Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

In pochi anni si è abbassata in maniera allarmante l'età dei disadattati, degli irregolari. Vero è che la legge non ha mai stabilito un'età per il decreto di ricovero: da zero a diciotto anni, dimissione anche al ventunesimo. Ma ormai si drogano gli scolari delle elementari. Rubano, fuggono da casa, si prostituiscono, non ancora quattordicenni. Ma assai più preoccupante è la tentazione del suicidio, il male misterioso attaccato ai bambini. Una estrema forma di fuga. Per ragioni diverse _ situazioni familiari, intossicazioni emotive stravolgenti _ o senza una ragione comprensibile, sempre più bambini, i bambini che non vogliono vivere. Freudiano istinto di morte. (Un vecchio appunto: Classe millenovecentoquarantatré: la leva del pianto. Le bambine della prima generazione che "a quel tempo" non c'era. Non ne sanno niente, la loro memoria è al di qua. I loro problemi sono in un segreto di radici. Sembrano portare in sé da una coscienza prenatale il senso della morte. I personaggi del primo decennio: ruolo inconsapevole. A caratterizzarle tutte è il pianto. Ogni impressione la chiamano paura, ma risulta come un sottile piacere. Parlano molto, insistentemente, con una effusione continua irreprimibile. Raccontano a scuola i fatti di casa propria, dei vicini, del quartiere, della cronaca, disgrazie malattie morti _vanno sempre a vedere i morti _ come storie romanzate, quasi con entusiasmo. In un travaglio sentimentale non privo di compiacimento. Poi per un nonnulla si sciolgono in lacrime, lisce facili veloci lacrime di emotività nervosa. Non lasciano traccia negli occhi, come un lavaggio igienico. La bambina che l'ultimo giorno di scuola, quasi per un traboccamento d'amore, mi disse d'avermi sognata morta.) Impassibile, il potere autoritario centralizzato smista i casi ridotti a pratiche cartacee. Autorità chiusa, decisioni anonime burocratiche. E sempre sistemi minacciosi punitivi, coercizione segregazione isolamento. È la critica del giovane magistrato progressista. Occorre il giudice nuovo che si liberi della toga. Che non sia ne imparziale ne, per carità, neutrale. Soprattutto bisogna spogliarsi della neutralità come della toga, restare solo e unicamente il difensore del più debole, il protettore dell'indifeso. Siamo in pochi e guai ad avanzare proposte innovatrici. Bollate come arbitrarie. Sovvertitrici. A nostra volta veniamo isolati e frustrati, ostacolati nel lavoro. Non esiste gente più inutile e dannosa di quella arrivata allo stadio del quieto vivere. Guai attaccare il concetto di autorità, l'autorità è intoccabile. E abbiamo a che fare con materiale umano, ragazzi bambini, sempre più bambini. L'altra parte: tentativi di scardinamento. Teorie permissive indulgenti a tempi di permissività forsennata. Criticati i colleghi nuovi come gli studenti contestatori, definiti con le stesse espressioni. Questi giovanotti, gli hippies della magistratura... Inatteso invito a colazione. Al ristorante del Grand Hotel modernissimo. Il vecchio signore, in privato così timido irresoluto taciturno, mi pilota decisamente a un tavolo d'angolo contro la vetrata. Sala terrazza sul tetto, veduta panoramica. Invito a guardare _ da lui forestiero. Guardo sorpresa. Da un lato l'orizzonte in larga curva frastagliata dalle montagne, cime di sasso nudo d'un cinerino etereo, più giù azzurre e negli anfratti viola, le pendici ricciute di boschi, al fondo la linea ondulata del fiume segnato dalla massa verde cangiante di pioppi e salici in mezzo ai prati. Le costruzioni recenti, disordinate anonime _ che invaderanno _ è possibile per ora ignorarle, l'occhio le elimina spontaneamente. " Guardi. " Guardo. L'altro lato. Il corpo della città antica _ dietro sempre le montagne _ un addossarsi di tetti rossi rugginosi e il colore caldo della pietra secolare, emergono i campanili, qualche cupola, la torre medioevale. E facciate facciate di chiese, scoperte _ come se fossero state sistemate a scenario per uno spettacolo dal cielo col traforo nitido dei rosoni. "Vede?" Vedo. Molto suggestivo, non immaginavo. Lo stesso albergo è a incastro fra l'antico e il nuovo, attaccato a un muro di pietra, apre sul viale. Lo sguardo percorre da lontano a vicino, s'accosta, s'abbassa. Voci, movimento. A livello di qualche piano inferiore, ragazzi in pantaloncini e canottiera giocano al pallone. Appaiono come ravvicinati da un binocolo. Spiazzo recinto da reticolato alto, un campo di gioco pensile. Sembra appartenere all'albergo. "Si ricorda le reticelle per le lampadine?" Non capisco ancora, ma sì che ricordo, furono messe, dopo anni. Il vecchio signore sorride, mentre il cameriere aspetta riguardoso. Sono loro, già. Quello così vicino è proprio il convento carcerario. Il reticolato così alto, già. E quelli sono proprio i ragazzi. Dice: Perché non ci va? Ho dovuto vincere certe intime resistenze, non me n'ero resa conto. Eppure deviavo per passarci. La cancellata esterna aperta, ma a che scopo entrare, tutto ormai così lontano. Io estranea. Invece mi torna di colpo familiare e ancora c'è chi mi riconosce, un agente anziano si fa incontro. Manda ad avvertire. Il censore si presenta subito. Ossia no, l'educatore. Sa chi sono, ne ha sentito parlare, ha letto qualche cosa. Gentile, accogliente. Piuttosto giovane, piccolo magro, voce pacata, mite. Il luogo è sempre quello. Un decennio, ma per certi cambiamenti non basta il secolo. (L'istituto degli orfanelli buttato giù e ricostruito a grande elevazione e con marmi, siamo tutti milionari anche le povere monache _ pensionato studentesse paganti.) Il cancello intemo, lo schiavardamento. Si conta di togliere questa chiusura, è in progetto l'abolizione delle sbarre. Stesso cortile, imbnittito dalla loggia con le colonne incorporate da un'otturazione a mattoni. Tuttavia sembra meno tetro, è l'ora che ci arriva il sole, di striscio. Sempre in uso per la ricreazione, ma vi sono sparsi attrezzi da ginnastica. E hanno il campo di gioco. Pallacanestro pallavolo, con pallone vero, certo. L'educatore mi conduce nel suo ufficio. Parliamo. Domando. Risponde di buon grado ragguagliandomi. Sposato, tre bambini. Buona cosa avere figli propri. A proposito di bambini, e del silenzio, un silenzio che colpisce. Infatti sono pochi. Sono, per la precisione, al momento, diciannove. Tutti grandi, scontano una condanna o in attesa di giudizio. Prigione scuola, detenuti, soggetti a reclusione completa, si capisce. Non esiste più il problema della promiscuità e dello spazio, dacché è stato costruito il complesso pilota per l'istituto di osservazione. Moderno in ogni accorgimento, ridente, fiorito e alberato, gran spazio all'aperto. Ne esistono pochi, a elencarli _ richiesto _ gli avanzano le dita di una mano. Purtroppo quasi dovunque permangono la promiscuità e l'affollamento, in certe aree depresse viene tuttora sfruttata la manodopera minorile. Qui si è avuta la fortuna, il privilegio, qualche conterraneo in politica, insomma arrivato nella stanza dei bottoni o press'a poco. Domando dall'aula interna per il Tribunale. Smobilitata e utilizzata (adesso che lo spazio avanza). Le udienze si tengono fuori _ già, come prima _ al nuovo palazzo di Giustizia (mastodontico incombente _funzionale _chiamato subito il palazzaccio) qui è tutto troppo vecchio. Indecoroso, sì, per i giudici. Però molti miglioramenti, gabinetti docce, camerate rinnovate, refettorio con tavoli separati: se vuole vedere. Voglio vedere i ragazzi. (Vedrò nelle porticine mai aperte, cubicoli che ora ospitano secchi scope strofinacci. Gli agenti sempre dalla carriera carceraria _il direttore lo stesso del carcere _ma comincia ad arrivarne qualcuno giovane preparato ai corsi indetti dal ministero. Le ragazze? Come se non esistessero. Ah sì, il numero aumenta, fughe da casa. Aggregate alle adulte o negli istituti retri da monache, bisogna mandarle fuori. È cambiato tutto e non è cambiato niente. L'educatore espone idee innovatrici, un po' didascalico, con una leggera enfasi. La retorica, se così può chiamarsi, derivante dalle teorie avanzate che si studiano al biennio per il titolo di assistenti sociali . E comunque ricorrono ormai sulle bocche, se non altro, di tutti. Largamente insistentemente sulla stampa, nazionale e internazionale. Comprendere i giovani, mutare metodi sistemi (non il sistema) guardarsi dall'autoritarismo. La voce pacata mite. (Paternalismo?) Si attiene al generico. Ho l'impressione di non poterlo riportare su un terreno realistico, che non riuscirei facilmente a indurlo ad aprirsi, magari quei pertugi involontari così penetranti. Del resto non ci provo neppure, è solo una visita unica occasionale. Mi limito a qualche notizia, informazioni sul genere dei reati, dandomi io stessa le risposte: prevalgono sempre sesso e danaro. Lo ammette: le statistiche, sicuro. Sento che non si lascerebbe andare sulla propria situazione interna, i comuni fenomeni dell'isolamento e della convivenza tra maschi. (Quei cedimenti, in fondo compiaciuti, del censore che fra il dire e il non dire lasciava intendere e alla fine parlava.) Discrezione professionale, oppure ritegno di padre di famiglia, i tabù dell'adulto. O forse darebbe per sottinteso che anche certi problemi siano superati, in risoluzione? Non è da credere i ragazzi di oggi più trattabili ne davvero più continenti. Al contrario, hanno avuto fuori possibilità di esperienze vietate ai minori delle precedenti leve. Facilitato lo sfogo naturale e con maggiore naturalezza, coetanee consenzienti, le compagne di scuola che portano nella borsetta il preservativo. Necking e petting, frequentazione mercenaria, omosessualità di ripiego o d'elezione, marchette e pugnette: deve esserci qui dentro l'intero campionario. D'altronde tutte le pratiche sessuali, comprese quelle dette contronatura, sono antichissime, vecchie quanto l'uomo. Semen retentum venenum est. Con buona pace. Mi torna in mente la Mercedes targata Roma vista all'ingresso. Parenti, sì ne vengono. Visita per un minore, i genitori. Temo di aver disturbato. Posso star comoda, sono dal direttore. Effettivamente, statistiche alla mano, prevale ormai di molto il numero dei cittadini sui paesani, è cambiata anche la classe sociale, ceto alto. Questi della Mercedes, gente perbene, facoltosi industriali: la disgrazia li ha fulminati. Una sciagurata faccenda. Ebbene, ne hanno parlato abbondantemente i giornali, è noto, il caso della straniera quindicenne violentata a turno. In sei, appunto. Questo che abbiamo qui è uno dei sei. Ottimo ragazzo, comportamento ineccepibile, umiliato ha vergogna si apparta. Sa, le cattive compagnie, in gruppo sono capaci di tali eccessi... Si è lasciato trascinare, realmente lui il meno responsabile, coinvolto. Ma l'ha fatto? L'ha fatto. Sa come succede, spinto beffato, per non essere da meno.. Lo difende. Difende la Simiglia. Rinnegano la famiglia e la sostituiscono col gruppo. Il vagabondaggio ormai consiste nelle fughe da casa. La famiglia avrà le sue carenze, spesso inconsapevoli, le si attribuiscono colpe anche immeritatamente. C'è nell'aria qualche cosa... contestano tutto e tutti... (In sintonia con la situazione generale.) Le rivolte contro i padri e la loro generazione in blocco. Si è creata una condizione d'impotenza dei genitori, degli adulti, alla quale non si sa che contrapporre. L'umanità sembra essersi scatenata ed essi pure, i ragazzi. Il ladruncolo è diventato scippatore motorizzato rapinatore armato, le violenze carnali solitàrie sono diventate stupri collettivi. Gran furti di macchine. Da aggiungere politica e droga, i reati nuovi. Ascolto lo sfogo inatteso che ha spazzato l'ottimismo teorico dell'educatore. Ma si riprende: occorre aver fede, opporsi al dilagare, abbiamo la volontà e gli strumenti. Mi domando quali. Ho sentito il vocio. Sono a ricreazione in cortile. Andiamo. Aperto e richiuso il cancello, vedo che all'interno è staio decorato: lunette triangoli rombi cerchi, applicati sui ferri e verniciati a colori smaglianti. Irriconoscibile, non sembra lo stesso cancello. Fatto dai ragazzi. Decorazione pop. Come gusto all'educatore non piace. Ma sorride indulgente. Alcuni stanno agli attrezzi, correndo su e giù, saltando. Altri guardano. Non guardano noi. Appena qualche occhiata indifferente o blanda curiosità. (Se ricordo quella selvaggia di allora...) E anche l'aspetto è diverso. Il modo di vestire, di muoversi, la corporatura, come se appartenessero a una razza più sviluppata, capelli lunghi perfino alle spalle, spiccano due biondissimi. Viene un agente: chiamata dal direttore. Il chiamato si muove dall'angolo dove se ne stava solitario. Alla mia occhiata l'educatore annuisce. E lui. Passa senza salutare e senza volgersi. Piccolo bruno, ricci leggeri, viso gentile imberbe: la vecchia impressione d'un aspetto non corrispondente al reato. Sono io a far cenno, sentendomi quasi in fallo di disobbedienza. Ne arrivano. Di corsa o molleggiando, in pantaloni corti di tela, camicie aperte sul petto, torsi lisci freschi. Alti belli elastici, capigliature ondeggianti. Tutti con qualche cosa al collo, rosari bianchi (distribuiti dal cappellano), catene tese da medaglioni pesanti, simboli, le croci di chiodi neri, uno porta appeso un ciucciotto da neonato. Mi sembra di essere a Trinità dei Monti, fra gli hippies bivaccanti per la scalinata. Parecchi vengono infatti da Roma, ve n'è di torinesi e napoletani, i due biondi veneri. Circondano sorridenti senz'ombra di timidezza o d'imbarazzo. Anzi confidenziali. Non sono più i brutti e squallidi, le facce stralunate o ipocondriache, una sorta di misantropia senile. Forse qualcuna allucinata, droga? L'educatore senza il piglio autoritario, la grinta del censore. Non ce l'hanno con lui, non ne hanno paura. Si direbbero rovesciate le posizioni. Che abbiano paura quelli che prima la mettevano, cioè non propriamente invertite le parti, paura no, il potere è sempre dalla stessa parte, ma una tal qualw circospezione. Prudenza. Mi rendo conto di quello che è davvero cambiato: sono cambiati i ragazzi. Sento il passato così remoto. Nel frattempo il mondo si è precipitato, non si sa ancora bene se avanti o indietro. Ispeziono, dopo le facce, i muri,, come se mi aspettassi di ritrovarvi la scritta a carbone. Magari a vernice indelebile. (Per le strade dominano simboli e slogan di partito, in ribasso i soliti falli, comunque se ne vedono, ma evoluti nel disegno, stile Picasso Amori di Raffaello.) Facciamo l’amore non facciamo la guerra, sarebbe l’aggiornamento più ovvio. Oppure abbasso la guerra viva la guerriglia. Già, i politici, questa nuova specie. Hanno combattuto alle università, disselciato strade, usato catene, tubi di ferro, bottiglie molotov, le battaglie ideologiche. Questi non sono gl’infelici figli dei fiori, i disperati della droga, i delinquenti comuni, i fuorilegge passivi. Qui dentro, in definitiva, e per assurdo, forse i migliori, quelli ancora vivi, che non si lasciano solamente esistere. Qualche cosa si è smosso. Ed è terribile pensare che il rifiuto ma soprattutto la violenza facciano cambiare qualche cosa. La violenza. Come le doglie che via via sforzano e la risolutiva che spinge col sangue alla nascita. Da dove vengo? Prendono l’iniziativa, interrogano loro. Dove abito io e dove abitava l’interrogante. A Piazza Navona. Ride. Certe volte a Santa Maria in Trastevere. Dopo lo rimanderanno a casa. (Se ci resterà.) Mi rivolgo all’educatore: Posso fare qualche domanda? Anche lui sottovoce: Meglio no. Ai ragazzi: Andate a mangiare. Ne restano. E un piccolo napoletano dagli occhioni patetici me lo dice: Tentato omicidio. Può essere stata una rissa fra ragazzi o un fatto grave, scontri con la polizia. Non mi riesce, come essi apertamente, di disobbedire all’educatore. Sfugge la domanda stupida: che desiderano. Sono venuta a mani vuote. Sigarette, m’era balenato. Ignoro se sia permesso fumare lecitamente, di nascosto s’è sempre fatto, un tempo perfino foglia secca con carta di giornale, capaci oggi di procurarsi l’"erba". Ma che domanda stupida: desiderano la libertà e basta. Il napoletanino patetico: 'O mare. E gli altri scanzonati: Ci saluti Roma.

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EH!La vita...(Novelle)

662294
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Infatti Gabriele Loveni batteva rapidamente le palpebre sotto la falda del cappello di feltro grigio abbassata nel percorrere il breve tratto per montare in carrozza. L'avvocato osservava che sette anni di vita carceraria avevano lasciato un'indefinibile impronta nell'aspetto, nei movimenti e nel gesto del suo cliente, rimasto muto, assorto lungo il tragitto dal carcere alla stazione, e durante le tre ore passate in un angolo del " buffet " aspettando l'arrivo del treno che doveva portarli via. Il Commendatore, assaggiando appena le pietanze, guardava suo figlio con l'ansia di chi teme un pericolo e vorrebbe sviarlo, ora, con la soddisfazione di aver raggiunto lo scopo per cui aveva desiderato ancora di vivere in questi ultimi anni. Gabriele Loveni, lasciata spegnere fra le labbra la sigaretta avidamente cominciata a fumare, pareva smarrito dietro l'inseguimento di un fantasma fuggente. Si udì il fischio del treno che arrivava. Dora indovinò sùbito, dal primo sguardo di suo marito, che astio e livore repressi fermentavano nel cuore di quell'uomo non ostante la replicata domanda: - Mi hai perdonato? Mi hai perdonato? - Altrimenti non sarei qui - ella rispose, fissandolo. La prese per una mano, accarezzandogliela, premendola tra le sue, fredde come il ghiaccio, stringendola forte. - Mi fai male!... Dora dovè ritirarla quasi con uno strappo. Li avevano lasciati soli intanto che di là preparavano la tavola per la cena. Si erano immaginati che quei due, dopo sette anni, avessero molte intime cose da dirsi a quattr'occhi. Invece pareva che le parole gli si arrestassero in fondo alla gola, e si mutassero talvolta in un sommesso gorgoglìo, allorché Gabriele si fermava in quell'andare da un punto all'altro del salotto con cui tentava di vincere la evidente sua esaltazione. - Parla! Che vuoi dirmi? Sono disposta ad ascoltare tutto. Egli faceva cenno con la mano: Niente! Niente! E quando la signora Marozzi e l'avvocato Nerucci vennero a chiamarli, furono maravigliati di trovarli seduti, lei in un angolo del canapè, lui su una seggiola accanto al tavolino nel centro del salotto, come due che avessero esaurito quel che dovevano dirsi. Attraversando il corridoio che conduceva alla sala da pranzo, Gabriele si era fermato davanti a l'uscio della camera maritale tastando con una mano la muratura, facendo il gesto di buttarla giù; ed era passato oltre. A tavola si mostrò inattesamente gaio, con strane intermittenze di ironici sorrisi, affermando che certe pietanze del carcere, quelle più comuni, avevano un sapore speciale, un profumo speciale che il palato, per l'assuefazione, ritiene e comunica per qualche tempo ai cibi di fuori; lo aveva sentito dire a parecchi recidivi che lo avevano sperimentato. All'ultimo cominciò a divagare, tra un sorso e l'altro di caffè, aspirando deliziosamente una sigaretta. - Avvocato, ricorda il dramma del Calderon " La vida es sueño "? Niente di più vero. Sogno futile, insipido spesso; bello, soave talvolta; atroce e terribile, più incubo che sogno.... ordinariamente - No, no! Protesto! - rispose l'avvocato! - Dora, dillo tu: che sogno è la vita? - Non è sogno, pur troppo! - gli rispose sua moglie. - Lei, mamma, dirà che è una novella, una fiaba non sempre degna di essere trascritta, è vero ? La signora Marozzi si rivolse al commendatore Loveni: - Il miglior giudice è lei. - Discutere è dubitare. La vita, cara signora, per un vecchio come me, è quasi un ricordo e un rimpianto. Gabriele, accesa un'altra sigaretta e, sorbito l'ultimo sorso di caffè, stiè un momento ritto su la persona, con gli occhi socchiusi, poi fece un cenno all'avvocato, lo trasse in un angolo e gli parlò sottovoce. - Sì, domani - egli rispose. - Stranezza di signora; non sono mai riuscito a spiegarmela. La sua giustificazione, suppongo. Il viso di Loveni si oscurò, parve acquistare una durezza che l'assenza dei baffi e della barba rendeva più notevole. - Ha bisogno di riposo; vada sùbito a letto suggerì l'avvocato. Abbattuta la muratura, e fatto osservare al marito che i sigilli erano intatti, Dora aveva aperto l'uscio ed era entrata nella stanza maritale per spalancare la finestra e far dissipare il tanfo di rinchiuso. Gabriele rimaneva fuori, torcendosi le mani, m'ordendosi le labbra davanti allo spettacolo di quella camera un po' in disordine, con una seggiola ancora rovesciata, i cocci della boccetta e dei vasetti del lavamano sparsi sul tappeto, una tenda dell'uscio strappata e pendente a metà dal l'asta che la reggeva. Tutto gli faceva rivivere il terribile momento in cui, perduta la testa alla vista di quell'uomo che, datogli uno spintone, tentava di scappare, lo aveva rincorso pel corridoio e per le scale, sparandogli dietro parecchi colpi di rivoltella, uno dei quali gli aveva fracassato il cranio, giù al portone, dove lo aveva raggiunto. E di fuori, quasi un ostacolo gli impedisse di entrare, egli guardava, con occhi stralunati, Dora che apriva le cassette interne di un armadio e ne traeva alcuni pacchetti di lettere, depositandoli sul letto là vicino, assieme con tre scatolini di pelle scura. Balzò dentro con un salto, mise il paletto all'uscio e si precipitò sur uno dei pacchi di lettere, sciogliendone il nastro con mani convulse. - Senti - gli disse Dora. - Tu stai per apprendere un segreto che non ci appartiene e che noi dobbiamo conservare religiosamente. Giurami!... Io l'ho conservato a costo del mio onore... Giurami!... Giura! Egli non l'ascoltava; apriva febbrilmente quelle lettere, dava ad esse un'occhiata, fissava Dora un istante, e riprendeva a leggere, mandando fuori, di tratto in tratto, ringhi e ghigni sarcastici, gettando per aria i fogli quasi provasse un' amara delusione o vi scorgesse un puerile tentativo d'inganno. - Giura! - ella insisteva. - Non vuol dire che ora sia morta: anzi! - Morta! Morta! - ringhiava lui, lanciando alla moglie terribili occhiate. - Prima della loro penosissima rottura - riprese Dora - io era stata fida depositaria di queste lettere compromettenti. Quell'uomo voleva riaverle, chi sa perché, e quel giorno osò di trascinarmi per un braccio qui dove egli sapeva che fossero gelosamente conservate, cercando di riaverle con la violenza.... Leggi, leggi le ultime, queste qui... Egli non osava di credere suoi occhi. Quel nome di donna ripetuto tante volte in ogni lettera, appassionatamente, non era di sua moglie. - Chi, chi scriveva? - egli urlò. Io veggo! Io indovino! Io sento!... E fiutava le lettere brancicandole. - C'è il profumo del tuo corpo! C'è il fluido del tuo spirito, sì, sì, non m'inganno.... Non mi sono addestrato sette anni inutilmente per acquistare la veggenza che non inganna! Dora indietreggiava, indietreggiava a quel lento avanzarsi di belva che sta per slanciarsi. Con gli occhi sbarrati, le braccia protese, le mani aperte e le dita curve come grinfie, pareva ch'egli provasse la feroce voluttà di atterrire la vittima al punto di assalirla. - Gabriele! Gabriele! A così acutissimo grido di angoscia, nella turbata intelligenza di lui accadde dunque una scossa, una sosta, quasi nella tenebra che la occupava in quel momento scoppiasse tutt'a un tratto un lampo di luce? Egli si fermò, portò le mani alla fronte, stiè pochi istanti come in ascolto; la tensione di tutti i nervi che gli aveva alterata l'espressione della fisonomia e concitata tutta la persona, si rilassava lentamente, e l'infelice cascava bocconi da quella parte sul letto, gorgogliando inintelligibili parole. Dora stava per precipitarsi verso l'uscio e gridare al soccorso, ma quelle lettere sparse là aperte, brancicate, non avrebbero, in quella circostanza, fatto conoscere un segreto custodito finora con tanti sacrifici? E si diè frettolosamente a raccoglierle, a calcarle alla rinfusa, nelle cassette assieme coi tre scatolini contenenti tre piccoli gioielli.... Poi, invece di gridare: soccorso! si chinò su lui con gesto materno, di immensa pietà, e, chiamandolo sommessamente a nome, lo baciava sui capelli umidi di sudorino ghiaccio. Egli si lasciò prendere per una mano e condurre verso il canapè all'angolo della camera. Guardava attorno, trasognato, quasi non riconoscesse il luogo dove si trovava nè la persona che gli stava davanti, in piedi, un po' china verso di lui, e sorridente con visibile sforzo tra le lacrime che cominciavano a rigarle le gote. - Qui!.. Qui! - balbettò. - Sette anni.... fisso qui!... Un terribile chiodo!... Notte e giorno! - Zitto! Sii tranquillo! Non t'agitare! Sì.... - egli riprese. - Era dunque quella... Marina Falchi colei che tradiva? È morta? - È morta, sì, la mia amica. Per ciò il suo segreto dev'esserci maggiormente sacro! Ora distruggeremo ogni cosa. Ho voluto conservarle per te quelle lettere; per giustificarmi soltanto davanti a te.... - Può essere? Può essere? Ed hai aspettato sette anni - Ho sofferto quanto te!... Oh Dio! Dubiti ancora? - Non si strappa facilmente un chiodo infisso qui.... da sette anni!... Notte e giorno! Girava attorno lo sguardo smarrito, parlava quasi rivolgesse le parole a se stesso. Poi si raccolse in cupo silenzio, chiuse gli occhi, recimò il capo sul petto, e Dora, sedendoglisi cautamente a lato, ascoltava con ansia il profondo respiro di lui già vinto dal sonno. Nessuno in famiglia, neppure la madre di lei, seppe quel che era accaduto in quella appartata camera maritale. Dora passò due terribili giorni, dissimulando a tutti l'angoscia del dubbio che la straziava. Suo marito, a intervalli, ricadeva in uno stato di eccitazione mentale molto vicino alla pazzia. Poi, quasi destandosi da una specie di dormiveglia, di stupore, ripeteva desolatamente: - Sto male!... Sto male! Non guarirò più!... Povera Dora! - Se tu permettessi di consultare il nostro dottore!... - No!... Non voglio la compassione di nessuno, neppure di un dottore! - Ma già tu ti allarmi per una lieve depressione nervosa. - Stavo meglio... colà... in carcere. Colà... avevo almeno la certezza! - Quale certezza? - Vedi?... Ancora non so abbracciarti... nè baciarti come una volta.... Ho paura di trovare su le tue labbra le traccie.... Perché ho ucciso dunque? Perché sono stato condannato? - Gabriele! Bastava questo dolce richiamo per farlo rientrare sùbito in sé, per calmarlo in quell'angolo di canapè dove egli, da due giorni, passava le ore fumando continuamente, con un mucchio di libri nuovi sur una seggiola, dei quali scorreva soltanto qualche pagina con paurosa ripugnanza. Aveva trovato in uno di essi: - Noi non sappiamo niente della realtà delle cose. Siamo vittime dell'apparenza. E n'era rimasto sconcertato. Il terzo giorno Dora lo trovò sdraiato sul canapè con le mani strette alla fronte, quasi per comprimere un gran dolor di testa. Teneva chiusi gli occhi. - Sei tu, Dora? - Che hai? - Dora! Dora! Quel segreto mi uccide.... Che m'importa di colei?... Tanto peggio per la morta! - Perché dici così, Gabriele? - Perché tu ed io siamo vittime dell'apparenza. Non dev'essere! Non voglio che sia così! - Ormai!... - Non dev'essere così!... Non voglio che sia così!... Quel segreto mi uccide! Si era fermato ad ascoltare. Dalla via saliva un rumore confuso di evviva misto al suono della banda cittadina che soffiava quasi rabbiosamente l'inno reale. - Tanto peggio per la morta! E prima ch'ella potesse impedirglielo, Gabriele era corso all'armadio, aveva afferrato il mucchio delle lettere ancora aperte e sgualcite come vi erano state calcate in fretta e furia quella mattina, e, stringendosele al petto con tutte e due le mani, le versava sul marmo della finestra, di lato, per poter spalancare metà della vetrata e buttar giù tra la folla che passava, plaudente, per la via, il segreto che lo uccideva. - Non devo saperlo io solo che tu sei innocente! Devono saperlo anche gli altri.... E si opponeva agli sforzi di Dora; le strappava di mano quei fogli ch'ella tentava di sottrarre, e li sparpagliava fuori, per l'aria, ripetendo: - Tanto peggio per la morta! Tanto peggio per la morta! E aveva negli occhi la feroce gioia di un folle.

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Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Lo sollevava pel mento su cui la barba era già cresciuta ispida, pungente; gli scansava dalla fronte i capelli cascatigli giù nel tenere sempre abbassata la testa come appesantita per la malattia del cervello; e all'ultimo, rizzatasi con scatto disperato, nascondeva la faccia tra le mani convulse, balbettando: «Che castigo, Signore! Che castigo!». E intendeva di dire pure per sé, quasi gran parte della colpa fosse stata sua, se il marchese aveva ammazzato Rocco Criscione. Titta, di tratto in tratto, veniva a tenerle compagnia. «Voi non l'avete visto nei primi giorni. Non si chetava un momento! Sono stato tre giorni e tre notti senza chiudere occhio! ... Faceva terrore.» «E la marchesa? Con che cuore ha potuto abbandonarlo?» «Ringraziate Iddio! ... Se ci fosse stata lei, non sareste qui ... » La osservava. Era tuttavia bella, meglio della marchesa, con quel viso affilato, bianco come il latte e quegli occhi neri e quei folti capelli nerissimi, alta e snella. E parlando di lei con mastro Vito, Titta dichiarava che, secondo lui, la prima pazzia il marchese l'aveva commessa dandola per moglie a Rocco che non se la meritava. «Non sapete il patto? Non doveva toccarla neppure con un dito ... Per questo il marchese lo ha ammazzato.» «Aveva messo l'esca accanto al fuoco ... Che avreste fatto voi?» «Capriccio di gran signore! ... A voi e a me non sarebbe passato per la testa quel patto. E n'è andato di mezzo un innocente! La marchesa non sa che la Solmo è qui. Verrebbe a cavarle gli occhi. Maria mi ha raccontato di averle sentito dire alla madre: "Non lo posso perdonare! È diventato assassino per quella donna!". Ed ha voluto andarsene.» «Il marito è sempre marito! In quello stato poi!» «Dicono che ha rinunziato alla dote per mano di notaio ... Il marchese le aveva assegnato Poggiogrande.» «Per mano di notaio?» «Ci credete voi? Io vorrei sapere intanto chi comanderà qui e provvederà ai fatti miei.» Lo zio don Tindaro e il cavalier Pergola venivano tre, quattro volte nella giornata, in compagnia del dottor La Greca. «Ah dottore! Non vuole mangiare più! Serra i denti, si volta di là; come fare?» «Ci siamo!» Il dottore non die' altra risposta; e Agrippina Solmo, che ne comprese il significato, si buttò su una seggiola, con le mani nei capelli, singhiozzando: «Figlio, figlio mio!». La desolata tenerezza di queste parole non commosse il vecchio zio del marchese, che le si avvicinò e la prese per un braccio, riguardosamente ma severo: «Dovete capirlo», le disse, «non potete restare più qui. Mastro Vito, pensateci voi ... Poveretta!». Ella gli sfuggì per baciare e ribaciare quelle mani quasi inerti che avevano ammazzato per gelosia di lei; e pareva volesse lasciarvi tutta l'anima sua grata e orgogliosa di essere stata amata fino a quel punto dal marchese di Roccaverdina. «Figlio! figlio mio!» E si lasciò trascinar via da mastro Vito, senza opporre resistenza, umile, rassegnata com'era stata sempre, convinta anche lei che non poteva restare più là, perché il suo destino aveva voluto così.

Racconti 1

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Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- E Giustina gli rispondeva di sí, di sí, con lieve movimento della testa abbassata, stringendosi forte le mani perché egli non avvertisse come il cuore le spasimasse all'incosciente crudeltà di quell'effusione che continuava a sfiorarle il collo, verso la nuca, riandando i terrori, i dolori degli ultimi mesi, quando la sicurezza dell'amante felice traballava davanti a un ostacolo impalpabile e invisibile - non se n'era accorta? - che gli pareva si frapponesse a un tratto fra loro e li tenesse divisi, in dist anza, a dispetto dei corpi che s'allacciavano, delle labbra che confondevano i respiri ... - Non te ne sei accorta? No? Terrori e dolori d'un secondo; non lasciavano traccia; ma cosí intensi!, cosí intensi! ... Se tu avessi parlato prima! In quelle tue lettere, sí, c'era il suono, c'era l'accento della tua voce. Se tu avessi parlato prima! ... Ci voleva la lontananza - non ti pare cosa strana? - per legarci piú intimamente. Oh! Io credo all'amore, sai? La sola sensazione non mi basta. Son rimasto un tantino collegiale, come mi canzonano i miei amici. Peggio per loro, se non sapranno mai que l che valgano questi divini momenti. Mi sembra che noi stiamo ricominciando da capo, quasi io avessi avuto finora soltanto metà di te ... Ed ora tutta, tutta, tutta! È vero? - Ella seguiva a dir di sí con la testa, macchinalmente, nell'indistinta percezione del suono di quella voce diventata mormorio sommesso di baci parlanti o di parole bacianti, non lo capiva bene; zufolio agli orecchi; rimescolamento di tutta la persona; gran male; dove? Nel cervello o nel cuore, non lo capiva bene egualmente. E non s'opponeva all'improvviso movimento con cui egli sollevatala su le braccia, la portava di là, in camera, delicatamente, quasi temesse di svegliare una persona addormentata. Respira va appena, nella estrema prostrazione della volontà e di tutte le forze vitali, sotto l'aggravarsi d'un incubo che le impediva di fare la minima resistenza all'irrequieto agitarsi delle dita che le sfibiavano il vestito, le tiravano le maniche e la spogliavano senza scosse, con perizia femminile ... Ma appena, nel levar via il busto, le dita le sfiorarono, per caso, le vive carni del seno, Giustina scattò in piedi, appuntandogli le braccia contro il petto, con gli occhi smarriti: - Per pietà, no! ... Per pietà! - E, nascondendo il viso tra le mani cadeva di fianco su la sponda del letto, scossa da un tremito violento, in singhiozzi: - Per pietà! - Ella sentí, per qualche istante, un respiro grosso e frequente, quasi rantolo soffocato; e si restrinse tutta, aspettando il terribile scoppio di quel furore d'amante. - Non vi accadrà piú, ve lo giuro! - disse una voce irriconoscibile. E Fasciotti fece per uscire. Giustina gli si gettò a traverso, delirante: - Emilio! ... Emilio! ... - Senza rispondere, egli tentava di svincolarsi da quelle mani che lo brancicavano e lo afferravano e tornavano a brancicarlo. - Emilio, siate generoso! ... Fatemi male quanto volete ... Ah! - Aveva dovuto gridare; quegli le stritolava le mani, senza avvedersene, dalla rabbia di sentirsi ridicolo, sul punto di piangere come un bambino, con gli occhi che vedevano una pioggia di fiammelle attorno, e il cuore che gli scoppiava. Fu un baleno. - Perdonatemi ... il torto è mio. Entrate in letto ... vi ammalerete ... Te ne prego, entra in letto - soggiunse con l'apparenza d'un sorriso. Le ravviava le coperte, le aggiustava i guanciali sotto il capo: - Il torto è mio ... Avrei dovuto avvedermene -. E si buttò su la seggiola a piè del letto, molle d'un sudorino ghiaccio, quasi il rovescione che in quel punto riprendeva a sbattere furiosamente su i vetri della finestra lo avesse inzuppato da capo a piedi. La pioggia continuava, fra gli urli del vento che pareva si raggirasse attorno alla palazzina per sradicarla dalle fondamenta. Che gliene sarebbe importato? Un piú orrendo colpo aveva distrutto in un istante il superbo edificio della sua felicità ... e per sempre. Giustina non osava guardarlo, né rivolgergli la parola, cosí sbalordita dell'accaduto da non accorgersi ch'egli stava là, rattrappito su la seggiola, da piú d'un'ora, e non poteva passare la nottata a quel modo. Non se n'accorgea neppure lui. Finalmente si rizzò, scuotendo il capo, strizzando gli occhi; e visto che Giustina si levava anche lei e si metteva a sedere sul letto tenendogli le mani in atto supplichevole, le disse con voce alquanto calma: - Vado di là, un momentino. - Perché? - Ho bisogno d'aria ... - Aprite pure quella finestra ... Emilio, siate generoso! - ella ripeté, alla mossa di risposta sfuggitagli suo malgrado. - Oh, non dubitate! ... So il mio dovere -. Tornato a sedersi, con le braccia sui ginocchi, le mani intrecciate, curvo, abbattuto dall'incredibile disinganno, egli ruminava - Perché dunque è venuta da me? ... "M'accusano d'essere la vostra amante, e sia! ..." Chi l'ha forzata? Non lo sapeva forse che non avrebbe potuto amarmi? - Giustina, tenendo la faccia tra le palme, riprendeva a singhiozzare - Che ho mai fatto! ... Che ho mai fatto! - La pietà di lui, il terrore delle conseguenze di quella rottura - rottura irrimediabile, non poteva illudersi, con quel carattere - la inchiodavano lí, raggomitolata, quasi il mondo stesse per crollare ed ella attendesse di minuto in minuto il crollo finale: - Che ho mai fatto! - La pioggia sbatteva furiosa su i vetri, il vento urlava e fischiava. - Quanto mi ero ingannata! È stato assai piú generoso ch'io non osassi sperare -. E quei mesi d'autunno le parvero un paradiso, con le tiepide giornate, gli splendidi tramonti, le belle serate che in quel posto, tra la campagna e la città, le producevano una soave sensazione di pace e di benessere in armonia con la pace e il benessere della sua vita, ora ch'egli continuava a visitarla non piú da amante ma da amico, e come se niente di nuovo fosse avvenuto tra loro. Lo avrebbe voluto, è vero, un po' meno serio, un po' meno freddo; si vedeva, forse, in quella sua indifferenza un tantino d' ostentazione, una lieve ombra di vendetta ... - Ma, povero cuore!, deve costargli un gran sacrifizio mantenere le apparenze. Gli son grata infinitamente di questo contegno. Neppure Giulia, ch'è in casa, s'è accorta di nulla -. Ella si sentiva felice di poterlo amare a quel modo, come avrebbe voluto amarlo anche prima, come avrebbe voluto essere amata anche prima. - Ma allora, Dio mio, non poteva essere! Mi ero illusa io pure, un istante -. Ora respirava a pieni polmoni la libertà del proprio corpo in cui tutto era stato scancellato dalla purificazione del gran pianto. Delle atroci sofferenze dei mesi scorsi le rimaneva un'idea lontana, incerta, simile a ricordo di cattivo sogno; e in quanto all'avvenire, oh!, viveva perfettamente rassicurata. Ne aveva avuto parecchie prove. Una sera, verso le dieci e mezzo, appena i Castrucci erano andati via con la bambina che cascava dal sonno, Fasciotti, acceso un sigaro, s'era messo a leggere il "Fanfulla", senza dire una parola, senza voltarsi un momento verso di lei che lavorava con l'uncinetto nervosamente, a testa bassa, nell'ansia angosciosa d'un'apprensione ... - Assurda, ne conveniva. Ma ... che voleva egli insomma? Aveva già letto, da cima a fondo, il giornale; e intanto restava là, col sigaro spento tra le labbra, muto, mezzo imbroncito! - L'orologio a pendolo, dalla mensola del caminetto, suonò le undici e tre quarti. Fasciotti si scosse. Giustina, vistogli posare il giornale, riaccendere il sigaro e lisciarsi i baffi, aspettava, impaziente, ch'egli parlasse. Dopo quella trista nottata, non erano mai rimasti cosí a lungo da solo a solo. Convinti tutti e due dell'inutilità e del pericolo d'una spiegazione qualunque, in quelle prime settimane l'avevano prudentemente evitata ... - Ora, forse? ... - Agitatissima, Giustina stava per lasciarsi scappare una domanda trattenuta a stento su la punta della lingua da un quarto d'ora, quand'egli la prevenne: - Se volete andare a letto ... Io resterò qui un altro poco ... per Giulia, capite? Mandate a letto anche lei. Uscirò senza far rumore. È meglio che nessuno sappia ... Giulia sopra tutti. - Come vi piace. Buona notte -. Giustina, improvvisamente commossa, non aveva saputo rispondere altro, stendendogli la mano. - Buona notte -. E Fasciotti gliela strinse leggermente. Ma un'altra volta egli avea fatto di piú. Andata a letto per non contraddirlo, Giustina non poteva chiuder occhio, aspettando di sentirlo partire. Quell'incredibile prova di delicatezza e di riguardo le produceva una specie di contrazione alla bocca dello stomaco ... - Fino a che ora rimarrà in salotto? - Alle due era ancora là. Ella però non osava muoversi, temendo appunto che in quella circostanza, contro ogni proponimento, una parola non li trascinasse alla dolorosa spiegazione evitata. Quante ore erano passate? Non lo sapeva precisamente. S'era forse appisolata; non aveva inteso nessun rumore all'uscio di casa né al portone. E trepidante era saltata giú dal letto per accertarsi, con cautela, se c'era lume in salotto. E che respirone a quel silenzio e a quel buio! La mattina dopo, molto tardi, Giulia le domandava: - Signora, si sente male? - No, perché? - Il signor maggiore, prendendo il caffè, mi ha raccomandato d'aspettare che lei avesse sonato. - Ah! ... Gli occhi, tutt'a a un tratto, le si erano ripieni di lagrime. Dimenticava però ogni cosa per la beata certezza di sapersi amata tuttavia. Le apparenze non potevano ingannarla. E, in ricambio, il suo cuore gli si dava tutto, senza restrizioni, pieno di confidenza nelle promesse che leggevagli in viso vedendolo diventare di giorno in giorno meno riserbato, meno freddo, vedendogli smettere a poco a poco quell'aria diffidente e guardinga contro di lei e di se stesso, che aveva reso cosí penose le prime settimane della crisi; allora pareva che l'amico non potesse punto ada ttarsi a sostituire l'amante, e che sul capo di tutti e due pendesse la minaccia di crisi peggiore. La sua vita aveva già ripreso il tranquillo andamento d'una volta. Poco, quasi nulla le mancava per sentirsi nuovamente cullata nella lieta pace domestica, per tornare a rannicchiarsi nell'ingenuo egoismo d'indolente felice. Se lo rimproverava in certi momenti. Quella bambina malaticcia, ma buona e intelligente, che veniva a tenerle compagnia da mattina a sera e ch'ella conduceva attorno nelle frequenti corse per le gallerie, pei musei, pei negozi e nelle passeggiate alle Cascine, al giardino di Boboli, o lungo il Viale dei Colli, non usurpava lentamente l'affetto materno, a danno della creatura delle sue viscere ... alla quale forse avevano fatto credere che la mamma era morta? E le teneva un po' di broncio, per qualche ora, per mezza giornata, broncio di cui la bambina non s'accorgeva. - Oh, Dio! ... Come difendersi da quel naturale sentimento d'egoismo, ora che poteva finalmente riposarsi dopo tanti atroci dolori? Ora che almeno, a intervalli, le riusciva di sopire dentro di sé ogni ricordo del passato? - Quella pace interiore le fioriva fuori, sul volto, in piú sorridente vivacità degli occhi, in piú facile zampillo della parola che riprendeva la gentile festività nelle conversazioni serali, quando Fasciotti veniva lassú accompagnato da due o tre ufficiali del suo reggimento, ed ella - dopo il the - cedeva di buona voglia all'invito di suonare qualche pezzo della solita musica indiavolata, come diceva il tenente Gusmano che in fatto di musica capiva soltanto quella del suo compatriotta Bellini: - Il Dio della musica! ... E Dio ce n'è uno solo! - Les dieux s'en vont - gli rispondeva Giustina, ridendo. E per fargli dispetto si metteva a strapazzare un'aria della Norma, o una cavatina della Sonnambula: - Tralalalliero, tralalalà! - Né finiva il pezzo, ma attaccava subito, vigorosamente, la sinfonia del Vascello fantasma, un coro del Lohengrin, o qualcosa di simile. - Bum! Bum! Bum! Bum! - replicava Gusmano - È musica questa? - E Fasciotti rideva insieme con altri, dando ragione alla signora. Rovistando le carte di musica, il tenente Gusmano avea tirato fuori quella fatale sonata del Berlioz che rimaneva da un pezzo sepolta sotto un mucchio di fascicoli. - Ah! La signora ci nasconde le sonate. Berlioz ... È un tedesco? - domandò Gusmano - No? Dunque questa dev'essere una cosa assai bella. La signora, per gastigo, viene pregata di sonarla -. Gli occhi di lei s'erano subito rivolti verso Fasciotti, indecisi. - Sí, Giustina, suonatela - egli disse con un che d'ironia. - Vo' persuadermi se gli effetti di questa sonata non provengano, in gran parte, dallo stato dell'animo di chi la sente. Rischio di perdere qualche illusione. - Allora, no! - ella rispose. - Dunque non m'ama piú! ... Soltanto per pietosa generosità di gentiluomo egli fa il sacrifizio di continuare a venire da me. Sí, sí; lo vorrei detto piú chiaramente? ... Non m'ama piú! Non mi ama piú! Sul primo aveva sentito una leggera mortificazione d'amor proprio, lieve puntura di spillo al cuore, graffiatura a fior di pelle; nella nottata però non poté conciliar sonno, irrequieta sotto le coperte, con stupore e sbalordimento che aumentavano di mano in mano: - Non m'ama piú? - Le pareva impossibile. Fra le tante supposizioni fatte, il caso che Fasciotti potesse cessare d'amarla non le era mai passato per la mente. Doveva discutere un'assurdità? Lo stimava tale. - Infine, che deve importartene? - si diceva da sé. - Non è anzi meglio? - Non ne restava convinta. Si sentiva già venir meno la piú valida forza che le rendeva tollerabile quella vita d'isolamento e di sacrifizio a cui s'era volontariamente condannata. La sua pace, la sua tranquillità, dopo tante lagrime e tanti strazi, stavan per essere nuovamente distrutte? ... - E se m'abbandona col cuore, col piú terribile degli abbandoni, che sarà di me? - Tortura di nuovo genere. Come rifiatare? Come lagnarsi di lui? ... Quella settimana le parve un secolo. Ogni parola, ogni gesto di Fasciotti serviva a rischiararle, a confermarle la crudele certezza della scoperta. L'orgoglioso ritegno non le aveva impedito di mostrarsi piú cordiale del consueto con lui, d'umiliarsegli dinanzi con sfoggio di sottintesi imploranti misericordia. - Sentite - aveva osato poi dirgli - questa vostra affezione d'amico è l'unico soffio che mi tiene in vita. Se venisse a mancarmi ... - Che fareste? - Non lo so -. Fasciotti, guardatala un momentino attentamente, colpito della insolita stranezza di quell'accento, aveva soggiunto - Non vi è venuta meno finora. Il mio dovere ... - Disgraziatamente il cuore umano non conosce doveri. E poi, non si tratta di doveri. - Me lo dite voi? - Giustina non aggiunse parola. Credeva aver detto troppo; avea capito anche troppo. E appena fu sola, pianse. - Non m'ama piú! ... Ma perché non m'ama piú? Perché? A questo grido del cuore che le parve uscisse dalla bocca d'un'altra persona nascosta dentro di sé, rimase come fulminata. - Come? ... Lui mi tradisce cosí? Lui! ... E perché non mi ama piú? Perché? - Un atroce dolore alla nuca e alle tempie la distese per tutta la giornata sul canapè della camera e ve la tenne inchiodata fino a tardi. Giulia, sentendola lamentare, era entrata piú volte, domandando - Signora, debbo chiamare il dottore? - No. - Che si sente, signora? - Qualcosa qui ... Non è nulla -. E, all'arrivo di Fasciotti, trovò tanta forza da levarsi, da nascondergli il gran male che le spaccava la testa. - Dunque andrete a Pisa? - Per un'ispezione; due, tre giorni. - Mi scriverete? - La mia lettera arriverebbe insieme con me. Ella girava gli occhi attorno, con aria insospettita, cercando, annusando l'aria ... - Questo profumo ... L'avete addosso voi? - Io? - ... Mi va al capo, mi stordisce. Sí, l'avete addosso voi. - Ah, è vero! - egli rispose, ridendo con qualche impaccio. - Per fortuna non siete nel caso di diventare gelosa. - Oh, no ... per fortuna! - balbettò Giustina, pallidissima. - Vi fa proprio male? - Sí, molto! - Allora vado via; scusatemi. - A rivederci -. Si sentiva morire. Due giorni di stupore e di delirio, sotto il tremendo colpo della meningite. Giulia, atterrita, aveva telegrafato a Pisa: "La signora è in pericolo di morte." Fasciotti, credendo quel telegramma esagerazione di cameriera affezionata, non s'era affrettato ad accorrere. Non tornava il giorno dopo? La signora Castrucci, però, capita, dal continuo vaniloquio dell'ammalata, la vera condizione di Giustina, aveva detto a Giulia: - Bisogna telegrafare anche al marito e alla famiglia di lei. Non vorranno mica lasciarla morire abbandonata cosí -. Fu telegrafato. Nessuno rispose. La poverina, con la faccia congestionata, le labbra tumide e pavonazze, sfigurita, aveva appena forza di balbettare delirando: - Enrico! ..., Te lo ... giuro! Babbo! ... Sono innocente! ... Credimi almeno tu ... tu solo! ... - La suora di Carità, in piedi presso il capezzale, le passava spessissimo un po' di ghiaccio su le labbra infocate, poi rimaneva immobile, con le mani dentro le larghe maniche dell'abito grigio, mormorando preghiere. Sollevata una mano gonfia e contratta, Giustina cominciò ad accennare, quasi chiamasse qualcuno che credeva di vedere a piè del letto: - Enrico! ... Enrico! ... - Ah, il torto è tutto di suo marito! - disse Giulia alla suora che a quel nome aveva abbassato gli occhi. Giustina rantolava, continuando sempre ad accennare a piè del letto con la mano gonfia e contratta: - Enrico! ... Perdonami! ... En ... rico! ... - Povera signora! ... Se avesse saputo che, quando gli uomini non perdonano, c'è sempre Dio che perdona! - disse la suora. E inginocchiatasi, a mani giunte, cominciò a recitare: - De profundis! ... - Mineo, 25@ 25 marzo 1885@. 1885.

