Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Racconti 1

662657
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il vento li respingeva, tornava a sollevarli e poi lasciava che venissero giú piú vorticosi di prima: sembravano farfalle che abbassassero le ali sui vasi fioriti dei terrazzini. Io li seguivo coll'occhio, molto curioso di vedere quale sarebbe stata la loro sorte. Andarono tutti e due a cadere sul terrazzino della vicina: ci mancò quasi nulla che non entrassero nella sua stanza. Il pianoforte cessò di suonare Una manina raccolse poco dopo i due pezzettini di carta, indi la bella vicina affacciossi presso la ringhiera di ferro, e spinse gli occhi in alto verso il secondo piano. Visto me che guardavo sorridendo, lesse attentamente le parole di quei due frammenti del biglietto e, arrossendo un po', mi disse: - È ammalato? - Non seppi trovare un motto di risposta. Era la prima volta che ella mi rivolgesse la parola. Dei lunghi colloqui di occhiate eran corsi da un mese fra me e lei, ma nemmeno un solo di quei saluti fatti con un cenno del capo. Ho detto: "colloqui", per modo di dire. La guardavo, ella si lasciava volontieri guardare, con mal celata compiacenza ecco tutto. Io mi trovavo troppo addolorato in quel tempo, troppo preoccupato per pensare sul serio a farle un briciolino di corte. Il mio odio verso l'Ebe giungeva a tal grado eccessivo da non permettere affat to che l'amore per un'altra venisse a diminuirlo con una diversione di forze. - Perché "grazie"? - riprese la vicina, dopo aver riletto l'altro pezzettino di carta. - Scusí! - balbettai, confuso pari a un bimbo che vede scoperta una sua sciocchezza. La vicina stette un istante a riflettere; poi, come se avesse a un tratto capito, mi salutò con un sorriso e ritirossi. Alcuni minuti appresso intesi suonare il campanello. Corsi io stesso ad aprire. Era la cameriera che veniva a farmi le scuse per parte della sua padrona. Se la signora avesse saputo, non sarebbe stata tutto il santo giorno a suonare il pianoforte. Era dolentissima, ma da quel momento in poi non avrebbe messo nemmeno un dito sulla tastiera finché non sarebbe stata certa della mia completa guarigione. - Bisogna compatirla, povera signora! - aggiunse la cameriera. - Si annoia tanto! - Ringrazio la signora - risposi - della sua squisita gentilezza. Ella suona cosí bene che io la prego di continuare come pel passato. Desidero intanto sapere se potrò venire a ringraziarla di presenza e a spiegarle il piccolo equivoco avvenuto poco fa -. Dopo altri pochi minuti la cameriera ritornava al secondo piano. - Venga quando le fa piacere; dalle dodici alle quattro, tutti i giorni: la sua visita sarà gradita -. Quella cameriera diceva le cose con una disinvoltura ammirabile. Andetti il giorno appresso. Il salottino era addobbato in azzurro con strisce bianche filettate in oro. Una magnifica giardiniera, presso il terrazzino, sfoggiava il lusso delle ricurve foglie delle yucche e dei bei fiori di veronica e di ageratum. Le tende di seta azzurra e di tulle finissimo elegantissimamente ricamato smorzavano il tono troppo vivo della luce che veniva di fuori e davano a tutto quell'insieme l'aria di un sorriso discreto e raccolto, qualcosa che faceva fantasticare. Rimpetto al divano, sotto un paesaggio del Raiper incastrato in una ricchissima cornice dorata, il pianoforte verticale ancora aperto mostrava spiegato sul leggio il prediletto notturno del Chopin; le note soavi e malinconiche interrotte il giorno avanti sembrava aleggiassero per la stanza come un'eco affievolita della volta ... La signora non si fece attendere. Una donna sui