non posso far festa: cinque lire di multa mi rovinerebbero - rispose Carmela, che era diventata mortalmente pallida, sotto il suo rossetto. - E chi ti vuol bene, non le potrebbe pagare - soggiunse Emilia, che amava perder tempo, in quella conversazione fra le quinte. - Chi mi vuol bene, donna Emilia? Chi volete che mi voglia bene? - e un accento di dolore scoppiò nelle sue parole. - Eh, qualcuno lo avrai! Proprio nessuno? E tutta la poca vanità femminile che era in Carmela Minino, ebbe come una frustata. - Qualcuno... forse... - sussurrò. - Vi sarebbe, qualcuno... - E deciditi, va, figliuola mia! - esclamò maternamente la corruttrice. - Buttala via questa zitellanza! Che ti serve? Che ne fai? Per Gesù Cristo? A tempo e ora, ti penti dei peccati e muori in santità, come farò io. Per il mondo? Il mondo si ride di te, perchè sei zitella. Se non ti decidi adesso, quando aspetti? Bella non sei, già, è inutile dir bugie, tu lo sai; se non profitti di un poco di gioventù, nessuno ti vorrà più; quando è passato questo tempo... Invano rattenute, delle grosse lacrime cominciarono a scorrere sulle guancie di Carmela Minino, i singulti le soffocavano la gola. - E perchè piangi, adesso? Che ti è successo? - strillò Emilia Tromba. - Niente... niente - arrivò a balbettare Carmela, fra i singhiozzi. Tieni, tieni, per consolarti un poco. Me li ha dati, oggi, a, Sorrento, Ferdinando Terzi, il mio innamorato. Emilia Tromba aprì un sacchetto di dolci, mezzo vuoto, ne fece cadere sulla mano dei cioccolattini, ne diede un pugno a Carmela, dicendole - Mangia, mangia, e non pensare a guai. Allontanandosi, verso il camerone, a capo basso, Carmela Minino teneva preziosamente distesi sulla, mano aperta, i cioccolattini che Ferdinando Terzi aveva donati alla sua amante Emilia Tromba, quel giorno, a Sorrento e che Emilia aveva dati a Carmela per pietà delle sue misteriose lacrime. Carmela non mangiò quei dolci. Trovò un pezzetto di carta e ve li ravvolse cautamente, per non romperli, per conservarli intatti. Ancora qualche lacrima le guastava il belletto.

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Una peccatrice

249630
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
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Due o tre volte, prima di uscire dal giardino, si volse a guardare il verone, sul quale non poteva più vedere che la tenda abbassata. - Bella donna! - ripeteva egli di tempo in tempo, con un entusiasmo che era troppo allegro per non essere affettato, e troppo affettato per non nascondere una preoccupazione: quanto io t'amo!

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