CENERE

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Deledda, Grazia 1 occorrenze

Io amo Margherita e Margherita mi ama: io la renderò tanto felice, che essa dimenticherà di essersi abbassata a scegliere per isposo il figlio del suo servo. La Signoria Vostra ci benedica, nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo"». «E se invece di benedirlo lo scaccia via come un cane!», domandò la vecchia. «Va là, femminuccia», esclamò il contadino, versandosi ancora da bere, «il tuo re Salomone diceva che le donne non sanno quel che dicono! Se io invece parlo ho già pesato le mie parole. Il padrone benedirà». «Ma se non è vero niente!», proruppe Anania, pieno di gioia. Si alzò, s'avvicinò alla porta e si mise a fischiare: non capiva più nulla, sentiva il cuore battergli forte. «Il padrone benedirà!» Se il contadino parlava così doveva avere le sue ragioni. Ma perché Margherita non aveva mai accennato alle buone disposizioni di suo padre? E se le ignorava lei, come poteva conoscerle il servo? «La vedrò fra poco», pensò Anania, e tutti i suoi dubbi, le ansie, la stanchezza del viaggio, la gioia stessa delle nuove speranze, tutto dileguò davanti al dolce pensiero: «La vedrò fra poco». Al lieve tocco della sua mano il portone s'aprì silenziosamente. «Ben tornato», mormorò la serva che favoriva la corrispondenza dei due innamorati. «Ella verrà subito.» «Come stai?» egli chiese con voce commossa. «Ecco, prendi un ricordo che ti ho portato da Roma.» «Ma che cosa hai fatto!», ella disse, prendendo subito l'involtino. «Ti disturbi sempre, tu! Aspetta.» Egli attese, appoggiato al muro ancora tiepido del cortile, sotto il cielo velato della notte silenziosa. Margherita apparve, ma più che vederla, egli la sentì: sentì la guancia liscia e calda, il cuore balzante contro il suo, la vita agile, le labbra molli, e gli sembrò di svenire. Follemente, cominciò a baciarla sui capelli, sul volto, accecato da una inestinguibile sete di baci. «Basta e basta!», ella disse, riavendosi per la prima. «Come stai, dunque? Sei guarito?» «Sì, sì! Ah, Dio, finalmente! Senti come mi batte il cuore. Ah», proseguì, respirando a stento, e stringendosi la mano di lei al petto, «non posso neppure parlare ... E neppure ti vedo! Ah, se tu portassi un lume!» «Che dici, Nino! Ci vedremo poi domani; ora ci sentiamo», ella rispose, ridendo piano piano, mentre sotto la palma della mano che Anania si premeva sul petto sentiva il cuore di lui palpitare convulso. «Come batte il tuo cuore! sembra quello d'un uccello ferito. Ma sei guarito davvero, dimmi?» «Guarito, guarito! ... Margherita, dove sei? Ma siamo davvero assieme?» Egli cercava di distinguere i lineamenti di lei nell'oscurità della notte velata. Grandi nuvole nere passavano incessantemente sul cielo grigiastro; di tanto in tanto un lembo ovale di firmamento chiaro, circondato di cupe vaporosità, appariva come un viso misterioso, con due stelle rossastre per occhi, e pareva spiasse gl'innamorati. Anania sedette sulla panchina e attirò la fanciulla sulle sue ginocchia. «Lasciami», ella disse, «peso troppo; sono troppo grassa ... » «Sei leggera come una piuma», egli affermò. «Ma è dunque vero che ti ho con me? Ah, mi pare un sogno! Quante volte ho sognato questo momento, che mi pareva non dovesse giungere più! Ed ora eccoci assieme, uniti, uniti, capisci, uniti! Mi pare d'impazzire. Ma sei davvero tu, Margherita? ma è proprio vero che ti ho qui, sul mio cuore? Parla, dimmi qualche cosa, altrimenti mi par di sognare.» «Tocca a te raccontare. Io ti scrissi tutto, tutto; parla tu, Nino; sai parlare così bene tu! Raccontami di Roma; parla tu, io non so parlare ... », ella mormorò, turbata. «No, invece! no, tu sai parlare benissimo. Tu hai una voce così dolce! Io non ho mai sentito una donna parlare come parli tu ... » «Non dir bugie ... » «Ti giuro che non mentisco. Perché dovrei mentire? Tu sei la più bella, tu sei la più gentile, la più dolce tra le fanciulle. Se tu sapessi come pensavo a te quando le mie padroncine, a Roma, nei primi tempi, si buttavano addosso a me ed a Battista Daga! Mi pareva d'essere accanto a creature appestate, e pensavo a te come a una santa, soave, pura, fresca e bella.» «Ma anche io, adesso ... » «Non bestemmiare, Margherita», egli proruppe. «Noi siamo sposi: non è dunque vero che siamo sposi? Dimmi di sì.» «Sì.» «Dimmi che mi ami.» «Sì.» «Non sì soltanto. Dimmi così: Ti ... amo!» «Ti ... a ... mo ... Se non ti amassi sarei forse qui?» ella chiese poi, animandosi. «Ti amo, sicuro! Io non so esprimermi, ma ti amo, forse più di quanto mi ami tu.» «Non è possibile! Ma anche tu mi ami, lo so», egli riprese, «tu che sei bella e ricca ... ». «Ricca ... chissà! E se non lo fossi?» «Sarei più contento.» Tacquero seri entrambi quasi dividendosi per seguire ciascuno il proprio pensiero. «Sai dunque», egli disse ad un tratto, timidamente, seguendo il filo delle sue idee, «mi han riferito che la tua famiglia sa del nostro amore. È vero?» «Vero», ella rispose, dopo breve esitazione. «Ah, cosa mi dici? Tuo padre dunque non sarebbe contento?» Margherita esitò di nuovo; poi sollevò il capo e rispose con freddezza: «Non lo so», e dall'accento di lei Anania intuì qualche cosa di triste, d'insolito; e la sua mente corse a lei, al fantasma che forse si intrometteva fra lui e la famiglia di Margherita. «Senti», disse, pensieroso, carezzandole distrattamente le mani: «devi rispondermi con franchezza. Che cosa succede? Posso o no aspirare a te? Posso sempre sperare? Tu sai bene quello che io sono: un povero, un beneficato dalla tua famiglia, il figlio d'un tuo servo». «Ma che cosa dici!», ella esclamò, impaziente più che addolorata. «Tuo padre non è affatto un servo, e quando lo fosse è un uomo onorato e basta!» «Un uomo onorato!», ripeté fra sé Anania, colpito nell'anima. «Oh, Dio, ma lei non è una donna onorata.» «Margherita», insisté sforzandosi invano a restar calmo, «bisogna che tu mi apra tutta l'anima tua, e che mi guidi e mi consigli. Dimmi tu che cosa devo fare. Devo aspettare? Devo agire? Il mio orgoglio e la mia coscienza mi imporrebbero di presentarmi a tuo padre e dirgli tutto: altrimenti egli può considerarmi come un traditore, un uomo senza onore e senza lealtà. Però io seguirò i tuoi consigli, tutto fuorché perderti. Sarebbe la mia morte questa, la mia morte morale. Io sono ambizioso, vedi, e lo dico altamente, perché, ove tu non venga a mancarmi, la mia non sarà un'ambizione sterile. Tu sei lo scopo della mia vita! Se tu mi venissi a mancare, io non avrei più forza né volontà di far bene ... Se tu però mi dicessi: "Io amo un altro", ebbene, io ... ». «Basta! Taci ora!», comandò Margherita. «Sei tu che bestemmi, adesso! Piove?» Una goccia d'acqua era caduta sulle loro mani intrecciate. Entrambi sollevarono il viso e guardarono le nuvole che ora passavano più lente, più dense, mostri nebulosi e torpidi. «Senti, dunque», disse Margherita, parlando un po' distratta e frettolosa, come per paura che la pioggia interrompesse il convegno. «Noi non siamo più ricchi come prima. Gli affari di mio padre vanno male. Egli, poi, ha prestato denari a tutti quelli che glieli hanno chiesti e che ... non glieli restituiranno mai. Egli è troppo buono. La nostra lite col comune di Orlei, quell'eterna lite per le foreste incendiate, va male per noi: se la perderemo, e purtroppo pare così, io non sarò più ricca.» «Perché non mi hai scritto mai questo?» «Perché dovevo scrivertelo? Eppoi io stessa, fino a pochi giorni fa, ignoravo certe cose. Oh, ma piove davvero! Vattene, adesso ... » Si alzarono e si rifugiarono sotto la tettoia. I lampi brillarono fra le nuvole, e al loro chiarore violetto Anania poté finalmente veder Margherita, pallida come la luna. «Che hai? Che hai?», chiese stringendola a sé. «Non aver paura dell'avvenire. Se non sarai più tanto ricca sarai però felice. Non temere.» «Oh no! Tremo perché mia madre, che ha paura dei fulmini, può alzarsi da letto. Vattene, adesso ... », ella rispose, respingendolo dolcemente. «Vattene ... ». Egli dovette ubbidire, ma rimase un bel po' sotto il portone aspettando che la pioggia cessasse. Impeti di gioia gli illuminavano l'anima, a intervalli, violentemente, come la luce dei lampi illuminava la notte. Ricordò quel giorno di pioggia, a Roma, quando il pensiero della morte gli aveva solcato l'anima come il guizzo d'una folgore. Sì: il dolore e la gioia si rassomigliano: tutti e due bruciano. Ma mentre si dirigeva a casa sua sotto gli ultimi spruzzi di pioggia, egli pensò: «Come sono vile! Mi rallegro della sventura del mio benefattore. Che cosa lurida è il cuore umano!». L'indomani mattina per tempo scrisse a Margherita esponendole molti progetti, uno più eroico dell'altro. Voleva dare lezioni per proseguire gli studi senza essere oltre di peso al suo benefattore; voleva presentarsi al signor Carboni per fargli la domanda di matrimonio; voleva infine far capire alla famiglia di Margherita che egli sarebbe stato il suo conforto ed il suo orgoglio. Mentre finiva di scrivere la lettera, davanti alla finestra aperta donde penetrava la fragranza delle campagne rinfrescate dalla pioggia notturna, sentì alle sue spalle uno scoppio di riso represso. Nanna, lacera e tentennante, con gli occhi pieni di lagrime e l'orribile bocca livida spalancata al riso, s'avanzava, con una tazza in mano. «Buon giorno, Nanna, come va? Sei viva ancora?» «Buon giorno alla Vossignoria. Ecco che non mi è riuscito di sorprenderla! Ho chiesto in grazia a zia Tatàna di portarle il caffè. Eccolo qui. Ho le mani pulite, Vossignoria. Oh, che consolazione, che consolazione!» «Dov'è l'Eccellenza con cui parli? Da' qui il caffè, e dammi tue notizie.» «Ah, noi viviamo nelle tane, come bestie feroci che siamo. Come posso dare del tu alla Vossignoria, che è un sole risplendente?» «Oh, non sono più un confetto?», egli disse, sorbendo il caffè dall'antica chicchera filettata d'oro. «Che tu sii benedetto! ... Ah, mi scusi! Ah, ricorda la prima volta che ritornò da Cagliari? Sì, Margheritina aspettava alla finestra. Come la luna non può aspettare il sole?» Anania si alzò e depose la chicchera sul davanzale della finestra; poi respirò forte. Come si sentiva felice! Come il cielo era azzurro, come l'aria odorava! Che grandiosità nel silenzio delle umili cose, nell'aria non ancora sfiorata dal soffio e dal rombo della civiltà! Anche zia Nanna non era più la donna orribile e nauseante di un tempo; sotto l'involucro immondo di quel corpo nero e puzzante, palpitava un'anima poetica ... «Senti questi versi!», egli gridò agitando le braccia: Ella era assisa sopra la verdura, Allegra; e ghirlandetta avea contesta: Di quanti fior creasse mai natura Di tanti era dipinta la sua vesta. E come in prima al giovin pose cura Alquanto paurosa alzò la testa: Poi con la bianca man ripreso il lembo Levossi in piè con di fior pieno un grembo. Nanna ascoltava, senza capire una parola, e apriva la bocca per dire ... per dire ... lo disse infine: «Li ho sentiti altra volta». «Da chi?», gridò Anania. « ... Da Efes Cau!» «Non dire bugie; raccontami piuttosto tutto ciò che è accaduto a Nuoro durante quest'anno.» Nanna cominciò, ritornando ogni tanto a Margherita. Ella era la rosa delle rose il garofano, il confetto. E i suoi vestiti! Oh, Dio non se n'erano visti mai di più meravigliosi: quando ella passava la gente la guardava come si guarda una stella filante. Un signore aveva incaricato lei, Nanna, di rubare il laccio della scarpa di Margherita; la serva della famiglia Carboni diceva che tutte le mattine la sua padroncina trovava sulla finestra lettere d'amore legate con nastrini azzurri ... «Ma la rosa è una sola e non può unirsi che al garofano ... Ebbene, dammi qui la chicchera ... ah!», concluse l'ubriacona, dandosi un pugno sulla bocca. «È inutile, perdio! io ho visto la Vossignoria quando aveva la coda ed ora non posso abituarmi a darle del lei ... » «Ma quando è che io avevo la coda?», gridò Anania minaccioso. La donna scappò, tentennando, ridendo, turandosi la bocca; e dal cortile disse, rivolta alla finestra di Anania: «La coda della camicia ... ». Egli continuò a minacciarla; ella continuò a barcollare ed a ridere. Il porchetto, slegatosi, andò a fiutarle i piedi; una gallina saltò sul collo del porchetto, piluccandogli le orecchie; un passero si posò sul sambuco, dondolandosi elegantemente sull'estremità d'una fronda. E lo studente si sentì così felice che si mise a cantare altri versi del Poliziano: Portate, venti, questi dolci versi Dentro all'orecchio della Ninfa mia ... E gli sembrava di essere agile e leggero come il passero sull'estremità della fronda. Più tardi andò nell'orto, dove poté consegnare alla serva di Margherita la lettera già preparata. L'orto ancora umido per la pioggia notturna esalava un forte odore di terra bagnata e di vegetazione secca. I bruchi avevano ridotto i cavoli a mazzi di strani merletti grigiastri; le altee, filogranate di bocciuoli e adorne di fiori violacei senza stelo, tagliavano lo sfondo azzurro del cielo coi loro disegni bizzarri. Sull'orizzonte perlato le montagne sorgevano vaporose, coi picchi più lontani immersi in nuvole d'oro. In un angolo dell'orto Anania trovò Efes Cau ubriaco, invecchiato, ridotto ad un mucchio di stracci, e lo toccò col piede: l'infelice sollevò il volto, che pareva una maschera di cera affumicata, aprì un occhio vitreo e mormorò il suo verso favorito: Quando Amelia sì pura e sì candida; poi ricadde, senza aver riconosciuto lo studente. Più in là zio Pera, cieco del tutto, si ostinava ad estirpare le male erbe, che riconosceva al tatto e all'odore. «Come state?», gridò Anania. «Sono morto, figlio mio», rispose il vecchio. «Non vedo più. Non sento più.» «Coraggio, guarirete ... » «Nell'altro mondo, nel mondo della verità, dove tutti guariremo, dove tutti vedremo e sentiremo; ah, figlio mio, non importa, quando io vedevo con gli occhi del corpo la mia anima era cieca; adesso invece io vedo, vedo con gli occhi dell'anima. Ma raccontami: hai veduto il papa?» Uscito dall'orto Anania girovagò per il vicinato: sì, quel cantuccio di mondo era sempre lo stesso; ancora il pazzo, seduto sulle pietre addossate ai muri cadenti, aspettava il passaggio di Gesù Cristo, e la mendicante guardava di sbieco la porta di Rebecca, sul cui limitare la misera creatura tremava di febbre e fasciava le sue piaghe; e maestro Pane fra le sue ragnatele segava le tavole e parlava fra sé ad alta voce, e nella bettola la bella Agata civettava coi giovani e coi vecchi, ed Antonino e Bustianeddu si ubriacavano e di tanto in tanto scomparivano per qualche mese e ricomparivano con volti un po' sbiancati dal servizio del re. E zia Tatàna preparava ancora i dolci per il suo diletto «ragazzino», sognando il giorno della sua laurea e già numerando col desiderio i presenti che amici e parenti gli avrebbero inviato; ed Anania grande, nei giorni di riposo, ricamava una cintura di cuoio, seduto in mezzo alla strada, e pensava ai tesori nascosti nei nuraghes. No, niente era cambiato; ma lo studente vedeva le cose e gli uomini come ancora non li aveva veduti, e tutto gli sembrava bello, d'una bellezza triste e selvaggia. Passava e guardava come uno straniero; e nel quadro di quei tuguri neri e cadenti, in mezzo a quelle figure semplici primitive, gli sembrava di essere un gigante di passaggio. Sì, gigante ed uccello: gigante per la sua superiorità, uccello per la sua gioia. Agli ultimi di agosto, dopo vari convegni, Margherita permise che Anania rivelasse il loro amore al signor Carboni. «Dunque posso sperare!», egli esclamò colpito, quasi avesse fino a quel momento disperato. «È proprio vero? Sarà vero?» «Ma siiì!», ella disse, vezzeggiando, accarezzandogli i capelli con affetto quasi materno. Egli la strinse a sé, chiuse gli occhi, nascose il viso sull'omero di lei, concentrandosi per vedere tutta l'immensità della sua fortuna. Era mai possibile? Margherita sarebbe diventata sua? Sua davvero? Sua nella realtà come lo era sempre stata nel sogno? Ricordò il tempo in cui egli non osava confessare il suo amore neppure a se stesso: ed ora? «Quante cose succedono nel mondo!», cominciò a pensare. «Ma che cosa è il mondo? Che cosa è la realtà? Dove finisce il sogno e dove comincia la realtà? E non può essere tutto sogno? Chi è Margherita? Chi sono io? Siamo vivi? E che cosa è la vita? Che cosa è questa gioia misteriosa che mi solleva tutto, come la luna solleva le onde? E il mare che cosa è? Sente il mare? È vivo? E la luna che cosa è? Ed è vero tutto questo?» Sollevò la testa e sorrise delle sue domande. La luna illuminava il cortile, e nella notte diafana il canto tremulo dei grilli faceva pensare ad un popolo di folletti minuscoli, ciascuno dei quali suonasse un violino scordato, accompagnando con quel motivo monotono il mormorio delle foglie umide di rugiada. Tutto era sogno e tutto era realtà. Anania credeva di vedere i folletti suonatori e nello stesso tempo scorgeva distintamente la camicetta rosea, la catenella e gli anellini di Margherita. Le strinse il polso, premé un dito sulla perla di uno dei suoi anelli, le guardò le unghie, distinguendone le macchiette bianche: sì, tutto era vero, visibile, tangibile. La realtà ed il sogno non avevano confine: tutto si poteva vedere, toccare, raggiungere, dal sogno più folle all'oggetto meno visibile ... In quel momento pareva ad Anania che, come toccava l'anellino di Margherita, avrebbe potuto, stendendo il braccio, sfiorare la luna o stringere nel pugno il canto dei grilli ... Ma poche parole pronunziate da Margherita gli segnarono nuovamente i confini tra il sogno e la realtà. «Cosa dirai a mio padre?», ella chiese, sempre un po' canzonandolo. «Dimmi dunque che cosa gli dirai. "Signor padrino ... io ... e ... e sua figlia ... sua figlia Margherita ... fa ... facciamo una ... una cosa ... "» Egli arrossì: capì che non avrebbe mai avuto il coraggio di presentarsi al padrino per rivelargli il suo amore. «Io non potrò mai ... », confessò subito. «Gli scriverò.» «Oh, questo poi no!», disse Margherita, facendosi seria. «Bisogna assolutamente parlargli: egli si piegherà di più. Se non puoi tu, mandagli qualcuno.» «Ma chi?» Margherita disse timidamente: «Tua madre». Egli capì che ella alludeva a zia Tatàna, ma il suo pensiero corse all'altra e gli parve che anche Margherita ci pensasse. L'ombra lo riavvolse: ah, sì, la realtà ed il sogno erano ben divisi da terribili confini: un vuoto, eguale a quello che divide la terra dal sole, li separava. «Tuttavia ... », egli pensò, «se potessi in questo momento parlare! Questo è l'attimo: se me lo lascio sfuggire forse non lo ritroverò mai più. Il vuoto si può varcare ... » Aprì le labbra. Sentì il cuore battergli forte, ma non poté parlare: l'attimo passò. Qualche sera dopo zia Tatàna, molto sbalordita, ma altrettanto orgogliosa, e fiduciosa nell'aiuto del Signore, dopo aver lungamente pregato e fatta la salita trascinandosi ginocchioni dalla porta all'altare della chiesa del Rosario, fece la sua ambasciata. Anania rimase a casa, aspettando con ansia il ritorno della vecchia. Per un bel po' stette sdraiato sul letticciuolo, leggendo un libro di cui non ricordava assolutamente il titolo. «Ma io sono tranquillo!» pensava. «Che posso temere? La cosa è più che sicura ... » Intanto leggeva, senza capire una sillaba, e il suo pensiero seguiva la vecchia. «Zia Tatàna cammina lentamente, tutta compresa dalla solennità della sua missione. Ha anche un po' di paura, la buona vecchia colomba candida e soave; ma, pazienza! Con l'aiuto del Signore e di Santa Caterina e di Maria Santissima del Rosario qualche cosa si farà ... Per l'occasione ella ha indossato le sue vesti più belle; la tunica orlata da tre nastrini, - verde-bianco-verde - il corsetto di broccato verdolino, la cintura d'argento, il grembiule ricamato, la benda tinta con lo zafferano. E non ha dimenticato gli anelli, no; i grandi anelli preistorici, ornati di cammei, di pietre gialle e verdi, di cornìole incise. Così, grave e adorna, simile ad una vecchia madonna, ella si avanza lentamente, salutando con solenne compostezza le persone che incontra. Cade la sera; l'ora sacra a queste gravi missioni d'amore. Al cader della sera la paraninfa è sicura di trovare a casa il capo della famiglia al quale reca il messaggio arcano.» «Zia Tatàna va ... va sempre più grave e lenta ... Pare che abbia paura di arrivare; e giunta al fatale limite, davanti al portone chiuso, silenzioso e scuro come la porta del destino, esita un momento, si accomoda gli anelli, il nastro del grembiule, la cintura; cinge il mento col lembo della benda, e infine si decide e batte al portone ... » Parve ad Anania che quel colpo si ripercotesse sul suo petto. Balzò in piedi, sollevò la candela e si guardò nello specchio. «L'ho detto io! Sono pallido. Guarda che stupido! Ebbene, non voglio pensarci più ... » S'affacciò alla finestra. Nel cortile chiuso, illuminato dall'ultimo barlume del giorno, il sambuco immobile disegnava una macchia scura. Silenzio perfetto. Le galline dormivano già, ed anche il porchetto dormiva. Le stelle scaturivano, scintille d'oro, fra la cenere azzurrognola del caldo crepuscolo. Al di là del cortile, nella straducola, passava un piccolo mandriano a cavallo, cantando in dialetto: Inoche mi fachet die Cantende a parma dorata ... Anania pensò alla sua infanzia, alla vedova, a Zuanne. Che faceva il fraticello sul suo alto convento? «E dire che voleva diventare un bandito! Sarei curioso di vederlo! Lo vedrò. Entro questo mese mi recherò certamente a Fonni.» Ah! D'un colpo il suo pensiero tornò là, dove si decideva il suo destino. «La vecchia colomba è nello studio semplice e ordinato del signor Carboni. Ecco, quella è la scrivania dove una sera lo studente ha frugato e ... Oh, Dio, è mai possibile che egli abbia commesso una così vile azione? Sì, quando si è ragazzi non sì è coscienti; tutto è facile, tutto è possibile. Come siamo pazzi, da fanciulli! Potremmo anche commettere un delitto con la massima incoscienza! Basta; zia Tatàna è là. Ed anche il signor Carboni è là, grasso, tranquillo, con la catena d'oro scintillante attraverso il petto.» «Ma che cosa dunque dice quella vecchietta?», pensò Anania, sorridendo nervosamente. «Sarei curioso di vedere come se la cava. S'io potessi esser là, non veduto! Se avessi l'anello che rende invisibili; ecco, lo infilerei al dito e ... via ... subito là ... Ma se il portone fosse chiuso, come farei? Ebbene, picchierei, diamine! Mariedda aprirebbe, stizzita contro i ragazzi che picchiano al portone e scappano. Io ... Ma come sono pazzo a pensar queste cose puerili! Uff! non voglio pensarci più! ... » Si tolse dalla finestra, prese la candela, scese in cucina, andò a sedersi davanti al focolare acceso. Ma d'un tratto ricordò che era d'estate e si mise a ridere: poi guardò a lungo il gattino rosso che stava davanti al forno, immobile e pronto, coi baffi irti e la coda tesa, aspettando il passaggio di un topo. «No», disse Anania, pensando allo strazio del topolino, «per stasera non te lo lascio prendere: neppure un topolino, deve stasera soffrire in questa casa. Usciu, usssciuu!», gridò balzando in piedi e correndo verso il gattino che vibrò tutto e saltò sopra il forno. Sempre agitato da una inquietudine nervosa, Anania si mise a camminare su e giù per la cucina; di tanto in tanto palpava i sacchi ricolmi d'orzo e mormorava: «Mio padre non è poi tanto povero; egli è un mezzadro del signor Carboni, non il suo servo. No, egli non è povero; ma non potrebbe certo restituire quello ... che spendo io, se non avvenisse ciò che ... deve avvenire. Ma avverrà poi? Che cosa si combina in questo momento? Ecco, zia Tatàna ha parlato ... Che ha detto? Ah, no, no, no, non bisogna neppure pensarci ... Bisogna piuttosto pensare alla risposta che darà, che dà, il benefattore ... Che dirà egli, l'uomo più leale del mondo, sapendo che il suo protetto ha osato tradire così la sua buona fede? Ecco, egli cammina pensieroso attraverso la stanza: zia Tatàna lo guarda, pallida, oppressa ... ». «Dio, Dio, che accade mai?», gemé Anania, stringendosi il capo fra le mani. Gli pareva di soffocare; uscì nel cortile, si sporse sul muricciuolo di cinta, attese, ascoltò ... Niente, niente. Solo, dopo un quarto d'ora circa, due voci risuonarono dietro il muricciuolo; poi una terza, una quarta: erano i vicini che si riunivano così ogni notte davanti alla bottega di maestro Pane, per godersi il fresco e chiacchierare. «Nostra Signora mia», diceva la voce stridula di Rebecca, «ho visto cinque stelle cadere sul cielo. Ah, ciò non è invano ... Deve succedere qualche disastro ... » «Che tu stii per mettere al mondo l'anticristo?», chiese la voce ironica di un contadino. «Dicono che deve nascere da un animale.» «L'anticristo lo metterà al mondo tua moglie, animale schifoso!», rispose adirata la ragazza. «Prenditi questa, garofano!», disse la bella Agata che mangiava rideva e parlava nello stesso tempo. Il contadino cominciò a dire parole insolenti; il vecchio falegname s'irritò e gridò: «Se non la finisci ti butto un sasso, faina pelata». Ma il contadino proseguì nella sua bella impresa: allora le donne si allontanarono e andarono a sedersi sotto il muricciuolo del cortile, e zia Sorichedda - una vecchietta che quaranta anni prima era stata serva in casa dell'Intendente, - cominciò a raccontare per la millesima volta la storia della sua padrona. «Era una marchesa. Suo padre era amico intimo del re di Spagna, e le aveva dato in dote mille scudi in oro. Quanto fanno mille scudi?» «E cosa sono mille scudi?», disse Agata con disprezzo. «Margherita Carboni ne ha quattro mila ... » «No», osservò Rebecca, «altro che quattro mila! Quaranta mila». «Voi non sapete quel che dite!», gridò zia Sorichedda. «Mille scudi in oro non li possiede neppure don Franceschino.» «E andate! Siete rimbambita!», gridò Agata, accalorandosi. «Che cosa contano mille scudi? Se li ha Franziscu Carchide in suole di scarpe!» La questione diventò seria; le donne cominciarono a ingiuriarsi: «Lo sai tu perché vanti il tuo Franziscu Carchide, questa immondezza rifatta! ... ». «Immondezza siete voi, vecchia peccatrice.» «Ah!» Foglia di gelso, Chi la fa la pensa ... Anania ascoltava, e ad un tratto, nonostante l'inquietudine che lo agitava, scoppiò a ridere. «Oh», gridò Agata, affacciandosi al muricciuolo, «buona notte alla Vossignoria. Che cosa fai lì al buio, pipistrello? Fa vedere il tuo bel viso». «Prego!» egli rispose, avvicinandosi e pizzicandola al braccio, mentre Rebecca, che all'udire la risata del giovane s'era accoccolata per terra, quasi volendo nascondersi, pizzicava Agata alla gamba. «Al diavolo chi vi ha formati!», imprecò la bella ragazza. «Questo è un po' troppo! Lasciatemi o ... svelo!» Ma i due la pizzicarono più forte. «Ahi! ahi! Al diavolo! Rebecca, è inutile che tu faccia la gelosa ... ahi! zia Tatàna stasera ... è andata a chiedere ... parlo o no? Ah! ... » Anania si ritrasse, chiedendosi come mai la indiavolata Agata sapeva ... «Cuoricino mio, un'altra volta rispetta zia Agata!», ella disse sogghignando, mentre Rebecca, che aveva capito, taceva, impietrita, e zia Sorichedda domandava: «Fammi il piacere, Nania Atonzu, dimmi, chi a Nuoro può avere mille scudi in oro?». Anche il contadino s'avvicinò e chiese: «Dimmi, Nania, è vero che il papa ha settantasette donne ai suoi comandi? ... ». Anania non rispose, forse non intese neppure: vedeva una figura avanzarsi dal fondo della straducola e si sentiva venir meno. Era lei, la vecchia colomba messaggera, era lei che tornava portando fra le pure labbra, come un fiore di vita o di morte, la parola fatale. Egli si ritirò e chiuse la porticina che dava sul cortile, mentre zia Tatàna rientrava dall'altra parte e chiudeva la porta di strada. Ella sospirava ed era ancora un po' pallida e oppressa; s'avvicinò al focolare, e i suoi primitivi gioielli, i suoi ricami, la cintura, gli anelli, scintillarono al riflesso del fuoco. Anania le corse incontro e la guardò ansioso, e siccome ella taceva le domandò con impazienza: «Che cosa vi hanno detto?». «Pazienza, figlio del Signore! Ora ti dirò ... » «No, Dite subito. Mi vogliono?» «Sì! Ti vogliono, sì, ti vogliono!», annunziò la vecchia, aprendo le braccia. Egli sedette, sbalordito, e si prese la testa fra le mani: zia Tatàna lo guardò e scosse la testa, mentre con le mani un po' tremule si slacciava la cintura. «Mi vogliono! Mi vogliono! È mai possibile?», ripeteva fra sé Anania. Davanti al forno il gattino aspetta ancora il passaggio del topo, e deve già sentire qualche rumore perché la sua coda freme: infatti, dopo un momento, Anania sente uno stridio, un piccolo grido di morte. Ma adesso la sua felicità è così completa che egli non ricorda più che nel mondo esiste il dolore. La relazione particolareggiata di zia Tatàna gettò un po' d'acqua fredda su quel grande incendio di gioia. La famiglia di Margherita non si opponeva all'amore dei due giovani, ma, naturalmente, non dava ancora un consentimento pieno, irrevocabile. Il «padrino» aveva sorriso, aveva battuto le mani e scosso la testa come per dire: «me l'hanno fatta quei due!». Aveva anche detto: «Fanno presto a metter le ali questi ragazzi!», ma poi era diventato serio e pensieroso. «Ma, infine, che avete concluso?», gridò Anania, facendosi anch'egli serio e pensieroso. «Che bisogna aspettare, Santa Caterina bella! Non hai ancora capito? Ma la padrona disse: "Bisognerebbe interrogare anche Margherita". "Eh, credo proprio che non occorra", rispose il padrino, battendo le mani. Io sorrisi.» Anche Anania sorrise. «Abbiamo dunque concluso ... Va via, gatto!», gridò zia Tatàna, tirando il lembo della tunica, sul quale il gattino s'era comodamente adagiato leccandosi i baffi con orribile soddisfazione. «Abbiamo concluso che bisogna aspettare. Il padrone mi disse: "Che il `fanciullo' pensi a studiare ed a farsi onore. Quando egli avrà un posto onorevole noi gli daremo la nostra figliuola: intanto si amino pure, e che Dio li benedica". Ecco, tu ora cenerai, spero!» «Ma, infine, posso presentarmi in casa loro come fidanzato?» «Per adesso no: per quest'anno no! Tu corri troppo, galanu meu! La gente direbbe che il signor Carboni è rimbambito, se permettesse una tal cosa: bisogna che tu prenda la laurea, prima ... » «Ah», gridò Anania, adirandosi, «è dunque meglio ... » Stava per dire: «è dunque meglio che ci vediamo di notte, di nascosto, per non urtare la falsa suscettibilità della gente?»; ma subito pensò che vedersi di notte, di nascosto da soli, era forse meglio che vedersi di giorno e alla presenza dei genitori, e si calmò completamente. Peggio per loro, dunque! Per consolarsi ricominciò le visite la notte stessa: la fantesca, appena socchiuse il portone gli augurò la «buona fortuna» come se le nozze fossero già celebrate, ed egli le diede la mancia e attese trepidando la sposa. Essa venne, cauta e silenziosa, profumata d'ireos, con un abito chiaro biancheggiante nella notte diafana. Si abbracciarono a lungo, silenziosi, vibrando assieme, ebbri di gioia: il mondo era loro. Per la prima volta Margherita, ormai sicura di potersi abbandonare senza paure né rimorsi all'amore del bel giovane che impazziva per lei, si mostrò appassionata e ardente, quale Anania non osava sognarla: ed egli uscì dal convegno barcollando, cieco, fuori di sé. La notte appresso, il convegno fu ancora più lungo, più delirante. La terza notte la serva, che vigilava nella cucina, forse stanca di vegliare, fece il segno convenuto in caso di sorpresa e gl'innamorati si lasciarono alquanto spaventati. L'indomani Margherita scrisse: «Ho paura che ieri notte il babbo si sia accorto di qualche cosa. Badiamo di non comprometterci, ora appunto che siamo tanto felici: è bene, quindi, che per qualche giorno non ci vediamo. Abbi pazienza, e sii anzi coraggioso come lo sono io, che faccio un enorme sacrifizio rinunziando, per qualche tempo, alla immensa felicità di vederti: mi pare di morire, perché ti amo ardentemente, perché mi sembra di non poter più vivere senza i tuoi baci, ecc., ecc.». Egli rispose: «Adorata mia, tu hai ragione: tu sei una santa, per bontà e per saviezza, mentre io non sono che un pazzo, pazzo d'amore per te. Non so, non vedo più quel che faccio. Ieri notte potevo compromettere tutto il nostro avvenire e non me ne accorgevo neppure. Perdonami: quando sono vicino a te perdo la ragione. Ho la febbre; mi consumo tutto, mi pare che entro di me arda un fuoco distruttore. Rinunzio con spasimo alla suprema felicità di vederti per qualche sera; e siccome ho bisogno di moto, di svago, di un po' di lontananza, per attutire alquanto questo fuoco che mi divora e mi rende incosciente e malato, penso di fare un'escursione sul Gennargentu. Tu vuoi, non è vero? Rispondimi subito, cara, adorata, mio spasimo e mia gioia. Ti porterò sul cuore: dalla più alta cima sarda ti manderò un saluto, griderò ai cieli il tuo nome e il mio amore, come vorrei gridarlo dalla più eccelsa cima del mondo affinché tutta la terra ne restasse attonita. Ti abbraccio, ti porto con me, unita a me, per tutta l'eternità». Margherita diede graziosamente il suo permesso. Altra lettera di Anania: «Parto domani mattina con la corriera per Mamojada-Fonni. Passerò sotto la tua finestra alle nove. Vorrei vederti stanotte ... ma voglio essere prudente. Vieni, vieni con me, Margherita, adorata mia, non lasciarmi un solo istante, vieni qui, sul mio cuore, ardi del mio fuoco d'amore, fammi morire di passione».