trent'anni, bella di quella bellezza minuta che guadagna molto ad esser guardata da vicino, con modellature del collo e delle guance sorprendenti davvero. La pelle morbida, vellutata, aveva il colorito, dirò, un po' usato, un po' chiuso che vien dall'età; un colorito spesso spesso preferibile a quello da quadro fresco o da figurine di porcellana di certi visi di ragazze. Capelli castagni; occhi castagni, grandi, vivaci; denti piccini cogli incisivi superiori d ivisi da un piccolo spazio che intanto riusciva grazioso nella sua bocca contornata da labbra sottili; un naso un po' aquilino; delle mani bianchissime, delicate, con ditini affusolati; e, per finire, dei piedini, oh!, dei piedini forse della piú estrema piccolezza consentita dalle proporzioni del corpo e dalle leggi dell'equilibrio: ecco la signora Augusta. Vestita elegantissimamente non si dice nemmeno. Sembrava che un abile artista avesse intonato tutti i particolari della stanza e dell'abito per farne u n gentile contorno alla sua persona, ma in guisa che gli accessori non offuscassero il principale ... Quando le ebbi spiegato l'equivoco dei due pezzetti di carta, ella sorrise un po' disillusa. - Infatti - disse, - ora che ci rifletto, quel carattere non poteva essere che d'una donna. Povera donna! - riprese. - Che può averle mai fatto per essere trattata in quella guisa? ... - Oh, molto male! - esclamai. - Chi lo sa? - disse. - Forse lei non la giudica spassionatamente. Voi altri uomini ci intendete cosí poco, che il cadere in inganno sul conto nostro è la cosa piú facile del mondo. - Rispetto - dissi - questo sentimento di solidarietà che fa prendere ad una donna le difese dell'altra ... quando l'avversario è di sesso diverso. Le concedo anzi che noialtri uomini non siamo davvero i piú adatti a giudicare molte sfumature del loro carattere, molte stranezze del loro spirito, molte inconseguenze del loro cuore (o che a noi paiono tali): ma, nel mio caso particolare, la prego di credere che io non mi inganno. Se la passione mi fa velo, è soltanto per impedirmi di giudicare piú severame nte la donna che scrisse quel biglietto. Oh! Creda, signora, spesso loro ci fanno soffrire con una spensieratezza senza scusa! - Sarebbe assurdo - ella mi disse sorridendo - che ci dovessimo mettere in istato di guerra sin dal primo giorno che ci conosciamo. Cedo, non foss'altro, per dar ragion a chi ci chiama il sesso debole ... - Una malizia spacciata dalle donne per rendersi piú forti -. Il ragionare continuò un buon quarto d'ora, nutrito dei soliti nonnulla. Sul punto di andar via: - Spero vorrà farmi l'onore di qualche altra visita - ella disse - ... quando si annoierà. Le importerà poco continuare ad annoiarsi qui od altrove. - Non parli, prego, di annoiarmi - risposi. - Sono un po' orso, un po' misantropo; ma non c'è nulla che mi ammansisca piú di una conversazione con una donna di spirito. Poi il forte sta sempre nel cominciare. Un giorno forse dovrà pentirsi di essere stata cosí gentile con me. - A una certa età - rispose - la donna non può piú pentirsi di nulla: anche i disinganni sono qualcosa per essa -. Due giorni dopo il portinaio mi recava un'altra lettera dell'Ebe. Fui sul punto di stracciarla senza leggerla, ma poi finii coll'aprire lentamente la busta e col leggerla due volte. "Non vi credevo cosí cattivo - diceva. - Avete forse sospettato che io mentissi? No, sono veramente e seriamente ammalata: non so nemmeno se potrò piú uscire viva da questo salottino ove passo solitaria le lunghe giornate, divorando il mio dolore, leggiucchiando, piangendo, talvolta dormendo e sognando. Se vi dicessi che i