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Da una parte generali o presidenti acciaccati, che nella loro irreflessiva gioventù tradirono a diecine serve e padrone, crestaie e signorine, dall'altra parte venerande patrizie o banchiere, la cui focosa inesperienza puerile fu forse abbassata da palafrenieri, e la cui pompa matronale ebbe un dizionario biografico di amanti, tutte le peccatrici e tutti i peccatori di alto bordo cercano di mettere in pace la loro garrula coscienza, facendo cospicue elargizioni alle opere pie. Per cui la generosità femminile ( generosità nel senso dell'on. Morelli) non serve soltanto ad ottenere impieghi, secondo lo scherzo della burocrazia pontificia: Mater dat, filia dat, uxor dat, soror dat; propterea quod ille missus est in Datem (nella Dateria apostolica). Ma la generosità femminile serve pure ad innalzare pie opere di virtù. Ah! (con un profondo sospiro soggiungeva il canonico Puerperio). Noi ci siamo consacrati alla Purità ... E dobbiamo domandare l'obolo ... come sapone di chi sa quante macchie ... Via! Mettiamoci in campagna. * Sette ! * le rispose con un monastico pattone sulla schiena Suora Crocifissa, arrubinando il bell'ovale del virginio pallore. E si misero ambidue in campagna. Sulla sepoltura di una città, che nei tempi etruschi e romani si meritò il nome di Industris, si screpola un gramo inoperoso villaggio, che con il nome di Passabiago scivola dai margini collinosi del Basso Monferrato alla sponda destra del Po. In una valletta storta e profonda, quasi inesplorata come una foresta vergine, esisteva un rudere preziosissimo di antichità cristiana; un tempietto, la cui costruzione si fa risalire a trecento anni dalla natività di Gesù Cristo. Lo si dice fondato da San Mauro. Subì incursioni di saraceni. Un mozzicone di iscrizione scalfita nella vecchia pietra " XI Kal. Nov. Rolandus" , ed una vaga tradizione lasciano supporre una visita di Orlando innamorato, che poscia ritornò furioso a ricuperarvi il senno smarrito. Napoleone I vi sorprese una lauta badia di Cistercensi, che facevano bollire i capponi nel vino bianco, e mandavano i vitelli a tuffare un istante nel Po per ripescarli e mangiarseli nei giorni di magro come pesci. L'imperatore còrso abolì la badia, disperse i padri badiali, e ne donò terreno e fabbricati a un brioso maresciallo Bonnelane, che li giocò e perdette a tarocchi. Nella restaurazione politica, si restituì il convento in più modesti costumi. Il ministro Urbano Rattazzi, coul Rataz, fieul d'Cain, fratel d'Caiffas, sulle zucche incapucciate a l'a dait un famos crep *; onde il padre guardiano poté intonare, secondo la lepida canzone piemontese del Brofferio: * Bruta neuva * orate frates * Bruta neuva per dabon. * Babilonys impii patres * portu 'l Diau an procession . In quella nuova soppressione di Conventi venne pure colpito il Convento di Sant'Oblito a Passabiago, Sant'Oblito, forse un santo inesistente, in cui si personificò per eufemismo o trapasso popolare l'originale Sant'Oblio. I fabbricati e i terreni vennero comperati all'asta pubblica dalla solerte ditta Israelitica Salomon Todros e Segre, felice acquisitrice di beni ecclesiastici in blocco, e rivenditrice al minuto. Ma la Ditta trovò insolite difficoltà a disfarsi di quei beni, anche offrendoli spezzati in piccoli lotti con dilazioni straordinarie al pagamento. Tanta era la diserzione e l'apatia dei capitali, che regnava loro intorno. La mania litigiosa, l'afflizione della crittogama e della peronospera, la testarderia del così faceva mio padre e il conseguente assoluto misoneismo avevano congiurato per formare un presente contradditorio, quasi ingiurioso all'antica nomea di Industris. La moderna Passabiago pareva la mummia di un rospo. Uno sparpaglio di case scrostate o screpolate o non finite; poggiuoli, che aspettano da anni ed anni la ringhiera; modiglioni, che si protendono inutili per ricevere la pietra di un balcone, che mai non viene. Ignorati o respinti i concimi artificiali; * una voluttà di andare a dormire, rimandando ogni cosa al Die Domani; una assoluta mancanza di volontà, niuna prontezza, fuorché nel litigare. In fondo della valletta giaceva quasi sepolta dai rovi e dalle rose canine la gemma della chiesetta. Ai due lati si ergevano in secolare contrasto storico e tellurico i due poggi dominati dalle rispettive famiglie Rotellana e Pressendina, che dalle spaccature e feritoie delle loro bicocche diroccate ancora si lanciavano freccie di cartabollata. Oramai alle due famiglie di litiganti cronici non rimanevano più che queste due risorse; * per l'una, la Rotellana, pattuire la conversione dei numerosi componenti al protestantesimo, con una sfondolata società di propaganda londinese, che pagava le conversioni in contanti. Per l'altra famiglia, la Pressendina, rimaneva il rinfranco di spazzare il sepolcreto avito nel Cimitero di Torino delle ossa dei Maggiori, ammucchiandole in un angolo chiuso della cripta, e vendere il restante spazio a un milionario costruttore di strade ferrate. Si aggiunse la complicazione di un amore improvviso in tanto odio secolare. L'unico figlio dei Pressendina, l'avvocatino Oreste si innamorò perdutamente di Onorina, la primogenita dei Rotellana, che perdutamente gli corrispose; onde era minacciata una nuova tragedia di Giulietta e Romeo. Invece il dramma ebbe lieto fine come negli amanti di Castello e Cascina di Roberto Sacchetti. Un santone, dei soppressi Tornaboni, padre Funari, venuto in concetto di santità per le sue reliquie (fra cui due capelli della Madonna) per le sue astinenze e per il suo moto perpetuo, era una grande provvidenza per tutti, e un grande specialista nel ricondurre le mogli fuggitive ai mariti spasimanti e maritare i rampolli di famiglie discordissime. L'avvocatino Pressendina e tota Rotellana si erano rivolti a lui taumaturgo; ed egli per maggiore sicurezza aveva richiesto il superiore intervento del Canonico Giunipero e di Suora Crocifissa. La signorina si era inginocchiata davanti al Canonico, l'avvocatino davanti alla Suora. E canonico, suora, e taumaturgo avevano combinato un miracoloso sopralluogo. * Iesus! * esclamarono in un duo la suora e il Canonico, quando mirarono sotto i rovi e le rose canine la facciata della Chiesa di Sant'Oblito. * Iesus! * tenne bordone padre Funari, completando il trio. * Questa facciata pare un incastro per un rivo di devozione, che conduce al Paradiso * osservò Suor Crocifissa. * Dovrebbe essere dichiarato monumento Nazionale! * asseverò il canonico. * Me ne occuperò io, * promise padre Funari * parlandone al commendatore Itaglia, Ministro dell'Istruzione Pubblica, e a un mio amico usciere omnipotente al Ministero dell'Interno. Fecero un viaggio e due servizii. Non solo combinarono il pateracchio tra l'avvocatino Pressendina e tota Rotellana, ma gittarono le basi della florida Casa del Sant'Oblio. Comperarono a buon prezzo dalla Ditta Israelitica quella gemma di antichità cristiana, e i circostanti terreni. Tacitando e mandando a spasso i creditori delle oberate famiglie Pressendina e Rotellana, i quali non isperavano oramai più niente dai giudizii di graduatoria, si impossessarono dei due poggi laterali coi relativi versanti, si può dire per un tozzo di pane. Di vero non vi era mai stato un candidato così ambizioso, così chimerico e così scemo di piattaforme elettorali, che avesse proposto un tracciato ferroviario per quella valletta abbandonata dagli uomini e da Dio. L'avvocato Pressendina si ebbe una cattedra di diritti civili in un istituto tecnico di Torino, donde, come è noto, salì al Consiglio di Stato. La famiglia Rotellana inoculata di nuove cognizioni rimase preposta all'agenzia agraria della rinnovata Casa del Santo Oblio. La Chiesa ebbe un generoso restauratore in un patrizio eccellente architetto archeologo. La facciata splendette come una paratoia di rivo conducente al Paradiso; nell'interno le gemine colonne apparveno gambe di santi onestate di brache luminose. La vasta possidenza venne circondata da un muraglione rivestito di edera, lungo come una cinta daziaria, destinato, come una muraglia della Cina a separare il Santo Oblio dal bulicame del mondo restante. Per evitare gli incameramenti di Rattazzi e dei ministri suoi successori la proprietà venne acquistata privatamente in testa del Canonico Giunipero. Sovventori furono principi plebiscitarii e pretendenti a ristorazione reazionaria, squarquoie arricchitesi nel commercio della carne umana e candide colombe della nobiltà e dell'alta borghesia. Avevano largamente concorso il comm. Vispi droghiere emerito, l'emerito macellaio Baciccia Calzaretta, il marchese Stefanina, i conti De Ritz padre e figlio, e il barone Rollone Svolazzini, non senza ragione di imbeccata personale. Il Canonico Giunipero nell'estasi della riuscita impresa, ebbe un'ossessione immaginosa, come la visita tentatrice del Diavolo. * Sta bene! * egli immaginò! * Sta bene in fondo alla valletta attaccato alla Chiesa il nido del Santo Oblio per le spericolate e le pericolanti salve dai morsi e dai rimorsi del mondo. * Ma là in alto sui due poggi vorrei giganti fronteggianti due ganglii virili. Sopra l'uno vorrei raccogliere uomini maturi, vecchi cadenti, sbattuti e rialzati per la Santa Fede; sopra l'altro vorrei raccogliere un reggimento di giovani operosi devoti alla santa forza! Ora che la soppressione degli ordini religiosi necessita il rifarsi, rinverginarsi del monachismo insito perpetuamente alla natura e ai destini dell'umanità, vorrei risuscitare i frati gramieri avamposti dell'agricoltura intensiva, vorrei risuscitare gli Umiliati pionieri dell'industria tessile e tintoria. * Vorrei in più, * e qui l'immaginazione vinceva le redini al canonico ... * Vorrei stazioni taurine di eccellenti riproduttori. Come se il diavolo gli ridesse sfolgorando in faccia, egli fantasticava: * L'imbecille civiltà ha creduto distruggere un'impostura nociva, abolendo dei conventi; invece ha distrutto utili verità, che fruttificavano sotto l'ipocrisia apparente ... Oh! la bella popolazione, che cresceva intorno ai conventi! Alla mia Laghetto da Po si ammiravano ninfe delle risaie, che le migliori non avevano potuto dipingere i classici pittori della Grecia, e ciò perché v'erano fratacchioni ben pasciuti di corpo e di spirito a benedire con il loro amore le contadine: essi nel bacio recavano non solo un vitale nutrimento, ma portavano un soffio di canti, studî e sogni sublimi, come un intreccio raffaellesco di arcangeli e madonne. * Erano depositi di stalloni umani per una razionale stirpicoltura e col celibato religioso offrivano una buona soluzione al problema di Malthus pauroso, che le popolazioni aumentino in proporzione geometrica, mentre i mezzi di sussistenza crescono soltanto in ragione aritmetica. * Invece, ora, aboliti i conventi, lasciata la procreazione rurale soltanto ai mal nutriti fisicamente e intellettualmente, sparvero le ninfe delle risaie; e loro sottentrarono femmine verdognole dalle bocche di lucertola e di rana, facile preda, gaglioffe e terribili alleate dei galeotti sfruttatori ed impresarii del socialismo professionale. In quel punto entrò Suor Crocifissa solenne, pallida e pura, al pari di Santa Clara. Il canonico, come se avesse esposto a lei il discorso diabolico, le domandò: * Non è la mia una concezione dantesca? Suor Crocifissa, che mangiava poco o nulla di Dante ed adorava soltanto l'Immacolata Concezione, fece un viso di voluta ignoranza e rimprovero. Allora il canonico Puerperio, cioè Giunipero, si sentì calare le ali diaboliche dell'orgoglio e del rigoglio virile, e domandò a Dio perdono dei suoi peccati di immaginazione. Egli allora si dedicò unicamente alla nuova fondazione femminea del Santo Oblio. Le prime reclute furono una dozzina come gli apostoli, e primario agente di arruolamento fu il padre Funari. Passato il cancello, in cui i ghirigori del ferro battuto delineano curve di nuvole a bambagia d'angioli, si vede spaziare un prato, intersecato da redole di ghiaia minuta, che partono dal piedestallo di una Madonna Stellata, come raggi da una stella. La statua della Vergine Madre Divina lucente di ceramica bianca, ha sulla fronte una stella metallica di doratura raggiante. Porta due iscrizioni sui quadri del basamento. L'una: Ave, Maris Stella è il saluto dei naufraghi della vita, che si salvano in quella casa del Sant'Oblio. L'altra: Hujus domus regina significa quale sovrana devesi riconoscere dalle casigliane e dai visitatori. Personificazione viva della statua è la superiora Suor Crocifissa. Il suo ideale vivente ed attuoso appare più fulgido e più alto della stessa statua. Dal beato Calasanzio al Pretore Martini è provato che l'abilità di consolare ed avvincere beneficamente gli afflitti ed i derelitti è una prerogativa personale straordinaria; non si può insegnare con regole; perché varia secondo l'infinita varietà delle afflizioni e degli abbandoni. Unica efficacia è l'asseveranza di una irradiazione d'amore. * Tu orfanella, adunghiata, sputacchiata dalla matrigna, derubata dai costei drudi, non hai mai avuto un bacio rispettoso. Ed io ti bacio nel Divino Amore. * Bella sartina, tradita dal sottotenente, a cui credevi dedicare il cuore e la vita, mentre egli ti ha presa come un'appendice di camera mobiliata, come il sopracaffè del mattino, * vieni qui; ché la Madonna ti assegna nella sua casa un posto di eguaglianza umana e di fedeltà nell'amore Divino. * Zitelle e dame gonfie dal livore e corrose dalla gelosia, che è il reagente più torbido e più corrosivo della chimica psicologica, venite qua dentro; e troverete nelle pieghe del Manto di Maria Immacolata la più olezzante fiducia in Dio, che fa sperdere persino la memoria dei terribili sospetti, per cui afferravate come documenti di tradito amore finanche le carte destinate a fetidi recessi. Oh! ben lo disse il canonico Puerperio, cioè Giunipero. Anche nella mitologia vi erano simboli di verità, che qui si realizzano. * Qui in quel Rio "Lavatojo" abbiamo realmente il fiume Lete, che travolge, sperde la memoria di ogni male; e in quell'altro rivo "Ortolano" abbiamo realmente il fiume Eunoè che coltiva ed accresce la memoria di ogni bene. La immagine matura di Suor Crocifissa in mezzo al prato dirimpetto al cancello raffigura quella di una cruda bambina che erige una pertica invitando a posarvisi le libellule: "Signorine e signorone! Venite sul mio bastone" . Ma la bambina acchiappa le libellule per infilzare crudelmente una pagliuzza nella loro coda. Invece Suora Crocifissa offre a tutte le ferite, a tutte le offese del devoto femmineo sesso il balsamo, pregustazione del Paradiso. Ai disordini della materia umana niun riparo più sicuro, che un ordine spirituale, in cui si riflette umanamente un raggio di ordine divino. La creatura bersagliata dal delitto altrui o dalla propria passione ha perduto il contatto benefico con l'Universo creato. Può riacquistarlo in una comunità religiosa. Questo è il vero socialismo ideale, per cui con gli altri vantaggi sociali si moltiplica il tempo. Come è difficile per un individuo ed anche per una privata famiglia il fissare e mantenere un orario! La mancanza di zuccaro nel caffè o il male di denti d'una sorella possono assorbire o fare cadere nel nulla, come per un giuoco di mattoni, tutte le ore della mattinata preziosa al lavoro. Invece in una comunità governa inamovibile l'orologio di precisione. Quanto possa fare uno studioso libero dalle cure domestiche, lo riconobbe il Taine deplorando lo strazio e lo sperpero delle corporazioni religiose fatto dalla Rivoluzione francese. Simile beneficio si può riconoscere per qualsiasi lavoro. Alle cinque del mattino la campanella sveglia per la preghiera. Il cronometro distribuisce il tempo esatto per la religione, lo studio, il lavoro, e la ricreazione; dalla Santa Messa, alla grammatica, all'aritmetica, alla inaffiatura dei fiori, alla potatura, all'innesto, alla composizione italiana, al saggio di lingue straniere, alle refezioni, alla raccolta dei frutti, alla macchina da cucire, al telaio Iacquart, al lawn tennis e al missisippì ecc. ecc. Nel nitore di un paesaggio romito ed aprico, tra Terra e Cielo, Dio e Natura, studio, lavoro, ed Amore Divino danno unicamente la pace umana. Questa sentirono, dopo l'abbraccio e il bacio di Suor Crocifissa le prime ricoverate, che non sospettarono neppure di essere recluse. Una figliastra ritrovò la madre ideale; una tradita ritrovò fedeltà d'amor celeste, nove altre vittime di gelosie o martiri di persecuzioni entrarono in quel porto della rassegnazione generosa e persuasiva, persuadendosi che la partecipazione accresce l'amore e la vera contentezza risiede nel volere di Dio. Notevoli tra le prime reclute le soprannominate Bimblana e Gibigianna. Bimblana nata ottava da una famiglia di schiavandari ad Ypsilon Novarese era stata battezzata coi nomi di Ottavia Rosa Antonia. Era cresciuta come un rosolaccio; di bella presenza, era mandata a servire in città, essendo già superflua la precedente figliuolanza per la schiavenza in campagna. Aggirandosi nel mercato degli erbaggi veniva ammirata ed amata per le sue forme slanciate e scultorie e per il suo andamento di maternità anticipata, che ai bambini e alle bambine la faceva parere una superiora amorevolissima. Suo gesto favorito era un ritmico allargare di braccia e scotimento di mani, con cui si direbbe avesse voluto raccogliere e sollevare in Paradiso un asilo infantile. Per quella sua andatura ondeggiante, quasi cascante di noncuranza estatica, aveva avuto il nomignolo popolare di Bimblana. Un ardito scultore l'aveva voluta per sua modella. Una guardia carceraria le diede prigioniero il suo cuore. Ma essa, senza riuscire ad amare nessuno, si lasciava amare quasi da tutti. La sua letteratura erano le avventure di Ol Carlin e la so dona a Milan , anche tradotte dal dialetto milanese al piemontese. Ma essa orgogliosa di aver appreso il meneghino, in modo da non disimpararlo più, realizzava pur troppo il distico originale: Te pacjria tuta * E mi me lassi pacià . Piegava la testa pudibonda, e lasciava fare e si lasciava baciare. Ottavia Rosa Antonia era on tocc da marcantoni da bon , che tirava i baci stagn . Non di rado aveva verificato nella vita i dialoghi del suo libro galeotto: * Sa gh'avii Carlin! * Sont scia ch'a va mangi coi eucc. A sii na gran bella forlana vidii ... ! Sanforment! * Lassem no Carlin! ... lassem no! Salveves mia col ... sentimento ... Essa aveva più docilità muta, che espressione di sentimento. Vittima dei capricci di fantasia, da cui sperava forse qualche tesoro del Caso era caduta d'una in altra disgrazia, fino a parere una bella e grossa mela fracida da buttare sul letamaio. Una notte la folata di giovani briganti esteti, che terrorizzano quella cittadina rurale, rimanendo impuniti, perché figli di avvocati o nipoti di canonici, con cui il deputato non vuole assolutamente disgustarsi, dopo avere ubbriacandosi fraternizzato con i garzoni da caffè e rotto il naso al busto del generale Garibaldi nei giardini pubblici, avevano attirato Bimblana sulla panca più scura del viale per godere in combutta il distico: * Bimblana! a va paci da sbalz ... mi * E vu paciem ... * E mi va paci * E mi me lassi pacià ... traduzione bestiale, note alla Spirito Losati, traduzione bestiale dell'angelico invito pronunziato dagli inquilini danteschi nella Stella Venere: Tutti sem presti al tuo piacer, perché di noi ti gioi. La lasciarono con le vesti oscenamente stracciate. Così turpemente abbandonata essa pianse a dirotto ... In quello stato miserabile non osava più presentarsi ai padroni e ai genitori. Voleva gettarsi nel Canale. Ma un filo di luce la salvò: la fama dei capelli della madonna, posseduti dal Santone padre Funari. Fece otto miglia a piedi per portarsi da lui; e fu condotta alla Casa del Santo Oblio. Vi era allora in visita apostolica il canonico Giunipero, il quale, veduta la rifugiata e sentitine i casi, appartossi nella libreria, si fregò gli occhi, come per un'aspra visione ed esclamò in un soliloquio silenzioso, che sarebbe stato forte, se pronunziato in un teatro filodrammatico di venerando seminario: * Manzoni! Manzoni! Dove hai conosciuto la tua immacolata ingenua Lucia Mondella? ... Oh! tipi di campagnuole oneste ed istruite offerte ad imitazione da Cesare Cantù e Felice Garelli! ... Perché, perché la verità è così diversa? Soltanto la musa stenografica, fotografica porca villana o villana sporca è la sincera interprete dell'anima femminile popolare, se non la salva, se non la purifica Religione. Con questa esclamazione in pectore Egli si curvò sull'inginocchiatojo a pregare per la salvezza dell'eterno femminino popolare. Nei primi giorni del suo ricovero Bimblana si sentì non solo salva, ma felice. Ravvisando un godimento senza peccato, sentendosi amata, senza essere goduta, né sprezzata né vituperata, confessò ingenuamente: * Non sono mai stata così bene a questo mondo. Mi pare di essere in un paradiso terrestre. Di meno facile contentatura si palesò Gibigianna, che irruppe nel Santo Oblio come una meteora annunziatoria di fulmine maggiore. Intanto dessa la bella Gibigianna faceva notevole riscontro alla bella Bimblana. Questa purificava le sue meneghinate; quella guardando nella lampada della chiesa rattizzava il fuoco errante dei suoi occhi e lo splendore vago dei suoi capelli, che le avevano fruttato il nomignolo fin da bambina. Come un raggio riflesso da un piccolo specchio, che si muova o si rompa, coagula sopra una volta grummi di luce, che vanno e vengono con l'agitazione di uno staccio o setaccio, fenomeno, dai toscani detto occhibagliolo, la vegia dai piemontesi, e dai lombardi gibigianna , così era la biondezza di Lia Lei, una biondezza da traveggole. Si conformava a tale biondezza la grazia mobile del capo chino arieggiante alla filigrana pendula di argento dorato, che adorna la testa alle fattoresse lomelline. La piccola Gibigianna sarebbe riuscita una Vespina, una svelta ed onesta cameriera da commedia di Tommaso Gherardi Del Testa, se il padre non l'avesse menata agli stravizii. Il padre suo, Teodoro, tramviere, dopo parecchi mestieri ed uffici abbandonati, aveva fatto girare la testa alla maravigliosa signorina figliuola di un causidico da mandamento rurale, e se l'era sposata o piuttosto rubata. Con una faccia innamorativa da impostore aveva fatto sognare castelli in aria alla sposa; e l'aveva condotta in una soffitta. Ma egli si ripagava delle strettezze domestiche nei pubblici esercizii. Questi gli parevano la vendetta sociale dei proletarii, che nei caffè e nelle trattorie si trovavano eguagliati da una illusione di Corte, facendosi servire da camerieri in coda di rondine come diplomatici. Teodoro aveva educato, addomesticato all'ubbriacatura dei pubblici esercizii non solo la moglie maravigliosa, ma altresì la piccola innocente Gibigianna. Gli esercenti, anche socialisti, non sono gratuiti; e adottano il cartello dei vecchi osti: oggi non si fa credito, domani sì. Teodoro il tramviere , con quel bel titolo e con la posa attraente da teatro diurno, aveva sempre difficile il quarto d'ora di Rabelais, cioè quello di pagare il conto; ma riusciva a superare le difficoltà, facendo la corte alla padrona con occhi lampeggianti, o chiudendo un occhio, se il padrone faceva la corte alla maravigliosa di lui metà . Ognora egli aveva dimenticato il borsellino a casa; o non aveva voluto uscire con un biglietto di grosso taglio; ed ordinava che si registrasse il suo debito. Ma una sera, in cui Teodoro accompagnato dalla inseparabile mogliera e figliuola dopo avere preso il caffè e sopracaffè, aveva ordinato una bottiglia di barolo, e poi ancora il ponce, il trattore del Cannon d'oro dichiarò a se stesso: basta!; e poi venne a proclamarlo davanti alla triade, che si indugiava a libare nei lieti calici, mentre gli altri avventori avevano già lasciato l'esercizio. L'esercente del Cannon d'oro si era offeso, accorgendosi, che Teodoro in una momentanea uscita gli aveva abbracciata l'aurea moglie intronizzata al banco. Della moglie di Teodoro egli non sapeva che farne, egli che possedeva una cannonessa d'oro. Quindi: * Alle strette! Teodoro, sono stanco di riempire il mio gran libro dei tuoi puffi . Stassera, o mi paghi; o ti rinchiudo in questa stanza, e faccio chiamare le guardie vicine, perché arrestino te come un gargagnan e tua moglie come una Venere Vagabonda. * E la piccina? * domandò Teodoro. * La piccina * rispose il trattore, sarà condotta dalla Questura in qualche ospizio, dove starà meglio che a casa tua. Teodoro si era rivolto indarno a fiammeggiare uno sguardo per implorare la padrona che non si lasciava vedere. * Discese invano uno sguardo sulla propria moglie per illustrarne le offerentisi bellezze. Addolcito dal vino, egli aveva più che le prepotenze e le viltà del gargagnan , l'amenità del brillo. * O cannon d'oro! Che credi di guadagnarci? Io non ho in tasca un cito . I gioielli, che porta mia moglie, sono di princisbecco. Il trattore del Cannon d'oro con uno sguardo d'acciaio da banchiere crudele aveva avvistato che non erano di princisbecco gli orecchini di Gibigianna. * E questi qui? * Questi sono un regalo del nonno procuratore, che sarebbe capace di mandarti in galera, se tu li toccassi. * Non temo la galera. Dammi alla buona in pegno questi orecchini. Ed io, anziché molestarti e minacciarti, faccio portare due altre bottiglie di barolo stravecchio ch'a rangiu lo stomi e per addolcirti ancora più la bocca alla fine ti darò un passito di Caluso, che non hanno i Cardinali ... E berremo anche in compagnia della mia signora moglie, che farò venire per te ... Vieni qua, Madama, Madamona Catlonessa! Fu la stessa Cannonessa d'oro , che tolse gli orecchini del nonno a Gibigianna, dei quali padre e madre non furono inconsolabili; Gibigianna sì. La fanciulla, dopo una notte fremente, ebbe alla mattina da una compagna di scuola un filo di salvezza; andò in una sacrestia, si confessò a un prete; e venne anch'essa destinata al Sant'Oblio con il consenso dei genitori, ai quali venne regalata una cesta di bottiglie. Onde lo spensierato Teodoro, quando gli domandavano della figlia scomparsa, rispondeva: * Sta bene al caldo! Me la sono bevuta. * * * Qualche volta il protettore canonico Giunipero e la superiora Suora Crocifissa, contemplando quell'onda di vivezza giovanile, che corrispondeva ai raggi del sole, sentivano il rammarico di imprigionarla là dentro fuori della vita mondana. Ma loro si affacciavano i fantasmi dei persecutori dell'innocenza: faccie torbide, ferine, culari e patibolari. Via da loro gli angeli della terra. Bisogna sottrarre dall'empietà, salvare gli angeli della terra. Gli è vero, che bisognava ripulire le ali di questi angeli da molte brutture. * Bisogna convenirne, mia cara, mia santa Suor Crocifissa. Un presidente nord-americano ci chiamerebbe muck rakers , frugatori di fango. Però anche il fimo giova alla buona semente, che per noi è la Parola di Dio. Proseguiamo senza ribrezzo nell'opera buona e necessaria. Il materialismo moderno troppo sequestra l'Umanità dalle speranze celesti, fondandosi sull'ignoranza precisa dei Cieli, che pure indubbiamente esistono. Noi purghiamo le anime avvelenate, noi preserviamo le creature vergini, pascendole del più puro azzurro. I nostri sono serbatoi e traiettorie, che mantengono il contatto, sia pure forzato, dell'Umano con il Divino. Il Canonico Giunipero e Suora Crocifissa intrecciando le mani alzate come in una figura di ballo celestiale, formavano un arco mistico, sotto cui invitavano a passare tutte le minacciate od offese da brutali persecutori, tutte le guaste dalla corruzione, tutte le tocche dalla follia contemporanea. * Venite, passate alla salvezza del regno di Dio e della Madre Divina. Vieni Regina delle Gambe, rappresentante delle Risaie, ai tempi delle laute abbazie. Vieni Fiorina Lucy, vieni Tilde, vieni Maria, vieni Eugenia, vieni bastarda, vieni, purissima. Vieni anche tu, conferenziera socialista, anarchica, Solima Del Lago, che i curati e i sacrestani chiamano limo del lago. Vieni a zampillare fresca, purgata dalla contemplazione delle verità divine. E vieni nell'abbraccio della Croce, o Gilda, nell'abbraccio della più bella croce, che possa piallare, intarsiare e scolpire il buono e curvo Simone tuo padre. Non aveva costato molto al prefetto emerito barone Rollone Svolazzini il sequestrare babbo Simone e relativa figlia, a fine di preservare il proprio Svembaldo allontanato. Il falegname Simone era un'anima di vassallaggio medievale; aveva insita nel sangue la fedeltà alla Chiesa e all'Impero rappresentato dal nobile barone. Era pure medievale nella sua abilità tecnica. Invece del macchinario a vapore per l'impazienza moderna, egli aveva la curosa lentezza della commettitura e dell'intarsio manuale. Pella concorrenza del giorno e dell'ora egli sarebbe rimasto senza ordinatori; sarebbe languito nell'abbandono ad intagliarsi la cassa da morto. Di questa prospettiva si rese presto capace l'angusta e rispettosa mentalità dello stipettajo rurale, a cui parve una Terra promessa dalla Sacra Bibbia la dimora e la pensione vitalizia al Santo Oblio. Con la minuzia consentita dalla massima larghezza del tempo, senza disturbo di sollecitazioni, egli finirebbe armadii di sacrestia, cassepanche da sancta sanctorum , stalli da coro, cofani da Suore; incrosterebbe di fiori lignei, sottili come carta, la nicchia della Madonna ... Oh se potesse lui fabbricare la custodia per le ali dell'Angelo Custode! Intanto egli era relativamente felice, perché la sua Gilda sotto i suoi occhi paterni sarebbe custodita, sarebbe riparata dalle insidie, dalle seduzioni e dalle pretese sproporzionate del mondo. Gilda si mostrò restia dinnanzi alla facile contentatura del papà; oppose lacrime e lacrime; ed entrò al Sant'Oblio irrorata di lacrime, come un passerotto bagnato dalla pioggia, il quale si rincantucciasse sprofondandosi sotto una gronda. Volgeva gli occhi spauriti, come se spiasse tra i fili della gabbia un'evasione. Suora Crocifissa sentiva difficoltà ad ammansarla, asciugarla, e intepidirla del suo fuoco sacro. E temeva, che l'operazione del prosciugamento venisse compita invece da un terribile vento, che pur si aspettava. Il vento della Contessa De Ritz ... Sorridendo con ironia celeste il canonico Giunipero aveva notato, che la Contessa De Ritz era destinata al Santo Oblio dal Clericalismo e dalla Massoneria. Ma pigliarla quella contessa! Qui stava il busillis ... Si erano tese le ragne in Europa e nell'Asia Minore. Fino allora era stato come tendere la rete per acchiappare un vento. Le informazioni secrete dei gesuiti e della Massoneria recavano avventure strabilianti. C'erano di mezzo corone di re e corone da rosario, scimitarre, pugnali e bisturì. Le informazioni massoniche facevano capo principalmente al conte De Ritz; e le informazioni gesuitiche al Comm. Vispi padre della Contessa. Ma gli stimoli e i reagenti, e le direttive, e le curve strategiche si intrecciavano, quando non si intralciavano. Ostinate forze congiuravano ad attrappare finalmente quell'indomita potenza della bellezza e del capriccio femminile. * Ci riusciranno? Ci riusciremo? * si domandavano il canonico Giunipero e Suor Crocifissa; e le loro stesse persone diventavano due punti interrogativi ripiegati tra il desiderio e il terrore. Che beneficio sarebbe salvare quell'anima: un beneficio grande per l'anima da salvarsi, e un beneficio ancora più grande per le innumerevoli vittime, di cui è ancora capace quella furia allettatrice di pervertimenti! Ma che pericolo per il Santo Oblio! Alle reminiscenze classiche del Canonico Giunipero pareva, che neppure Eolo sarebbe capace di incarcerare quel vento di lussuria. E con un videmibus infra si chiudeva la longanime aspettativa del Santo Oblio.

Malombra

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Ella passeggiò un tratto su e giù per la loggia, entrò nelle sue stanze, prese un libro, lo gettò via, ne prese un altro, gittò anche quello, si provò a scrivere una lettera e, dopo aver pensato alquanto con la penna in mano, stracciò il foglio, si trasse due anellini, li buttò sulla ribalta abbassata dello stipo antico che le serviva di scrivania, e andò al pianoforte. Suonò uno dei suoi pezzi prediletti, la gran scena dell'evocazione delle monache nel Roberto. Ella non intendeva, non suonava che musica d'opera. Suonò come se gli ardori delle peccatrici spettrali fossero entrati in lei, più violenti. Alla tentazione dell'amore si fermò, non poté proseguire. Quel foco interno era più forte di lei, la opprimeva, le toglieva il respiro. Chinò la fronte sul leggìo. Pareva che ardesse anche quello. Si alzò in piedi, guardando nel vuoto. La divina musica vibrava ancora nell'aria, le pareva di respirarla, di sentirla nel petto: ne le correva uno spasimo voluttuoso per le braccia. Finalmente abbassò gli occhi sul pavimento, li posò involontariamente su qualche cosa che brillava a' suoi piedi. Guardò, senz'averne coscienza, quel punto brillante che a poco a poco le venne fermando la fantasia, finché lo vide e lo raccolse. Era uno degli anellini buttati da lei sulla ribalta dello stipo. Cercò l'altro. Sulla ribalta non c'era, nell'interno dello stipo non c'era, sul pavimento neppure. Marina s'irritò, frugò persino sotto lo stipo. Nulla. Cacciò ancora la mano nel vuoto che si apriva sop ra il piano stesso della ribalta, fra due ordini di cassetti. Frugando là dentro si accorse di un piccolo foro nel piano, e, introdottovi l'indice, vi sentì l'anello. Non potendovi entrare con due dita, cercò levarnelo serrandolo tra il polpastrello dell'indice e il legno. Con sua meraviglia non le riuscì, l'anello pareva preso e trattenuto da un uncino. Mentre Marina faceva ogni sforzo di vincere questa resistenza, s'udì lo scatto di una molla; il piano, dove posava la mano di Marina, cadde di alcuni centi metri, l'anello vi ruzzolò su. Marina, sorpresa, ritirò la mano in fretta; poi, rifrugando, trovò che, in fondo, la mano entrava più addentro di prima e che v'erano, in quella ultima cavità, degli oggetti. Ne li trasse ad uno ad uno. Erano un libro di preghiere, uno specchietto piccolissimo con la cornice d'argento, una ciocca di capelli biondi legati con un brandello di seta nera, e un guanto. Marina, attonita, faceva passare e ripassare ciascun oggetto sotto la fiammella della candela. I capelli erano finissimi; parevano d'un bambino. Il guanto, a un bottone solo, era piccolo, stretto, allungato; aveva l'atto d'una cosa viva: conteneva ancora, per così dire, lo spirito della mano delicata che l'aveva portato un giorno. A chi erano appartenuti quegli oggetti? Quale amore, quale occulto disegno li aveva nascosti là dentro? Marina frugò da capo nella cavità misteriosa sperando trovare uno scritto, ma senza frutto. Riprese a esaminare gli oggetti. Le pareva che ciascuno d'essi si struggesse di parlare, di gridare: "Intendi!". Finalmente, voltando e rivoltando per ogni verso lo specchietto, s'avvide di qualche segno tracciato a punta di diamante sul vetro. Erano lettere e cifre segnate da una mano incerta. Con paziente attenzione Marina arrivò a leggere la seguente laconica scritta: IO - 2 MAGGIO 1802 Parve a Marina che una luce lontana e fioca sorgesse nell'anima sua. 1802! Non viveva in quel tempo al Palazzo la infelice prigioniera, la pazza della leggenda? Forse era lei. Quel guanto, quei capelli erano reliquie sue. Ma nascoste da chi? Marina, quasi senza sapere che si facesse, afferrò il libro di preghiere e ne sfogliò le pagine. Ne cade un foglio ripiegato, tutto, tutto coperto di caratteri giallognoli, sbiaditissimi. Ella lo apre e vi legge: 2 MAGGIO 1802 PER RICORDARMI Ch'io mi ricordi, nel nome di Dio! Altrimenti perché rinascere? Ho pregato la Vergine e Santa Cecilia di rivelarmi il nome che mi sarà imposto allora. Non vollero. Ebbene, qualunque sia il tuo nome, tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l'anima mia infelice. Avanti di nascere hai sofferto TANTO, TANTO (questa parola era ripetuta dieci volte in caratteri assai grandi) col nome di Cecilia. Ricordati! MARIA CECILIA VARREGA di Camogli, infelice moglie del Conte Emanuele d'Ormengo. Ricordati la sera del 10 gennaio 1797 a Genova in casa Brignole; ricordati il viso bianco, il neo sulla guancia destra della santa zia, suor Pellegrina Concetta. Ricordati il nome RENATO, l'uniforme rosso e azzurro, gli spallini e i ricami d'oro al collo e la rosa bianca al ballo Doria. Ricordati il carrozzone nero, la neve e la donna di Busalla che mi ha promesso di pregare per me. Ricordati la VISIONE avuta in questa camera, due ore dopo mezzanotte, le parole di fuoco sfolgoranti sulla parete, parole d'una lingua ignota e tuttavia chiarissime in quel punto alla mia intelligenza che vi intese il conforto e la promessa divina. Mi è impossibile trascrivere quei segni, non ne ricordo che il senso. Dicevano che rinascerei, che vivrei ancora qui fra queste mura, qui mi vendicherei, qui amerei Renato e sarei riamata da lui: dicevano un'altra cosa buia, incomprensibile, indecifrabile, forse il nome che egli porterà allora. Vorrei scrivere la mia vita intera, non ne ho la forza: bastino quei cenni. Cambiati nome! Che io torni a essere Cecilia. Ch'egli ami Cecilia! Questo stipo era di mia madre, nessuno ne conosce il segreto. Vi pongo lo specchietto a cornice d'argento che la mamma ha avuto a Parigi da Cagliostro. Mi vi sono guardata a lungo, a lungo: lo specchietto ritiene la fisonomia dell'ultima persona che vi si è guardata. Vi ho incisa la data con la pietra del mio anello. Questi sono i miei capelli. Non li conosci? Pensa. Strana cosa parlare a te come se tu non fossi io stessa! Come son belli e fini i miei capelli! Vanno sotterra senza un bacio d'amore, senza una carezza. Come son biondi! Vanno sotterra. Anche tu, piccola mano mia! Metto coi capelli un guanto per ricordarmi di te, piccola mano. Nota che il pollice del guanto mi è corto. Chi sa se avrò una manina così bella, così morbida? La bacio. Addio! Ho pochi giorni a vivere. È la sera del 2 maggio 1802. Non so l'ora, non ho orologio. Le finestre sono aperte. Ecco le mie sensazioni: un'aria tepida, un odor di bosco, un cielo verdognolo, così soave! E queste voci sul lago e queste campane e queste lagrime mie calde, possibile non le ricordi? Anima mia, imprimi bene in te stessa questo. Il conte Emanuele d'Ormengo e sua madre sono i miei assassini. Ogni pietra di questa casa mi odia. Nessuno ha pietà! Per un fiore, per un sorriso, per una calunnia! Oh, ma adesso no! Adesso con la volontà, col desiderio immenso, son tutta sua, tutta! Son cinque anni e quattro mesi che son qui, che essi non parlano a me e che io non parlo ad essi. Quando mi porteranno in chiesa, ci verranno anche loro, forse. Saranno vestiti a lutto, mostreranno alla gente un viso triste e risponderanno ai preti: lux perpetua luceat ei. Allora, allora vorrei rizzami sul cataletto e parlare! Madre mia, padre mio, è vero che siete morti, che non potete difendermi? Ah, d'Ormengo, vili, vili, vili! Almeno non soffrono. Debbo arrestarmi un momento. I miei pensieri non mi obbediscono, si muovono tutti in una volta, si aggruppano qui in mezzo alla fronte, vi fanno una smania che non ha sollievo. Addio, sole; a rivederci. Porta nera, porta nera, non aprirti ancora! Calma. Alcune regole per quel giorno. Quando nella seconda vita avrò ritrovato e letto il presente manoscritto, m'inginocchierò immediatamente a ringraziar Dio; quindi, paragonati i miei capelli d'adesso a quelli d'allora, provato il guanto e, guardata la immagine nello specchio, spezzerò a quest'ultimo il vetro che dev'essere rinnovato per poter servire un'altra volta, e riporrò tutto nel segreto. Poi converrà premere sull'uncino per far tornar su il piano orizzontale. Aver fede cieca nella divina promessa: lasciar fare a Dio. Sieno figli, sieno nipoti, sieno parenti, la vendetta sarà buona per tutti. Qui aspettarla, qui. Cecilia. Marina lesse avidamente e non intese. Rilesse. Al passo: "Tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l'anima mia infelice", si fermò. Prima non le aveva notate. L'occhio suo si fermò su quelle parole, e le mani, che tenevano il foglio, tremarono. Ma per poco. Ella proseguì a leggere e le bianche mani tremanti parvero pietrificate. Giunta alle parole "m'inginocchierò immediatamente a ringraziar Dio" chiuse il manoscritto tenendovi dentro l'indice della mano destra e rimase immobile in piedi, con la testa china sul petto. Riaperse il manoscritto, lo rilesse per la terza volta. Poi lo depose e prese la ciocca di capelli. Le sue mani si movevano lentamente, non avevano più nulla di nervoso. La fisonomia era marmorea; non v'erano scritte né incredulità, né fede, né pietà, né paura, né meraviglia. Un passo pesante nel corridoio. Marina si trasformò. I suoi occhi scintillarono, il sangue le corse al viso, chiuse con impeto la ribalta dello stipo e si slanciò alla porta. Era Fanny che aveva un passo da corazziere. "Vattene" disse Marina. "Ah, Signore, che furia, cos'è accaduto?" "Nulla, non ho bisogno di te stasera, vattene a letto" ripeté Marina più ricomposta nella voce e nel viso. Fanny se ne andò. Marina stette in ascolto de' suoi passi finché la udì scendere le scale. Allora tornò allo stipo. Esitò a riaprirlo, ne considerò i geroglifici, le figure enigmatiche d'avorio intarsiato nell'ebano, che avevano in quel momento per lei la espressione funebre di spettri saliti a galla in una nera corrente infernale. Si decise e riabbassò la ribalta. Trasalì; lo stipo era stato chiuso in furia e lo specchietto era andato in pezzi secondo la volontà di Cecilia. Rilesse l'ultima pagina del manoscritto, si sciolse i capelli, ne tolse in mano una treccia e l'accostò alla ciocca di Cecilia; i vivi e i morti non si rassomigliavano affatto. Prese il guanto. Come n'era fredda la pelle! Metteva i brividi. No, neppure il guanto andava bene: era troppo piccolo. Marina ripose nel segreto il manoscritto, il libro, il guanto, i capelli, la cornice con i pezzi dello specchietto e premette forte sull'uncino. La molla scattò, il piano risalì a posto. Ciò fatto, cadde ginocchioni, appoggiò le braccia sulla ribalta dello stipo e si nascose il viso. La candela che ardeva sopra di lei e le illuminava di riflessi dorati le onde diffuse dei capelli, parve allora la sola cosa viva nella camera. La fiamma aveva delle strane inquietudini, dei sussulti, degli slanci e dei languor i inesplicabili; si veniva lentamente abbassando come se fosse ansiosa di calare all'orecchio di Marina e sussurrarle: "Che hai?" Ma neppure se lo spirito di luce avesse parlato così al piccolo orecchio di rosa, si sarebbe udita risposta. Quella figura inginocchiata non aveva più sensi né voce. Il cuore le batteva appena; il sangue stesso, forse, era quasi fermo. La sua forte intelligenza e la sua volontà, chiuse nel cervello, fatto intorno a sé un gran silenzio, combattevano il fantasma uscito dallo stipo aperto davanti alla graziosa persona col truce proposito d'infiltrarlesi nel sangue, di avvinghiarlesi alle ossa, di suggerle la vita e l'anima per mettersi al loro posto. In altri momenti lo scetticismo che Marina teneva dall'uso del mondo non l'avrebbe nemmeno lasciata accostare da qualsiasi fantasma; ma quel sottile velo di scetticismo che copriva sempre il pensiero in tempo di calma come una crittogama di acque stagnanti, si era squarciato e disperso nell'incomprensibile turbamento di spirito che l'avev a assalita tornando al Palazzo. La sua prima impressione nell'afferrare la strana idea suggerita nel manoscritto era stata di sgomento. L'avea vinta subito con un atto di volontà, con il proposito di esaminar freddamente, d'intender ogni parola. Raccoltasi poi nella meditazione intensa di quanto aveva letto, udì una imperiosa voce interiore che le disse: "No, non è vero." E subito dopo diffidò di questa voce stessa che non parlava più. Ella non poteva aver valore che per essere la conclusione di efficaci argomenti attraverso i quali fosse passato il suo pensiero con la rapidità del fulmine. Bisognava farlo tornare indietro, fargli rifare, passo passo, la via. Quella donna non era sana di mente. Lo diceva la tradizione, lo confessava lei stessa, lo significava la concitazione, il disordine febbrile delle sue idee, quand'anche il concetto sostanziale dello scritto non bastasse per sé a dimostrarlo. Questo concetto di una seconda esistenza terrena aveva esso almeno qualche cosa di originale che potesse far sospettare un'ispirazione superiore, far prendere sul serio le visioni di Cecilia? No, era una ipotesi antica come il mondo, notissima, che l'infelice poteva ass ai facilmente avere udita o letta, che aveva trovato, al dì del dolore, nella propria memoria. Allora essa l'aveva afferrata, ne aveva tratto il suo ristoro, ne aveva vissuto: l'idea era diventata, a questo modo, sangue del suo sangue. Visioni? Le pareti avevano risposto alla povera demente ciò ch'ella chiedeva loro con la più grande energia di volontà e di immaginazione. Avean risposto con fuoco, sì. Con chiarezza? No. Che significavano i capelli, il guanto, lo specchio? perché far paragonare la mano, i ca pelli morti con la mano e i capelli vivi? Sperava costei di rinascere o di risorgere? Lo scritto era dunque un frutto del delirio. Solo qualche ricordo della vita anteriore che si destasse ora nell'animo di lei, Marina, potrebbe dimostrare l'opposto. Apriti, anima! Ella interrogò se stessa sui ricordi accennati nel manoscritto come chi si curva sopra un pozzo buio e profondo e chiama e sta in ascolto se qualche voce, se qualche eco risponda. Camogli? Nessuna eco, nessuna memoria. Genova? Silenzio. Suor Pellegrina Concetta, Renato? Silenzio. Palazzo Doria, palazzo Brignole, Busalla, Oleggio? Silenzio, sempre silenzio. Così talvolta, ad alta notte, in qualche sala d'aspetto ingombra di gente e male illuminata da un fumoso lume a petrolio, si grida una sequela di nomi di paesi e di città lontane; nessuno si move; nessuno risponde. Aspettano un altro treno. Ma chi sa se vi hanno viaggiatori per quella linea che non hanno udito perché dormono nei lo ro mantelli, laggiù all'altro capo della sala, seduti dietro la gente ritta? "È una pazzia" si disse Marina, "e io che mi stillo il cervello a questo modo, sono ridicola! Ridicola!" ripeté ad alta voce e balzò in piedi. La parola uscita dalle labbra le parve più aspra della parola stessa concepita nel pensiero. Più aspra, non solo; anche eccessiva e falsa. Ne rimase ferita come se non l'avesse pronunciata lei. In pari tempo le entrò prima nel cuore, poi per tutte le membra una agitazione sorda, un'alternativa di stanchezza e d'impaziente ardore, una cupa resistenza alla volontà. Meraviglioso il caso che l'aveva portata, nel fiore della gioventù e della bellezza, da Parigi, a quella stanza disabitata da settant'anni! Meraviglioso il caso che aveva appiccato l'anello all'uncino del segreto, sì che ella potesse leggere: "Tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l'anima mia infelice!" Delirio! Ma dove era una traccia di vaniloquio in quello scritto? Concitazione sì, disordine sì, ma una prigionia di cinque anni, un concetto così straordinario nella mente! Concetto antico! Ma non sarebbe questa una ragione di credere? Marina tremò, le parve sentirsi chiamare, pregare da tante anime ignote che avevano avuta questa fede, le parve seguire un momento il loro slancio. E il sangue le correva sempre più tempestoso, la intelligenza, la volontà venivano mancando. Non ricordava Camogli né Genova, Renato né Pellegrina Concetta, non un giorno della esistenza precedente, non un'ora; ma quanti istanti! Quante volte non le era balenata la ricordanza di istanti perduti fra le tenebre d'un passato ignoto! Quella sera stessa, le campane! Le corse un ghiaccio pel sangue, un'oppressione indicibile la strinse alla gola. Ebbe allora lo sgomento di affogare, l'istinto di salvarsi. Abbracciò quest'idea che non poteva esser lei Cecilia, perché c'era del sangue d'Ormengo nelle sue v ene; ma il cuore implacabile disse: "No, che importa il sangue? Tu odii, hai sempre odiato tuo zio, la vendetta è più squisita così; Dio, perché tu la compia meglio, ti ha posto dentro, irriconoscibile, alla famiglia del nemico." Ma ella adesso aveva paura, voleva sottrarsi alla lotta; diè di piglio al lume e passò nella camera da letto. Le finestre erano aperte; un soffio di vento le spense la candela. Volle riaccenderla, ma non sapeva che si facesse, e non vi riuscì. Si gittò spossata alla finestra per aver ristoro. Colà le tornò subito a mente come, la sera del suo arrivo al Palazzo, guardando da quella finestra, nella notte, avesse creduto riconoscere un antico sogno, una immagine sinistra, apparsale altre volte nelle ore gaie d ella sua vita mondana. Fu l'ultimo colpo; una commozione senza nome le oscurò il pensiero e la vista, credette udire mille sussurri levarsi intorno a lei, mescolarsi per l'aria, confondersi in una voce sola; si portò ambe le mani alla fronte e cadde a terra. Nell'oscuro lume delle stelle diffuso sul pavimento davanti alla finestra giaceva la bianca persona come sciolta dal sonno. Chi avrebbe detto che vi fosse là una donna svenuta? Nel palazzo tutti dormivano; i grilli e gli usignoli cantavano allegramente; i soffi brevi e vivaci della chiara notte di aprile entravano curiosi per le finestre aperte, frugavano, bisbigliavano dappertutto; e da una barca lontana indugiatasi più delle altre sul lago veniva il canto spensierato: E cossa l'è sta Merica? L'è un mazzolin di fiori Cattato alla mattina Par darlo alla Mariettina Che siamo di bandonar. Solo lo zampillo del cortile raccontava in aria di mistero agli arum una storia lunga lunga ch'era ascoltata con religioso silenzio. In tutto il cortile non si moveva fronda. Era forse la storia della donna svenuta là presso, ma non riusciva possibile a orecchio umano intenderne sillaba, né sapere, perciò, se la donna vi fosse chiamata Marina di Malombra o Cecilia Varrega. Conseguenza di quella notte fu per Marina una violenta febbre cerebrale di cui nessuno poté indovinare la causa. È quasi impossibile che l'inferma non si sia fatta sfuggire durante il delirio qualche allusione al fatto straordinario onde avea riportato impressioni sì gravi; ma quelle allusioni dovettero essere assai rade e vaghe, perché non fecero sospettare di nulla. La volontà gagliarda di Marina, benché sconnessa e rotta dal male, lavorava ancora per un impulso ricevuto prima. Essa voleva tacere. La pres enza del conte Cesare era il più terribile cimento per lei. Quando vedeva il conte, e anche solo all'udirne i passi pel corridoio vicino, l'ammalata diventava furibonda, urlava, smaniava senza articolar parola; per modo che, dopo i primi giorni di malattia, le visite dello zio cessarono. Questa ripugnanza fu molto commentata dai domestici e dalle comari pettegole di R... Si fabbricarono parecchie novelle assurde. La interpretazione più creduta fu che il conte voleva sposare Marina, contro la inclinazione di lei, e che la ragazza n'era impazzita. Il chiarissimo professore B..., chiamato da Milano in aiuto del povero pitòr che non sapeva più in qual mondo si fosse, credette di dover tastare il conte su questo delicato argomento dell'antipatia violenta che l'ammalata gli dimostrava, e lo fece con moltissimo garbo, mettendo avanti l'interesse medico della questione. La risposta del conte non fu altrettanto diplomatica. "Mia nipote" diss'egli "mi deve forse qualche beneficio; non però tanto grande da odiarmi per questo. Ella è una giovane molto intelligente e io sono un vecchio quasi rimbambito; ho motivo di credere che siamo, in molte cose, agli antipodi; malgrado tutto questo non mi è mai passato pel capo di sposarla, come probabilmente vi avrà detto il nostro medico, il quale beve come una spugna tutto quello ch'è stupido; e non lo fa apposta. Tornando a mia nipote, le nostre prime impressioni reciproche furono disgust ose più del necessario; però ci abbiamo versato su molto zucchero, e, per parte mia, non sentivo più quel sapore. Del resto io credo, caro professore, che quando uno ha messo il suo cervello a rovescio, se dice nero, bisogna intender bianco." La scienza del prof. B..., aiutata dall'umile ignoranza del suo collega, vinse il male. Dopo un mese e mezzo Marina comparve in loggia. Era pallida, aveva gli occhi assai più grandi del solito e velati da un languore attonito. Si sarebbe detto che il vento dovesse curvarla come un sottile getto di acqua. Il vigore e la bellezza tornarono rapidamente, ma un osservatore attento avrebbe notato che l'espressione di quella fisonomia era mutata. Tutte le linee apparivano più decise; l'occhio aveva tratto tratto d egli stupori insoliti, oppure un fuoco triste che non gli si era mai veduto. Quel velo di dissimulazione, in cui Marina si era venuta avvolgendo, scomparve. La memoria delle sue piccole ipocrisie d'una volta la irritava. La sua eleganza, prima correttissima per non offendere l'austero zio e per accordarsi con l'ambiente, pigliò un accento strano, provocatore. Candidi stormi di biglietti stemmati, cifrati e profumati si incrocicchiarono daccapo nel regio antro postale di R... Uno stillicidio di drammi e di r omanzi francesi si avviò dalla libreria Dumolard al Palazzo. Il piano gittò a tutte le ore, fosse o no il conte in biblioteca, un fuoco vivo di Bellini, di Verdi e di Meyerbeer e Mozart. Meyerbeer e Mozart erano i soli due maestri cui Marina perdonava d'esser tedeschi; al primo in grazia della sua cittadinanza francese, al secondo in grazia del solo Don Giovanni. Ricominciarono le corse sfrenate pel lago e pei monti, malgrado venti e piogge, di giorno e di notte; corse nelle quali il Rico faceva con entusiasmo la parte di guida, di cavaliere devoto e di cane fedele. Inoltre, con grande stupore degli abitanti di R..., Marina si pose a frequentare la chiesa, dove in passato non aveva mai posto piede. Per vero dire questo suo risveglio di pietà era assai bizzarro, perché alla messa festiva non la si vedeva mai comparire. Andava in chiesa quando non c'era nessuno, talvo lta di mattina, talvolta di sera. Un giorno che la trovò chiusa andò risolutamente dal curato a cercar la chiave. La serva del curato ebbe a rimaner di stucco aprendo l'uscio alla "Signora del Palazzo", e più ancora udendosene chiedere la chiave della chiesa. Il suo primo istinto fu di chiuderle la porta in faccia, non che di rifiutare la chiave; ma le labbra osarono solo dire che ne avrebbe riferito al padrone, al quale corse subito raccomandandogli di trovare un pretesto per non dar la chiave a quella str ega. Il padrone la rimproverò aspramente e andò egli stesso ad aprir la chiesa a Marina, che aveva già conosciuta in qualcuna delle sue rade visite al Palazzo. Non è difficile immaginare come procedessero, in tale stato di cose, le relazioni fra zio e nipote. Essi potevano paragonarsi a due punte metalliche fortemente elettrizzate, che non s'accostano mai l'una all'altra senza scambiare scintille che vorrebbero essere folgori. A viaggiare Marina non ci pensava più. Durante la sua convalescenza il medico gliene aveva parlato, facendole presentire, per incarico avutone, l'assenso del conte. Ella rispose che non intendeva affatto muoversi dal Palazzo, che l'aria le f aceva benissimo e che il signor dottore non ne capiva niente. Ella e il conte non si vedevano, si può dire, che a pranzo, ma si combattevano sempre. Persino le suppellettili del palazzo erano penetrate di quella sorda inimicizia e parevano pigliar parte quando per l'uno quando per l'altra. Certe finestre, certi usci si pronunciavano due o tre volte al giorno. Marina li faceva aprire, il conte li faceva chiudere. Un povero vecchio seggiolone del corridoio dei paesaggi vi perdette il suo decoro e la sua quiete. Quasi ogni giorno un decreto lo traslocava in faccia a un g rande Canaletto, e un altro decreto lo ricacciava al posto di prima. Fanny, nell'esercizio delle sue funzioni, portava sempre alto il nome e i voleri della sua "signora"; gli altri domestici accampavano quelli del padrone; la buona Giovanna cercava di metter pace, ma non riusciva spesso che a guadagnarsi qualche impertinenza di Fanny, e se ne struggeva in silenzio. Il conte abborriva i profumi, per cui Marina ne usava un po' più che non permetta il buon gusto. Libri francesi dimenticati qua e là per la casa ridevano in viso al vecchio gallofobo che ne fremeva sino al vertice de' capelli. I fiori più belli del giardino sparivano appena sbocciati, malgrado il tempestare del conte contro il poco vigile giardiniere e contro Fanny a cui gli piaceva attribuire quei guasti. Con lei, naturalmente, non si imponeva ritegni; per poco un giorno non la gittò nel lago. Fu una fortuna per Fanny, perché il conte, pentito di quell'eccesso, non mandò ad effetto il suo proposito di farla inesorabilmente cacciare. Però i rabbuff i spesseggiavano sempre e violenti, molte volte più del ragionevole, perché miravano a passar lei da banda a banda e cogliere Marina. A fronte di questa il conte, di solito, si frenava, fosse per la memoria di sua sorella che aveva molto amata, o per un sentimento cavalleresco, o per timore di uscire da' giusti limiti. Il nuovo contegno della giovane aveva provocato sulle prime recisi rimproveri fatti da lui con un tono tra il grave e l'acerbo, ribattuti da lei con freddezza nervosa, piena di recondita emozione. Il conte si ritrasse tosto da quella via pericolosa e si appigliò al sistema del silenzio accigliato; silenzio carico di elettri cità, interrotto soltanto, come si è già detto, da fugaci scintille, da lampi di sdegno per parte dell'altra. Qualche volta scoppiavano dei mezzi temporali che lasciavano il tempo scuro di prima. Il povero Steinegge non godeva punto fra questi due litiganti: Marina trovava modo di offenderlo a ogni momento. "Signor conte" diss'egli un giorno al conte Cesare "so che ho la disgrazia di dispiacere molto alla signora marchesina. È forse la mia vecchia fisonomia che non posso cambiare. Se la mia presenza può aum entare i vostri piccoli differenti di famiglia, ditemelo! Io vado." Il conte gli rispose che, per ora, in casa sua ci comandava lui; che se il principe di Metternich offrisse al signor Steinegge il posto di direttore delle sue cantine di Johannisberg, si permetterebbe al detto Steinegge di partire, altrimenti, no. Circa un anno dopo la scoperta del segreto, Marina ebbe dal libraio Dumolard, insieme a quattro o cinque novità francesi, un libro italiano. Era un racconto stampato dalla tipografia V... - Portava per titolo: Un sogno, racconto originale italiano di Lorenzo. - Possiamo aggiungere che la copia spedita a Marina e trattenuta da lei per noncuranza, era la trentesima spacciata in due mesi dalla pubblicazione. Marina non aveva punto stima de' libri italiani e pochissima voglia di legger questo. Se lo lesse fu per una storditaggine di Fanny che glielo portò una mattina a bordo di Saetta invece dell'Homme de neige. Giunta nella sua rada prediletta della Malombra, si accorse dell'errore, e dopo la prima dispettosa sorpresa, si rassegnò a tentar di leggere. Il soggetto del libro è questo: Un giovanotto spossato ed esaltato da soverchie fatiche cerebrali, ha un sogno di straordinaria vivezza nel quale egli crede vedere rappresentato sotto forme allegoriche il proprio avvenire. I fatti, interpretati da lui secondo questa convinzione, vengono confermando la prima parte del sogno. Passano quindici anni. Tutta la prima parte del sogno, serena e lieta, si è avverata. Ora è la seconda parte, di cui si aspetta il compimento. Questa seconda parte predice un amore impet uoso, violento, un delirio dello spirito e dei sensi onde il protagonista dev'essere tratto a catastrofi spaventose. A trentasei anni, costui, padre di famiglia, uomo grave che vive ritirato dal mondo per la segreta paura del suo sogno, si trova con grande angoscia preso d'amore per una donna cui fu avvicinato da necessità ineluttabili. Questa donna è per altezza d'animo un ideale più facile a trovarsi oggidì nella vita che nei romanzi. Essa divide la passione di lui malgrado sforzi eroici di volontà. Lotta no ambedue per dividersi, per salvarsi; ma il cielo, la terra e gli uomini cospirano per farli cadere. Sull'orlo dell'abisso in cui troveranno la sventura, il disonore e fors'anco la morte, sfugge all'uomo il segreto della fatalità misteriosa che lo perseguita e cui non vale a resistere. In quel momento supremo la donna magnanima si sdegna di cedere al destino e non al proprio cuore, non alla felicità dell'amante. Con lo sdegno la sua coscienza religiosa si rialza. Gli amanti si dividono innocenti. L'uomo a poco a poco dimentica, vive tranquillo e felice. La donna muore. Il racconto è scritto con pochissima esperienza della società e delle cose, ma con qualche acume d'osservazione psicologica. Le descrizioni della natura sono tollerabili, l'elemento fantastico non vi è adoperato troppo male. Insomma, se non vi fosse tanto calore virtuoso, se non vi mancassero affatto gli studi fotografici di appartamenti e di vesti, non che le prove che l'autore conosce un poco anche il nudo, se lo stile fosse più facile e borghese; sovra tutto se vi si dicesse bono e bona invece di quel bu ono e buona che bastano a rivelare un povero ingegno, un uomo vergognosamente sfornito di dottrina filologica e di gusto affatto indegno di comparire tra gli scrittori odierni, una testa da parrucca; se tutte queste condizioni si fossero avverate e se l'autore si fosse date le mani attorno, Un sogno avrebbe probabilmente trovato miglior fortuna. A Marina parve andare a sangue, perché quando l'aperse l'ombra violacea della montagna copriva gran tratto di lago oltre la rada; quando lo posò, il sole brillava per le vette dei boschi pendenti sopra il suo capo e l'ombra violacea moriva a pochi passi dalla sponda in un bel verde smeraldo. Tornò al Palazzo con la mente piena di quel libro. Avrebbe voluto conoscerne l'autore, parlargli. Credeva egli in quello che aveva scritto? Credeva si potesse resistere al destino e vincerlo? Se il destino era stato vinto, poteva dirsi destino? Se non poteva dirsi destino, v'hanno dunque spiriti maligni che si pigliano giuoco di noi, rappresentandoci il falso colle apparenze del vero e rappresentandocelo in modo da colpire fortemente la nostra fantasia? Nessuno rispondeva a tanta furia di domande e Marina voleva risposta. Non indugiò un momento. Senza neppur pensare a chi né come avrebbe diretta la lettera, buttò giù d'un fiato otto fitte paginette di una calligrafia inglese alquanto irregolare, battezzata già da miss Sarah per angloitaliana. Le otto paginette sfolgoravano di brio. Marina vi aveva preso un tono di maschera elegante che sa mescolare con garbo aristocratico le parole ironiche alle serie, e colorire la grazia con l'alterezza. Sottoscrisse "Ce cilia" e, dopo un istante di incertezza, aggiunse il seguente poscritto: Vorrei pur sapere se credete possibile che un'anima umana abbia due o più esistenze terrestri. Se l'etereo autore di Un sogno non usa di colombe né di rondinelle postali, come si potrebbe sospettare, mandi semplicemente la sua risposta al dottor R.... ferma in posta. Milano. Poi Marina scrisse quest'altro biglietto alla signora Giulia De Bella: Aiutami a fare una piccola follìa ben timida e ben savia. Sono tutta meravigliata di aver letto, non so più bene se per amore o per forza, un romanzo italiano. Arriccia il tuo nasino ma ascolta. Questo romanzo è un buon signore timido con i guanti troppo scuri e la cravatta troppo chiara ch'entra impacciato nel tuo salon, saluta mezza dozzina di persone prima di te, oscilla un quarto d'ora tra una poltrona, una seggiola e uno sgabello, e si decide finalmente pel posto più lontano dalle signore. Ma poi, quan do parla, non somiglia a nessun altro del tuo circolo. Ha delle idee, del fuoco, è un uomo. Ne hai, cara, degli uomini nel tuo circolo? Se ne hai, pardon. Non importa punto conoscere il nome né la persona dell'autore che ci si dice semplicemente Lorenzo. Potrebb'essere borghese, Matteo e biondo. M'è venuto invece il capriccio di una corrispondenza letteraria e ne posso avere tanto pochi dei capricci, che li soddisfo tutti subito. Y. che scrive a X.! Deve essere delizioso, specialmente se X. risponderà a Y. Potrebbe accadere che X. fosse una consonante di spirito; questa divertirebbe assai la povera Y. che si annoia come una regina. Ora X. non ha nemmanco a sa pere di dove gli piova la mia lettera; vedi se non è una follìa savia! Tu dunque, amica mia, farai gettare alla posta l'accluso dispaccio diretto all'autore di Un sogno presso la tipografia V... Ma, come pensi bene, non basta. Ti compiaceresti di far cercare fra qualche giorno alla posta se vi fossero lettere per il dottor R... e di spedirmele se ve ne sono? Gli ho dato, contando sopra te, questo indirizzo, il meno compromettente possibile. La cosa è tanto innocente che potresti desiderar di chiedere il per messo di tuo marito per farla. In ogni caso taci il mio nome. Vi sarà poi qualche cosa per te. Ti manderò un pezzo di lago pel tuo giardino di via Bigli, per le manchettes della S... e per le mani illustri del professor G... I miei omaggi à ton très-haut seigneur et maître, se lo vedi. Addio, cara. Sto rileggendo un libro vecchio, l'Amour di Stendhal. È scritto au bistouri. Marina La signora De Bella, che aveva fatto per curiosità qualche follìa meno savia di questa, rispose tra scherzosa e corrucciata, minacciò l'amica con la punta della sua morale di gomma e conchiuse accettando; con la riserva sottintesa di leggere le lettere prima di spedirle. Ell'era, sovra tutto, una donna di coscienza. La risposta dell'autore di Un sogno non si fece attendere lungamente. Egli vi sosteneva con maggior cuore che vigore logico le opinioni espresse nel suo romanzo intorno alla fatalità e alla potenza invincibile dello spirito umano che vuole. Dimostrava come, negli avvenimenti a cui deve necessariamente concorrere la volontà dell'uomo con atti che toccano la sua coscienza morale, questa volontà sia un elemento principale che ne determina la forma; un'incognita variabile che introdotta nei calcoli fondati su l eggi naturali fisse ne rende sempre incerto il risultato. Negava poscia l'azione prestabilita e necessaria della volontà che assente al male. Posto in sodo come basti alla dimostrazione della libertà umana che l'uomo possa sempre decidersi per il bene, sosteneva che lo può. Diceva che può sempre attingere l'impulso determinante al bene, dal fondo dell'anima sua stessa, da un punto di misterioso contatto con Dio ond'entra in lei una forza non calcolabile. È un gran torto, soggiungeva, della psicologia modern a, di non avere sufficientemente osservato i fatti interiori che vengono in appoggio di tale contatto. Colà sta la grande guarentigia della libertà umana. Quest'azione divina ch'entra dunque innegabilmente nell'origine delle azioni umane, non si oppone ella per sua natura al male morale, e non esclude, a priori, che sia mai necessario? Il mistico scrittore cercava poi dimostrare che neppure alla prescienza divina potrebbe appoggiarsi una teoria fatalista, perché prescienza e divinità sono due termini contraddittori, inconciliabili, come tempo e infinito, e nulla se ne può dedurre. Tutti questi argomenti erano posti innanzi con una ingenua foga che poteva salvare l'autore di Un sogno della taccia di pedante, ma generava il sospetto che egli volesse convincere, oltre alla sua corrispondente, se stesso. Spiriti maligni che si pigliano giuoco di noi, proseguiva, ve ne hanno certo, e possono anche illudere con le apparenze della fatalità. Tutto fa credere che, come noi esercitiamo un potere sopra gli esseri che ci sono inferiori, così siamo soggetti, entro certi limiti, all'azione di altri esseri che ci superano in potenza. Siamo forse soliti attribuire al caso quello che è opera loro. I sogni profetici, i presentimenti, le subitanee inspirazioni artistiche, le illuminazioni fugaci della nostra mente, i ciechi impulsi al bene e al male, certe inesplicabili allegrezze e malinconie, certi movimenti involontari della nostra memoria, sono probabilmente opere di spiriti superiori, parte buoni, parte malvagi. Tali considerazioni, scriveva Lorenzo, cadono tutte se non si ammette Dio. Esprimeva quindi la speranza che Cecilia non fosse atea, nel qual caso, avrebbe, a malincuore, troncato ogni corrispondenza con lei. Veniva in seguito alla pluralità delle esistenze terrestri. Lorenzo credeva alla pluralità delle esistenze. Lo stato dello spirito nel corpo umano è indubbiamente, diceva, uno stato di repressione, uno stato di pena, la quale non può riferirsi che a colpe commesse prima della incarnazione terrestre. I dolori degli innocenti e, in genere, la distribuzione ineguale del dolore e del piacere tra gli uomini, senza riguardo ai meriti e ai demeriti della vita presente; la sorte delle anime che escono pure dalla vita dopo un'ora della loro venuta ottenendo quel premio che a d altri costa lunghi anni di lotte durissime, non possono meglio spiegarsi che con l'attribuire alla nostra esistenza attuale un carattere di espiazione insieme a quello di preparazione. Ammesso il principio della pluralità delle esistenze, l'autore di Un sogno diceva che la ragione umana non può andare più avanti, e che il problema se le nostre vite anteriori sieno state terrestri o siderali va lasciato alla fantasia. La lunghissima lettera, un volume, finiva col voto molto poeticamente espresso che la corrispondenza misteriosa avrebbe continuato. La signora De Bella venne presto a capo, con le sue dita industriose, della busta, ma non resse a tanta filosofia e dalla prima pagina saltò alla chiusa: poi scrisse sulla sopraccarta: "Sono sicura ch'è perfettamente morale; è così pesante!" Marina invece divorò lo scritto. Sorrise appena dell'ingenuità di quell'uomo che rispondeva con tanta foga a un'incognita. Palpitò leggendo il nome di Cecilia a capo della lettera e nella chiusa. Naturalissimo che ci fosse; ma pure n'ebbe una impressione profonda. Passato qualche tempo, riscrisse dissimulando affatto le sue vere impressioni. Non parlava più in questa seconda lettera di fatalità né di esistenze precedenti; come per trarre scintille di spirito dal suo corrispondente, se ne aveva, lo veniva pungendo in mille modi. Scherzava sulla pedanteria della sua risposta, sulla sua pietà, sulla goffaggine del suo pseudonimo: gli chiedeva con un tono di curiosità impertinente se vi fosse qualche cosa di vero nel suo racconto, se avesse pubblicati altri lavori, perch é si tenesse celato. La lettera fu ricevuta da Corrado Silla un quindici giorni prima della sua partenza per il Palazzo. Noi sappiamo come rispose.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676047
Ghislanzoni, Antonio 2 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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La navicella era chiusa, immobili le ruote, la coda timoniera costantemente abbassata; non sibilo, non fumo, nessun indizio che il cavo contenesse degli abitatori. Più volte l'esploratore aveva veduto una gondola cittadina elevarsi in quella direzione, e poi disparire, come se il grande veicolo l'avesse assorbita. Queste ascensioni erano avvenute ad ora molto avanzata della notte, e la gondola cittadina, in onta alle prescrizioni, si era slanciata nell'aria a fanali spenti. L'esploratore due o tre volte si era provato ad inseguirla, ma al momento di raggiungerla, improvvisamente il suo chatvue si era annebbiato, e le ruotelle del suo brik aveano preso a girare in senso retrogrado. Il vecchio Torresani ascoltò la relazione del suo subalterno senza dar segno di meraviglia. Uscì dal gabinetto, accennò all'altro di seguirlo, e tutti due salirono sulla gran torre che dominava l'intera città. Quivi giunti, il Capo di Sorveglianza avvicinossi ad un immenso aereoscopio,

La nave 2724, profittando della concorrenza, si era abbassata al livello del Duomo; tanto che il timoniere, lanciando una corda di sospensione, potè attirarvi il Casanova, che fino all'alba stava spiando i movimenti del suo legno dalla cupola maggiore. Quella operazione si compiva in un lampo. Appena il Casanova fu a bordo della sua nave, questa prese a salire rapidamente in linea diretta, e scomparve tra le nuvole. Durante quella giornata il nostro cavaliere di industria si tenne chiuso nella sua cabina. Verso mezzanotte fece chiamare quattro uomini di fiducia per concertare con essi il suo piano strategico. - Io l'ho veduto - cominciò il Casanova - l'ho veduto ieri, di pieno giorno, sulla gabbia della torre centrale che dominava la sua macchina, mentre egli dirigeva le operazioni. Dippiù, l'ho udito parlare, onde io mi tengo sicuro di poter imitare perfettamente la sua voce e le sue inflessioni. L'Albani ha, presso a poco, la mia statura. La sua testa è enorme, la sua corporatura più sviluppata della mia; in una parola, quell'uomo mi va come un guanto. Oramai non mi resta che discendere un'ultima volta per spiare l'entità e la deposizione dei morto16);

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679086
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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Barnaba si alzò allora e, con mossa rapida, gettò il suo berretto in testa al più accanito dei combattenti, il quale, tiratosi indietro e abbassata la spada, dette in una risata, dicendo: - Amico, siamo due pazzi! - Perché? - domandò l'altro sbalordito dal cambiamento dell'avversario. - Perché a noi non deve premer punto se Malatesta è un traditore o no. Noi non siamo fiorentini: mettemmo la nostra spada al servizio della Repubblica; ci siamo coraggiosamente battuti; abbiamo avuto il danaro promessoci, e perché dovremmo ucciderci per una cosa che non ci riguarda? L'altro, però, non si mostrava convinto e sosteneva di essere stato offeso e di voler riparazione. Allora Barnaba tolse il berretto di testa al cavaliere saggio, e lo fece volar sul capo dell'ostinato, il quale si calmò subito, e disse: - Riconosco, amico, che tu hai ragione; stringiamoci la mano e ritorniamo a bere. - Una parola, messere, - rispose Barnaba. - La vostra saggezza vi viene dal mio berretto; ora che siete divenuti ragionevoli, vi prego di restituirmelo, perché esso è la mia sola ricchezza. I due cavalieri, meravigliati, invitarono il giovine alla loro tavola e gli domandarono spiegazione delle sue parole; e Barnaba narrò loro come suo padre, in punto di morte, glielo avesse consegnato. Egli stesso aveva esperimentato su se stesso la sua virtù, poiché, invece di arrabbiarsi vedendosi spogliato di ogni avere, aveva sopportato in santa pace la sua sventura e si sentiva pago e contento del proprio stato. - E su di noi pure l'hai esperimentata, - dissero i cavalieri. - Noi ti siamo grati di averci trattenuti dal commettere una vera pazzia; e, per dimostrarti la nostra gratitudine, ti preghiamo di accettare questa borsa, in memoria della nostra riconciliazione. Barnaba l'accettò, perché sapeva di averla meritata, e riprese il viaggio, sentendosi il più felice dei mortali. Un passo dopo l'altro giunse a Cortona, e appena posto il piede nell'antica città, vide un insolito correr di gente affaccendata. I mercanti chiudevano lo sporto delle botteghe, i servi sbarravano i portoni dei palazzi, e la campana del palazzo pretorio faceva udire i suoi rintocchi chiamando i cittadini alle armi. "Qui c'è da far per me", pensò Barnaba. E si diresse verso la piazza municipale, supponendo che là vi fosse bisogno del suo aiuto. Ma prima di farlo, volle sapere di che cosa si trattava, e, domandatone a una donna, fu informato che il popolo, malcontento del gonfaloniere Venuti, che era accusato di parteggiare per i Medici, lo voleva destituire per sostituirgli un Diligenti. Il Gonfaloniere non voleva cedere, e aveva fatto dare nella campana. Intanto il Diligenti, riuniti i suoi partigiani, si preparava a dare l'assalto al palazzo pretorio, nel quale il Gonfaloniere si era rinchiuso. - Correrà del sangue, - concluse la donna tristamente. - Non correrà, - rispose Barnaba. E fattosi indicare da qual parte sarebbe giunto il Diligenti, lo attese sul canto di una via. In breve vide una turba di cittadini armati, e dietro a loro un cavaliere bello e ardito, che la gente acclamava al grido di: "Viva il nostro Gonfaloniere!". Il Diligenti, poiché era proprio lui, salutava agitando il cappello, Barnaba approfittò di quel momento in cui il cavaliere era a capo scoperto per lanciargli in testa il suo berretto. All'improvviso, messer Diligenti, mentre stava per entrare sulla piazza, fermò il cavallo, come se fosse assalito da un subito pentimento alla vista del palazzo pretorio. - Avanti! Avanti! - gridava la folla vedendo che esitava. - Un momento, amici, - disse il capo dei rivoltosi. - Non dobbiamo distruggere un monumento, che è vanto della nostra città. Lasciatemi solo; io andrò a parlare col Gonfaloniere, ed egli mi cederà il governo di Cortona. Il berretto era caduto di testa a messer Diligenti, ma la saggezza gli era rimasta nel cervello. Infatti egli scese da cavallo, ordinò alla folla di sgombrare la piazza, e si avviò solo verso l'imponente edifizio, sormontato dalla torre. Barnaba gli tenne dietro e lo fermò. - Messere, - gli disse, - voi dovete la saggezza al mio berretto; permettetemi di accompagnarvi, perché possa infonderla anche al Gonfaloniere. Messer Diligenti guardò il giovane meravigliato, ma rammentandosi di aver sentito svanire dal cervello i bellicosi propositi appena quel berretto, che ora vedeva in testa a Barnaba, gli aveva sfiorato il capo, annuì, e insieme con lui chiese di essere ammesso alla presenza del Gonfaloniere. Questo permesso non gli fu negato, sperando che volesse far atto di sottomissione, e venne introdotto alla presenza di messer Lorenzo Venuti. - Che volete da me, messere? - gli chiese il Gonfaloniere appena lo vide. - Nulla, - rispose l'altro. - Voglio rammentarvi soltanto che noi siamo entrambi figli di questa terra e che sarebbe perfidia se per le gare che ci dividono si esponessero alla morte i cittadini. - Dunque fate atto di sottomissione? - domandò il Gonfaloniere. - Piena ed intera. Voi, però, dovete sgombrare questo palazzo, che sarà affidato alla custodia degli Anziani, ed essi eleggeranno il nuovo Gonfaloniere. Se voi rimanete qui, io non potrei trattenere i miei partigiani dal dar l'assalto al palazzo, e il sangue correrebbe a rivi per le vie. Il Gonfaloniere stava per rispondere che non si sarebbe mosso di lì, quando Barnaba, accostatosi a lui, gli mise in testa il proprio berretto. Sparì a un tratto dal volto di messer Venuti l'espressione di truce risentimento e, sorridendo, disse: - Non capisco davvero perché io fossi così ostinato a rimaner qui a dispetto del popolo, che non mi ci vuole. Il posto di gonfaloniere, se ci penso bene, non mi ha dato altro che noie; e io ci rinunzio. - Siete pronto a fare in pubblico questa rinunzia? - domandò il Diligenti. - Sì, pronto a tutto. - Ebbene, venite. E i due pretendenti andarono sul balcone del palazzo dove messer Diligenti fece cenno ai suoi di avanzarsi. Essi si avvicinarono, e messer Diligenti disse: - Cittadini, il Gonfaloniere rinunzia alla sua carica, e fra poco lascerà il palazzo. Un grido di giubilo partì dalla folla, e allora messer Venuti disse: - Cittadini, riconosco di aver governato con poca saggezza, e me ne vado, chiedendovi scusa. Infatti, pochi istanti dopo, il Gonfaloniere scese lo scalone e comparve sulla piazza, e quello stesso popolo che si era ammutinato contro di lui e lo voleva morto, gli fece una calorosa dimostrazione. Ma fu ben sorpreso quando, dietro al Gonfaloniere, vide uscire anche messer Diligenti. - Perché ve ne andate? - gli domandò la folla. - Amici, - rispose il cavaliere, - io mi riconosco più inetto a governarvi del mio predecessore. Lasciatemi sorvegliare i miei poderi; io non ho l'ambizione di essere il primo cittadino di Cortona, ma il suo figlio più fedele. Questa saggezza e quella di cui ha dato prova messer Venuti, ce l'ha infusa questo giovane. E accennava Barnaba, il quale aveva ripreso il berretto. - Egli è veramente saggio, e, se dovessi darvi un consiglio, vi spingerei a metterlo a capo della vostra città. Ma Barnaba, di certi onori non voleva saperne, e il popolo, rinsavito anche esso ora che non era più sobillato alla rivolta, si mostrò gratissimo a colui che aveva risparmiato a Cortona gli orrori della guerra, e lo festeggiò in ogni modo. I principali cittadini lo volevano loro ospite, e nella prima seduta che tennero gli Anziani, gli decretarono un ricco donativo in denaro. Messer Venuti e messer Diligenti gli fecero pure ricchi regali e gli dettero un cavallo per sé e uno per un servo, sapendo che egli aveva intenzione di proseguire il viaggio fino a Roma. Salutato, acclamato dall'intera cittadinanza e assai ben provvisto di denaro, il nostro Barnaba prese la via della città eterna. Giunto a Orvieto, egli prese alloggio in un modesto albergo di fronte al superbo palazzo dei Gualterio, e stando alla finestra udì grida strazianti partire da una stanza sotterranea di quel palazzo. La curiosità lo spinse a domandare all'oste chi si lagnava così insistentemente, e seppe che l'infelice era la figlia stessa del Conte, che la matrigna, donna vana e ambiziosa, teneva sempre rinchiusa in una stanza terrena, aspettando che avesse l'età per entrare in un convento. Il Conte era vecchio e malaticcio, e la moglie, gelosa della bellezza della figliastra, non voleva essere esposta a un odioso confronto con lei, motivo per cui la condannava alla reclusione in casa, e poi in monastero. - Io debbo parlare alla Contessa, - disse Barnaba fra sé, - ma come fare? Allora, pensa e ripensa, partì per Viterbo, e là comprò ricche stoffe e monili. Tornato che fu a Orvieto, si spacciò per mercante, facendo vedere ai frequentatori dell'osteria le cose preziose che aveva seco. Naturalmente la notizia giunse anche agli orecchi della contessa Gualterio, la quale, vaghissima com'era di ornarsi, fece dire al mercante di andare al palazzo e recarle le sue mercanzie. Barnaba scelse le più belle stoffe, e, accompagnato dal proprio servo che recava gl'involti, andò dalla Contessa, la quale lo accolse cortesemente, e pareva invaghita di tutto. Egli le disse molte cose circa le nuove fogge di abiti e di acconciature usate dalle dame fiorentine, che vantavasi di servire, e poi, mostrandole un drappo d'oro, aggiunse che esse solevano foggiarsene berretti, con i quali si ornavano il capo. - E qual forma hanno questi berretti? - chiese la dama. - La forma di quello che io porto, madonna. Provatevelo, e vedrete come si dice bene al vostro volto. La Contessa se lo provò, e parve, dopo essersi specchiata, contenta, così che domandò a Barnaba se gliene sapesse foggiare uno simile in drappo d'oro. Ma prima che egli le avesse risposto, esclamò: - Ma per chi dunque mi orno? Mio marito è vecchio e cagionevole; ora spetta a Selvaggia ad ornarsi. E preso un mazzo di chiavi scese in fretta, e risalì in compagnia di una giovinetta pallida, scarna, ma bella come un occhio di sole. Barnaba fu commosso nel vederla, e in cuor suo benedì suo padre per avergli legato quel portentoso berretto, cui doveva la liberazione della bellissima Selvaggia. Costei era rimasta sbalordita, vedendosi trattare così bene dalla matrigna, dalla quale era solita sentirsi sempre schernire, e guardava ora il mercante ora la Contessa, non sapendo a che cosa attribuire quel repentino cambiamento. Barnaba, però, che non aveva fede che la semplice imposizione del berretto potesse aver virtù di sradicare l'invidia dal petto della perfida donna, la persuase ad affidargli la commissione di foggiare un berretto di drappo d'oro per lei, e uno per Selvaggia. La Contessa annuì, e dopo aver comprato alcune stoffe, lo congedò. Il giovine, appena fu ritornato all'osteria, mandò in cerca di una cucitrice e le fece fare due berretti quasi simili, soltanto, in quello destinato per la Contessa fece porre, fra la stoffa e la fodera, il suo berretto di lana, e operò saggiamente, perché non era ancora notte, che udiva di nuovo i lamenti dell'infelice Selvaggia. La matrigna, pentita di aver ceduto a un impulso di compassione, l'aveva rinchiusa nella solita stanza. La mattina dopo, Barnaba portava i due berretti alla Contessa, la quale, appena si fu posto in testa il proprio, mandò a liberare la figlia e, fattala venire in sua presenza, le ornò il capo con quello destinatole. Barnaba allora, profittando delle buone disposizioni che leggeva in volto alla vana signora, e acceso sempre più d'affetto e di compassione per l'infelice Selvaggia, prese a dire che doveva essere ben difficile collocare una signorina in una piccola città, che il pensiero dell'avvenire della figliastra doveva certo essere tedioso per una signora. Una parola tira l'altra, e così, incoraggiato dalle domande della Contessa, rivelò chi era, a qual famiglia apparteneva, e come con la sua abilità si fosse in breve tempo acquistata una certa fortuna, che era sicuro di triplicare appena giunto a Roma. Disse pure che aveva intenzione di ammogliarsi e che avrebbe sposato una ragazza, anche senza dote, purché fosse di buona famiglia. La Contessa lo ascoltava, e siccome non s'era tolto di capo il ricco berretto che celava quello della saggezza, così la sua mente era piena di saggi pensieri. Ella rifletteva che Barnaba, cortese di modi, educato e civile, sarebbe stato un eccellente partito per la figliastra. Inoltre, maritandola senza dote, avrebbe serbato tutto ai propri figli, e così, senza sacrificarla alla vita monastica, si sarebbe liberata di lei. Barnaba si accorgeva dei pensieri che aveva suscitati nella mente della signora, e chiamatala in disparte le fece la proposta di sposar Selvaggia. La Contessa rispose che avrebbe dovuto interrogare il marito, ed invitò Barnaba a tornare la sera stessa. Intanto egli era riuscito a dire a Selvaggia: - Abbiate fiducia in me, io vi porto la liberazione. Il volto pallido dell'infelice ragazza si era illuminato a quelle parole, nelle quali egli aveva trasfuso tutta l'anima sua. La sera Barnaba si vestì riccamente e tornò a palazzo. La Contessa era raggiante di gioia, e lo condusse dal conte Gualterio, il quale disse: - Prendetevi questa povera figlia mia e rendetela felice. Selvaggia, piena di gratitudine per il suo liberatore, gli dette la sua manina a baciare, e Barnaba disse che le nozze dovevano esser celebrate subito, perché aveva fretta di condurre la sposa a Roma. La Contessa era tutta felice che gli portasse via la figliastra, e non fece nessuna opposizione. Con le stoffe donate a Selvaggia da Barnaba, le furono preparate ricche vesti nuziali, e il giovane disse che alla famiglia della moglie non chiedeva altro che il berretto di drappo d'oro della Contessa e una lettiga. Il matrimonio fu celebrato senza alcuna pompa e i due sposi partirono. Selvaggia, in quei pochi giorni, pareva divenuta un'altra e la gioia le si leggeva in viso. Però, quando furono a qualche distanza da Orvieto, Barnaba, che era di animo gentile, scese da cavallo, ed accostatosi alla lettiga in cui era adagiata Selvaggia, le disse: - Madonna, io ebbi pietà delle vostre sofferenze, e vedendo che il solo mezzo di liberarvi era quello di darvi il mio nome, vi chiesi e vi ottenni in isposa. Però io non voglio violentare per nulla la vostra libertà, e se voi non avete per me nessun affetto, siete libera di ordinarmi di condurvi dai parenti di vostra madre, che sono a Foligno, e io sarò sempre lieto di ubbidirvi. - Sposo mio, io vi ho accettato perché ho indovinato che avete un cuore generoso, e questa ultima proposta me lo conferma. Io vi seguirò ovunque, altera e lieta di affidarmi al vostro affetto e di non avere altri che voi sulla terra. Barnaba fu contentissimo della risposta della moglie, e giunto a Roma, si stabilì in una casa modesta, dove, lasciandosi guidare dalla saggezza, il giovane divenne in breve uno dei più ricchi e stimati mercanti della città. Selvaggia fu moglie affettuosa e lo pagò largamente del bene che le aveva fatto. - E ora la novella è finita, - disse la Regina - e chiedo scusa ai signori di averli tediati così lungamente. - Se ce ne raccontaste un'altra, saremmo molto lieti di ascoltarla, - disse la signora Durini. - Ora però c'è altro da fare. Prego tutti di lasciarmi un momento sola con la Regina, la Carola e Maso. Il rimanente della famiglia Marcucci uscì dalla stanza, e allora la signora disse: - Volete maritare l'Annina? Io ho per lei un buon partito. - Ma ha soltanto quindici anni! - osservò la Carola. - Lo so, - replicò la signora, - ma non tutti i giorni capitano certe fortune. Voi sapete che a Camaldoli c'è il direttore dell'albergo, un uomo assennato, che gode la fiducia dei suoi padroni. Egli ha un figlio, per nome Carlo, che ora ha ventiquattro anni. Costui segue la carriera del padre ed è pur direttore in un altro albergo a Firenze. È un giovane serio, ben educato e abbastanza facoltoso. Ha visto l'Annina, gli è piaciuta e me l'ha chiesta in moglie. Io non ho potuto risponder nulla; sta a voi a risolvere. - E l'Annina l'ha interrogata, lei? - domandò la Carola. - No, ma mi sono accorta che Carlo le piace. Se ricusate, io non lo farò venir qui; ma se accettate, domani torna a Firenze e ve lo manderò. - E a lei che gliene pare, signora? Che farebbe se l'Annina fosse sua figlia? - domandò Maso. - Io gliela darei a occhi chiusi. - Allora me lo mandi, ma non dica nulla all'Annina. - Non dirò nulla. Il matrimonio si farebbe l'anno venturo in estate, da quanto ho potuto capire, e Carlo provvederebbe la sposa anche del corredo. La Regina piangeva dalla gioia e pregava, pregava che la felicità potesse arridere all'adorata nipotina. Maso e la Carola erano sbalorditi.