momenti in cui sogno siano i piú felici della mia vita, voi sorridereste dall'incredulità; eppure nulla di piú vero. La mia imaginazione è benefica: i fantasmi ch'essa mi ridesta nel sonn o rappresentano precisamente il rovescio della terribile realtà che mi uccide. Che vi ho chiesto? Una visita. Mi odiate dunque a tal segno da non volermi nemmen vedere? Non vi ho domandato perdono? Non sto scontando amaramente la mia storditaggine di un momento? Volete che abbassi ancora questo po' di orgoglio di donna che mi rimane? Volete forse che io venga a buttarmi ai vostri piedi? Se le mie forze me lo permettessero, lo farei volontieri. Come siete inesorabile! Come siete superbo! Soffrite al pari di me di cotesta vostra durezza, e intanto non vi lasciate commuovere dalle mie lagrime, dalle mie preghiere. Che debbo fare per toccarvi il cuore? Non vi basta che io muoia lentamente per voi? Oh Alberto, voglia il cielo che queste mie parole non vi s'abbiano un giorno a mutare in un rimorso! Che colpa ho io se non mi ero accorta di amarvi? Se la mia frivola educazione m'impediva di intendere la profonda e nobile serietà del vostro amore? Siete voi impeccabile? Non vi amo oggi, senza speranza, cento volte di piú di quel che avrei potuto allora? Ma io vi prego soltanto del vostro perdono. So benissimo che un affetto spento non rinasce piú. Però se il profumo scappato dalla boccetta che lo conteneva non può piú venir raccolto per richiudervelo di bel nuovo, la boccetta ne ritiene ancora lungo tempo un leggiero vestigio. Ah! Non c'è che il cuore umano per rimanere indifferente, anzi peggio, ostile a un sentimento che prima poteva dirsi il suo profumo! ... Non mi sento per ora cosí male da poter fare di meno del vostro perdono. Spero intanto che non sia molto lontano il momento in cui non dovrò pensare ad altro che a mandarvi il mio. Alberto! Vi confesso che non dispero d'intenerirvi. La vostra superbia sarebbe forse cosí grande da non permettervi nemmeno di fingere verso di me una pietà che non sentite e non potete sentire? Vi attendo sempre. Sono sdraiata sulla poltrona dietro i cristalli della finestra che guarda l'entrata. La magnolia del cortile comincia a fiorire: le sue belle foglie di un verde chiuso luccicano al sole come tante laminette di bronzo brunito. I passeri saltellano sui suoi rami, facendo un arguto chiacchiericcio che mi diverte anche nella prostrazione di spirito in cui mi trovo. Tutto sorride nella natura. Fate che anch'io muoia sorridendo. Venite! Venite!" Ebbi una stretta al cuore: ma il mio amor proprio reagí subito contro quell'assalto di tenerezza. La lettera mi parve di un'abilità diabolica. Sotto quell'apparente dolcezza, sotto quel lamento rassegnato, sotto quel calore di un affetto e di una passione senza limiti, intravvedevo un sorriso di canzonatura, un sentimento di trionfo che scoppiava fra riga e riga, per quanto già fosse industriosamente celato. Ammalata seriamente, gravemente! Non ne credevo una sillaba! La sua vanità di donna aveva ricevuto un gran colpo. L'uomo bello, mondano, superficiale da lei preferitomi senza pensarci su un momento, l'aveva dopo pochi mesi abbandonata colla stessa facilità con cui era venuto a buttarglisi ai piedi; cercava forse tutt'altro di quel che l'Ebe avrebbe voluto concedergli. Io, che per lei rappresentavo una vittoria creduta quasi impossibile, le avevo sdegnosamente voltate le spalle senza piú rivederla. Ed ecco: ella cercava ora rifarsi su di me dello scacco subito. Forse, compreso ora qual'indegnità avesse commessa ridendosi dell'amore piú serio e piú sincero da lei ispirato ad un uomo, tentava in quel