Il sistema periodico

681092
Levi, Primo 1 occorrenze

La cappa, lasciata aperta, era abbassata. Un mattino di pioggia, come Robinson, trovammo sul pavimento l' orma di una suola di gomma: il Commendatore portava scarpe di gomma. "Viene di notte a fare l' amore con la Loredana", decise Giulia: io pensavo invece che quel laboratorio, ossessivamente ordinato, doveva servire per qualche altro impalpabile e segreto lavorio svizzero. Mettemmo sistematicamente degli stecchi infilati dall' interno nelle porte, sempre chiuse a chiave, che dalla Produzione immettevano nel laboratorio: al mattino gli stecchi erano sempre caduti. Dopo due mesi disponevo di una quarantina di analisi: le piante col contenuto in fosforo più alto erano la salvia, la chelidonia e il prezzemolo. Io pensavo che a questo punto sarebbe stato opportuno determinare in quale forma era legato il fosforo, e cercare di isolare il componente fosforato, ma il Commendatore telefonò a Basilea e poi mi dichiarò che non c' era tempo per queste finezze: avanti con gli estratti, fatti così alla buona, con acqua calda e col torchietto, e poi concentrati sotto vuoto: infilarli nell' esofago dei conigli, e misurare la loro glicemia. I conigli non sono animali simpatici. Sono fra i mammiferi più lontani dall' uomo, forse perché le loro qualità sono quelle dell' umanità avvilita e reietta: sono timidi, silenziosi e fuggitivi, e non conoscono che il cibo ed il sesso. Se si eccettua qualche gatto di campagna nell' infanzia più remota, io non avevo mai toccato un animale, e davanti ai conigli provavo repulsione; così anche Giulia. Per fortuna, la Varisco aveva invece grande confidenza sia con le bestiole sia con l' Ambrogio che le amministrava. Ci fece vedere che, in un cassetto, esisteva un piccolo assortimento di strumenti adatti; c' era una cassetta stretta ed alta, senza coperchio: ci spiegò che ai conigli piace intanarsi, e se uno li prende per gli orecchi (che sono il loro manico naturale) e li infila in una cassetta, si sentono più sicuri e non si muovono più. C' era una sonda di gomma e un piccolo fuso di legno con un foro trasversale: bisogna forzarlo fra i denti dell' animale, e poi, attraverso il foro, infilare la sonda in gola senza tanti complimenti, spingendola giù finché si sente che tocca il fondo dello stomaco; se non si mette il legno, il coniglio taglia la sonda coi denti, la inghiotte e muore. Attraverso la sonda è facile spedire gli estratti nello stomaco con una comune siringa. Poi bisogna misurare la glicemia. Quello che per i topi è la coda, per i conigli sono le orecchie, anche in questo caso: hanno vene grosse e rilevate, che si congestionano subito se l' orecchio viene strofinato. Da queste vene, perforate con un ago, si preleva una goccia di sangue, e senza domandarsi il perché delle varie manipolazioni si procede poi secondo Crecelius-Seifert. I conigli, o sono stoici, o sono poco sensibili al dolore: nessuno di questi abusi sembrava farli soffrire, appena lasciati liberi e rimessi in gabbia si rimettevano tranquilli a brucare il fieno, e la volta successiva non mostravano alcuna paura. Dopo un mese avrei potuto fare glicemie ad occhi chiusi, ma non sembrava che il nostro fosforo facesse alcun effetto; solo uno dei conigli reagiva all' estratto di chelidonia con un abbassamento della glicemia, ma dopo poche settimane gli venne un grosso tumore al collo. Il Commendatore mi disse di operarlo, io lo operai con acre senso di colpa e veemente ribrezzo, e lui morì. Quei conigli, per ordine del Commendatore, vivevano ciascuno nella sua gabbia, maschi e femmine, in stretto celibato. Ma venne un bombardamento notturno che, senza fare molti altri danni, sfondò tutte le gabbie, ed al mattino trovammo i conigli intenti ad una meticolosa e generale campagna copulatoria: le bombe non li avevano spaventati per nulla. Appena liberati, avevano subito scavato nelle aiuole i cunicoli da cui traggono il nome, ed al minimo allarme abbandonavano a mezzo le loro nozze e ci si rifugiavano. L' Ambrogio ebbe pena a recuperarli ed a richiuderli in gabbie nuove; il lavoro delle glicemie dovette essere interrotto, perché solo le gabbie erano contrassegnate e non gli animali, e dopo la dispersione non fu più possibile identificarli. Venne Giulia tra un coniglio e l' altro, e mi disse a bruciapelo che aveva bisogno di me. Ero venuto in fabbrica in bicicletta, non è vero? Ebbene, lei quella stessa sera doveva andare subito fino a Porta Genova, c' erano da cambiare tre tram, lei aveva fretta, era una faccenda importante: che per favore la portassi in canna, d' accordo? Io, che secondo il maniaco orario sfalsato del Commendatore uscivo dodici minuti prima di lei, l' attesi girato l' angolo, la caricai sulla canna della bicicletta e partimmo. Circolare per Milano in bicicletta non aveva allora nulla di temerario, e portare un passeggero in canna, in tempi di bombe e di sfollamenti, era poco meno che normale: qualche volta, specie se di notte, accadeva che estranei domandassero questo servizio, e che per un trasporto da un capo all' altro della città ti ricompensassero con quattro o cinque lire. Ma Giulia, già di regola piuttosto irrequieta, quella sera comprometteva la stabilità dell' equipaggio: stringeva convulsamente il manubrio contrastando la guida, cambiava di scatto posizione, illustrava il suo discorso con gesti violenti delle mani e del capo che spostavano in modo imprevedibile il nostro comune baricentro. Il suo discorso era in principio un po' generico, ma Giulia non era il tipo che si tiene i segreti in corpo ad intossicarlo; a metà di via Imbonati usciva già dal vago, e a Porta Volta era in termini espliciti: era furiosa perché i genitori di lui avevano detto di no, e volava al contrattacco. Perché lo avevano detto? _ Per loro non sono abbastanza bella, capisci? _ ringhiò, scuotendo il manubrio con ira. _ Che stupidi. A me sembri abbastanza bella, _ dissi io con serietà. _ Fatti furbo. Non ti rendi conto. _ Volevo solo farti un complimento; e poi lo penso proprio. _ Non è il momento. Se cerchi di farmi la corte adesso ti sbatto per terra. _ Cadi anche tu. _ Sei uno scemo. Dài, pedala, che si fa tardi. In Largo Cairoli sapevo già tutto: o meglio, possedevo tutti gli elementi di fatto, ma talmente confusi e dislocati nella loro sequenza temporale che non mi era facile cavarne un costrutto. Principalmente, non riuscivo a capire come non bastasse la volontà di quel lui a tagliare il nodo: era inconcepibile, scandaloso. C' era quest' uomo, che Giulia mi aveva altre volte descritto come generoso, solido, innamorato e serio; possedeva quella ragazza, scarmigliata e splendida nella sua rabbia, che mi si stava dibattendo fra gli avambracci impegnati nella guida; e invece di piombare a Milano e farsi le sue ragioni, se ne stava annidato in non so più quale caserma di frontiera a difendere la patria. Perché, essendo un "gòi", faceva il servizio militare, naturalmente: e mentre così pensavo, e mentre Giulia continuava a litigare con me come se fossi stato io il suo don rodrigo, mi sentivo invadere da un odio assurdo per il rivale mai conosciuto. Un gòi, e lei una gôià, secondo la terminologia atavica: e si sarebbero potuti sposare. Mi sentivo crescere dentro, forse per la prima volta, una nauseabonda sensazione di vuoto: questo, dunque, voleva dire essere altri; questo il prezzo di essere il sale della terra. Portare in canna una ragazza che si desidera, ed esserne talmente lontani da non potersene neppure innamorare: portarla in canna in Viale Gorizia per aiutarla ad essere di un altro, ed a sparire dalla mia vita. Davanti al 40 di Viale Gorizia c' era una panchina: Giulia mi disse di aspettarla, ed entrò nel portone come un vento. Io mi sedetti ed attesi, lasciando via libera al corso dei miei pensieri, sgangherato e doloroso. Pensavo che avrei dovuto essere meno gentiluomo, anzi, meno inibito e sciocco, e che per tutta la vita avrei rimpianto che fra me e lei non ci fosse stato altro che qualche ricordo scolastico e aziendale; e che forse non era troppo tardi, che forse il no di quei due genitori da operetta sarebbe stato irremovibile, che Giulia sarebbe scesa in lacrime, e io avrei potuto consolarla; e che queste erano speranze nefande, un approfittare scellerato delle sventure altrui. E finalmente, come un naufrago che è stanco di dibattersi e si lascia colare a picco, ricadevo in quello che era il mio pensiero dominante di quegli anni: che il fidanzato esistente, e le leggi della separazione, non erano che alibi insulsi, e che la mia incapacità di avvicinare una donna era una condanna senza appello, che mi avrebbe accompagnato fino alla morte, restringendomi ad una vita avvelenata dalle invidie e dai desideri astratti, sterile e senza scopo. Giulia uscì dopo due ore, anzi, eruppe dal portone come un proiettile da un obice. Non occorreva farle domande per sapere come era andata: _ Li ho fatti diventare alti così, _ mi disse, tutta rossa in viso e ancora ansimante. Feci il mio miglior sforzo per congratularmi con lei in modo credibile, ma a Giulia non si possono far credere cose che non si pensano, né nascondere cose che si pensano. Ora che era sollevata dal suo peso, e allegra di vittoria, guardò diritto negli occhi, vi scorse la nube, e mi chiese: _ A cosa stavi pensando? _ Al fosforo, _ risposi. Giulia si sposò pochi mesi dopo, e si congedò da me tirando su lacrime dal naso e facendo minuziose prescrizioni annonarie alla Varisco. Ha avuto molte traversie e molti figli; siamo rimasti amici, ci vediamo a Milano ogni tanto e parliamo di chimica e di cose sagge. Non siamo malcontenti delle nostre scelte e di quello che la vita ci ha dato, ma quando ci incontriamo proviamo entrambi la curiosa e non sgradevole impressione (ce la siamo più volte descritta a vicenda) che un velo, un soffio, un tratto di dado, ci abbia deviati su due strade divergenti che non erano le nostre.

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La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 1 occorrenze

Sarebbe un segnale non equivoco, per indicare alla controparte che la guardia non si è abbassata, ma che non ci sono intenzioni aggressive. America e Russia si trovano in una costosa situazione di stallo, in cui, per ragioni di antica diffidenza, e anche di prestigio barbarico, sulla via del disarmo nessuno dei due vuole muovere il primo passo. Questo sarebbe un primo passo accettabile anche da chi è ancora sensibile al fascino delle armi. Se lo si attuasse, la sicurezza del mondo farebbe un passo avanti, piccolo ma acquisito. Questa non è altro che la proposta di un incompetente: candida, presuntuosa, o addirittura ridicola, ma è una proposta, non è una interiezione né un ritornello né un sospiro sconsolato. Chi la giudica assurda le deve contrapporre un' altra proposta; dovrebbe essere questa la regola del gioco, ed è un gioco la cui posta è alta. Pare che presto avrà inizio a Ginevra una trattativa globale: noi piccoli uomini ci troviamo costretti a delegare ai due grandi uomini una responsabilità pesante come nessuna è mai stata. Vorremmo che sentissero il ronzio delle nostre voci, e ricordassero che il problema del disarmo nucleare è il problema numero uno; se sarà risolto, non si risolveranno automaticamente tutti gli altri problemi del pianeta, ma se non sarà risolto, nessun altro problema sarà risolto.

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Vizio di forma

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Levi, Primo 1 occorrenze

Questa circostanza sta dando luogo a conseguenze singolari: la frequenza nei cinematografi si è fortemente abbassata, perché sono mutate le abitudini degli spettatori; chi entra, in gruppo o isolato, va a sedersi ad almeno un metro di distanza dagli spettatori che hanno già preso posto, e se non trova questa sistemazione, spesso preferisce restituire il biglietto. Lo stesso avviene sui tram, sulla metropolitana e negli stadi: la gente, insomma, ha sviluppato un "riflesso di affollamento" simile a quello di molti animali, che non sopportano la vicinanza dei propri simili al di sotto di una certa distanza ben definita. Anche il comportamento della folla per le vie è cambiato: molta gente preferisce restare a casa, o camminare fuori dei marciapiedi, esponendosi così ad altri pericoli, o comunque intralciando la circolazione. Molti, incontrandosi faccia a faccia in corridoi o piste pedonali, si evitano aggirandosi a vicenda, come poli magnetici dello stesso nome. Gli esperti non manifestano eccessiva inquietudine circa i pericoli connessi con l' uso generalizzato del knall: essi fanno osservare che questo strumento non sparge sangue, il che è rassicurante. Infatti, è indiscutibile che buona parte degli uomini provano il bisogno, acuto o cronico, di uccidere il loro prossimo o se stessi, ma non si tratta di un uccidere generico: si desidera in ogni caso "versare il sangue", "lavare col sangue" l' onta propria od altrui, "donare il sangue" alla Patria o ad altre istituzioni. Chi (si) strozza o (si) avvelena è assai meno considerato. Insomma, il sangue sta, insieme col fuoco e col vino, al centro di un gran nodo emotivo rutilante, vivo in mille sogni, poesie e modi di dire: è sacro ed esecrabile, e al suo cospetto l' uomo, come il toro e come lo squalo, diventa inquieto e feroce. Ora, poiché appunto il knall uccide senza emorragia, si dubita che la sua fortuna sia per essere permanente: forse è questa la ragione per cui esso, nonostante i suoi indubbi vantaggi, non è finora diventato un pericolo sociale.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il Washington come aveva giustamente notato O'Donnell, non accennava a scendere, quantunque la temperatura si fosse abbassata di alcuni gradi. Si manteneva ancora a 2500 metri di altezza, filando verso il sud con una rapidità di ben sessantadue chilometri all'ora. Se quel vento non rallentava, il Washington doveva perdere l'intero vantaggio acquistato durante la giornata e ritrovarsi nei paraggi delle Canarie, che aveva lasciato verso le undici del mattino. Alle dieci però la discesa dell'aerostato cominciò, ma era assai lenta. Calava in ragione di trecento o trecentocinquanta metri all'ora, mentre invece la rapidità del vento aumentava. A mezzanotte l'ingegnere segnalò ai suoi compagni un punto luminoso, che si scorgeva verso l'est. "Una nave?" chiese O'Donnell. "No," rispose Mister Kelly, che aveva puntato un cannocchiale in quella direzione. "È un bagliore lampeggiante, sarà il faro di Teneriffa o dell'isola del Ferro." "Di già alle Canarie? E la corsa aumenta!" Alle tre del mattino l'aerostato si trovava a soli duecento metri dalla superficie dell'oceano. L'ingegnere fece gettare i due coni, che si riempirono subito d'acqua, immobilizzando il vascello aereo. "Riposiamo," disse poi. "Non corriamo alcun pericolo." I tre aeronauti, che avevano vegliato fino ad allora e che cadevano dal sonno, si coricarono sui loro materassi e si addormentarono profondamente, cullati dolcemente dalla grande corrente degli alisei.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 6 occorrenze

Yanez, non curante del fumo e della pioggia di scintille, salì rapidamente la scala che era abbassata e si slanciò verso il ponte di comando insieme ad una mezza dozzina di malesi. Cercava di salvare sir Moreland, innanzi a tutto, se le granate del Re del Mare lo avevano risparmiato. Stavano aprendosi il passo fra i rottami e i cadaveri che ingombravano la coperta, quando avvenne una esplosione a prora che li scaraventò tutti in mare. Il colpo fu così forte che Yanez, che era stato proiettato presso una della baleniere, svenne. Fortunamente i malesi l'avevano veduto piombare in acqua ed ebbero il tempo di ripescarlo quasi subito e di trarlo sulla barcaccia che si era accostata. L'incrociatore, sventrato a prora, calava rapidamente, Sambigliong e gli uomini delle scialuppe che erano subito saliti a bordo, ridiscendevano precipitosamente, portando dei feriti che avevano sottratti con grandi pericoli ai turbini di fuoco. La nave calava. Le sue murate ben presto scomparvero e le onde invasero bruscamente la coperta spazzandola dal cassero alla ruota di prora e soffocando d'un sol colpo le fiamme. La barcaccia e le baleniere fuggivano a tutta forza di remi mentre intorno alla nave s'allargava un gorgo gigantesco. La bandiera di Sarawak mostrò ancora per un momento, ai raggi del sole, i suoi colori, poi s'inabissò. Tutto era finito! L'incrociatore scendeva, fra i muggiti del vortice gigante, negli abissi del golfo. Le quattro scialuppe, sfuggite a tempo all'attrazione del gorgo scavato dalla nave, superata una gigantesca muraglia liquida che si estendeva con mille fragori sul mare, tornavano frettolosamente verso il Re del Mare che fumava a cinquecento metri dal luogo del disastro. La superficie del golfo era ingombra di rottami e di cadaveri. Casse, barili, pezzi di fasciame e di tramezzate ondeggiavano in tutte le direzioni. Sambigliong si era subito occupato del portoghese, mentre altri s'affaccendavano intorno ad un giovane ufficiale che era stato salvato nel momento in cui la nave stava per scomparire e che sembrava fosse stato gravemente ferito, avendo la giubba inzuppata di sangue. Yanez fortunatamente non aveva riportata alcuna lesione nello scoppio. Più che altro era rimasto stordito dall'improvvisa volata e dal frastuono prodotto dall'esplosione. Ed infatti alla prima sorsata di ginepro fattagli inghiottire dal dayako, tornò subito in sè e aprì gli occhi. - Come vi sentite, signor Yanez? - gli chiese Sambigliong con apprensione. - Sono tutto scombussolato e pesto, ma mi pare che nulla vi sia di rotto, - rispose il portoghese, sforzandosi a sorridere. - E la nave? - Affondata. - E sir Moreland? - È qui, nella baleniera. L'abbiamo salvato per miracolo. Yanez si alzò senza aver bisogno dell'aiuto del dayako. Il giovane comandante dell'incrociatore giaceva sul fondo della barcaccia, col petto denudato, il volto pallidissimo e chiazzato di sangue e gli occhi chiusi. - Morto! - esclamò. - No, rassicuratevi, ma la ferita che ha riportato al fianco deve essere grave. - Chi l'ha colpito? - chiese Yanez con ansietà. - Tu, Sambigliong? - Io! No, signor Yanez, è l'esplosione che lo ha ridotto in quello stato. Qualche frammento di granata gli ha aperto il fianco. - Presto! A bordo! - Ci siamo già, signor Yanez. Le quattro scialuppe avevano abbordato il Re del Mare presso la scala, la quale era stata già abbassata. Fu lasciato il posto alla barcaccia. Due uomini presero delicatamente il comandante dell'incrociatore sempre svenuto e colle dovute precauzioni salirono la scala, seguìti da Yanez e da quattordici marinai dell'incrociatore, i soli superstiti strappati alle onde. Sandokan, che aveva assistito impassibile alla distruzione della nave avversaria, li attendeva sulla cima della scala. Vedendo il capitano ed i marinai del rajah, levò il turbante, dicendo con voce grave: - Onore ai valorosi. Poi strinse silenziosamente la mano a Yanez. Darma che si trovava a qualche passo insieme a Surama, pallidissima, profondamente commossa dall'orribile scena svoltasi sotto i suoi occhi, si era avanzata verso i marinai che trasportavano il disgraziato comandante. - Egli è morto, è vero? - chiese con voce rotta. - No, - rispose Yanez. - Pare però che la ferita sia grave. - Oh, mio Dio! - esclamò la giovane. - Silenzio, - disse Sandokan. - Fate largo al valore sfortunato. Si porti il comandante nella mia cabina. Con un gesto che non ammetteva replica, arrestò Darma e Surama, poi seguì i marinai nel quadro, insieme a Yanez e a Tremal-Naik. Il medico di bordo, un americano che, come i macchinisti e i quartiermastri cannonieri, aveva accettato l'offerta fattagli da Sandokan di rimanere a bordo fino alla fine della campagna, era subito accorso. - Venite, signor Held, - gli aveva detto Sandokan. - Il comandante dell'incrociatore pare assai aggravato. - Farò il possibile per salvarlo, signore, - aveva risposto l'americano. - Conto su di voi. Entrarono nella cabina, dove sir Moreland era già stato deposto sul ricco letto del pirata. - Aspettate i miei ordini nel corridoio, - disse Sandokan ai due marinai, - e che gli infermieri si tengano pronti. Il medico aveva denudato interamente sir Moreland. Non aveva che una sola ferita, quella al fianco, ma era orribile. Il proiettile che lo aveva colpito, qualche frammento di granata di certo, aveva lacerate le carni per una lunghezza di venti centimetri, scavando una specie di solco. Il sangue scorreva a fiotti dalla laceratura, minacciando di dissanguare rapidamente il ferito. - Che cosa ne dite, signor Held? - chiese Yanez, fissandolo come se avesse voluto indovinargli il pensiero. - La ferita è più dolorosa che grave, - rispose il medico. - Ha perduto molto sangue, però questo inglese è robusto. - Non potreste garantirmi la sua guarigione? - La vita di quest'uomo non corre alcun pericolo, ve l'assicuro. Sandokan stette un momento silenzioso, guardando lo smorto viso dell'inglese, poi disse come parlando fra sè: - Meglio così: quest'uomo potrebbe un giorno esserci utile. Stava per uscire, quando un profondo sospiro, seguìto da un rauco gemito, sfuggì dalle labbra scolorite dell'inglese. Il dottore aveva messe le mani sulla ferita per riunire le due labbra ed a quel contatto il comandante dell'incrociatore aveva trasalito, poi aperto gli occhi. Girò all'intorno uno sguardo semi-spento, arrestandolo prima sul dottore, poi su Yanez, che stavagli dall'altra parte del letto. Le sue labbra si schiusero, poi mormorò con un filo di voce: - Voi! ... - Non parlate, sir Moreland, - disse il portoghese. - Il dottore ve lo proibisce. Il comandante fece col capo un gesto negativo, poi raccogliendo tutte le sue forze, disse ancora e con voce più chiara quantunque spezzata: - La ... mia ... spada ... è rimasta ... sulla ... mia ... nave ... - Non l'avrei accettata, signore, - disse Sandokan. - Mi rincresce solo che sia affondata colla nave, perchè non posso restituirvela. Voi siete un valoroso ed io vi stimo. Il giovane con uno sforzo supremo alzò la destra porgendola al suo avversario, il quale gliela strinse delicatamente. - I miei ... uomini? - chiese ancora sir Moreland, mentre una rapida commozione gli alterava il viso. - Ne abbiamo salvati ... basta, non affaticatevi. - Grazie ... - mormorò il ferito. Poi s'abbandonò richiudendo gli occhi: era nuovamente svenuto. - A voi, dottore, - disse Sandokan. - Non dubitate, signore, lo curerò come fosse vostro figlio. A me gli infermieri! Mentre gli uomini richiesti entravano con disinfettanti, rotoli di cotone fenicato e numerose bottigliette, Sandokan rifece lentamente le scale, con Yanez e Tremal-Naik, rimontando in coperta. Darma che li aspettava sulla porta del quadro, s'appressò al portoghese. - Signor Yanez, - gli sussurrò, sforzandosi di rendere la sua voce ferma. Il portoghese la guardò per qualche istante senza rispondere, poi sorrise e le strinse silenziosamente la mano. - Lo salveranno? - chiese Darma con angoscia. - Lo spero, - rispose Yanez. - T'interessa molto quel giovane, Darma? - È un valoroso ... - Sì e qualche cosa di più anche. - Se guarirà, lo terrete prigioniero? - Vedremo che cosa deciderà Sandokan; ma è probabile. Darma raggiunse Surama che si era un po' scostata, mentre Yanez s'accostava a Sandokan che stava parlando animatamente con Tremal-Naik. - Che cosa ti pare di quel giovane? - gli chiese. - È quello che comandava il forte di Macrae? - Sì, - risposero ad una voce Tremal-Naik e Yanez. - Quell'uomo ha del fegato, - disse Sandokan. - È stata una vera fortuna per noi a catturarlo. Se il rajah avesse una mezza dozzina di quei comandanti ci darebbero troppo da fare. Quello non deve essere un inglese puro sangue. È troppo bruno. - Mi ha detto che sua madre sola era inglese, - disse Tremal-Naik. - Faceva parte della flotta anglo-indiana prima? - Sì, come luogotenente, così mi disse una sera. - Che cosa ne faremo di lui? - chiese Yanez. - Lo terremo come ostaggio, - rispose Sandokan. - Un giorno potrebbe esserci utile. In quanto agli altri prigionieri li farai imbarcare su una scialuppa e li lascerei liberi di raggiungere la costa. - Ed ora, dove volgerai le tue imprese? - chiese Tremal-Naik. - Io e Yanez abbiamo già formato il nostro piano di guerra, - rispose Sandokan. - Nostro primo, anzi principale disegno, è quello di non lasciarci sorprendere dalle squadre di Sarawak e da quelle inglesi. È certo che cercheranno di riunirsi per schiacciarci d'un colpo solo; se troviamo il modo di aver sempre carbone a nostra disposizione, colla velocità di cui è dotato il Re del Mare potremo riderci del rajah e anche del governatore di Labuan. - È appunto perciò che vi consiglierei, innanzi a tutto e prima che abbia luogo la riunione delle due squadre, di tentare un colpo contro i depositi di carbone che si trovano alla foce del Sarawak, - disse Tremal-Naik. - È quel che tenteremo, - rispose Sandokan. - Andremo poi a distruggere quelli che gli inglesi hanno sull'isoletta di Mangalum. Privi dei loro rifornimenti, noi avremo buon gioco sugli uni e sugli altri e potremo gettarci sulle linee di navigazione e dare un colpo mortale ai commerci inglesi colla Cina e col Giappone. Approvate questa mia idea? - Sì, - risposero ad una voce Yanez e Tremal-Naik. - Ho però un altro progetto, - continuò Sandokan dopo un breve silenzio. - Di fare insorgere i dayaki di Sarawak. Tra di loro abbiamo dei vecchi amici, quelli che ci aiutarono a rovesciare James Brooke. Io vorrei mandare a loro un buon carico d'armi onde possano mettersi in campagna. Con noi in mare e quei terribili tagliatori di teste alle spalle, il rajah ed il suo alleato, il figlio di Suyodhana, non si troverebbero certo su un letto di rose. - Supponi che il figlio del capo dei thugs si trovi col rajah? - chiese Tremal- Naik. - Ne sono sicuro, - rispose Sandokan. - E anch'io, - aggiunse Yanez. - Avete dato un appuntamento alla Marianna? - chiese l'indiano. - Ci aspetta al capo Tanjong-Datu con carico di carbone, di munizioni e di armi! - Che vi sia di già? - Lo suppongo. - Allora andiamo a Sarawak, - concluse Tremal-Naik.

Il praho aveva urtato contro la piattaforma inferiore della scala che era stata subito abbassata. Un uomo sui cinquant'anni, solidamente piantato, con una barbetta brizzolata tagliata a punta, che indossava una divisa di panno azzurro cupo con bottoni dorati ed un berretto con gallone, attendeva sulla piattaforma superiore. Yanez pel primo balzò sui gradini e salì rapidamente, dicendo al comandante della nave, in inglese: - Grazie, signore, del vostro aiuto. Ancora qualche minuto e la mia testa andava ad aumentare la collezione di quei terribili cacciatori di crani. - Sono ben felice, signore, di avervi salvato, - rispose il comandante, tendendogli la destra e dandogli una stretta vigorosa. - Qualunque altro uomo bianco, d'altronde, avrebbe fatto altrettanto. Con quei furfanti non ci vuole misericordia, come non ci vogliono mezze misure. - Ho l'onore di parlare al comandante? - Sì, signore ... - Yanez de Gomera, - rispose il portoghese. Il comandante aveva fatto un soprassalto. Prese Yanez per una mano, traendolo sulla tolda per lasciare il passo libero a Sambigliong ed agli altri che portavano il pellegrino e si mise a guardarlo con viva curiosità, ripetendo: - Yanez de Gomera! Questo nome non mi è nuovo, signore. By God! Sareste voi il compagno di quell'uomo formidabile che anni or sono ha detronizzato James Brooke, lo sterminatore dei pirati? - Sì, sono quello. - Ero a Sarawak il giorno in cui Sandokan vi entrò coi guerrieri di Muda Hassim e le sue invincibili tigri. Signor de Gomera, sono ben felice di avervi prestato un po' d'aiuto. Ma che cosa volevano quegli uomini da voi? - È una istoria un po' lunga a narrarsi. Ditemi, signore, voi non siete inglese? - Mi chiamo Harry Brien e sono americano della California. - E questa nave che è così poderosamente annata, meglio d'un incrociatore di prima classe? - Oh molto meglio! - disse l'americano, sorridendo. - Credo che finora non ve ne sia una seconda in tutta la Malesia e nel Pacifico. Forte, a prova di scoglio, con artiglierie formidabili e rapida come una rondine marina. Si volse verso i marinai che stavano loro d'intorno, interrogando curiosamente i compagni del portoghese, mentre il medico di bordo prodigava le prime cure al pellegrino, dal cui petto usciva un filo di sangue. - Date la colazione a quelle brave persone, - disse loro. - E voi signor de Gomera, seguitemi nel quadro. Ah! Che cosa devo fare del vostro praho? - Abbandonatelo alle onde, comandante, - rispose il portoghese. - Non vale la pena di prenderlo a rimorchio. - Dove desiderate che vi sbarchi? - Più vicino a Mompracem che vi sarà possibile, se non vi spiace. - Vi condurremo direttamente colà, si trova quasi sulla mia rotta e la visiterò volentieri. Venite, signor de Gomera. Si diressero verso poppa e scesero nel quadro, mentre la nave, dopo che i marinai ebbero issato le due scialuppe e tagliati gli ormeggi del praho, riprendeva la sua corsa verso il sud. Il comandante fece portare una colazione fredda nel salotto poppiero e invitò Yanez a dare l'assalto. - Possiamo discorrere anche mangiando e bevendo, - disse amabilmente. - La mia cucina è a vostra disposizione, signor de Gomera, al pari della mia cantina particolare. Quando il pasto fu finito, l'americano conosceva già tutte le disgraziate avventure toccate al suo commensale sulla terra dei dayaki, per opera del misterioso pellegrino e anche la pericolosa situazione in cui trovavasi Sandokan. - Signor de Gomera, - disse, offrendogli un manilla profumato, - vorrei proporvi un affare. - Dite, signor Brien, - rispose il portoghese. - Sapete dove stavo per recarmi? - Non lo saprei indovinare. - A Sarawak per cercare di vendere questa nave. Yanez si era alzato, in preda ad una visibile commozione. - Voi volete vendere la vostra nave! - esclamò. - Non appartiene alla marina da guerra americana? - Niente affatto, signor de Gomera. Era stata costruita nei cantieri d'Oregon, per conto del sultano di Shemmerindan, il quale voleva vendicare, a quanto mi fu detto, suo padre uccisogli dagli olandesi nella sanguinosa sconfitta inflitta a quei predoni molti anni or sono. - Nel 1844, - disse Yanez. - Conosco quell'isola. - Il sultano aveva già versato ai costruttori un'anticipazione di ventimila sterline, promettendo l'intero pagamento alla consegna della nave, ed un forte regalo se fosse riuscita tale da poter sfidare impunemente le navi olandesi. Non abbiamo lesinato e, come avete potuto osservare, questo piroscafo vale meglio d'un incrociatore di prima classe. Disgraziatamente quando condussi la nave alla foce del Cotti, fui informato che il sultano era stato assassinato da un suo parente, ad istigazione degli olandesi, a quanto pare, per evitare una nuova campagna. Il suo erede non ne volle sapere della nave, abbandonandoci l'anticipo fattoci. - Quello là è una bestia, - disse Yanez. - Con un simile piroscafo avrebbe potuto far tremare anche il sultano di Varauni. - Da Ternate ho telegrafato ai costruttori e mi hanno incaricato di offrirla al rajah di Sarawak o a qualche sultano. Signor de Gomera, vorreste acquistarla? Con questa voi potreste diventare il re del mare. - Vale? - chiese Yanez. - Gli affari sono affari, signore, - disse l'americano. - I costruttori chiedono cinquantamila sterline. - Ed io, signor Brien, ne offro sessantamila, pagabili sul banco di Pontianak, a condizione che mi lasciate il personale di macchina a cui offrirò doppia paga. - Sono gente che non rifiuterà, avventurieri della più bella razza, pronti a chiudere ed aprire una valvola ed a sparare il fucile. - Accettate? - By God! È un affare d'oro, signor de Gomera, e non me lo lascerò sfuggire. - Dove volete sbarcare col vostro equipaggio? - A Labuan possibilmente, per prendere il postale che va a Shangai, da cui troveremo facile imbarco per San Francisco. - Quando saremo a Mompracem farò mettere a vostra disposizione un praho onde vi sbarchi in quell'isola, - disse Yanez. Estrasse un libriccino che teneva gelosamente nascosto in una fascia che portava sotto la camicia, si fece dare una penna e appose delle firme su diversi biglietti. - Ecco degli chèques per sessantamila sterline, pagabili a vista sul banco di Pontianak, dove io e Sandokan abbiamo un deposito di tre milioni di fiorini. Signor Brien, da questo momento la nave è mia e ne assumo il comando. - Ed io, signor de Gomera, da comandante divento un pacifico passeggero, - disse l'americano, raccogliendo gli chèques. - Signor de Gomera, visitiamo la nave. - Non mi occorre mi è bastato uno sguardo per giudicarla. Solo desidero conoscere il numero delle bocche da fuoco. - Quattordici pezzi, fra cui quattro da trentasei, un'artiglieria assolutamente formidabile. - Mi basta: devo occuparmi del pellegrino. O egli mi dice dove la scialuppa ha condotto Tremal-Naik e Darma o lo martirizzo fino a che esalerà l'ultimo respiro. - Conosco un mezzo infallibile per costringerlo a parlare, l'ho appreso dalle nostre pelli-rosse, - disse l'americano. - Sempre la rotta su Mompracem, signor de Gomera? - Ed a tiraggio forzato, - rispose il portoghese. - È probabile che in questo momento Sandokan stia per misurarsi cogli inglesi e non ha che dei prahos. - E voi, signor de Gomera, avete a disposizione una nave da cacciare tutti a fondo. Pezzi da 36! Faranno saltare le cannoniere di Labuan come giuocattoli. Lasciarono il quadro e salirono in coperta. La nave filava a tutto vapore verso il sud-ovest, con una velocità assolutamente sconosciuta ai piroscafi di quell'epoca. Quindici nodi all'ora e sei decimi. Chi avrebbe potuto gareggiare con quel piroscafo americano che filava come una rondine marina o poco meno? Yanez ne era entusiasmato. - È un fulmine! - aveva detto ad Harry Brien. - Con tale nave, nè gli inglesi di Labuan, nè il rajah di Sarawak mi fanno paura. Sandokan, se volesse, potrebbe dichiarare la guerra anche all'Inghilterra! Kammamuri in quel momento gli si appressò, dicendogli: - Signor Yanez, la ferita del pellegrino non ha alcuna importanza. La vostra palla deve aver colpito prima qualche cosa di duro, probabilmente l'impugnatura del tarwar, che quell'uomo portava alla cintura e l'ha colpito solamente di rimbalzo, strisciando su una costola. - Dov'è? - In una cabina di prora. - Signor Brien, volete accompagnarmi? - Sono con voi, signor de Gomera, - rispose l'americano. - Cerchiamo di strappare il velo che nasconde quel misterioso personaggio. Scesero nella corsia di babordo di prora ed entrarono in una stanzetta che serviva d'infermeria. Il pellegrino giaceva su una branda, guardato da Sambigliong e da un marinaio della nave. Era un uomo sui cinquant'anni magrissimo, dalla pelle assai abbronzata, coi lineamenti fini come quelli degli indiani delle alte caste e gli occhi nerissimi, penetranti, animati da un fuoco sinistro. Aveva i piedi e le mani legate e conservava un mutismo feroce. - Capitano, - disse Sambigliong a Yanez, - ho veduto or ora il petto di quest'uomo e vi ho scorto un tatuaggio rappresentante un serpente con una testa di donna. - Ecco la prova che egli è veramente un thug indiano e non già un arabo maomettano, - rispose Yanez. - Ah! Uno strangolatore! - esclamò l'americano, guardandolo con vivo interesse. Il prigioniero udendo la voce di Yanez aveva trasalito, poi aveva alzato il capo, fissandolo con uno sguardo ripieno d'odio. - Sì, - disse, - sono un thug, un amico devoto di Suyodhana, che aveva giurato di vendicare su Tremal-Naik, su Darma, su te e più tardi sulla Tigre della Malesia la distruzione dei miei correligionari. Ho perduto la partita quando credevo di averla vinta: uccidimi. Vi è qualcuno che penserà a vendicarmi e più presto di quello che credi. - Chi? - domandò Yanez. - Questo è il mio segreto. - Che io ti strapperò. Un sorriso ironico sfiorò le labbra dello strangolatore. - E mi dirai anche dove quella scialuppa a vapore ha condotto Tremal-Naik, Darma ed i miei Tigrotti sfuggiti al fuoco dei tuoi lilà. - Questo non lo saprai mai! - Adagio, signor strangolatore, - disse l'americano. - Permettetemi di avvertirvi che io conosco un mezzo infallibile per farvi parlare. Non resistono nemmeno le pelli-rosse, che sono d'una cocciutaggine incredibile. - Voi non conoscete gli indiani, - rispose il thug. - Mi ucciderete, ma non mi strapperete una sillaba. L'americano si volse verso il suo marinaio dicendogli: - Prepara sul ponte un paio di tavole ed un barile d'acqua. - Che cosa volete fare, signor Brien? - chiese Yanez. - Ora lo vedrete, signor de Gomera. Fra due minuti quest'uomo parlerà, ve lo prometto. - Voi, - aggiunse poi rivolgendosi a Sambigliong e a Kammamuri, - prendete quest'uomo e portatelo in coperta.