naufragio del suo cuore afferrarsi stretta a me come ad una tavola di salvezza. L'idea che il disinganno avesse realmente destato e fatto fiorire in lei i germi di un amore per davvero, non mi passava pel capo. Ella mi pareva troppo assuefatta a certi sentimenti e a certe emozioni da poterli risentire schiettamente e profondamente; l'artifizio, l'abitudine avevano dovuto attutire o smorzare le vive forze del suo cuore; e la nuda e volgare realtà cacciar via da esso ogni gentile illusione, ogni aspirazione elevata. L'amore, cioè quel vacuo esercizio delle fibre, quel fatuo scintillare d ello spirito che suol chiamarsi con tal nome, era diventato per lei una delle forti necessità della vita; la sua anima femminile non poteva astenersi di questo spirituale nutrimento. La sazietà intanto la rendeva schifiltosa; le dava dei gusti stranissimi, ch'ella non era sempre in caso di appagare. Sí, ammalata poteva essere, ma soltanto di nausea e di ideali mancati. Io, un po' strano, un po' rozzo, ma sincero, ma tutto di un pezzo; io, vero credente dell'amore in mezzo a tanti atei di questo dio, avevo p er lei l'attrattiva del frutto vietato, del sapore sconosciuto: nient'altro! ... La mia alterigia di uomo rifiutava sdegnosa i sommessi suggerimenti di un'intima voce del cuore. Perché non credere? Diceva questa voce. Il disinganno può averle aperti gli occhi; e un amore prodotto da tale stato dello spirito diventare il piú violento, il piú schietto, il piú duraturo del mondo; quasi un primo amore anche per una donna che, come l'Ebe, abbia amato fin troppo. Ma non mi lasciavo rimovere, per quanto mi sentissi straziato. Cedere, fosse pure ad un sentimento di naturale curiosità, mi faceva ribrezzo. Il mio odio era certamente uno dei mille aspetti dell'amore (per dire che non amiamo piú bisogna sentirci indifferenti) ma cosí, da odio, lo tolleravo; senza maschera invece non lo avrei tollerato un momento: avrei preferito spezzarmi il cuore, non potendolo vincere altrimenti. Ero troppo superbo: ella indovinava. Posai la lettera sul marmo del caminetto e non andai, né risposi. Quel procedere villano era un gran sforzo che facevo mio malgrado. Mi ritenevo impegnato per mille ragioni a non cedere; e, temendo di esser preso da qualche improvvisa debolezza, esageravo il rigore, passavo ogni limite. Accade sempre a questo modo, nella vita, nell'arte, in ogni cosa: la giusta misura riesce impossibile e all'uomo e alla natura: è l'ideale che non arriva ad attuarsi. Continuai le mie visite alla vicina con crescente frequenza. Viveva sola. Il suo amante viaggiava qua e là per affari, e non le scriveva mai. La signora Augusta, ignorando sempre per quali provincie la ferrovia scarrozzasse il suo "protettore" (lo chiamava cosí), non aveva nemmeno lo svago di riempire ogni giorno un fogliolino di carta da spedire alla posta. Attendeva, facilmente rassegnata per effetto, in massima parte, della sua costituzione e del suo carattere. Era un organismo tranquillo, un carattere armonico: sentiva la vita come una luce ugualmente rosea e moderata; mai troppi bagliori, mai troppe ombre. Era però nel medesimo tempo un organismo delicato, facile a percepire le mille sfumature di un sentimento, e inclinatissima a questo quasi sensuale godimento delle sfumature in ogni cosa. Insomma una vera donna di spirito, caduta nella condizione ove ora si trovava per una lunga serie di vicende che spesso rimanevano inesplicabili anche per lei stessa. Forse per questo ella chiamava "protettore" il suo amante, sfumatura di linguaggio tutta sua e non superficiale di certo. Quella tranquillità di organismo, quell'armonia di carattere corrispondevano a qualcosa del mio spirito un po' pagano, a qualcosa che dominava talvolta tutte le facoltà della mia mente e del mio cuore e mi faceva vivere piú di sensazioni che di sentimenti, proprio come una felice creatura della Grecia antica. Però in quei giorni ero poco o punto disposto ad apprezzarne il valore. Ero anzi disposto a giudicarle assai male; scambiavo infatti la tranquillità per freddezza, l'armonia per fiacchezza o per comple ta assenza di contrasti. Ma cominciai a disingannarmi la prima volta che le udii sonare da vicino il pianoforte. Quella ondata di melodie e di armonie pareva facesse montare a galla la sua anima gentile da una profondità sconosciuta. Le dita vibravano con forza, spesso con violenza sulla tastiera, e lo strumento non rispondeva come un semplice meccanismo dalle sue viscere cave, ma come una parte dell'organismo di lei la quale ne rivelasse le intime voci del petto. Però in tutto quest'intimo c'era un che di carnale e di sensuale che ricercava le fibre con dolcezza squisita. Dopo quelle armonie ci voleva assolutamente un grand'accordo di baci. Dopo quelle vibrazioni sonore che agitavano il sangue e riscaldavano la pelle come se avessero sferzato il corpo con invisibili verghettine, si richiedeva assolutamente la fiera stretta di un abbraccio, o il pezzo di musica sarebbe parso senza significato, senza chiusa, insomma, incompleto. Non occorse dircelo: ci fu il tacito accordo di tutti e due. Ma i baci non venivan mai prima che la musica gli eccitasse. Quando la conversazione, cominciata freddina, continuava a sbalzi, noiosa, sconclusionata, ella levavasi tosto dalla poltrona, andava a sedersi al pianoforte ..., e i sensi, riconosciuto subito il loro inno reale, si destavano inebbriati per proseguirlo alla loro maniera, senza bisogno di musica. Il "protettore" ritornò. Per tre settimane potemmo vederci di rado, dal terrazzino, e scambiare ora un saluto, ora un centinaio di parole. Abbassavamo le tende per evitare di esser veduti da una zitellona di rimpetto che bracava dalla mattina alla sera tutti i fatti del vicinato; e il dialogo si riduceva quasi invariabilmente a questo qui: - Sei vedova? - No; ma partirà fra qualche settimana. - Starà fuori a lungo? - Chi lo sa? Non dice mai nulla. Parte e arriva improvvisamente nei giorni e nelle ore che meno l'aspetto. - Che rabbia! - E l'Augusta sorrideva di quel suo tranquillo sorriso, che mi piaceva ogni giorno piú che mai. - Aspetta lí - diceva talvolta. E rientrava per mettersi al pianoforte. Spesso però il pianoforte taceva a un tratto, ed ella non ricompariva piú. Il protettore era venuto a casa. Il nostro dolce colloquio restava interrotto sul meglio. Ma "lui" ripartiva; faceva delle assenze di quindici, di venti giorni, e noi tornavamo alle nostre intime relazioni con un'assiduità meravigliosa, come se ciò fosse stato la cosa piú regolare del mondo. Ci preoccupavamo di "lui" soltanto per sapere quando partiva e indovinare possibilmente quando sarebbe ritornato. Ci amavamo? Nessuno dei due aveva osato fare all'altro questa interrogazione. Amarci? Di che amore? Domande complicate che esigevano risposte ancora piú complicate. Lasciavamo correre: valeva lo stesso. Io avevo intanto trovato in lei qualcosa che addolciva le amarezze del mio cuore, e spesso anche le addormentava. Ma vi eran dei giorni però nei quali preferivo rigustare quelle amarezze, e glielo davo a vedere. - Sei stanco di me? - mi chiese un giorno con un accento di affettuoso rimprovero. - Perché dovrei esser stanco? - feci io, evitando cosí di rispondere. - Perché è naturale - riprese l'Augusta; - non