Con pochi colpi di remo le scialuppe attraversarono la distanza, abbordando la scala di tribordo che era rimasta abbassata. - Capitano, - disse il tenente, quando sir Moreland giunse in coperta, salutato dagli hurrà strepitosi dell'equipaggio, - la mia nave è tutta a vostra disposizione. - Non chiedo che una cabina per me e una per ciascuno dei miei compagni. Giudicherete voi, comandante della nave, se potrete trattarli come prigionieri di guerra, dopo però che mi avrete ascoltato. Miss Darma, signor de Gomera, attendetemi. Mentre la nave riprendeva il largo, il capitano ed il tenente scesero nel quadro dove ebbero un lungo colloquio. Quando risalirono, sir Moreland era sorridente e pareva molto lieto. - Miss, signor de Gomera, - disse accostandosi a loro, - voi non verrete ricondotti a Labuan, perchè la nave deve recarsi a Sarawak senza indugio. - Dove verremo consegnati al rajah, - disse Yanez. - È tutto quello che noi possiamo fare, quantunque io avessi desiderato ben altro, - disse il capitano con un sospiro. - E che cosa, sir Moreland? - chiese Darma. L'anglo-indiano scosse il capo senza rispondere, poi offrendo il braccio alla giovane e conducendola verso la poppa, le disse con certa agitazione. - Vorrei strapparvi una promessa, miss. - Quale, sir Moreland? - chiese Darma. - Di non imbarcarvi più sul Re del Mare. - Se sono prigioniera? - Il rajah vi rimetterà subito in libertà. - È impossibile, Sir: colà vi è mio padre ed egli non lascerà il Re del Mare. La sua sorte è unita a quella degli ultimi pirati di Mompracem. - Pensate che io un giorno mi troverò nuovamente dinanzi alla nave di Sandokan e che forse toccherà a me colarla a fondo e dare anche a voi la morte, io che darei invece tutto il mio sangue per voi. Che cosa rispondete, miss Darma. - Lasciate tutto al destino, sir Moreland, - rispose la giovane. - Eppure mi amate. Darma lo guardò, senza rispondere; i suoi occhi erano umidi. - Ditemelo, Darma. - Sì, - mormorò ella, con una voce così lieve che parve un soffio. - Mi giurate di non dimenticarmi? - Ve lo giuro. - Ho fede nel nostro destino, Darma. - Ed io temo invece che sarà fatale ad entrambi. Il nostro affetto è nato sotto una cattiva stella, sir Moreland, lo sento, - disse la giovane con voce triste. - Non parlate così, miss Darma. - Che volete, sir Moreland, vedo buio nel nostro avvenire. Mi pare che una catastrofe non lontana minacci noi due. Questa guerra sarà fatale anche a noi. - Voi potrete evitare questo pericolo, Darma. Esso sta nascosto negli abissi dell'Atlantico. - Ed in quale modo? - Abbandonando il Re del Mare al suo destino, ve lo dissi già. - No, sir Moreland. Finchè sventolerà la bandiera delle tigri di Mompracem, Darma, la protetta di Sandokan e Yanez, non lascerà la nave. - E non sapete dunque che essi sono destinati a perire tutti? Le migliori e le più possenti navi della marina inglese fra poco piomberanno su questi mari e spazzeranno via il corsaro. Fuggirà, vincerà forse altre battaglie, eppure presto o tardi dovrà soccombere sotto le nostre artiglierie. - Ve lo dissi ancora: noi sapremo morire da valorosi, al grido di: Viva Mompracem! - Bella e coraggiosa, come una vera eroina! - esclamò sir Moreland, guardandola con ammira rione. - Ed il fiotto di sangue sarà fatale a tutti! ... Yanez si era in quel momento accostato con precipitazione. - sir Moreland! - esclamò. - Una nave a vapore corre su di noi. È stata già segnalata dal comandante. - Che sia il Re del Mare! - esclamò Darma. - Si sospetta che sia una nave da guerra. Guardate: i marinai si preparano al combattimento. La fronte di sir Moreland si era oscurata, mentre un rapido pallore si era diffuso sul suo viso. - Il Re del Mare, - mormorò con voce sorda. - Esso viene a spezzare la mia felicità. Il tenente lo aveva raggiunto, tenendo in mano un cannocchiale. - Sir James, - disse. - Una nave e molto grossa, se non m'inganno, punta su di noi. - Che sia una delle nostre? - chiese il capitano. - No, perchè viene dal nord-est, mentre la nostra squadriglia si è diretta verso Sarawak colla speranza di trovare il corsaro in quella direzione. Un punto nero, che ingrandiva rapidamente, sormontato da due nere colonne di fumo, era apparso all'orizzonte e pareva che si dirigesse verso il gruppo di Mangalum, muovendo a grande velocità. Sir Moreland aveva puntato il cannocchiale e guardava con estrema attenzione. Ad un tratto l'istrumento gli sfuggì dalle mani: - Il Re del Mare! - esclamò con voce rauca, mentre gettava su Darma uno sguardo ripieno di tristezza. - Sandokan! - esclamò Yanez. - Nemmeno questa volta mi appiccheranno! - È il corsaro? - chiese il tenente. - Sì, - rispose sir Moreland. - Daremo battaglia e l'affonderemo, - disse il tenente. - Volete farvi colare a picco? Fra pochi minuti nave e uomini saranno in fondo al mar della Sonda. Ci vuole ben altro, che un incrociatore di terza classe per affrontare quella nave, la più moderna, la più rapida e la più formidabile di quante ve ne siano. - Eppure non mi lascerò catturare senza combattimento, - rispose il tenente. - Non lo vorrei nemmeno io, amico; credo però che noi lo eviteremo. Le conseguenze sarebbero per noi disastrose. - In quale modo? - Fate calare in acqua una scialuppa e lasciate che io vada prima a parlamentare colla Tigre della Malesia. Voi perderete i due prigionieri, io perderò molto di più, ve lo giuro, ma voi salverete la vostra nave e il vostro equipaggio. - Vi obbedisco, Sir James. Mentre i marinai calavano una baleniera, il Re del Mare che avanzava con una velocità di dodici nodi all'ora, piombava sull'incrociatore. Le sue possenti artiglierie delle torri di prora, erano già state puntate e si preparavano a coprire di fuoco e d'acciaio il minuscolo nemico ed a colarlo a fondo alla prima bordata. Il lungo nastro rosso, segno di combattimento, era salito sventolando sull'albero di prora, mentre la bandiera rossa di Mompracem, adorna d'una testa di tigre veniva innalzata su quella di poppa. Sandokan, vedendo l'incrociatore inglese arrestarsi, issare bandiera bianca e calare in mare una scialuppa, aveva ordinato macchina indietro, fermandosi a milleduecento metri dall'avversario. - Pare che l'inglese non si senta abbastanza forte per misurarsi con noi, - aveva detto a Tremal-Naik che lo aveva raggiunto nella torretta. - Che voglia arrendersi? Non saprei cosa farne di quella nave. - Le prenderemo le artiglierie e le munizioni, oltre il carbone, - rispose l'indiano. - Potranno servire ai nostri amici dayaki di Sarawak. - Sì, eppure mi spiacerebbe perdere altro tempo, - disse la Tigre della Malesia. - Dobbiamo cercare Yanez e Darma. - Speri di trovarli ancora sullo scoglio? - chiese Tremal-Naik con angoscia. - Non ne dubito. Io li ho veduti approdare, prima che le tenebre coprissero quell'isolotto. Oh! Un capitano nella baleniera! Che venga a offrirci la sua spada? Avrei preferito un combattimento, giacchè sento una smania furiosa di tutto distruggere. - Tigre della Malesia, - disse in quel momento Sambigliong, il quale aveva puntato un cannocchiale sulla scialuppa. - È mai possibile! Che io mi inganni o che sia realmente lui! Guardate! Guardate! - Che cosa hai veduto? - È lui, vi dico, è lui! - Chi lui? - sir Moreland. - Moreland! - esclamò Sandokan, prima impallidendo e poi arrossendo, mentre un lampo di speranza gli balenava negli sguardi. - Moreland a bordo di quel legno! Allora Yanez ... Darma ... Come possono trovarsi su quella nave? È impossibile, ti sei ingannato, Sambigliong. - No, guardate, ci ha scorti e ci saluta agitando il berretto. Sandokan si era slanciato fuori dalla torretta. Un grido di gioia gli sfuggì. - Sì, è lui, sir Moreland! ... La baleniera, sotto la spinta di dodici remi, s'avanzava rapidissima. L'anglo-indiano, in piedi a poppa, salutava ora col berretto, senza abbandonare la barra del timone. - Abbassate la scala! - gridò Sandokan. L'ordine era stato appena eseguito che la baleniera abbordava. Sir Moreland salì rapidamente a bordo, dicendogli con una certa freddezza: - Sono lieto di rivedervi, signore, e di potervi dare una notizia che gradirete assai. - Yanez ... Darma? ... - gridarono ad una voce Sandokan e Tremal-Naik. - Sono a bordo di quella nave. - Perchè non li avete condotti qui? - chiese Sandokan aggrottando la fronte. L'anglo-indiano che era diventato estremamente serio e che parlava con voce quasi imperiosa, rispose: - Vengo per intavolare delle trattative, signore. - Che cosa volete dire? - Che il comandante vi consegnerà il signor Yanez e miss Darma a condizione che voi lasciate tranquilla quella nave, che come ben vedete non sarebbe in grado di misurarsi con la vostra. Sandokan ebbe un istante di esitazione, poi rispose: - Sia pure, sir Moreland. Saprò ritrovarla più tardi. - Fate abbassare la bandiera di combattimento. Il comandante comprenderà che voi avete accettato la sua proposta e vi manderà subito i prigionieri. Sandokan fece un segno a Sambigliong e pochi istanti dopo il nastro rosso veniva fatto scendere in coperta. Quasi nel medesimo istante una seconda scialuppa si staccava dal fianco del piccolo incrociatore: vi erano sopra Darma e Yanez. - sir Moreland, - disse Sandokan, - dove vi ha raccolti quella nave? - A Mangalum, - rispose l'anglo-indiano, senza levare gli occhi dalla scialuppa che s'accostava rapidissima. - Vi eravate salvati sullo scoglio? - Sì, - rispose il capitano, che pareva avesse perduta la sua abituale cordialità e che fosse in preda a delle profonde preoccupazioni. La seconda scialuppa era giunta. Yanez e Darma avevano salito precipitosamente la scala, cadendo l'uno nelle braccia di Sandokan e la seconda in quelle di suo padre. Sir Moreland, pallidissimo, guardava con occhio triste quella scena. Quando si furono separati, si volse verso Sandokan, chiedendogli: - Ed ora mi tratterrete ancora prigioniero? La Tigre della Malesia stava per rispondere, quando Yanez lo prevenne. - No, sir Moreland, voi siete libero. Tornate a bordo dell'incrociatore. Sandokan non aveva nascosto un gesto di stupore. Probabilmente non era quella la risposta che intendeva dare all'anglo-indiano, nondimeno non replicò. - Signori, - disse allora l'anglo-indiano con voce grave, fissando bene in viso Sandokan e Yanez, - spero di rivedervi presto, ma allora saremo terribili nemici. - Vi aspettiamo, - rispose freddamente Sandokan. S'accostò a Darma e le tese la mano, dicendole con accento triste: - Che Brahma, Siva e Visnù vi proteggano, miss. La fanciulla che appariva profondamente commossa, strinse la mano senza parlare. Pareva che avesse un nodo alla gola. L'anglo-indiano finse di non vedere le mani che Yanez, Sandokan e Tremal-Naik gli porgevano, salutò militarmente e scese rapidamente la scala senza volgersi indietro. Quando però la scialuppa che lo conduceva verso il piccolo incrociatore passò dinanzi la prora del Re del Mare alzò la testa e vedendo Darma e Surama sul castello, le salutò col fazzoletto. - Yanez, - disse Sandokan, traendo da parte il portoghese. - Perchè lo hai lasciato andare? Egli poteva diventare un ostaggio prezioso. - Ed un pericolo per Darma, - rispose Yanez. - Essi si amano. - Me n'ero accorto. È un bel giovane e valoroso, ha sangue anglo-indiano nelle vene al pari di Darma ... chissà? Dopo la campagna. Stette un momento come immerso in un profondo pensiero, poi riprese: - Cominciamo le ostilità: gettiamoci sulle vie di navigazione e cerchiamo, finchè le squadre ci cercano nelle acque di Sarawak, di fare il maggior male possibile ai nostri avversari.

Intanto un uomo era disceso sulla piattaforma della scala della nave americana, che era stata subito abbassata e si era slanciato sulla coperta cadendo fra le braccia aperte di Yanez. Era di statura piuttosto alta, stupendamente sviluppato, con una testa bellissima, d'aspetto fiero ed energico, colla pelle assai abbronzata, gli occhi nerissimi che pareva avessero dentro un fuoco e la capigliatura folta, ricciuta e nera come l'ala d'un corvo, che cadevagli sulle spalle. La barba invece, appariva un po' brizzolata mentre sulla fronte si disegnavano alcune rughe che non dovevano essere precoci. Vestiva all'orientale, con una casacca di seta azzurra a ricami d'oro e maniche ampie, stretta alla cintura da un'alta fascia di seta rossa sorreggente una splendida scimitarra e due pistole dalle canne lunghissime e arabescate ed i calci ad intarsi d'avorio e d'argento; aveva calzoni larghi, alti stivali di pelle gialla a punta rialzata e sul capo un turbantino di seta bianca con un pennacchio fermato da un diamante grosso quasi come una noce. Una bellissima fanciulla, che indossava un costume di donna indiana, lo seguiva. - Sandokan! - aveva esclamato Yanez, stringendoselo al petto. - Tu, battuto! E anche tu, mia Surama! Un lampo ardente balenò negli sguardi del comandante della squadriglia dei velieri, mentre il suo viso assumeva una terribile espressione d'odio e nel medesimo tempo di dolore. - Sì, battuto per la seconda volta e ancora dal medesimo nemico, - disse poi con voce sorda. - Cacciato da Mompracem! - Non l'avrei certo lasciata per far piacere a loro, Yanez. - Tutto perduto? - Hanno distrutto tutto, quei cani. I villaggi sono in fiamme, la popolazione è stata massacrata senza risparmiare nè le donne, nè i fanciulli, colla ferocia ben nota degli inglesi quando si sentono più forti e si trovano dinanzi a delle genti di colore. Anche la nostra casa non sussiste più. - Ma perchè questo assalto improvviso? Sandokan, invece di rispondere aveva volto lo sguardo in giro, guardando la tolda della magnifica nave che si copriva di marinai americani. - Dove hai trovato questo incrociatore? - chiese poscia. - Che cos'hai fatto in questi giorni? E Tremal-Naik? E Darma? E la Marianna? E chi sono questi uomini bianchi che prendono le difese delle tigri di Mompracem? - Sono avvenute delle cose gravissime, fratellino mio, dopo la mia partenza pel Kabatuan, - rispose Yanez. - Ma prima che ti racconti ciò, dimmi dove ti recavi ora. - In cerca di te, innanzitutto, poi di un nuovo asilo. Non mancano le isole al nord del Borneo dove potersi posare e prepararsi alla vendetta, - disse Sandokan. - La Tigre della Malesia farà udire ancora il suo ruggito sulle spiagge di Labuan e anche su quelle di Sarawak. Yanez fece un segno al capitano che stava fermo a pochi passi, in attesa di ricevere gli ordini del nuovo proprietario della nave, poi, dopo averlo presentato a Sandokan, gli chiese: - Dov'è che desiderereste sbarcare, capitano? - Possibilmente a Labuan, dove mi sarà più facile trovare imbarchi per Pontianak e poi ho due uomini laggiù che potrebbero darvi delle preziose informazioni, signor de Gomera. Rimarranno a vostra disposizione fino a che ne avrete bisogno, tutto il personale di macchina che ha accettato le vostre proposte e due quartiermastri artiglieri onde istruire i vostri malesi nel servizio dei pezzi. Sarei ben lieto di rimanere in vostra compagnia e prendere parte alla campagna, che non ne dubito, inizierete contro quei signori dalle bandiere rosse inquartate. - Avanzatevi lentamente su Labuan in modo da potervi giungere di notte. I prahos potranno seguirci senza difficoltà, essendo il vento fresco, - ordinò Yanez. Poi, passato un braccio sotto il destro di Sandokan, lo trasse verso poppa e scesero entrambi nel quadro, seguìti dalla giovane indiana. In quel momento le cannoniere, il brigantino e l'incrociatore scomparivano fra le nebbie dell'orizzonte. - Narrami che cosa è successo a Mompracem, innanzitutto, - disse Yanez, mentre sturava una bottiglia di whisky e fissava sorridendo Surama. - Perchè ti sono piombati addosso? Kammamuri che era giunto alla fattoria di Tremal-Naik mi aveva già narrato che il governatore di Labuan desiderava prenderti l'isola. - Sì, e col pretesto che la mia presenza costituiva un continuo pericolo per quella colonia ed incoraggiava i pirati bornesi, - rispose Sandokan. - Non credevo però che spingesse le cose tanto oltre verso di noi, che abbiamo reso all'Inghilterra un così grande servigio sbarazzando l'India dalla setta dei thugs. Invece quattro giorni or sono un messo inglese mi recò l'ordine di sgombrare l'isola entro quarantott'ore, sotto la minaccia di cacciarmivi colla forza. Scrissi allora al governatore che l'isola da vent'anni era stata occupata da me e che per diritto mi apparteneva e che la Tigre della Malesia era tale uomo da difenderla a lungo; quand'ecco che ieri sera, senza alcuna dichiarazione di guerra, mi vedo piombare addosso la squadra che tu hai trattata così bene, mentre un'altra, composta di piccoli velieri, sbarcava sulle rive occidentali quattro compagnie di cipai con quattro batterie di artiglieria. - Canaglie! - esclamò Yanez, indignato. - Ci hanno considerati come fossimo ancora dei pirati! - Peggio, come degli antropofagi, - disse Sandokan, con voce fremente. - A mezzanotte i villaggi sorpresi erano in fiamme ed i loro abitanti massacrati con inaudita ferocia, mentre la squadra apriva un fuoco terribile contro le nostre trincee della piccola baia, distruggendomi buona parte dei prahos. Quantunque preso fra due fuochi, fra i pezzi delle navi e le batterie dei cipai, ho resistito disperatamente fino all'alba, respingendo più di quattordici attacchi; poi, quando vidi che ogni resistenza era inutile, mi sono imbarcato cogli avanzi delle mie bande ed a colpi di cannone mi sono aperto il passo fra gli incrociatori e le cannoniere, riuscendo a fuggire in tempo. - Ed ora che cosa intendi fare? La Tigre della Malesia alzò la destra agitandola come se impugnasse qualche arma e si preparasse a vibrare un colpo mortale, poi, contraendo le labbra come la belva di cui portava il nome, disse con uno scoppio d'ira spaventevole: - Che cosa penso di fare? Come vent'anni or sono ho fatto tremare Labuan, tornerò a spargere il terrore su tutte le sue coste. Dichiaro la guerra all'Inghilterra ed a Sarawak insieme. - Od al figlio di Suyodhana? Sandokan aveva fatto un soprassalto. - Che cosa hai detto, Yanez? - gridò, guardandolo con profonda sorpresa. - Che l'uomo che ha sollevati i dayaki del Kabatuan, che ha fatto muovere il governatore di Labuan e quello di Sarawak per cacciarci da Mompracem è il figlio della Tigre dell'India che tu hai uccisa a Delhi. Sandokan era rimasto muto: pareva che quella inaspettata rivelazione lo avesse fulminato. - Aveva un figlio, il capo degli strangolatori indiani! - esclamò finalmente. - E molto abile e molto risoluto e deciso a vendicare la morte di suo padre, - aggiunse Yanez. - Noi abbiamo perduta già la nostra isola, tutte le fattorie di Tremal-Naik sono state distrutte e quel caro amico e Darma si trovano in sua mano. - Te li hanno rapiti! - gridò Sandokan. - Dopo un combattimento terribile che sarebbe terminato colla morte di tutti, senza l'arrivo provvidenziale di questa nave. Sandokan si era messo a girare pel salotto cogli scatti d'una belva rinchiusa in una gabbia, la fronte burrascosamente aggrottata e le mani raggrinzite sul petto. - Narrami tutto, - disse ad un tratto, fermandosi dinanzi al portoghese e vuotando d'un fiato solo una tazza di whisky. Yanez, più brevemente che potè, raccontò le diverse avventure toccategli dopo la partenza da Mompracem e che già noi conosciamo. Sandokan le aveva ascoltate in silenzio, senza interromperlo. - Ah! Questa nave è nostra? - disse quando Yanez ebbe finito. - Sta bene: faremo guerra all'Inghilterra, a Sarawak, al figlio di Suyodhana, a tutti! - E dei nostri prahos che cosa ne farai? Non potrebbero seguire questa nave che fila come un pesce veliero. Vorresti affondarli? - Li manderemo nella baia d'Ambong. Colà abbiamo degli amici e terranno in consegna i nostri velieri fino al nostro ritorno, mantenendo un equipaggio solo sulla Marianna. - Che ci seguirà? - Potremmo averne bisogno più tardi. Lasciarono il quadro e salirono in coperta, dove Kammamuri, il prode maharatto, e Sambigliong li attendevano. La nave filava a piccolo vapore verso oriente, seguìta a breve distanza dalla Marianna di Sandokan e dai prahos, i quali avevano il vento in favore. In lontananza si profilavano debolmente le alture di Labuan, indorate dagli ultimi raggi del sole, prossimo ormai al tramonto. Alle nove di sera l'incrociatore s'arrestava a mezzo miglio dalla spiaggia, di fronte al luogo ove aveva sbarcato i due marinai potendo darsi che il segnale venisse fatto quella notte istessa. Nessuno aveva acceso i fanali, nemmeno la poderosa nave onde non attirare l'attenzione delle cannoniere inglesi a guardia dell'isola. Erano trascorse quattro ore, quando un razzo verde, s'alzò sulla cima d'una scogliera. Yanez, Sandokan, l'americano e la giovane indiana che stavano chiacchierando sulla plancia di comando, seduti su delle poltrone a dondolo, si erano bruscamente alzati. - Il segnale dei miei uomini! - aveva esclamato lo yankee. - Sapevo che erano due furbi quelli e che non avrebbero perduto il loro tempo nelle taverne di Victoria. Ad un suo comando un marinaio lanciò un razzo rosso a cui i due americani risposero subito con un altro d'eguale colore. Poco dopo una sottile linea oscura si staccava dalla scogliera, lasciandosi dietro una scia fosforescente. Il mare, saturo di nottiluche, luccicava sotto i colpi dei remi come se dei getti di zolfo fuso scorressero sotto la scialuppa. Yanez aveva fatto abbassare la scala. Dieci minuti dopo l'imbarcazione abbordava la grossa nave e i due americani salivano frettolosamente. - Dunque? - chiesero ad una voce Yanez ed il comandante, con ansietà. - Siamo riusciti al di là delle nostre speranze, signori, - rispose uno dei due. - Sbrigati a spiegarti, Tom, - disse lo yankee. - Sai dove sono state condotte quelle persone? - Sì, capitano. L'ho saputo da un nostro compatriotta che montava quella scialuppa a vapore di cui vi ha parlato il signore, - disse, accennando a Yanez. - Si è fermata a Labuan quella scialuppa? - chiese il portoghese. - Solo pochi minuti per rinnovare la provvista di carbone e per sbarcare quel nostro compatriotta a cui una palla aveva spezzato un braccio, - rispose il marinaio. - Mi disse quell'uomo che a bordo vi era un indiano, una fanciulla e cinque malesi. - E dove li hanno condotti? - A Redjang, nel fortino di Sambulu. - Nel sultanato di Sarawak! - esclamò Sandokan. - Allora è stato quel rajah che li ha fatti rapire? - No, signore. Il nostro compatriotta ci ha detto che è stato un uomo che si fa chiamare il Re del Mare ma che pare abbia l'appoggio, più o meno velato, del governatore di Labuan e del rajah. - Non sa chi è costui? - chiese Yanez. - Lui stesso lo ignora, non avendolo mai veduto. Ma tuttavia ha assicurato che quell'uomo è potente e che è amico del rajah - disse il marinaio. Si volse verso il comandante americano: - Volete sbarcare qui? - gli chiese. - Preferirei piuttosto qui che su di un'altra costa. - Non avrete dei fastidi da parte degli inglesi, dopo quello che avete fatto? - Nessuno mi conosce, signore, e poi sono suddito americano e gli inglesi non oseranno molestarmi. D'altronde inventerò una storiella qualunque per spiegare la mia presenza sulle coste di Labuan: un naufragio per esempio avvenuto molto al largo, la presa della mia nave da parte dei pirati bornesi o qualcos'altro. Non inquietatevi per me. - V'incarichereste di affidare una lettera all'ufficio postale di Victoria pel governatore di Labuan? - Figuratevi se vi negherei un tal favore, signore. - Vi avverto che si tratta d'una dichiarazione di guerra. - Me l'ero immaginato, - rispose l'americano. - Mi guarderò dall'avvertire il governatore di averla impostata io. - Yanez, - disse Sandokan, volgendosi all'amico, - preleva dalla mia cassa, che si trova nella mia cabina della Marianna, mille sterline che regalerai all'equipaggio americano e fa' preparare le scialuppe onde sbarchi. Scendo un momento nel quadro a scrivere la lettera pel governatore. Quando tornò sul ponte, l'equipaggio americano che doveva lasciare la nave, escluso il personale di macchina ed i due quartiermastri cannonieri che avevano già firmato l'arruolamento, lo salutò con un formidabile: - Hurrà alla Tigre della Malesia! Hurrà! Hipp! Hipp! Hipp! Sandokan reclamò con un gesto un breve silenzio, poi fatti salire a bordo della nave i comandanti dei prahos e la maggior parte dei suoi Tigrotti, lesse ad alta voce: Noi Sandokan, soprannominato Tigre della Malesia, ex principe di Kini-Ballon e Yanez de Gemerà legittimi proprietarii dell'isola di Mompracem, notifichiamo al signor governatore di Labuan che da oggi dichiariamo la guerra all'Inghilterra, al rajah di Sarawak ed all'uomo che è da loro protetto. Da bordo del Re del Mare: 24 maggio 1868. SANDOKAN E YANEZ DE GOMERA Un urlo terribile, selvaggio, si scatenò come un uragano dai petti delle terribili tigri di Mompracem. - Viva la guerra! Morte ed esterminio alle giacche rosse! - Signore, - disse il comandante americano, tendendo a Sandokan la destra, - vi auguro di dare a quel prepotente di John Bull una dura lezione. Della potenza della nave che v'ho venduto, ne rispondo pienamente e nessun'altra che si trovi in questi mari potrà tenervi testa. Prima però di lasciarvi vi voglio fare una domanda e darvi un consiglio. - Parlate, - disse Sandokan. - La nave non possiede che cinquecento tonnellate di carbone, provvista che, anche economizzata, non potrà durarvi più d'un mese. Servitevi più che potete delle vele, perchè dopo la vostra dichiarazione di guerra, avrete chiusi i porti olandesi e del sultanato di Bruni che si manterranno indubbiamente neutrali e che si rifiuteranno di provvedervi. - Avevo già pensato a questo, - rispose Sandokan. - Mandate, quindi, prima che la guerra scoppi, la vostra Marianna a caricare carbone a Bruni e datele un appuntamento in qualche punto della baia di Sarawak onde la vostra nave non rimanga senza combustibile in sul più bello della guerra. Il carbone per voi non sarà meno prezioso della polvere, ricordatevelo. - In caso disperato andrò a saccheggiare i depositi che gli inglesi hanno su certe isole pel rifornimento delle loro squadre, - rispose Sandokan. - Ed ora, signori, buona fortuna, - disse l'americano, stringendo energicamente le mani ai due antichi pirati di Mompracem. Mise la lettera nel portafoglio e scese la scala. Il suo equipaggio aveva già preso posto nelle imbarcazioni che erano guidate da numerosi pirati. La squadriglia prese subito il largo, dopo un altro fragoroso urrah. Mezz'ora dopo, le imbarcazioni, sbarcato l'equipaggio americano sulla spiaggia di Labuan, fecero ritorno. La Marianna ed i prahos avevano sciolte le vele, pronti a salpare pel nord e raggiungere il porto amico di Ambong, con equipaggi ridotti, essendo la maggior parte dei loro marinai passati sull'incrociatore. - Ed ora, - disse Sandokan, quando ebbe dato gli ultimi ordini ai comandanti dei legni e che questi si misero in marcia, - andiamo a liberare Tremal-Naik ed abbattere la potenza del rajah di Sarawak, suoi alleati e protetti. Un momento dopo, il Re del Mare, come era stata battezzata la poderosa nave americana, si slanciava a tutto vapore verso il sud, per raggiungere la baia di Sarawak.

La barcaccia, che aveva rallentato il cammino, abbordò l'enorme nave presso l'anca di tribordo, sotto la scala che era stata abbassata d'un colpo solo.

Manovrò in modo da coprire la scialuppa dai tiri delle artiglierie avversarie, opponendo ai proiettili i suoi poderosi fianchi, poi la scala fu abbassata d'un colpo solo. L'ingegnere Horward, Darma e Surama con Kammamuri erano usciti dalla torretta di poppa, gridando: - Presto! ... Presto! ... Salite! ... Alcuni marinai avevano già calati i paranchi per issare la scialuppa. Yanez, Sandokan, Tremal-Naik ed i loro compagni si slanciarono sulla scala, dopo d'aver assicurato i ganci. - Finalmente! - esclamò l'americano. - Credevo che non arrivaste in tempo. - A posto gli artiglieri! - gridò Sandokan. - Doppi timonieri alla ruota! ... - Avremo da fare per sbarazzarci della squadra; però siamo forti e veloci, - disse Yanez.

I CORSARI DELLE BERMUDE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Una scialuppa montata dai sei rematori e da un timoniere, si era staccata dalla riva, abbordando la corvetta sotto la scala abbassata. Il colonnello americano il pilota ed il Corsaro ricevettero il timoniere. - Ah, voi, mister Pardell! - esclamò il colonnello. - Non credevo di trovarvi ancora qui! - Corro sempre dove c'è da menar le mani - rispose il capitano. - Ecco il Corsaro, il baronetto William Mac Lellan, di cui avrete già udito parlare, il più audace scorridore del mare delle Bermude. - Vi aspettavamo impazientemente Sir, - rispose il capitano, stendendo la mano - e sono incaricato di portarvi i ringraziamenti del Congresso e quelli del generale Washington. Il baronetto s'inchinò, poi disse: - Vi porto quattrocento tonnellate di polvere, cinquemila fucili con relative baionette, duemila bombe e quattro grossi mortai. In più metto a disposizione della causa americana la mia corvetta ed i miei centocinquanta uomini, scelti fra i migliori corsari che scorazzino l'Atlantico. - Il Congresso pagherà ogni cosa. Sir William alzò le spalle. - Dono tutto alla causa americana, - disse - ad una condizione però. - Quale, sir? - chiese il capitano, stupito di tanta munificenza da parte d'un uomo che tutti credevano di puro sangue inglese. - Mi si permetta di entrare, questa notte stessa, in Boston con un paio dei miei uomini. - È impossibile, sir. - Non è finita la galleria che doveva terminare sotto le casematte del gran bastione di Hamilton? - chiese il colonnello. - Sì, mister Moultrie. Anche la mina per farlo saltare è stata preparata. - Passeremo per di là - disse il Corsaro. - È assolutamente necessario. - Incontrereste la morte, sir, - rispose il capitano. - Le nostre spie ci hanno informato che gl'inglesi questa notte tenteranno una sortita per cacciare i nostri compatrioti da Breed's Hill e da Bunker's Hill. A quest'ora gli assediati devono essere già in marcia e v'incontrereste subito con loro. - Maledizione! - esclamò sir William. - Affare rimandato mio caro baronetto, - disse il colonnello. Una giornata passa presto e domani potrete tentare l'impresa, con maggior successo. Il Corsaro era rimasto silenzioso e, come era sua abitudine, si era messo a passeggiare nervosamente per la tolda. Ad un tratto un fracasso infernale ruppe il silenzio che regnava nella baia. Fumo rossastro s'alzava sopra i bastioni, sopra le lunette, sopra un ridotto di Boston, attraversato da lunghi getti dì fuoco. - Vedete - disse il capitano americano. - Gli assediati cercano di mascherare le loro mosse, bombardando le nostre posizioni. Domani ci sarà grossa battaglia, per ributtare dentro le mura gl'inglesi. - Proprio questa notte! - disse il Corsaro con rabbia. La galleria è ben simulata e per quella potrete sempre entrare, ora che è stata finita - rispose il colonnello. - Testa di Pietra! - gridò sir William. Il bretone era in quel momento occupato a tagliare, con una grossa forbice da una lastra di zinco, piccoli triangoli, sui quali legava fette di lardo, aiutato da Piccolo Flocco. - Per il borgo di Batz! - esclamò, udendosi chiamare. - Che non possa dedicare nemmeno cinque minuti alla pesca degli albatros? Lasciò cadere a terra tutto, e raggiunse il Corsaro, che seguiva con lo sguardo le faville che sprizzavano dalle palle infuocate scagliate dai forti di Boston contro le due alture occupate dagli americani. - Non odi tutto questo baccano? - Per il Borgo di Batz! Lo udrebbero anche tutti i morti sepolti lungo le coste della Bretagna, se tanti cannoni si sparassero a Brest, e non volete che giunga agli orecchi d'un vecchio artigliere? - Che cosa facevi in questo momento? - Preparavo, insieme con Piccolo Flocco, gli ami per catturare gli albatros. Ne vengono molti è vero, signor colonnello, alla foce del fiume? - Si, - rispose Moultrie, ridendo. - Allora spero di prenderne parecchi. I miei uomini si fabbricheranno splendide borse da tabacco ed anche meravigliosi bocchini con le ali di quei predoni degli oceani. - E la guerra? Non odi? - Huff! Quando gli inglesi saranno stanchi di sparare, lasceranno dormire i loro pezzi - rispose tranquillamente il bretone, levandosi di tasca la sua storica pipa e preparandosi a caricarla. - Abbiamo imbarcato quattro mortai che ci hanno mandati i nostri amici francesi - disse il Corsaro. - Dirai al signor Howard di farli collocare sulla tolda: così proveremo il loro tiro d'arcata. - Preferisco i cannoni da caccia. - Alza più che puoi anche quelli e prendiamo parte alla festa di fuoco. Va'! Tutti i forti di Boston infuriavano con un fragore assordante, assecondati da tutte le navi da guerra che si trovavano in porto e dalle batterie galleggianti. I due ridotti americani piantati sulle due alture, tenevano coraggiosamente testa al fuoco degli assediati e coprivano di palle la città, scatenando incendi fra le case di legno, che la guarnigione inglese a malapena riusciva a spegnere. Tutta la baia era in fiamme. Lampi partivano da tutte le parti. A fior d'acqua, sulla riva della Mistica e sulle alture di Brunker's Hill e di Breed's Hill. La corvetta non aveva tardato a prendere parte a quella festa del fuoco come l'aveva chiamata sir William. Il secondo di bordo, insieme con Testa di Pietra ed i più abili artiglieri aveva fatto disporre sul larghissimo cassero dietro i cannoni da caccia, i quattro mortai ricevuti dai corsari francesi ed avevano fatto aprire un magnifico fuoco contro il bastione di Workart, tempestandolo di granate del peso di quaranta chilogrammi. Anche i cannoni da caccia erano entrati in scena e spazzavano le basi e lo specchio d'acqua per impedire alle scialuppe inglesi di avvicinarsi. Lo spettacolo era spaventoso ed il rimbombo assordante. Nonostante il pericolo, gli abitanti di Boston si erano rovesciati in massa verso i bastioni, per godersi quel terribile bombardamento che doveva più tardi rammentare agl'inglesi quello celebre di Gibilterra. Le due posizioni americane tenevano valorosamente testa a quel diluvio di palle, senza per questo interrompere i lavori che dovevano metterli in grado, all'alba, di respingere energicamente l'assalto nemico. Le perdite erano considerevoli, ma maggiori quelle degli inglesi. i quali si lasciavano stoicamente mitragliare dai quattro pezzi da caccia del Tuonante, senza sparare un solo colpo di fucile, per non far conoscere le loro mosse agli americani. Tutta la notte le artiglierie dei forti, delle trincee, dei ridotti e delle navi rimbombarono con un crescendo orribile, poi, verso l'alba i colpi a poco a poco divennero più radi, finché cessarono completamente. Gl'inglesi avevano lasciato la piazza e si preparavano animosamente ad assalire le due alture, le cui artiglierie recavano tanto danno alle case ed alle fortezze.

I PIRATI DELLA MALESIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

La scala fu abbassata e l'ufficiale, Yanez, Ada, Sandokan e tutti gli altri salirono in coperta dove li attendevano ansiosamente il capitano e l'equipaggio. L'ufficiale presentò Yanez al capitano del vascello, un bell'uomo sulla quarantina con due grossi mustacchi e la pelle abbronzata dal sole equatoriale. - È una vera fortuna, signore, l'essere arrivato in così buon punto - disse il capitano stringendo vigorosamente la destra che il portoghese gli porgeva. - Certamente, mio caro capitano. Mia sorella sarebbe morta. - È vostra sorella, signor ambasciatore? - chiese il capitano, guardando la pazza che non aveva ancor pronunciato parola. - Sì, capitano, ma l'infelice è pazza. - Pazza? - Sì, comandante. - Così giovane e così bella! - esclamò il capitano guardando con occhio compassionevole la vergine della pagoda. - Forse sarà stanca. - Lo credo, capitano. - Sir Strafford, conducete la signora nella migliore cabina di poppa. - Permettete però che il suo servo la segua - disse Yanez. - Accompagnala, Kammamuri. Il maharatto prese per mano la giovinetta e seguì l'ufficiale a poppa. - Anche voi, signore, dovete essere stanco e affamato - disse il capitano, rivolgendosi a Yanez. - Non dico di no, capitano. Sono due lunghe notti che non si dorme affatto e due giorni che appena si assaggia cibo. - Dove eravate diretti? - A Sarawak. A proposito, permettetemi, capitano, di presentarvi S.A.R. Orango Kahaian fratello del sultano di Varauni - disse Yanez presentando Sandokan. Il capitano strinse con entusiasmo la mano della Tigre della Malesia. - By God! - esclamò. - Un ambasciatore e un principe sul mio vascello? Ciò è un avvenimento. Non occorre che vi dica, signori, che la mia nave è a vostra disposizione. Mille grazie, capitano - rispose Yanez. - Siete anche voi in rotta per Sarawak? Precisamente, e faremo il viaggio insieme. Quale fortuna! Vi recate forse dal rajah James Brooke? - Sì, capitano, devo firmare un trattato importantissimo. - Lo conoscete il rajah? - No, capitano. - Vi presenterò io, signor ambasciatore. Sir Strafford, conducete questi signori nel quadro di poppa e fate servire loro il pranzo. - E i nostri marinai, dove li alloggerete, capitano? - chiese Yanez. - Nel frapponte, se non vi spiace. - Grazie, capitano. Yanez e Sandokan seguirono l'ufficiale che li condusse in una vasta cabina fornita di lettucci e ammobiliata con molta eleganza. Le due finestre, riparate da grossi vetri e da cortine di seta, davano sulla poppa della nave e permettevano alla luce e all'aria di entrare liberamente. - Sir Strafford - disse Yanez, - chi abbiamo vicino alla nostra cabina? - Il capitano alla vostra destra, e vostra sorella a sinistra. - Benissimo. Scambieremo qualche parola attraverso le pareti. L'ufficiale si ritirò, avvertendoli che sarebbe stato subito servito il pranzo. - Ebbene, fratellino mio, come va? - chiese Yanez quando furono soli. - Va tutto a gonfie vele - rispose Sandokan: - quei poveri diavoli ci credono davvero due galantuomini. - Che cosa ne dici del vascello? - È un legno di prima classe che farà ottima figura a Sarawak. - Hai contato gli uomini di bordo? - Sì, sono una quarantina. - Accidenti! - esclamò il portoghese facendo una brutta smorfia.- Hai paura di quaranta uomini? - Non dico di no. - Siamo in buon numero e tutti scelti, Yanez. - Ma hanno dei buoni cannoni, gli Inglesi. - Ho incaricato Hirundo di venirmi a dire di quali mezzi dispone il vascello. Il ragazzo è furbo e ci dirà tutto. - Quando faremo il colpo? - Questa notte. Domani, a mezzogiorno, saremo alla foce del fiume. - Zitto, ecco lo steward. Il garzone portava, aiutato da due mozzi, un lauto pranzo: due sanguinolenti beefsteaks, un colossale pudding, scelte bottiglie di vino francese e di gin. I due pirati, che avevano appetito, si sedettero a tavola, assaltando bravamente il pranzo. Stavano intaccando il pudding, quando al di fuori si udì un passo silenzioso e un leggero sibilo. - Entra, Hirundo - disse Sandokan. Un bel giovanotto, color del bronzo, ben piantato, con lo sguardo vivo entrò chiudendo dietro di sé la porta. - Siedi e narra, Hirundo - disse Yanez. - Dove sono i nostri? - Nel frapponte - rispose il giovane dayaco. - Che cosa fanno? - Accarezzano le armi. - Quanti cannoni vi sono nella batteria? - chiese Sandokan. - Dodici, Tigre. - Questi inglesi sono ben armati. James Brooke avrà un osso duro da rosicchiare, se gli salterà il ticchio di abbordarci. Con una sola bordata manderemo a picco il suo famoso Realista. - Lo credo, Tigre. - Odimi, Hirundo, e cacciati in testa le mie parole. - Sono tutto orecchi. - Che nessuno dei nostri si muova, per ora. Quando la luna tramonterà, rovesciate i cannoni della batteria e salite in massa sul ponte gridando: al fuoco! al fuoco! I marinai, gli ufficiali e il capitano saliranno in coperta e noi daremo loro addosso, se non si arrenderanno. Mi hai capito? - Perfettamente, Tigre della Malesia. Avete altro da dirmi? - Sì, Hirundo. Quando uscirai di qui, entrerai nella cabina della vergine della pagoda, che è attigua a questa, e dirai a Kammamuri di barricare solidamente la porta e di non uscire finché durerà il combattimento. - Ho capito, Tigre della Malesia. - Vattene e obbedisci. Hirundo uscì ed entrò nella cabina della vergine della pagoda sacra. - Li ammazzeremo tutti? - No, Yanez, li costringeremo ad arrendersi. Mi spiacerebbe uccidere questi uomini che ci hanno accolto con tanta gentilezza. I due pirati terminarono tranquillamente il pasto vuotando parecchie bottiglie, sorseggiarono il thè recato dallo steward e si sdraiarono nei loro lettucci, aspettando pazientemente il segnale per precipitarsi in coperta. Verso le otto il sole sparve sotto l'orizzonte e le tenebre si stesero a poco a poco, sull'ampia superficie d'acqua che diventava rapidamente oscura. Sandokan diede uno sguardo fuori dal finestrino. A babordo, a grande distanza, gli sembrò di vedere una massa nerastra ergersi verso le nubi: a poppa, pure assai lontana, una vela biancastra che radeva l'orizzonte. - Siamo in vista del monte Matang - mormorò. - Domani saremo a Sarawak. Tese gli orecchi, avvicinandosi alla porta della cabina. Udì due persone scendere la scaletta, un bisbiglio, poi due porte aprirsi e chiudersi; una a destra e l'altra a sinistra. - Bene - tornò a mormorare. - Il capitano e il luogotenente sono entrati nelle loro cabine. Tutto va a meraviglia. Accese il suo scibouk che aveva avuto il tempo di salvare dal naufragio insieme alle pistole, alla sua scimitarra e al suo kriss d'inestimabile prezzo, e si mise a fumare colla maggiore tranquillità. Poco dopo udì suonare nella cabina del capitano le nove, poi le dieci, indi le undici. Sussultò come se fosse stato colpito da una pila elettrica. Balzò dal letto. - Yanez - esclamò. - Fratello - rispose il portoghese. La Tigre della Malesia fece due passi verso l'uscio colla mano destra sull'impugnatura della scimitarra. Un grido terribile rimbombò nel ventre del vascello perdendosi sul mare. - Al fuoco! al fuoco! - Saliamo! - esclamò Sandokan. I due pirati, aperta la porta, si slanciarono sul ponte come tigri.