c'è nulla di eterno al mondo, e l'amore meno di tutto. - Credi tu - le domandai all'improvviso come conseguenza delle idee che mi si affollavano in testa, - credi tu che una donna possa morire di amore? - Mio Dio! - esclamò con un'intonazione di voce che mi suona ancora nell'orecchio; - ma le donne non muoiono di altro -. Questa risposta cosí semplice mi turbò profondamente. - Senti - ella disse dopo un pezzo: - è vero che tu sei stato l'amante di una gran dama? - Chi ti ha sballato questa sciocchezza? - Prima rispondi: ti dirò poi. - Ho già risposto, se t'ho detto: sciocchezza. - Eppure io so di certo che tu hai avuto una amante e che ora siete in rottura; quel biglietto di tre mesi fa dovette inviartelo lei. - Quella? Un'amante? Oh! Niente affatto, mia cara! - Eh, via! Ti vuoi nascondere da me: ma io, tu lo sai, non sono punto gelosa. Dunque, la poverina ti vuol bene a tal segno che si è rovinata la salute per te. Dopo il tuo abbandono fece delle pazzie; corse, balli, viaggi, ogni possibile stravaganza pur di buscarsi un malanno che la facesse morire ... e c'è finalmente riuscita. - Chi ti ha detto questo? - chiesi meravigliato di sentire sulla sua bocca quello strano miscuglio di falso e di vero. Tacque un pezzetto e stette a capo chino, colla fronte corrugata, coll'indice della mano sinistra appoggiato sulle labbra, come se cercasse di ricordare. - Mi perdonerai? - fece poco dopo, sedendomisi sulle ginocchia e passandomi le braccia intorno al collo. Questo sfoggio di tenerezza accrebbe straordinariamente la mia curiosità. - Parla - dissi impaziente. - Mi perdonerai? - tornò a domandare l'Augusta. - Cento volte, non una, ma parla, ti prego! - Ecco qui. Tre giorni fa la cameriera di quella gran dama venne a cercarti. Tu non eri in casa, e nemmeno il tuo servitore. La Lucia, sentendo replicatamente suonare il tuo campanello, affacciossi all'uscio, e riconobbe in quella cameriera una sua amica d'infanzia. Si misero a chiacchierare sul pianerottolo. L'altra aspettava con una smania incredibile; ogni minuto le pareva l'eternità: infatti, dopo un'ora, vedendo che tu non rientravi in casa, si decise a lasciar l'imbasciata alla Lucia, caldamente racco mandando di fartela appena arrivato. Fu lei che confidò alla Lucia tutta la storia della sua padrona: la Lucia, che forse fece lo stesso dei fatti miei, venne subito a riferirmi fedelmente ogni cosa: mi fece vedere anche ... la lettera. - C'era una lettera? - dissi, mostrando un'indifferenza che in quel momento non provavo. - Oh sí ... una lettera ... E per via di essa che ho bisogno del tuo perdono! - L'hai già letta? - No, no! ... Ma n'ebbi una forte tentazione ... e quindi ... Eccola! ... - disse alzandosi a un tratto dalle mie ginocchia. E aperto un cofanetto di porcellana di Sèvres a fermagli di rame dorato, la cavò fuori ancora chiusa e me la porse colla punta delle dita, mormorando: - Perdona! Qual parola occorrerebbe per esprimere la vile infamia che allora mi balenò nella mente e che misi subito in atto? Quelle rivelazioni della cameriera, misto di verità e d'invenzioni, avevano irritato il mio amor proprio come uno scherno crudele; né la lettera dell'Ebe poteva avere per me un significato diverso. Amante io, io che ero stato tolto di mira quasi per vincere una scommessa! Io che ero stato ammaliato da tutte le divine seduzioni, da tutti i terribili artifizi del corpo e dello spirito e poi lasciato lí, con una risata, appena avevo mostrato di prender sul serio e lo spirito e il cuore e fin le stranezze di qu ella donna! Amante io che ora mi credevo perseguitato con una commedia di amor postumo piú spietatamente insultante dello stesso scherno con cui aveva ella accolto una sera la provocata mia dichiarazione di amore! - Leggi - dissi all'Augusta. E siccome l'Augusta esitava, supponendo che io intendessi di dare una soddisfazione alla sua gelosia, - Leggi - fammi il piacere, le dissi; - non lo faccio per te -. Appoggiai i gomiti sul piccolo tavolo lí accanto, misi la testa tra le mani e stetti cogli occhi chiusi ad ascoltare. La lettera diceva cosí: "Non meritereste che vi scrivessi. Il mio braccio, la mia testa si rifiutano ad un lavoro imposto ad essi dal cuore; ma io voglio scrivervi per l'ultima volta, prima di chiudere (se pur sarà possibile) le porte del mio spirito ad ogni affezione terrena e aprirle alle consolazioni di Dio, le sole che mi rimangano in questo punto. Ho guardato la faccia del dottore mentre toccava il mio polso. Si è rannuvolata ad un tratto. Però non avevo bisogno di questo indizio per credere che mi avvicino precipitosamente verso la morte. Mi sento morire con un'ineffabile soddisfazione che vi è impossibile imaginare. Anch'io, prima di ora, non avrei mai supposto che la morte potesse essere qualcosa di immensamente soave. Vi mando il mio perdono. Non mi preme piú di avere il vostro: me lo son meritato, e provo una consolazione come se avessi sentito ripetere questa parola dalla vostra stessa bocca. Vi ho avvelenato la giovinezza, il presente e forse l'avvenire! ... Vi ho fatto soffrire senza volerlo, ma non per cattiveria come vi siete ostinato a credere ... ed ora muoio di amore per voi! Perché vi scrivo tutto questo? Non lo sapete da gran tempo? Ah! Ve lo scrivo onde avvisarvi che avete ancora qualche giorno per risparmiarvi un rimorso. Io vi ho amato disperatamente quando voi non mi amavate piú; voi, badate! Mi amerete piú di prima appena saprete che sarò morta! Ho messo quattro ore a scrivere questa lettera, e mando la mia cameriera per consegnarvela di sua mano. Muoio sola, con una fida amica al capezzale. Mi lascerete morir cosí? Vi perdonerò anche questo. Addio per sempre! P. S. Ho pregato la mia amica di tagliarmi appena morta tutti i capelli. Se un giorno li vorreste come ricordo di colei che vi ha amato fino a morirne, chiedeteli alla Giorgina Nozzoli che voi conoscete. Addio un'altra volta e per sempre!" Sul principio al sentir pronunciare lentamente, nel modo che leggeva l'Augusta, quelle tristi parole, io avevo provato la voluttà di una quasi violazione brutale compita dalla voce di essa sullo spirito dell'Ebe. Era appunto questo il vigliacco e raffinato piacere che avevo voluto procurarmi; era questo lo strano avvilimento voluto infliggere all'Ebe facendomi ripetere dalla bocca di una donna come l'Augusta le parole dirette a commovere il mio cuore e scombuiare il mio spirito. Ma tale soddisfazione durò p oco: l'effetto fu tutto il contrario di quanto avevo imaginato. La voce dell'Augusta prese di mano in mano delle inflessioni che violentemente mi scossero il cuore. Da quella gola femminile che l'emozione rendeva tremante, ogni parola, ogni frase, ogni periodo della lettera riceveva un'espressione direi quasi un nuovo significato che addirittura ne centuplicava l'efficacia. Sentivo ad una ad una cadermi sul cuore, come del piombo liquefatto, le grosse gocce di lagrime dovute scendere silenziose sul pallido viso della morente, mentre la scarna sua mano erasi stentatament e trascinata sul foglio; e quando l'Augusta faceva una piccola pausa, e quando la sua voce si turbava in guisa che le parole gli uscivano molto confuse di bocca, mi pareva di udire l'affanno della infelice che la mia superbia condannava a morire