La virtù di Checchina

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Era di paglia nera che aveva perduto il lucido, foderato di velluto nero, con una falda dritta e un'altra abbassata, una piuma nera, piccola, povera, che aveva perduta l'arricciatura e pendeva, sfilacciata, come se avesse preso una grande bagnatura. Visto sulla testa, di sotto in su, il cappello non stava male: ma a guardarlo di dietro, era una pietà. Ecco, ci sarebbe voluta una cappottina di velluto nero, semplice, con un piccolo diadema e un gruppetto sollevato di pennine nere, niente che un fiocchetto, e i nastri anche di velluto che si annodano sotto il mento: ne avevano tutte le modiste, di queste cappottine, e costavano da venti a venticinque lire. Col vestito nero e con la pelliccia, sarebbe stata una cosa meravigliosa. Ma niente, niente: ella non aveva niente di tutto questo, non lo avrebbe mai avuto, tutto era inutile, tutto, tutto, era impossibile. Ebbe una mezz'ora di annullamento nella desolazione, mentre in cucina Susanna grattava la tavola con un grosso coltello, per raschiarne l'unto. Quel rumore monotono, continuo, finì con lo scuoterla, col darle animo. Qualche cosa bisognava fare. Si mise a frugare nel cassetto dell'armadio, fra i vecchi fiori artificiali dai petali sgualciti, fra le piumette rôse dai tarli, fra i rotoletti di straccetti. Vi era una cappottina di raso nero, di due anni prima; la forma era troppo alta, sulle pieghe il raso mostrava la trama di cotone, non vi erano nè fiori nè piume. Ma scucendola, questa cappottina, e rifacendola, nascondendo le pieghe consunte, mettendovi la piuma del cappello rotondo, che si poteva arricciare con le forbici, ne poteva venir fuori un cappellino passabile, ma senza le sciarpe. Subito, presa da una voglia di far presto, si mise all'opera, scucendo, ricucendo, piegando, ripiegando quel poco raso, non riuscendo a celarne le strisce consumate, impazientandosi. Ne venne fuori un certo coso informe, tutto sbuffi e gonfiamenti: ma la penna avrebbe accomodato tutto questo. La tolse dal cappello rotondo e l'appuntò con gli spilli su quello che rifaceva, per provare. Innanzi allo specchio, si guardava, con quel cappellino troppo piccolo sul capo, con la penna che andava di traverso, e vedeva di aver fatto un pasticcio. - Che fai qui? - chiese il marito, arrivandole alle spalle. Ella si rivolse precipitosamente, spaventata come se avesse commesso un delitto, imbarazzata; con quel berretto sul capo. - Che fai qui? - ripetè lui. - Niente: provavo ad accomodarmi un cappello, perchè non ne ho, come tu sai. - Alle solite, neh, Checca mia? Sarebbe meglio pensassi alla minestra di cicoria, che Susanna ha dimenticato di metterci una cotenna grassa di maiale. E dire che lo sai, quanto mi piace la cotenna! - Come ti pare questo cappello? - chiese lei. - E che vuoi che io ne capisca, dei vostri capricci femminili? So molto io, dei vostri cappelli! - Ma pure, dimmelo, Toto - supplicò lei. - Ti sta male, ti sta male, ecco tutto, giacchè vuoi la verità. Era meglio l'altro. Ella si tolse lestamente di capo quel berretto strano e ne staccò la piuma. - Ora non è tempo di far cotesto, Checca - esclamò il dottore, con la sua grossa voce - ora si mangia. A tavola, mentre Toto tagliava il lesso rassegnato, Checchina gli disse del mazzo di fiori, come per caso, guardando nel piatto. - Già, tutti compagni questi nobili - rispose il medico - tutti a un modo. Gli date un pranzo che vi costa su per giù un trentacinque lire, tanto che voi ci mangereste dieci giorni, cavate i quattrini dalle vostre vene, chè vi sfacchinate dalla mattina alla sera, toccando polsi di gente malata, guardando lingue sporche e altre cose più sporche ancora, infine cercate di far buona figura, dandogli da mangiare, lui viene, mangia il pranzo come se nulla fosse, chi si è visto s'è visto, la mattina dopo un mazzo di fiori alla signora! - Così usa, forse - disse ella, guardando nel bicchiere, dove vi erano poche gocce di un vinello bianco dei castelli. - Usa, usa! Non mi parlare dei loro usi, di questi aristocratici. Dammi quella trippa: è fatta col lardo, nevvero, Checca? Usano una quantità di scempiaggini, questi signori: i fiori costano tanto denaro e non servono a niente. Ci voleva il cacio pecorino, su questa trippa. Susanna, perchè non ce lo avete messo, il cacio pecorino? - Non avevo più quattrini, per comprarlo - gridò quella dalla cucina, con un grande rumore di forchette e di coltelli. - Tutto avete speso? - Tutto. - Al solito, sempre la stessa antifona! aveste mai un soldo da restituire! - Ci è stata la mancia al cameriere del marchese - replicò la serva alacremente. - Anche la mancia?! Checchina ingoiò in fretta un bicchiere d'acqua, tutto intiero. - Anche la mancia: ecco a che servono i fiori, a farmi mangiare la trippa senza cacio. Ma se crede così uscire d'obbligo, il signor marchese! Debbono essere affari, debbono essere clienti, quelle trentacinque lire di pranzo ch'egli s'è pappate! Vedremo se è galantuomo, il signor marchese. Frutta, da ieri, non ce ne sono restate? - No - rispose la moglie. - Susanna, porta allora le caldarroste - gridò il medico. Dopo pranzo egli si andò a sedere nel suo scrittoio, aspettando le consultazioni che avrebbero dovuto esserci dall'una alle tre, ma che venivano di rado, una, ogni tre o quattro giorni: per lo più egli apriva un libro di medicina e vi si addormentava sopra, sul seggiolone di pelle nera, coi piedi sotto la scrivania. Checchina era restata a tavola, pensando, rompendo le cortecce vuote delle caldarroste in minuti pezzetti, mentre Susanna sparecchiava. Nella stanza ondeggiava l'odore della cicoria bollita e quello della trippa in umido. - Per la cena basterà l'arrosto di abbacchio e la insalata di patate? - domandò Susanna, tirando a sè la tovaglia e scotendola per farne cadere le molliche di pane. - Basterà - le rispose Checchina, restando ancora al suo posto, incapace di levarsi su, ripresa da quel letargo della mattina. - Ho parlato col padre Fileno, stamane, a Sant'Andrea delle Fratte riprese la serva, familiarizzandosi, in quella benevolenza della digestione. Quel santo sacerdote si lagna, che lei non ci vada più spesso. - Potevi dirgli che Toto ci s'inquieta e mi grida. - Gliel'ho detto che il padrone non ci crede, perchè sa come è fatto dentro l'uomo e perchè vede morire di mala morte tanti cristiani, che Sant'Andrea Avellino, protettore degli agonizzanti, ci scampi e liberi. Ma già questi uomini sono tutti a un modo: stanno bene e si ridono della religione e peccano come tante anime dannate - poi, quando sono ammalati, chiamano Dio e la Madonna... basta, ho detto al padre Fileno che sarei andata oggi a confessarmi. Me le dà due ore di permesso, quando il signore va a Santo Spirito? - Non potresti andare un altro giorno, venerdì? - fece la padrona, come sbadatamente. - No, no, gli ho detto che sarei andata oggi. Perchè vorrebbe mandarmici venerdì? - Va' pure oggi, fa' come vuoi - e si strinse nelle spalle, come una persona che ha fatto tutto quello che poteva. Dopo, ricucita la piuma sul cappello rotondo, ripose tutti quei cenci, quei pezzetti di nastro, quello scuffiotto di raso nero, con un sospiro. Giammai avrebbe osato chiedere dei quattrini a Toto. Si rassegnava, soffrendo, in silenzio, pur di non udire quella grossa voce che calcolava il valore di un soldo e gliene rinfacciava la spesa, pur di non udire le domande sospettose di Susanna. Ora rifaceva le iniziali rosse agli strofinacci, dove le aveva sbagliate, al mattino. Non poteva pensare a quello che le mancava per essere vestita bene: non voleva pensarci, per non affliggersi più. A che contristarsene? Solo un momento, in due ore, si alzò per vedere quello che faceva suo marito. Dormiva, russava sopra un grosso libro, con la bocca socchiusa e storta, la testa china sopra una spalla, il panciotto sbottonato che lasciava vedere la camicia bianca e la camicia di flanella. In cucina Susanna faceva dei piccoli buchi nella polpa rosea dell'agnello da arrostire, per ficcarvi del rosmarino e del pepe. Poi, alle tre e mezzo Toto si svegliò di pessimo umore, chiese il soprabito pesante, il fazzoletto da collo per quando usciva da quel maledetto ospedale, bestemmiò la professione di medico, chi l'aveva presa e chi la prendeva, e se ne andò, sbattendo la porta. Checchina taceva, come sempre, quando lo udiva gridare. Poi Susanna si mise il vestito di lanetta marrone, color monacale, il velo nero sul capo, lo scialletto nero sulle spalle e venne a salutare la padrona. - Raccomandami a Dio - le disse costei, sospirando. - Indegnamente - rispose l'altra, tutta compunta. Finalmente era sola, per due ore, di poter andare, venire, pensare, libera, almeno in questo. Ora più che mai le bruciava dentro la ferita del non aver vestiti. Quelle principesse che ne cambiavano tre al giorno, le cui cameriere vestivano con maggior eleganza di lei, Checchina! Quelle principesse che certo visitavano, nelle ore dei convegni, l'appartamento del marchese d'Aragona! Ella doveva andarci così, come una stracciona, con quella roba vecchia di cui si vergognava? Una forte scampanellata la scosse: restò interdetta, non osando aprire, guardandosi intorno, ritta in mezzo alla tela gialla degli strofinacci. Chi poteva essere? Suonarono di nuovo, più forte. Bisognava aprire. Finì col chiedere a voce tremante, di dentro: - Chi è? - Amici; apri, Checca, sono io, Isolina. - Ah! sei tu - disse Checca, come delusa, aprendo. - Sola, eh? Quanto mi fa piacere! Un bacione, anzi due su questa bella faccia pallida. Che hai, core mio? - Niente: non ho niente. - Hai avuto paura che fossero i ladri? Si sentono tanti brutti racconti, che io faccio sempre domandare chi è , da Teresa. Già Teresa ha sempre da chiacchierare, fuori la porta: ora con un bimbo, ora con una donna, ora con un vecchio: è una disperazione. - Come sei bella, oggi, Isolina! - Non ti pare? - e si levò in piedi, per farsi veder bene. - Tutto per Giorgio, tutto per quel caro amore mio - riprese, sedendosi. - Sei ancora da lui, oggi? - chiese l'altra, dopo una esitazione. - Ancora, sempre che posso, appena ho mezz'ora di libertà, scappo da lui. Oggi, vedi, sapevo che mio marito usciva alle cinque; gli ho scritto, a Giorgio, che sarei andata dalle cinque alle sei. Sai, sono le ore migliori, per gli appuntamenti. Invece quella bestia di mio marito va via alle tre e mezzo e io perdo un'ora e mezzo. Giorgio non andrà a casa sua che alle cinque meno cinque minuti. Ho pensato: ora vado da Checca e sto un po' con lei: mi servirà anche di scusa, se mio marito dovesse domandarmi dove sono stata. Se tu dovessi vederlo, gli dirai che sono stata qui fino alle sei. Tra amiche, sai... - Glielo dirò - e sorrise lievemente. - Questo cappello è nuovo, nevvero? - Sì, nuovo: figurati, non l'ho pagato ancora. Ma la Coppi mi conosce, mi aspetterà. Avevo dei quattrini, ma ho dovuto comprare le scarpette. - Queste qui, lucide, dorate? - Queste qui, core mio: niente meno costano sedici lire, da Carducci, un orrore di prezzo, ma vedi che tacco alto, che impuntura, che punta sottile! - Sono bellissime. - Giorgio adora i piedini ben calzati. Se tu sapessi, come sono strani, gli amanti! Io avevo dei fazzoletti semplici, di tela bianca, con una lettera I ricamata, mi restavano del mio corredo. Che! niente affatto, Giorgio vuole che io porti i fazzoletti di batista, con un merletto intorno, come questo. - È bellissimo. - Costa cinque lire. Poichè gli piace di fare lo scherzetto, di stringere le mani nel manicotto, ho dovuto comprare questo, per nove lire. Ti piace? - È bellissimo. - Non puoi credere, come si spende: è una rovina, ninuccia mia. Faccio una quantità di pasticci, d'imbrogli, di debiti, una cosa da impazzire. Ora, per tutta questa roba che mi serviva, ho pigliato sessanta lire in prestito, da una donna che conosceva Teresa, che dà il denaro a usura. Invece di sessanta, debbo restituirne centoventi, il doppio, a sei lire la settimana. Il brutto è che, se non si paga ogni sabato, quella strega viene, si siede in anticamera e aspetta. Giusto, questa prima settimana non ho avuto da pagare. Che ci è voluto per mandarla via! Ho dovuto pregarla, gridava... - Povera Isolina! - Che importa? Per Giorgio farei tutto. - Dicevi che questa donna presta denari? - Ti serve, forse? - chiese Isolina, alzandole gli occhi in volo. - No, no... dicevo per dire. - Credevo... Ma è difficilissimo averne. Per nulla, minaccia di parlare al marito: una scellerata... - Per carità! Anche quello spillo è nuovo? - Sì, l'ho comprato ieri. Ora si usano i ferri di cavallo, sono in gran moda. Le signore lo hanno in brillanti, io l'ho in argento. Non importa, non vorrei avere i brillanti, vorrei almeno avere un orologetto d'oro, uno di quei piccolini, sai, come un medaglioncino. Non puoi credere che è di terribile non aver l'orologio, quando si ha l'amante! Si sbaglia già sempre l'ora. Arrivi, è troppo presto, non vi è: è una morte lenta. Arrivi tardi, è passato un quarto d'ora, per un altro quarto d'ora egli ti porta il broncio, gli uomini si seccano di aspettare. Sei da lui, ogni cinque minuti gli domandi: che ora sarà? Quello s'irrita di questa domanda. A casa ritorni sempre in ritardo, con una cèra sbalordita che è un miracolo non ti tradisca. Dio mio, che farei per avere un orologio! Adesso, per esempio, che ora sarà? Sono o non sono ancora le cinque? - Io non so: non ce l'ho, io, l'orologio. - Vedi, non so se andare o no. Basta, cara, è meglio che me ne vada. Vieni da me, poi, un giorno? - Certo, verrò. - Fammelo sapere almeno. Ma già, non ci credo. Resti sola, ora, qui? - Sola. - E che fai? - Nulla. - Buon tempo perduto! Un bacio, cara. Purchè io non incontri nessuno! Quando fu sola, nell'ombra del crepuscolo, Checchina si mise a piangere. Ella non aveva nè scarpette dorate, nè i fazzoletti di batista, nè il manicotto, nè lo spillo a ferro di cavallo, nè l'orologio. Piangeva, poichè non aveva niuna di queste cose che servono all'amore.

LEGGENDE NAPOLETANE

682476
Serao, Matilde 1 occorrenze

Regina era più smorta dell'usato, un po' abbassata la testa, errante lo sguardo. E Donnalbina cercava indovinare il pensiero segreto di quella fronte severa. - Mi ricercavate di qualche cosa, Donnalbina? - chiese infine Regina, scuotendosi. - Voleva dirvi che la nostra sorella Donna Romita mi pare ammalata. - Non me ne addiedi. Mandaste per la medesima Giovanna? - No, sorella, non mandai. - E perché? - Ahimè! sorella, dubito che i farmachi possano guarire Donna Romita. - E qual malore grave e strano è il suo, che non trovi rimedio? - Donna Romita soffre, sorella mia. Nella notte è angosciosa la veglia ed agitati i suoi sonni; nel giorno fugge la nostra compagnia, piange in qualche angolo oscuro; passa ore ed ore nell'oratorio inginocchiata, col capo su le mani. Donna Romita si strugge segretamente. - E sapete voi la causa di tanto struggimento, Donnalbina? - chiese con voce aspra Donna Regina. - Io credo saperla - rispose, facendosi coraggio, la sorella minore. - Ditela, dunque. - Ma la vedete voi? - Ve la chieggo. Tardaste troppo. - Donna Romita si strugge d'amore, o mia sorella. - D'amore, diceste? - gridò Regina balzando sul seggiolone. - D'amore. - E che? Debbo io udire da voi queste parole? Chi vi parlò prima d'amore? Chi vi ha insegnato la triste scienza? Di chi io debbo crucciarmi, di Donna Romita che me lo cela, o di voi, Donnalbina, che lo indovinate e me lo narrate? Come furon turbati il cuore dell'una, la mente dell'altra? Sono stata io così poco provvida, cosi incapace da lasciare indifesa la vostra giovinezza. - L'amore è nella nostra vita - rispose con dolce fermezza Donnalbina. Regina tacque un momento. Aveva corrugate le sopracciglia, quasi a ristringere ed a condensare il suo pensiero. - Il nome dell'uomo? - chiese poi duramente. Donnalbina tremò e non rispose. - Il nome dell'uomo? - insistette l'altra. - È un giovane cavaliere, un cavaliere di nobil sangue, bello, dovizioso. - Il suo nome? - Donna Romita è stata affascinata dalla eloquente parola, dallo sguardo di fuoco. Amò certo senza saperlo… - Il suo nome, vi dico. Debbi io pregarvi? - Oh! no, sorella. Ma voi le perdonerete, voi le perdonerete, non è vero? E cercava prenderle le mani. - Che cosa debbo perdonarle? Ditemi il nome del cavaliere. - Pietà per lei. Ella ama don Filippo Capace. - No!! - Lo ama, lo ama, sorella. Chi non l'amerebbe? Non è egli valoroso, galante con le donne, seducente nell'aspetto? Quando egli mormora una parola d'amore, il cuore della fanciulla deve struggersi in una dolcissima felicità; quando il suo labbro sfiora la fronte della fanciulla, può ella invidiare le gioie degli angeli? Essere sua! Sogno benedetto, aura invocata, luce abbagliante! Pietà per nostra sorella! Essa lo ama - e cadde ginocchioni, balbettando ancora vaghe parole di preghiera. - Ma per chi mi chiedi pietà? - gridò Donna Regina, rialzando bruscamente la sorella in un impeto di collera per chi me la chiedi? - Per Donna Romita… - rispose l'altra smarrita. - Chiedila anche per te. Tu, come lei, ami Filippo Capace. - Io non lo dissi! - esclamò Albina folle di terrore. - Tu l'hai detto. L'ami. Ed io non posso, non posso perdonare. Io amo Filippo Capace - dice con voce disperata Regina. Le ombre della notte involgevano la casa Toraldo: una notte senza speranza di alba. Profondo è il silenzio nell'oratorio. La lampada di argento, sospesa davanti ad una Madonna bruna, brucia il suo olio profumato, diradando il buio con una luce piccola ed incerta. Brilla una sola scintilla nella veste d'argento della Vergine. Se si tende bene l'orecchio, si ode un respiro lieve lieve. Non sul velluto rosso del cuscino, non sulla balaustra di legno lavorato dell'inginocchiatoio, ma sul marmo gelido del pavimento è mezza distesa una forma umana; l'abito bianco e lungo in cui è avvolta ha qualche cosa di funebre. Donna Romita è là da più ore, dimentica di tutto, nell'abbandono di tutto il suo essere, nel profondo assorbimento dell'idea fissa. Ella non sente. il freddo dell'ambiente, non vede l'oscurità, non sa nulla del tempo, non sente lo spasimo delle sue ginocchia, non sente lo spasimo di tutta la sua vita; ella non sente che il suo pensiero tormentoso, onnipresente, onnipotente. - Madonna santa, toglimi questo amore! Madonna santa, strappami il cuore! Madonna santa, fammi morire, fammi morire, fammi morire! Toglimi questo amore! E le invocazioni si moltiplicano; essa stende le braccia alla immagine sacra e torna a chiedere la morte. La fronte ardente si curva sino al suolo, le labbra baciano il marmo, tutto il corpo si torce nella disperazione. Ad un tratto un singhiozzo interrompe il silenzio. Chi piange presso di lei? È forse l'eco del suo dolore? È forse la sua ombra, quest'altra fanciulla vestita di bianco che piange e prega in un angolo! Sì, è l'eco del suo dolore, è la sua ombra che si desola; è Albina. Donna Romita fugge, fugge invasa dal terrore e dalla vergogna, lasciando nell'oratorio un amore ed una sciagura simile alla sua. In quell'ora medesima, nella vasta camera da letto, sola, seduta presso il tavolo di quercia, veglia Donna Regina. Sta immobile, non prega, non piange, non trasalisce. Tutto il volto pare scolpito nel granito, solo ardono gli occhi di un fuoco consumatore. Passano le ore sul suo capo altero, passano le ore sul suo cuore straziato, ma pel loro passaggio non si cangia il suo strazio. Allegre le vie della vecchia Napoli nella primavera novella dell'anno, per la gioia degli uomini; lieto lo scampanìo delle chiese. È la Pasqua di Risurrezione. La pace dal cielo scende sulla terra, nei fiori e nella luce primitiva. Il mondo rivive, rinasce la sua gioventù, un istante sopita. Nell'aria si respira amore. Le due sorelle minori hanno chiesto a Donna Regina un colloquio particolare ed essa lo ha accordato; era tempo che le tre sorelle non si vedevano, l'una fuggendo le altre, mettendo la mestizia e il duolo nella loro casa, lo scompiglio tra i famigliari. Donna Regina è nella grande sala baronale, dove in antico si teneva corte di giustizia; è splendidamente vestita; ha indosso i gioielli magnifici di casa Toraldo, ha daccanto, sovra un cuscino, la corona ingemmata di zaffìri, di rubini e di smeraldi, lo scettro baronale; sul volto un'austerità calma, quasi decisa. Entrano Donnalbina e Donna Romita. Sono vestite di bruno, senza ornamenti. La gaia giovinezza di Donnalbina è svanita, è svanito il suo soave sorriso, è perduta la sua bionda bellezza. Donna Romita china il capo, abbattuta; ancora non ha avuto il tempo di esser giovane e già si sente irresistibilmente attirata dalla morte. Esse s'inchinano a Donna Regina ed ella rende loro il saluto. - Parlate anche per me, Donnalbina - mormora a bassa voce Donna Romita. - Veniamo a dirvi, sorella nostra - prende a dire Donnalbina - che dobbiamo dividerci. Regina non trasalisce, non batte palpebra, aspetta. - È mia intenzione, è intenzione di Donna Romita, dare una metà della nostra dote ai poveri e l'altra parte dedicarla alla fondazione di un monastero, dove prenderemo il velo. - Ogni monaca di casa Toraldo ha diritto di diventare badessa nel monastero che ha fondato - rispose Regina con tono severo. - Sia pure. Attendiamo le vostre risoluzioni, sorella. Ella non rispose. Pensava, raccolta in se stessa. - Siateci generosa del vostro consenso, Donna Regina. Troppo vi offendiamo, è vero… - Desistete - fece quella con un moto di fastidio. - Non desistiamo, no - riprese Donnalbina, affannandosi. - Dio e voi offendemmo. Grave il peccato, grave l'espiazione. Ecco, ancora non giunsero per noi i venti anni e noi abbandoniamo questo mondo così bello, così ridente; noi lasciamo la nostra casa, le nostre dolci amiche, e care abitudini; lasciamo voi, sorella amata, per quanto offesa. Il chiostro ne aspetta. a voi l'onore di conservare il nostro nome, a voi le liete nozze, l'amore dello sposo, il bacio dei figliuoli… - Voi v'ingannate, o sorella - rispose Donna Regina lentamente. - È da tempo che ho deciso prendere il velo in un convento da me fondato. Un silenzio tristissimo segue le infauste parole. - Io non posso sposare Filippo Capace - riprese ella, mentre una vampa di sdegno le correva al viso. - Egli mi odia. - Ahimé! io gli sono indifferente - mormorò Donnalbina. - Io anelo al chiostro. Egli mi ama - pronunziò con voce rotta Donna Romita. E le due sorelle baciarono Donna Regina sulla guancia e ne furono baciate. - Addio, sorella mia. - Addio, sorella mia. - Addio, sorelle. Donna Regina si alzò, prese lo scettro d'ebano torchiato d'oro, e lo franse in due pezzi. E rivolgendosi al ritratto dell'ultimo barone Toraldo, gli disse inchinandolo: - Salute, padre mio. La vostra nobile casa è morta! Non hanno parole le brune vòlte dei monasteri, la pallida luce dei cere trasparenti, il profumo eccessivo e pesante dell'incenso, la profonda voce dell'organo, le bige pietre sepolcrali; non han parola le fredde celle, il nudo e duro letto dove è scarso il sonno, il cilicio sanguinoso, le pagine distrutte dalle lagrime, i crocefissi distrutti dai baci; non han parola i volti ingialliti, gli occhi cerchiati di nero, i corpi consunti, ma rianimati sempre da una fiamma rinascente; non han parola le convulsioni spasmodiche, le allucinazioni, le estasi dolorose. Altrimenti storie meravigliose e drammatiche sarebbero narrate al mondo; altrimenti noi sapremmo tutta la vita delle tre sorelle; altrimenti noi sapremmo il giorno che finì la loro tortura. Ma il giorno, che importa? Sappiamo noi se dopo non si ami ancora? Finisce, forse, l'amore? Noi non possiamo, non possiamo segnare il suo ultimo giorno, né la sua ultima parola.

IL PAESE DI CUCCAGNA

682486
Serao, Matilde 2 occorrenze

E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull'alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino: - Oh, Carmela! - Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso. - Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh… già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì. - Non l'ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta. - Ti assicuro che non vi era affatto. - Non lo avrai visto, - ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, iamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature! E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. - E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l'altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l'innamorato mio e…un'altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un'ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l'altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò. - Oh, povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. - Deve venire quel giorno, deve venire… - susurrò l'appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. - Possa passare un angiolo e dire amen mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. - Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di' la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, - non hai niente da dare, ai bambini, oggi? - Niente, - disse con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l'altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te lo renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell'Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela. La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull'orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene. - Ebbene? - chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica. - Niente! - disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca. - E che ti pare! - esclamò il giovanotto, irosamente. - La femmina sempre femmina è. - Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? - disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata. - Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti uoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te… - Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. - Non me lo dire più. - Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo! - Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? - osò chiedere, ella. - Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire? - Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca. - Possa morire uccisa la miseria! - bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. à qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie. - Non ci passi, per casa? - pregò lei con gli occhi, con la voce. - Se ci passo, passerò assai tardi. - Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, - disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona. - E non mi posso fermare… - Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare? - E va bene, - annuì lui, con indulgenza, - va bene. Addio, Carmela. - Addio, Raffaele. Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell'Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi. La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, - mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant'anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall'anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n'era, al giuoco del lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti. Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l'acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall'androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente: - Donna Rosa, volete chiamare Maddalena? Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano: - Maddalena, Maddalena! - Chi è? - rispose una voce roca, dall'interno. - Tua sorella ti vuole; scendi. - Ora vengo - disse la voce, più piano. - Grazie, donna Rosa, - mormorò Carmela. - Poco a servirvi, - rispose l'altra, brevemente, allontanandosi. Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l'androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un'alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, - la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa. Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po' smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno. - Come stai? - disse con voce tremula Carmela. - Sto bene, - fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. - E mamma come sta? - Come una vecchiarella… - Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta? - Oh quella sta piena di guai… - Miseria, eh? - Miseria. Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso. - Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, - disse finalmente Carmela. - Niente, eh? - Niente. - È cattiva sorte la mia, - mormorò Maddalena, a bassa voce. - Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all'Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all'Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!… - La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, - disse piano, Carmela, - speriamo quest'altro sabato. - Così speriamo, - rispose l'altra, umilmente. - Addio, Maddalena. - Addio, Carmela. Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell'androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alle cinque e mezzo il cortile dell'Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell'Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell'Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l'usciere li riportava all'Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all'usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l'ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