senza una parola di perdono insistentemente invocata; e mi sentivo annodare la gola e strozzare il respiro. A metà della lettera aveva fatto un gesto quasi per strapparla di mano dell'Augusta e impedire la sacrilega offesa che intendeva di essere la mia vendetta; ma mi trattenne l'idea d'infliggermi come un affronto il sentirmela leggere sino in fondo dalla stessa bocca scelta per quella profanazione veramente indegna di un uomo. Non piangevo, ma tremavo, ma mi sentivo schiacciare da una terribile mano. Provavo sulle guance dei colpi di staffile che dovevan lasciarvi le lividure. Ogni stilla del diaccio sudore ch e mi scendeva dalla fronte mi pareva uno sputo di disprezzo lanciatomi in viso da tutte le creature gentili. Terminata la lettura successe nella stanza un silenzio profondo. Ero sotto l'oppressione di un incubo e non potevo destarmi. - Se tu fossi in tempo! - disse l'Augusta con voce commossa e colle lagrime agli occhi. Ci voleva quest'affettuosa esclamazione di una donna per farmi rientrare in me stesso. - Se fossi in tempo! - ripetei torcendomi dolorosamente le mani. Il fiàcchere mi pareva non volasse a precipizio come il cuore febbrile avrebbe voluto. Si trattava di dover correre da un capo all'altro della città e per le vie piú frequentate. Il cocchiere dovette credermi ammattito sentendomi sempre urlare dietro le sue spalle: - Ma corri! Ma sferza! - Montai gli scalini a quattro a quattro. La cameriera che già piangeva diede, appena mi vide, in un nuovo e piú forte scoppio di pianto. Ahimè! Giungevo troppo tardi? Un vecchio prete uscito in fretta dalla stanza dove era corsa la cameriera, mi venne incontro, mi porse la mano, e con accento semplice e calmo, ma che imprimeva intanto qualcosa di solenne al suo aspetto quasi volgare: - Signore! - mi disse - quali che possano essere le sue idee religiose, la prego di non turbare alla morente questi ultimi istanti. Iddio le ha concesso una tranquillità ch'ella stessa non sperava. Dimenticata la terra, tutti i suoi pensieri sono ora rivolti al cielo che si apre misericordioso alla sua anima afflitta. Non ci appartiene piú, o signore! Questi momenti sono di Dio! - Lo guardai ebetito. Una sentenza dell'Hegel mi si presentava in quel punto limpidissima alla memoria, e me la ripetevo macchinalmente: "La necessità della morte è quella del passaggio dell'individuo nell'universale". Rammentavo un'altra sentenza del Goethe: "La nostra vita non è una vera vita, ma la morte della vita divina che viene ad estinguersi nella nostra". E mi meravigliavo di poter fermarmi col pensiero su tali ed altre simili idee che mi passavano per la mente scombuiata pari a nuvoloni di un temporale spinti per l'aria dalla furia del vento. Come non provavo un dolore immenso? Come non morivo di dolore? Una strana lucidità mi faceva riflettere: - Forse sto per ammattire! - E tentavo di assistere al lento confondersi della mia ragione entro le tenebre della pazzia. Tutt'ad un tratto l'uscio da cui era uscito il prete spalancossi con violenza, e la cameriera venne fuori urlando e battendosi il petto. Mi avanzai fino alla soglia, tenuto sempre per mano dal prete il quale mi diceva delle parole che piú non riuscivo ad intendere ... Una suora di carità asciugava sulla bianca fronte dell'Ebe l'ultimo sudore della morte! Miseria del cuore umano! Son passati appena quattro anni! Mi pareva che senza di lei la mia esistenza non avrebbe piú avuto nessuna ragione di durare! ... E già ne parlo tranquillamente, e già sorrido pensando che obbliare è una profonda, una divina necessità della vita.

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