In piazza San Ferdinando le carrozze da nolo, dal soffietto levato, erano tutte lucide di pioggia, stillanti acqua da tutte le parti: bagnati sino alle ossa, grondavano di pioggia i lunghi e magri cavalli dalla testa abbassata: raggricchiati, col cappelluccio sformato sugli occhi, col capo abbassato sul petto, con le mani convulsamente ficcate nelle tasche dello sdrucito cappotto, i cocchieri ricevevano pazientemente l'ondata che cadeva dal cielo; e tutto era triste, intorno, il palazzo reale, la piazza, il porticato e la chiesa di San Francesco di Paola, la Prefettura, il Comando di Piazza e i grandi caffè, tutto triste, malgrado la grandezza e i tanti lumi accesi dietro i cristalli, triste anche la maestosa mole del teatro San Carlo, tutto il notturno paesaggio avvolto nella fragorosa burrasca che non aveva posa, traendo, dalla stanchezza, nuova forza a batter case, strade e uomini. I passanti erano rari; e apparivano come ombre di creature infelici, sotto gli ombrelli sgocciolanti di pioggia, oppure rasentavano le muraglie, non avendo l'ombrello, col bavero alzato, e il cappello molle, fradicio di acqua. Qualche raro viandante scantonava, da Toledo a via Nardones, una via abbastanza larga posta nel miglior centro della città, e intanto conservante un aspetto equivoco, quasi di strada male abitata e mal sicura: una via senza tetraggine, ma spirante la diffidenza delle chiuse finestre, dei balconi scarsamente illuminati, dei portoncini socchiusi, dove lo sguardo si perde in un buio androne. Qualche grande portone, ogni tanto, spezzava questa impressione di sospetto, col chiarore del suo gas e l'ampiezza del suo cortile: ma qualche bottega, dai poco puliti cristalli velati di una stoffa rossastra, ermeticamente chiusa, illuminata fiocamente, dietro cui si disegnavano delle bizzarre ombre piccolissime o gigantesche, gittava di nuovo un vago turbamento nell'animo di coloro che se ne tornavano alle loro case, piegati sotto il peso delle cure e della lunga fatica. A un certo punto, una donna, appena coperta da uno scialle nero, sul vestito di lanetta gialla e sulla camiciuola bianca, scantonò, da Toledo, salendo lentamente la via Nardones, tenendo le due cocche del fazzoletto che le copriva il capo, strette fra i denti e riparandosi dalla pioggia, sotto un ombrello piccolo piccolo. Ella andava con precauzione, levando i passi in modo da bagnare il meno possibile le sue scarpette di pelle lucida e mostrando le calzette rosse di cotone. Quando passò sotto un lampione dalla luce rossiccia, levò il capo e apparve il volto, oramai stanco e triste, sotto il belletto grossolano, di Maddalena, la infelice sorella di Annarella e di Carmela. Ella arrivò innanzi alla equivoca bottega dalle tendine rossastre, e si fermò davanti ai cristalli, come se tentasse di vedere una persona, un fatto che accadesse là dentro, senza osare di aprire. Ma, salvo il movimento di certe ombre nere incappellate, non si distingueva nulla: ed ella, dopo aver esitato un bel pezzo, si decise a metter la mano sulla maniglia e a schiudere uno sportello della bottega: introdusse la testa dallo spiraglio, timidamente, e chiamò: - Raffaele, Raffaele… - Ora vengo, - rispose la voce del giovanotto camorrista, di dentro, con una lieve intonazione di impazienza. Subito, ella rinchiuse: e sotto la pioggia, pazientemente, si mise ad aspettare. Qualche uomo passava e le gittava una strana occhiata, eccitato da quell'incontro, in quella bizzarra temperatura burrascosa in quell'ora della notte che si avanzava, in quella via deserta. Ma ella chinava gli occhi, quasi si vergognasse: e sogguardava l'estremità di via Nardones, per vedere chi ne spuntasse, temendo continuamente di esser sorpresa. A un tratto trasalì: due popolani si avvicinavano, risalendo la via Nardones, senza discorrere fra loro, prendendosi sulle spalle tutta la pioggia: un vecchio sciancato, trascinante la gobba e la gamba più lunga, il lustrino Michele, senza la sua cassetta dove lustrava le scarpe, e un altro, magro, pallido, con certi occhi ardenti nelle occhiaie incavate, Gaetano, il tagliatore di guanti. Nel riconoscere il marito di sua sorella Annarella, suo cognato, Maddalena fu presa da un fremito di paura; si strinse al muro, come se volesse rientrarvi, abbassò l'ombrello e pregò, mentalmente, perché Gaetano non la riconoscesse, con le labbra che non arrivavano a balbettare le parole della preghiera. Fremeva, fremeva…temendo che la bottega si aprisse in quel momento e che Gaetano riconoscesse colui che usciva di là dentro. Ma Gaetano, il tagliatore di guanti, ricevendo sul capo l'ondata della pioggia, non badava a coloro che si trovavano nella strada, fortunatamente per Maddalena: né la porta della bottega si schiuse, quando egli passava. Anzi i due popolani scomparvero, uno dopo l'altro, in un portoncino lontano una quarantina di passi, dove anche qualche altro uomo, prima di loro, era sparito. Ma sotto il suo rossetto, Maddalena si sentiva le guance gelide dalla paura e riaprì la porta della bottega, pregando, invocando, sottovoce: - Raffaele, Raffaele… - Vengo, vengo, - rispose il giovanotto, seccato, senza nemmeno accorgersi che la povera donna aspettava da tempo, sotto la pioggia, nella notte, nella via spazzata dal vento. Ella sospirò, profondamente, e gli occhi che non avevano più bisogno di bistro, tanto li sottolineava un ombra nera di stanchezza e di dolore, si riempirono di lacrime. La pioggia adesso aveva inzuppato l'ombrello di cotone verdastro e scendeva sul capo di Maddalena, le immollava i neri capelli lucidi e le rigava la faccia e il collo, un'acqua tiepida, come se fosse di lagrime. Ma ella non sentiva neppure quello scorrere della pioggia, fatta insensibile, e non vide le altre tre o quattro persone, che sbucando da Toledo, risalendo verso l'altitudine di via Nardones, scomparvero nel portoncino, dove si erano cacciati Michele il lustrino e Gaetano il tagliatore di guanti. Di dentro la bottega, le ombre si agitarono, mentre un fragore di voci che discutevano, si levava, ed ella tese l'orecchio, ansiosamente, sentendo che Raffaele bestemmiava e minacciava. Ah! non potette resistere al tumulto delle voci irose e schiuse nuovamente la porta, gridando, supplicando: - Raffaele, Raffaele! Ancora altre parole colleriche scoppiarono, dall'una parte e dall'altra, fra coloro che bevevano e giuocavano in quel losco caffettuccio. E Raffaele, messosi in capo il cappello con un pugno, uscì dalla bottega, come respinto da chi vi si trovava: trovandosi avanti quella figura umile di Maddalena, tutta bagnata, col rossetto stinto sulle guance, con la faccia stravolta dalla disperazione, egli bestemmiò come un sacrilego, e le diede uno spintone brutale. - Andiamocene, andiamocene, - disse lei, senza badare a quell'atto e a quelle parole di bestemmia. Il camorrista la mandò a farsi uccidere, furiosamente. Ma pioveva e egli non aveva ombrello, il giacchettino corto lo riparava assai male, e si mise sotto l'ombrello, bestemmiando fra i denti, ancora. - Abbi pazienza, abbi pazienza, - diceva lei, allungando il passo sul selciato, per stare sempre vicino a lui, abbassando l'ombrello dalla sua parte, per non farlo troppo bagnare. - Ma non lo sai, che al bigliardo non ci devi venire? - le disse il giovanotto, con una collera repressa. - Io mi secco di far la figura del ragazzo, che lo vengono a prendere, alla scuola. Mi secco! - Abbi pazienza, non ho potuto resistere, - mormorò lei, bevendo le lacrime che le scendevano sulle guance e che non poteva asciugare. - Io ti lascio, quanto è vero il nome di Gesù, ti lascio! Hai il difetto di tua sorella, tu: stracciata che mi faceva schifo, mi veniva a cercare, dovunque, per farmi burlare dai miei amici. L'ho lasciata per questo, capisci? - Povera sorella mia, - mormorò lei, lamentandosi. - Tu non sei stracciata, tu: ma mi fai scorno lo stesso, capisci? - Capisco. - Se no, ti lascio come ho lasciato Carmela: sono un giovanotto d'onore, hai capito? - Ho capito. - E non ci venir più. - Non ci verrò più. Continuavano ancora questo dialogo, egli furioso della perdita al giuoco dello zecchinetto, della rissa coi compagni e della mancanza di denaro, ella, contrita, sentendo che quei maltrattamenti erano la giusta punizione del tradimento fatto a sua sorella: tanto che, mentre egli mordeva, nell'angolo delle labbra, il suo mozzicone spento e seguitava a malmenarla, rinfacciandole la sua infelice esistenza, vilipendendola con ogni ingiuria, ella andava accanto a lui, pallida, poiché tutto il rossetto si era dileguato sotto la pioggia, con la camiciuola intrisa di acqua che le si attaccava alle spalle e i capelli che le s'incollavano sulla fronte, andava, abbassando maternamente l'ombrello dalla sua parte, sopportando l'insulto, ebbra di dolore e di pentimento, ripetendo macchinalmente: - È poco, è poco… Lassù, tutti quelli che erano entrati nel portoncino a mano destra di via Nardones, erano saliti per una scaletta di un piano solo, dirimpetto alla scala principale, un po' più grande: erano entrati in un quartierino di due stanzette che si affittavano per uso di studio, ome diceva il padrone di casa, visto che non vi era cucina. Ma le due stanzette erano così basse di soffitto e così scarsamente illuminate da due finestrelle, erano così freddi i pavimenti dai mattoni rossastri, così sporche le carte da parati e così unta la vernice delle porte e delle finestre, che nessun meschinissimo notaio, o avvocato povero, o medico senza clienti, o commerciante di loschi affari, vi restava più di un mese. Il ciabattino che serviva da portiere e gli abitanti che passavano dalla scala grande, erano dunque abituati a veder salire e scendere continuamente visi nuovi, giovani e vecchi, uscieri e mezzani d'affari, una sfilata di persone dalle facce scialbe e dagli equivoci sguardi. Chi si occupava delle persone colà abitanti? Nessuno, neppure il portiere che non aveva stipendio dagli inquilini del quartierino, e che non si curava, quindi, dei cambiamenti di affittuario. Sulla scala principale abitavano persone affaccendate, affittacamere, maestri di calligrafia, un dentista di terz'ordine, una levatrice e altra gente curiosa, bizzarra, che saliva e scendeva, presa dai suoi interessi, dai suoi affari, dalla sua decente miseria, o dalla sua inutile corruzione: gente che badava poco al vicinato, tanto che lo studio empre in preda a un nuovo inquilino, o deserto di abitanti si potea dire isolato. Il cartello si loca i stava, sul portone, tutto l'anno: tanto non era possibile trovare un affittuario ad anno, e ogni mese si era alle stesse. Quando il quartierino era affittato, allora la chiave, all'imbrunire, la portava via l'inquilino: quando era vacante, il ciabattino la teneva sul suo banchetto, e, assentandosi, la consegnava alla carbonaia dirimpetto. La scaletta del quartierino era qua e là, sbocconcellata: lubrica e pericolosa per chi non avesse buone gambe e buoni occhi. Adesso, in quell'agosto, da un paio di mesi, la casetta era stata presa in affitto da un signore giovane, decentemente vestito, come un provinciale quasi elegante, grasso, grosso, con un collo taurino, e una faccia dove il rosso del pelo si mescolava al rosso della carnagione, dandogli una fisonomia scoppiante di sangue. Così lo studio i iapriva ogni tanto nella settimana, per qualche ora, e due o tre persone vi venivano, talvolta di più. Scomparse nella scaletta, non si udiva più nulla, nulla appariva dietro gli sporchi vetri delle finestre: solo, dopo qualche ora, quelle persone ricomparivano, ad una ad una, alcune rosse in viso come se avessero lungamente gridato, altre pallide come se le divorasse una collera repressa. Sparivano, ognuna per la sua strada, talvolta senza che le vedesse neppure il portinaio. Ma in una sera della settimana, sempre la stessa, convenivano nello studio ette od otto uomini: una lampada a petrolio, sudicia, coperta da un paralume di carta verde, che poteva costare tre soldi, illuminava la stanzetta nuda e sporca: i soli mobili erano un tavolino greggio e otto o dieci sedie scompagnate. In quella sera il conciliabolo durava sino oltre la mezzanotte e spesso, sui vetri, si disegnava bizzarramente qualche ombra gesticolante, che qualche volta si appoggiava agli sportelli, guardando macchinalmente nella tetra oscurità del cortiletto, quasi vi vedesse le apparizioni del proprio spirito agitato; il ciabattino, stanco della sua dura giornata gittava una occhiata indifferente alle finestre del quartierino, le vedeva ancora illuminate e crollando le spalle se ne andava a dormire in uno stambugio, una specie di sottoscala. Il cortiletto restava al buio, il portone era socchiuso: ancora qualcuno andava e veniva, con precauzione, dalla cosidetta scala grande, qualche misterioso cliente notturno del dentista, qualche cliente frettoloso che veniva a chiamare la levatrice: e costoro schiudevano senza far rumore la porta, per andarsene. Era dopo la mezzanotte che gli ospiti del dottor Trifari se ne andavano dall'ammezzato, tutti insieme, silenziosi, accalcandosi uno dopo l'altro, per uscir via più presto. L'ultimo si tirava dietro la porta del quartierino, con un rumore di legno vecchio crocchiante. Le due stanzette, che componevano lo studio, icadevano nella loro solitudine, e per la città si perdevano coloro che avevano colà palpitato, nell'ansietà del loro sogno. Ma in quella triste serata, il povero ciabattino, febbricitante, sentendo nelle ossa il brivido della terzana e l'umidità dell'aria temporalesca, era andato a letto dall'imbrunire, lasciando aperto il portone, ravvolgendosi nella sdrucita coperta e nel cappotto lacero, che portava durante la giornata. Così, nello stordimento della febbre che gli era sopraggiunta e che gli metteva un macigno sul petto, egli intese lo scalpiccìo di coloro che salivano e scendevano, dalla scala grande e da quella dell'ammezzato, e due o tre volte gli parve che delle voci si levassero, dallo studio, ove oveuna delle finestre era aperta, mentre il vento sciroccale che portava la pioggia, ingolfandovisi, faceva vacillare la fiammella della lampada a petrolio. Sul pavimento dissestato del cortiletto, continuava a cadere la pioggia, coprendo qualunque altro rumore: a un certo punto, la finestra fu chiusa e non si udì più nulla. Poi, più tardi furon chiuse anche le imposte e tutto ricadde nell'ombra profonda. Pure, colà dentro erano raccolti degli uomini. E primo a giungere era stato Trifari, il padron di casa del quartierino: aveva acceso il lume ed era penetrato nella seconda stanza, ad accomodare certe cose, andando e venendo, col cappello un po' indietro sulla fronte: malgrado lo scirocco, per la prima volta, sulla faccia rossastra era scomparso il colore: e sulla fronte qualche gocciolina di sudore appariva. Ogni tanto si fermava, quasi si pentisse di quello che andava facendo o che andava pensando: ma si rianimava da quel momento di abbattimento, subito. E quando lo stridulo campanello dello studio innì la prima volta, il dottor Trifari ebbe un sussulto e stette incerto, quasi non osando di aprire. Pure, andò: e schiudendo solo a metà il battente, con precauzione, lasciò passare Colaneri che aveva una faccia assai torbida e tutte le spalle bagnate, poiché il piccolo e gramo ombrello gli riparava solo il capo. Scambiarono la buona sera, a voce bassa. L'ex-prete, dagli sguardi guardinghi dietro gli occhiali, si asciugava con un fazzoletto di dubbia bianchezza le mani bagnate, le mani grasse e floscie e biancastre, che sono speciali ai sacerdoti. Non si parlavano. Una medesima, complessa angoscia li opprimeva, tanto che la consueta verbosità meridionale ne era domata; e tutto l'eccitamento del passato, vinto da una serie di delusioni, pareva si fosse risoluto in un esaurimento di tutte le forze. A un tratto, levando il capo, Colaneri domandò: - Verrà? - Sì, - soffiò fra le labbra, il dottore. - Non ha sospetti? - Nessun sospetto. Una raffica di vento s'ingolfò nella stanza e fu per smorzare il lume, fu allora che Trifari andò a chiudere i vetri. - Tutto quello che facciamo, è necessario, - soggiunse il professor Colaneri, ripetendo ad alta voce la scusa, che andava ripetendo, da qualche giorno, alla sua coscienza. - È impossibile andare più innanzi, - osservò, con voce tetra, il dottore, mentre, per darsi un'aria di disinvoltura che non aveva, accendeva un sigaro, lungamente, lasciando spegnere i fiammiferi. - Il rapporto che hanno fatto contro di me al Ministero è terribile. - disse Colaneri, sottovoce, con gli occhi bassi. - Ho una quantità di nemici, giovanotti che ho riprovato agli esami, capisci. Mi hanno denunziato al preside del liceo, dicendogli che ho venduto il tema dell'esame a dieci studenti: hanno messo anche i nomi… - Come hanno potuto saper questo? - chiese il medico, lentamente. - Chissà! Ho tanti nemici… il preside ha fatto un orribile rapporto, io sono minacciato. - Di destituzione? - Non solo… di processo… - Eh, via! - Tanti nemici, Trifari, tanti! La minaccia è grave: come potrò provare la mia innocenza? - Li hai poi venduti, questi temi?… - borbottò cinicamente il dottore, buttando via il suo sigaro. - La paga è così meschina, Trifari ! E gli esami sono tutta una impostura! - Se ti fanno un processo, è male… - Sono perduto, se mi processano. Bisogna aver la fortuna in mano, questa volta, per forza, capisci? È necessario: se no, sono rovinato. Non mi resta che tirarmi un colpo di rivoltella, se mi processano. Dobbiamo vincere, Trifari! - Vinceremo, - affermò l'altro. - Io ho una quantità di guai, al mio paese e qui. Mio padre ha venduto tutto; mio fratello invece di tornare a casa. dopo aver fatto il soldato, per la miseria, si è arruolato come carabiniere; mia sorella non si marita più, non ha più un soldo, è ridotta a cucire i vestiti delle contadine ricche… Avevamo poco, io ho mangiato tutto… una quantità di debiti, di obbligazioni… Il padre di quello studente che firmò la cambiale a don Gennaro Parascandolo, vuole darmi querela per truffa… dobbiamo vincere, Colaneri, non possiamo più vivere una settimana senza vincere… io sono più rovinato di te… Suonarono pian piano. - È lui, forse! - domandò Colaneri, con un leggiero tremito nella voce. - No, no, - rispose Trifari. - Viene più tardi, quando ci saremo tutti… - Chi lo porta? - Cavalcanti. - Egli non ha sospetti, dunque? - No, niente. - E lo spirito, nulla gli dice? - Pare che lo spirito non si possa opporre alla fatalità, perché nulla gli dice. - Fatalità! fatalità! Suonarono nuovamente. Trifari andò ad aprire. Era l'avvocato Marzano, il vecchietto arzillo, bonario, sorridente. Ma una improvvisa decrepitezza parea che lo avesse assalito: il pallore del volto si era fatto giallastro, i mustacchi pepe e sale erano tutti bianchi e pioventi radi sulle labbra. Il sorriso era scomparso, come se per sempre, e all'approssimarsi della morte, fosse sparito dalla sua anima il criterio buono dell'esistenza. Entrando, sospirò. Era tutto bagnato; il soprabito luccicava di goccioline d'acqua, dovunque, e le scarne mani tremavano. Si sedette, silenzioso: tenne il cappello sul capo, abbassato sulle orecchie, e la bocca solamente conservava l'antica consuetudine di muoversi continuamente, masticando cifre. Adesso aveva appoggiato al bastone il mento aguzzo, dove una barba incolta cresceva, e si assorbiva nei suoi pensieri, senza neppur udire quello che dicevano fra loro Trifari e Colaneri. A un tratto, anche lui, avendo lo stesso pensiero dominante, domandò: - Verrà? - Verrà, sicuramente. - risposero insieme, gli altri due. - Non se lo immagina? - Non s'immagina niente. - Questi assistiti, vedono assai, o non vedono nulla. - Meglio così, - mormorarono gli altri due. Il dottor Trifari, udendo bussare alla porta, andò prima nella seconda stanza a prendere tre o quattro altre sedie e le collocò intorno al grezzo tavolino. Entrarono Ninetto Costa e don Crescenzo, il tenitore di Banco lotto, al vico del Nunzio. L'agente di cambio aveva perduto tutta la sua eleganza. Era vestito alla meglio, con un abito da mattino, su cui un troppo chiaro soprabitino aveva larghe chiazze di acqua: sulla cravatta di raso nera, era confitto uno spillo di strass. con l'eleganza era anche sparito il suo bel sorriso di uomo felice, che gli scopriva i denti bianchi. L'agente di cambio andava, a stento, di liquidazione in liquidazione, senz'arrischiarsi più, non osando più giuocare, avendo perduta tutta la sua audacia; e arrivando solamente a tenere a bada i suoi creditori, che gli avevan ancora fede, così, perché il suo nome era conosciuto in Borsa, perché suo padre era stato un modello d'integrità e perché egli stesso era stato così fortunato, che tutti ancora credevano alla sua fortuna; ma il disgraziato sapeva che era giunta l'ora della crisi, che non avrebbe potuto neppure pagare gli interessi dei suoi debiti, e che il nome di Ninetto Costa sarebbe stato quello di un fallito, fra poco. Oh, aveva smesso tutto, casa sontuosa, equipaggi, amanti di lusso, viaggi, pranzi e vestiti inglesi di Poole, ma tutto questo sacrificio non bastava, non bastava, poiché il cancro che gli rodeva il seno, il cancro che rodeva tutti, non era stato estirpato, poiché egli continuava disperatamente a giuocare al lotto, preso oramai totalmente, anima e corpo, chiudendo gli occhi in quella tempesta, per non veder venir l'onda che lo avrebbe sommerso. Accanto a lui, don Crescenzo, dalla bella faccia serena, dalla barba castana ben pettinata, aveva anche lui le tracce di una decadenza iniziale. A furia di stare a contatto coi febbricitanti, come chi tocca le mani troppo calde, qualche cosa gli si era attaccato: e innanzi alle disperate insistenze dei giuocatori, egli era arrivato a far credito ai giuocatori. In qual modo resistere alle supplichevoli domande di Ninetto Costa, alle pretese che nascondevano una vaga minaccia di Trifari e Colaneri, alle nobili promesse del marchese Cavalcanti, a quelle diverse forme di preghiere? Sul principio faceva loro credito dal venerdì al martedì mattina, giorno in cui preparava il versamento allo Stato, ed essi rinnovando ogni settimana il miracolo, arrivavano a restituirgli quello che gli dovevano, perché egli potesse essere puntuale, il mercoledì; ma alla lunga, esaurite le risorse, qualcuno di costoro cominciò a pagare una parte, o a non pagare niente: egli cominciò a rimetterci del suo, per non farsi sequestrare dallo Stato la cauzione. I giuocatori non osavano ricomparire che quando avevano di nuovo denaro, scontavano una parte del debito e il resto lo giuocavano: uno era addirittura sparito, il barone Lamarra, il figliuolo dello scalpellino, che era divenuto appaltatore e riccone. Gli doveva più di duemila lire, a don Crescenzo, il barone Lamarra, e quando costui lo ebbe aspettato, per due o tre settimane, andò a rincorrerlo a casa. Trovò la moglie, in uno stato di furore; il barone Lamarra aveva falsificato la firma di lei, sopra una quantità di cambiali, e ora le toccava pagare, se non voleva diventare la moglie di un falsario, doveva pagare, purtroppo, ma aveva già fatto domanda di separazione: il barone Lamarra se n'era fuggito a Isernia, donde non dava segno di vita. Don Crescenzo fu cacciato via, in malo modo. Duemila e più lire perdute! Giurò di non far più credito a nessuno: e malgrado che ogni tanto pagassero qualche somma, i suoi debitori, restavano sempre sette od ottomila lire arrischiate, con poca speranza di riaverle: ottomila lire, giusto la somma dei suoi risparmi di vari anni. D'altronde, non li poteva tormentare troppo, i suoi debitori; non avevano, oramai, che certe risorse disperate che saltavano fuori solamente innanzi all'ardente e scellerata volontà di giuocare. Ed era adesso lui che s'interessava vivamente al loro giuoco, che desiderava le loro vincite, per poter rientrare nelle sue economie, per riacquistare quel denaro messo così imprudentemente al servizio di quei viziosi, sorvegliando i giuocatori, perché non andassero a giuocare altrove, inquieto, ammalato, anche lui, oramai, al contatto di tanti infermi. Per questo, il misterioso disegno che si doveva compiere quella sera, gli era noto: non gli si poteva nascondere più nulla, tutti gli dovevano del denaro. E malgrado che una segreta amicizia, diremo quasi una complicità, lo unisse a don Pasqualino, l' assistito egli taceva sul misterioso disegno e il silenzio pareva un'approvazione. Erano già in cinque, nella stanzetta, seduti intorno alla tavola, in pose diverse di raccoglimento, anzi di preoccupazione: non parlavano, alcuni col capo abbassato, segnando ghirigori con le unghie sul greggio piano del tavolino, altri guardando il fumoso soffitto, dove la lampada a petrolio gittava un piccolo cerchio di luce. - A Roma si è pagato settecentomila lire - disse don Crescenzo, per ispezzare quel penoso silenzio. - Beati loro, beati loro! - gridarono due o tre, con un impeto d'invidia ai fortunati vincitori di Roma. - Se ciò che facciamo, riesce, - mormorò tetramente Colaneri, i cui occhiali avevano un triste scintillìo, - il governo paga a Napoli tre o quattro milioni. - Dobbiamo riuscire, - ribattè Ninetto Costa. - L'urna sarà comandata questa volta, - disse misticamente il vecchietto Marzano. Bussarono nuovamente, pian piano, come se una timidezza indebolisse la mano che bussava. Trifari disparve, ad aprire, dopo aver domandato, attraverso la porta, chi era, insospettito subitaneamente. Gli fu risposto amici riconobbe la voce. E i due popolani, Gaetano il tagliatore di guanti, Michele il lustrino, entrarono: si cavarono il berretto, augurando la buonasera: restarono sulla soglia della stanzetta, non osando sedere, innanzi a quei galantuomini. uori, infuriava lo scirocco e la pioggia: e una grondaia carica d'acqua traboccava nel cortiletto, con un forte scroscio. Adesso, sotto le impannate della finestra, dalla fessura, entrava un rivolo di acqua continuamente, bagnava il poggiuolo della finestra e colava a rivoletti sul terreno: gli ombrelli chiusi, ma sgangherati, appoggiati ai muri, negli angoli, colavano acqua sul pavimento impolverato, e, sotto le scarpe bagnate, si formava una poltiglia di fango: gli uomini seduti non si muovevano, in un immobilità grave, in un silenzio lugubre, quasi che stessero lì a vegliare un morto, colti dalla stanchezza, dall'oppressione, dai loro funebri pensieri. I due popolani, in piedi, uno scarno, scialbo, con le spalle curve di chi fa il mestiere di tagliatore, coi capelli già radi alla fronte e alle tempie, l'altro sciancato, gobbo, bistorto come un cavaturaccioli, vecchio e pur vivace nella faccia rugosa e arguta, i due popolani tacevano anche essi, aspettando. Solo Ninetto Costa, per darsi un qualunque aspetto di disinvoltura, aveva cavato un vecchio taccuino, residuo della sua antica eleganza, e vi scriveva delle cifre, con un piccolo lapis, bagnandone in bocca la matita. Ma erano cifre fantastiche: e la mano gli tremava un pochino: gli amici dicevano che erano gli eccessi dell'esistenza, che la facevano tremare. Così passarono una quindicina di minuti, minuti lunghi, lenti, gravi sulle anime di tutti coloro che aspettavano, per mettere a esecuzione il loro segreto progetto. - Che tempaccio! - disse Ninetto Costa, passando una mano sulla fronte. - Si è aperto il cielo - osservò don Crescenzo, sbadigliando nervosamente. - Dottore, che ora fate? - domandò il vecchio avvocato Marzano, con una vocetta tremolante di decrepitezza. - Sono le dieci meno cinque, - disse il dottore, cavando un brutto orologio di nichelio, di quelli che non si potevano impegnare, e che era raccomandato a un sordido laccetto nero. - Per che ora è l'appuntamento? - chiese Colaneri, fingendo l'indifferenza. - Sarebbe alle dieci, ma chi sa! - rispose il medico, abbassando la voce, imprimendo a quello che diceva, tutta la sua incertezza e tutto il suo dubbio. - Chissà! - disse Ninetto Costa, profondamente. E un lungo sospiro gli sollevò il petto, quasi non potesse resistere al peso che l'opprimeva. - Siete ammalato? - gli chiese Colaneri. - Vorrei esser morto, - borbottò l'agente di cambio, desolatamente. Qualcuno crollò il capo, sospirando: qualcuno annuì con l'espressione della faccia, e la dolorosa parola si allargò nella stanzetta umida e sudicia, sotto la lampada che fumicava, fra il rumore scrosciante del temporale. Poi, per un poco, la bufera estiva si venne calmando e si udirono le stille più rade battere sui cristalli della finestra, poi, di nuovo, un gran silenzio. E attraverso il muro, senza sapere donde venisse, come una voce lenta, ammonitrice, un grave orologio suonò le dieci ore, con rintocchi melanconici. I colpi erano spaziati e gittarono un dato di spavento, fra quella gente riunita là, a complottare non so quale truce proponimento. - Lo spirito! - disse don Crescenzo, tentando di scherzare. - Non scherziamo, - ammonì duramente Trifari, - qui si tratta di cose serie! - Nessuno vuole scherzare, - riprese Ninetto Costa, - tutti sappiamo quello che facciamo. - Qui non ci sono Giuda, non è vero? - disse il medico guardando intorno, tutti quanti. Vi fu un mormorìo di protesta; ma debole. No, nessuno di essi era un Giuda, né per loro vi era un Cristo, ma tutti sentivano, vagamente, così, nel fondo della loro febbre, che venivano a commettere un tradimento. - Non è Giuda nessuno, - gridò il medico, impetuoso. - Giuro a Dio che se vi è, farà la mala morte!… - Non giurate, non giurate, - disse il vecchio Marzano. impaurito. Bussarono alla porta. Tutti si guardarono in faccia, improvvisamente fatti pallidi e trepidanti, messi al cospetto della loro colpa. E come se dietro alla porta vi fosse un grave pericolo, nessuno si mosse ad aprire. - Ci sarà? - osò dire Colaneri, senza levar gli occhi. - Forse… - mormorò Costa, che girava convulsamente il taccuino fra le mani. E subito, tutti quanti disperarono che fuori la porta vi fosse l' assistito. a stessa ombra di feroce delusione stravolse i loro visi, che s'indurirono, nella crudeltà del malvagio che vede sfuggire la sua preda. E l'istinto di ferocia che dorme in fondo a tutti i cuori umani, sospinto dalla lunga passione mal soddisfatta, sviluppatosi in quella forma di delirio in cui li metteva il vizio, urgeva in tutti, nei giovani e nei vecchi, nei signori e nei popolani. Le facce erano chiuse e dure, impietrite nella ferocia, e fu con un atto energico che il dottor Trifari si avviò ad aprire. Per rassicurare l'assemblea, di là, che l' assistito ra venuto, lo salutò subito, ad alta voce, lui e il marchese Cavalcanti. - Buona sera, buona sera, marchese, - don Pasqualino, tutti vi aspettavano. E si mise da parte, per lasciarli entrare. Di là, respiravano con una gioia truce: non vi era più pericolo che l' l'assistito oro sfuggisse. E colui che parlava con gli spiriti ogni giorno e ogni notte, colui che aveva comunicazioni speciali di grazia con le anime errabonde, colui che doveva sapere tutte le verità, entrò quietamente nella stanzetta, dove erano i congregati, senza nulla supporre. Gittò, al solito, una obliqua occhiata intorno, ma le facce dei cabalisti non gli dissero niente di nuovo: avevano quel pallore, quello stravolgimento, quel febbrile turbamento consueto del venerdì sera, non altro. Solo il marchese Cavalcanti, accompagnandolo, due o tre volte era stato scosso da un brivido e quasi pareva avesse voluto tornare indietro. Ma il marchese era così nervoso, da tempo! Balbettava, parlando: e la sua nobile figura era oramai degradata dalle ignobili tracce della passione, mal vestito, disordinato, con le scarpe sporche e il solino sfilacciato, con la faccia dalla barba mal rasa, faceva ribrezzo e pietà. Era così nervoso, da che non trovava più denaro, da che la sua figliuola si era fidanzata col dottor Amati! L' assistito on ne poteva avere più denaro e lo fuggiva, vedendolo soltanto nelle riunioni dei venerdì sera, via Nardones: ma in quella settimana le relazioni erano ricominciate, il marchese cercava dovunque l' assistito, nella giornata gli aveva dato cinquanta lire, prendendo convegno, per la sera, alle dieci. Anzi, si era ostinato ansiosamente per questo convegno: e l' assistito 'aveva attribuito all'ardore dei giuocatori delusi per avere i numeri, il contegno del marchese, durante la strada, era stato dubbio: pure, don Pasqualino, abituato alle bizzarrie dei giuocatori, non vi aveva badato. E andò a sedersi al suo posto di ogni settimana, presso la tavola, mettendosi una mano sugli occhi, per ripararsi contro la fiammella della lampada a petrolio. Intorno era il silenzio in cui ogni tanto un sospiro si udiva: e guardando tutte quelle facce pallide, mute, ardenti, l' assistito bbe un primo, vaghissimo sospetto. E cercò di fare il suo solito lavoro fantastico d'ingarbugliamento: - Piove, ma il sole uscirà a mezzanotte. - Chiacchiere - gridò Trifari, scoppiando in una ironica risata. Gli altri, attorno, mormorarono, ghignando. Oramai, non ci credevano più, alle parole misteriose di don Pasqualino. E questa sfiducia risultò così chiaramente, che l' assistito i trasse indietro, come se volesse schermirsi da un attacco. Ma tentò di nuovo, credendo di poter profittare, come sempre, della immaginazione bollente di quei cabalisti, facendo stridere le corde capaci di dar suono: - Piove, il sole uscirà a mezzanotte: ma chi porta lo scapolare della Madonna, non si bagna. - Don Pasqualino, voi scherzate, - disse sarcasticamente il tagliatore di guanti. L' assistito li vibrò una occhiata collerica. - Senza che mi guardiate come se voleste mangiarmi, don Pasqualino: col permesso di questi bravi signori, voi volete burlarvi di noi…e noi non siamo gente da farci burlare. - Marchese, fate tacere questo stupido, - mormorò l' assistito, on un cenno di disprezzo. - Non tanto stupido, don Pasqualino, - disse Cavalcanti, reprimendo a stento la sua commozione. - Che volete dire, marchese? - chiese vivacemente con Pasqualino, levandosi da sedere e facendo per andarsene. Ma Trifari che non si era mai mosso dalle spalle dell' assistito, enza parlare, gli mise una mano sul braccio e lo costrinse a sedersi di nuovo. L' assistito iegò un minuto il capo sul petto, a meditare, e guardò obliquamente la porta. - Restate seduto, don Pasqualino, - disse lentamente Cavalcanti. - qui dobbiamo parlare a lungo. Una lieve espressione di angoscia passò sul volto di colui che evocava gli spiriti: e ancora una volta, guardando gli astanti, egli non vide che fisonomie dure, ansiose, indomabili nel desiderio del guadagno. Capiva, adesso, confusamente. - Gaetano, il tagliatore di guanti, non è uno stupido, quando dice che voi vi burlate di noi. Quello che ci state facendo, da tre anni a questa parte, pare una burla. Sono tre anni, capite, che voi ci andate ripetendo le cose più strampalate, con la scusa che ve le dice lo spirito: tre anni che ci fate giuocare l'osso del collo, con queste vostre strampalerie, e ognuno di noi, non solo non ha mai guadagnato niente, ma ha buttato la sua fortuna, dietro le vostre chiacchiere, ed è pieno di guai, alcuni dei quali irreparabili. Coscienza ne avete, don Pasqualino? Voi ci avete rovinati! - Rovinati, rovinati! - gridò un coro di voci straziate. Spesso, il parlatore con gli spiriti, aveva udito queste lamentazioni massime negli ultimi tempi: ma la fiducia era ricomparsa subito, negli animi dei suoi affiliati. Adesso, lo intendeva, non ci credevano più. Pure, nascondendo la sua paura, tentò di discutere. - Non è colpa mia, la fede vi manca. - Frottole! - gridò il vecchio, esasperato, mentre gli altri tumultuavano contro l' assistito, he ripeteva loro l'eterna ragione della delusione. - Frottole! Come, manca la fede a noi, che abbiamo creduto in voi, come si crede in Gesù Cristo? Manca la fede, quando, per premiarvi delle troppe parole che ci avete dette, vi abbiamo pagato profumatamente? Avete incassato migliaia di lire, in questi tre anni, non lo negate! Non abbiamo fede, noi che abbiamo fatto dire tridui, messe, orazioni, rosari, noi che ci siamo inginocchiati, ci siamo battuti il petto, chiedendo al Signore la grazia? Non abbiamo fede, quando la dobbiamo avere per forza, per forza, capite, altrimenti lo sperpero, lo sciupio del denaro, l'infelicità nostra e quella delle nostre famiglie, sarebbero altrettanti delitti?! Non abbiamo fede, quando voi siete stato il nostro dio, per tre anni, e ci avete ingannati, e non vi abbiamo detto niente e abbiamo seguitato a credere in voi, che ci avete tolto tutto, tutto? - Tutto ci avete tolto! - urlò l'assemblea. - Voi mi offendere, basta così, - disse risolutamente l' assistito, evandosi. - Io me ne vado, buona sera. - Voi non uscirete di qui! - urlò il marchese Cavalcanti, giunto al colmo del furore. - È vero che non uscirà di qui? - domandò all'assemblea dei cabalisti. - No, no, no! - urlò ferocemente la congrega di quei pazzi feroci. L' assistito veva compreso. Un mortale lividore gli covrì le guance pallide e scarne: lo sguardo smarrito errò intorno, a una ricerca disperata di fuga. Ma i truci cabalisti si erano levati e gli si erano stretti addosso in un breve cerchio: alcuni di loro erano pallidissimi, quasi reprimessero una forte emozione, altri erano rossi di collera. E negli occhi di tutti, l' assistito esse la medesima, implacabile crudeltà. - Io voglio andarmene, - disse lui, sottovoce, con quel tono roco, che dava tanta misteriosa attrazione alla sua voce. - Nessuno di noi vi vorrebbe trattenere, don Pasqualino, - rispose con ossequiosa ironia il marchese Cavalcanti, se non avessimo bisogno di voi. Se non ci date i numeri, di qua non uscite, - finì gridando, preso da un impeto di furore. - I numeri, i numeri, - fischiò la voce sottile di Colaneri. - Se no, non si esce! - strillò Ninetto Costa. - O i numeri, o qua dentro! - tuonò il dottore Trifari. - Sono finite le burlette, dateci i numeri, - disse, digrignando i denti, Gaetano, il tagliatore di guanti. - Don Pasqualino, persuadetevi che questi signori non vi lasciano andar via, se non date loro i numeri. Persuadetevi!… - osservò saviamente don Crescenzo, che volea fingere di essere disinteressato nella questione. - La settimana ventura… ve li prometto… ora non li ho…ve lo giuro sulla Madonna! - balbettò l' assistito, olgendo gli occhi al cielo, desolatamente. - Che settimana ventura! - urlarono tutti. - Deve esser stasera, o domattina, presto! - Non li ho, non li ho, - balbettò lui, nuovamente, crollando il capo. - Ce li dovete dare, a forza, - ruggì il marchese. - Non ne possiamo più. O vinciamo questa settimana, o siamo perduti, don Pasqualino. Abbastanza abbiamo atteso: vi abbiamo creduto troppo, ci avete trattati indegnamente. Lo spirito ve li dice i numeri veri voi li sapete; li avete saputi sempre; ma ci avete sempre burlati, raccontandoci delle sciocchezze. Non possiamo aspettare la settimana ventura: fino allora possiamo morire, o veder morire qualcuno o andar in galera. Questa sera o domattina: i numeri veri, apite? apite?- I veri, i veri! - fischiò Colaneri. - Non ci dite stupidaggini, non è più tempo! - gridò Ninetto Costa, al massimo della indignazione. Eppure, malgrado che si sentisse vinto e preso, in balia alla irragionevole passione di cui egli stesso aveva acceso le fiamme, l' assistito oleva combattere ancora. - Lo spirito non dà numeri per forza, - dichiarò lentamente. - Lo avete offeso, non mi parlerà più. - Bugie, bugie! - ribattè il marchese. - Centomila volte, ci avete detto che lo spirito vi obbedisce, che voi fate di lui quello che vi pare, che voi ne ottenere tutto: centomila volte, ci avete detto che l'urna dei novanta numeri è comandata. ite la verità, è meglio, ve lo assicuro, è meglio. Siete a un mal passo, don Pasqualino: lo spirito vi deve aiutare. La nostra pazienza è esaurita, sono esauriti i nostri denari e anche quelli degli altri: lo spirito vi deve are arei numeri. Allora egli tacque un poco, come se si concentrasse, e gli occhi gli si stravolsero, mostrando il bianco della cornea. Tutti lo guardavano, ma freddamente, abituati a questi suoi stralunamenti. - Fra breve fioriranno le camelie, - egli disse, a un tratto, tremando tutto. Ma nessuno dei cabalisti si commosse, a questa enunciazione mistica dei numeri. Il dottor Trifari, che portava sempre la chiave dei sogni n tasca, non cavò neppure lo sdrucito libro, per vedere camelie fiorite, che numero corrispondessero. - Fra breve fioriranno le camelie, alla Marina, - ripetette, tremando sempre più, l' assistito. essuno si mosse. - Fra breve fioriranno le camelie, alla Marina e sulla montagna, - replicò per la terza volta, tremando di ansietà, guardando in faccia i suoi persecutori. Una sghignazzata d'incredulità gli rispose. - Ma che volete da me? - gridò lui, con un singhiozzo di spavento. - I numeri veri, - disse freddamente Cavalcanti, - queste cose che ci dite, non le crediamo: cioè, per uno scrupolo, noi giuocheremo i numeri che rispondono alla montagna, alla Marina e alle camelie fiorite. Ma altri debbono essere i numeri veri: così aspettandoli, noi giuocheremo questi tre, ma vi terremo chiuso qua dentro. - Sino a quando? - chiese lui, precipitosamente. - Sino a quando i vostri numeri saranno usciti, - ribattè il marchese duramente. - Oh Dio!… - disse l' assistito, ian piano, come un soffio. - Capite, don Pasqualino, questi signori vogliono avere una garanzia e vi vogliono tenere in pegno, - spiegò don Crescenzo, il tenitore del Banco del lotto, volendo legittimare il sequestro. - E a voi che fa? Che fatica vi costa dire la verità? Se li avete tenuti in asso, finora, è il tempo di parlare sul serio, don Pasqualino: questi signori hanno ragione, e lo so io, di essere esasperati. Parlate, don Pasqualino, mandateci via contenti. Voi rimarrete qui fino a domani, alle cinque: e appena fatta l'estrazione, vi verremo a prendere, in carrozza, per una scampagnata. Su, su, fate quel che dovete fare. - Non posso - disse l' assistito, prendo le braccia. - Non mentire, voi potete e non volete; gli spiriti vi obbediscono, - disse Colaneri, scattando, in un impeto di furore. - Diteli questa sera, è meglio, è meglio per voi, - mormorò Gaetano, il tagliatore di guanti, con un malvagio tono di voce. - Levatevi questa preoccupazione, - consigliò fraternamente Ninetto Costa. - La verità, la verità, - balbettò il vecchio avvocato Marzano. - Non posso, - disse ancora l' assistito, guardando le finestre e le porte. Allora i cabalisti, a un cenno del marchese Cavalcanti, si riunirono nel vano della finestra: presso l' assistito, estò soltanto Trifari, dalla feroce faccia minacciosa, che gli aveva posta la mano grassa, corta, coperta di pelame rossiccio, sulla spalla. I cabalisti confabularono fra loro, a lungo: discutevano, in cerchio, tutte le teste riunite, parlandosi nel volto. Poi, decisi, ritornarono. - Questi signori dicono che sono fermi nella loro intenzione, anzi nel loro diritto di avere i numeri, dopo i tanti sacrificii che hanno fatti, - parlò, freddamente, il marchese Cavalcanti, - e che quindi don Pasqualino resterà qui, chiuso, sino a che non si sarà deciso di far paghi i nostri giusti desiderii. Di qui non si può andar via: d'altronde, il dottor Trifari, che non ha paura di niente, resterà in compagnia di don Pasqualino. Fare del chiasso sarebbe inutile, tanto i vicini non udrebbero; e se per caso don Pasqualino volesse ricorrere alle autorità per farsi ragione, noi teniamo pronta una querela di truffa, con testimoni e documenti, da mandare in carcere venti assistiti. meglio, dunque, chinare la testa, per questa volta, e cercare di scamparsi, dando i numeri veri. oi siamo fermi. Fino a che non avremo guadagnato, don Pasqualino non esce il dottor Trifari si sacrificherà a tenergli compagnia. In quell'altra stanza, vi è da dormire per due, e da mangiare per vari giorni. Fra questa notte e domani, uno di noi, per turno, verrà, ogni quattro ore, a vedere se don Pasqualino si è deciso. Speriamo che si decida presto. - Voi volete farmi morire, - disse l' assistito, on un'angelica rassegnazione. - Voi potete liberarvi, se volete. Vi auguriamo la buona nottata, - conchiuse, implacabile, il marchese Cavalcanti. E i sette sciagurati cabalisti passarono davanti all' assistito, ugurandogli sardonicamente la buona notte. L' assistito tava in piedi, presso la tavola, con una mano lievemente appoggiata sul piano del legno, con una espressione di stanchezza e di pena sulla faccia, guardando ora questo, ora quello dei cabalisti, come se li interrogasse, se alcun di loro fosse più pietoso. Ma le delusioni dolorose avevano indurito i cuori di quegli uomini: e l'esaltamento del loro spirito impediva loro d'intendere che commettevano una colpa. Passavano innanzi all' all'assistito, alutandolo, dicendogli una frase fredda a mo' di consolazione, senza veder la penosa espressione del suo volto, la supplica dei suoi occhi. - Buona notte, don Pasqualino: Dio v'illumini, - disse il vecchio avvocato Marzano, crollando il capo. - Chiediamo troppo a Dio, - rispose l' assistito, on una grande malinconia nella voce. - Buona notte: dormite tranquillo, - augurò ironicamente il tagliatore di guanti in cui tutto parea fosse diventato tagliente, la parola, la voce, la figura. - Così vi auguro, - rispose enigmaticamente l' assistito, bbassando le palpebre, a smorzare il lampo crudele di vendetta che gli era balenato negli occhi. - Buona notte, buona notte, don Pasqualino - mormorò Ninetto Costa, con un po' di rammarico, tanto la sua frivola natura si opponeva a quel dramma. - A rivederci presto. - E già! - mormorò l'uomo degli spiriti, con un lieve sogghigno. - Buona notte, - osò dire il lustrino Michele, che si era ficcato complice in quella congiura di signori, e che parea nobilitato da tanta compagnia. - buona notte e mantenetevi forte… L' assistito on gli rispose neppure, non si degnò neppure di abbassare lo sguardo sopra lo sciancato, appartenente a quel vile popolo cui anche egli apparteneva, e da cui non arrivava mai a cavar denaro. - Pasqualino, li volete dare, questi numeri certi? - domandò Colaneri, passandogli innanzi, sempre accanito. - Non li posso dare, così, violentato… - Voi scherzate, noi siamo tutti amici vostri, - squittì il professore. - Fate come credete, buona notte. - Buona notte: la Madonna vi accompagni, - mormorò l' assistito, iamente, aumentando l'intensità mistica della sua voce. - Caro don Pasqualino, via, un buon movimento, prima che andiamo via, - disse con una improvvisa bonomia il marchese Cavalcanti, - dateci i numeri certi e la vostra prigionia dura sino a domani, alle cinque. - Non so niente, - disse l' assistito, ardeggiando uno sguardo di odio sul marchese, poiché era stato il nobile signore a condurlo in quel mal passo. Essi si riunirono sotto la porta, per partire, per lasciarlo solo col dottor Trifari che andava e veniva dalla stanza accanto, pacificamente e freddamente, con quella gelida volontà che mettono i malfattori nati, nella esecuzione dei loro misfatti. L' assistito ino allora, salvo qualche ombra che gli era passata sul viso, lasciandovi la sua traccia di fastidio, di dolore, salvo un'umile espressione di preghiera che era nel suo sguardo, aveva dato segno di molto coraggio: ma quando vide che essi partivano, quando comprese che sarebbe rimasto solo, col dottor Trifari, per lunghe ore, per giorni, per settimane, forse, tutta la sua forza d'animo cadde, la viltà dell'uomo imprigionato sorse, ed egli, stendendo le braccia gridò: - Non ve ne andate, non ve ne andate! A quel grido straziato, gli uomini complici di quel carceramento si fermarono: e le loro facce di giustizieri violenti, furono coperte da un improvviso pallore. Fu quello il solo momento di tutta la tetra serata, in cui essi pensarono che dannavano a una pena atroce, una creatura umana, un cristiano, un uomo come loro, fu il solo momento in cui videro tutta l'entità di quello che commettevano, nella sua portata legale e morale. Ma il demone del giuoco aveva messo sede nella loro anima, impossessandosene completamente: e tutti quanti insieme, tornando indietro, circuirono l' assistito, omandandogli ancora i numeri, i numeri certi i veri numeri che egli conosceva e che fino allora non aveva voluto loro dare. E allora, soffocato dall'emozione, comprendendo di aver rivolta contro sé l'arma di cui sino allora li aveva feriti, colui che li aveva a poco a poco sommersi sotto le onde di un naufragio lento, colui che aveva preso il loro denaro e le loro anime, innanzi a quella insistente malnata ferocia che niente più poteva placare, innanzi a quel vero Spirito del Male, con cui, realmente, egli si era messo in comunicazione, l' assistito, igliaccamente, provò una immensa paura e si mise a singhiozzare come un fanciullo. Gli altri, interdetti, sconvolti, lo guardavano: ma più forte, più forte era il Demonio, di tutte le loro volontà riunite insieme. L'ora suprema della loro esistenza era giunta, pel vecchio e pel giovane, pel signore e per il plebeo, l'ora tragica in cui niuna cosa arriva a dissuadervi dalla tragedia. Udendo piangere come un bimbo quell'uomo che si asciugava le lagrime con un lurido e lacero fazzoletto, nessuno di loro provò pietà: tutti sentirono più ardente, più acre il desiderio di avere i numeri del lotto, per salvarsi dalle ruine che minacciavano le loro teste. Lo lasciarono che piangeva, vilmente, come uno sciocco pauroso: e a uno a uno, senza far rumore, uscirono lentamente da quella casa, che era diventata una prigione. Egli, pur continuando a singultare, tese l'orecchio: udì richiudere la porta, lugubremente, con quel rumore che si ripercuote nell'anima. Trifari, dietro la porta, andava mettendo catenacci e lucchetti, serrandosi dentro il carcere con il nuovo carcerato, senz'aver paura, né di lui come uomo, né degli spiriti che egli avrebbe potuto evocare. La faccia dal pelame rossastro, quando appariva nel giro luminoso della lampada a petrolio, aveva qualche cosa di animalesco, come crudeltà e come ostinazione nella crudeltà. E rientrando, il dottore aveva respirato di sollievo: si era guardato intorno, quasi che la partenza di tutti quei cabalisti, amici suoi, che lo avevano delegato a far da carceriere, gli fosse piaciuta. Adesso, ancora andava e veniva dalla stanza accanto, portando e riportando non so quali cose; poi rientrò, essendosi cambiato di vestito, avendo indossata una vecchia giacchetta, in cambio del soprabito. L' assistito eguiva con l'occhio tutte le mosse del suo carceriere, come tutti i prigionieri che studiano l'unica loro compagnia, con tutta la profondità dell'osservazione. A un certo punto avevano scambiato una occhiata fredda, dura, da carcerato ad aguzzino. - Volete fumare? - aveva chiesto il dottore, da un cantuccio della stanza. - Non fumo, - aveva risposto, cupo, l' assistito Non sedete? - aveva chiesto all' assistito, ottovoce. ottovoce.- Grazie, - aveva risposto costui, lasciandosi cadere sopra una seggiola. - Volete dormire? - No, grazie. Il dottore sedette allora anche lui, accanto alla tavola, mettendosi una mano sugli occhi, quasi a ripararsi dal lume. Silenzio profondo notturno. Fuori, anche la pioggia era cessata. Dentro, la lunga e tetra veglia cominciava.

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

683078
Bertelli, Luigi - Vamba 1 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
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- Il Direttore sotto questa valanga di ingiurie reagì, e abbassata la testa al livello della sua violenta consorte la guardò negli occhi esclamando: - Ora poi basta. - E a questo punto io vidi, giornalino mio, la cosa più straordinaria, più lontana da ogni previsione e insieme più comica che si possa immaginare. La signora Geltrude, allungando la destra sul capo del signor Stanislao, come un artiglio, gli afferrò i capelli esclamando: - Ah! che vorresti fare? - E mentre ella ringhiava queste parole io vidi con profondo stupore che la chioma corvina del direttore era rimasta nelle grinfie della direttrice la quale agitava la parrucca in aria ripetendo furiosa: - Ah! Vorresti anche minacciarmi? Tu? Me?... - E gittata via a un tratto la parrucca afferrò un battipanni di giunco ch’era su un tavolino e si mise a inseguire il signor Stanislao che, avvilito, con la testa completamente nuda cercava goffamente di sfuggire alle minacce coniugali girando attorno alla tavola... La scena era così supremamente ridicola che per quanti sforzi facessi, non potei trattenere completamente le risa e mi usci dalla bocca un mugolìo acuto. Questo mugolìo fu la salvezza del signor Stanislao. I due coniugi si voltarono in su stupiti verso il ritratto; e la signora Geltrude passando dalla irritazione a una vaga paura mormorò: - Ah! La buonanima dello zio Pierpaolo!... - Ed io prudentemente mi ritirai lasciando i due coniugi pacificati ad un tratto da un comune sentimento di timore, a fantasticare intorno al mugolìo del compianto fondatore di questo malaugurato collegio.