Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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UGO. SCENE DEL SECOLO X - PARTE PRIMA

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Bazzero, Ambrogio 1 occorrenze

Aginaldo liberò un catenone, poi l'altro, nè tenne la fune del ponte perché abbassasse a poco a poco, ma lasciò andare. Gisalberto esultava: - Investiamo con impeto! Al basso Ugo ancora affannosamente minacciava: - I contrappesi o la dannazione eterna! - ed ecco ficcando intorno gli occhi, gli venne veduto il maestro orrendamente schiacciato nel terreno e dimezzato il corpo da una rotaia sanguinosa: una freccia gli era confitta al petto. - Cavalieri! - ebbe ancora cuore di urlare Ugo: - tenete i catenoni! - ma non aveva ancora detto, che ecco la torre barcollò verso la fossa.... Egli che si stava attaccato ai congegni delle ruote posteriori fu balzato a cinque passi sul terreno: la torre con fragore di ruina schiantò il ponte contro le mura nemiche, e precipitò nel fossato Gisalberto, Aginaldo e quanti armati v'aveva. Nel castello suonarono i pifferi a scorno e dalle feritoie i balestrieri levarono grida di vittoria... Si scosse Ugo, dolorosissimo, e ancora incerto di quanto era accaduto, ancora imprecava: - Maestro, v'hanno pagato per tradirci? - Si volse su un fianco e vide gli uomini che, abbandonate le petriere e le manganelle, accorrevano animosissimi, giungevano alla torre, vi s'arrampicavano come gatti, tentavano di unghiarsi alla muraglia: ma la muraglia restava troppo alta e non dava appicco; piovevano gli olii e la pece, guizzavano d'alto in basso le punte: e chi degli assalitori rifaceva il cammino: chi era incalzato: chi incontrato: e chi piombava nella fossa: e chi, avvinghiato al legname, si spenzolava!... Intanto sopraggiunsero i fanti e i cavalli che erano indietro. - Avanzate le manganelle! Se il ponte c'è, per Dio! fate la breccia! - tuonava Ugo, tentando di rizzarsi dal terreno sul quale lo inchiodavano le doglie. Cominciarono poco più di dodici uomini, incontro alle frecce nemiche, a trascinare le macchine e a caricarle di sassi, e a porle da assestare i colpi. Presero a farle giuocare: un proietto percuoteva nelle mura, l'altro nella torre, sconquassandola e facendola sempre più piegare, e i nemici ridacchiavano e ululavano i troppo presti assalitori così sfracellati dagli amici. Ugo, non sapendosi persuadere che fosse desto, così com'era senza l'elmo, si tormentò fortemente la faccia, poi si rotolò davanti a una pozza d'acqua, e in essa tuffò il capo per averne refrigerio. Accorrevano in quella Oberto ed Ildebrandino, e venivano dall'altro lato del castello, investito dalle petriere e dai trabuchi, a portare la trista notizia che troppo deboli erano le macchine, nulla si era potuto fare, dalla porta deretana avevano dato il passo ad una banda di nemici, combattendoli sì, ma non sperdendoli. Tutti credevano che questa masnada fosse venuta alle spalle di Ugo per distruggere le torri di legno. Oberto incominciò a meravigliare: - Come? Qui non ci sono i nemici? - e vedendo, alla lontana, Ugo disteso bocconi: - Messere, - disse allo zio: - è morto! - Chi? - Ugo. Si storce nell'agonìa. Guardate! Ildebrandino per dolore volse via la faccia esclamando: - Oh la libertà delle nostre castella! - e vivamente: - Ma i nemici non sono venuti per di qua? - Tutto non è perduto, messere. Fate lavorare le scuri al ponte! - Ugo è morto! - Fate in vostro nome! E tutti e due galopparono oltre, per un pezzo, verso le macchie: ad un tratto ecco sul cammino loro incontro il trombetto di Ugo. - Che avete? - domandò Ildebrandino. - Lasciatemi, chè ho grandissima furia! - Che avete? - Devo parlare a lui! - Ugo è morto! Mi riconoscete? - Morto? - Morto di punta - confermò energicamente Oberto. - Santa Madre di Dio! - proruppe il trombetto: - Torno dall'inseguire un traditore accorso di lontano, che poco stette mi mettesse lo scompiglio nei saluzzesi! «Messere! dov'è Ildebrandino?» gridava egli per farci abbandonare l'assalto: «L'ho difeso quanto ho potuto! ho difeso madonna! ma il castello d'Ildebrandino è in mano dei nemici!» Oberto e lo zio furono lì lì per rovesciarlo d'arcioni. E quegli seguitava: - Ma dite! Il capitano è morto? - Pensiamo ai vivi - rispose irosamente Oberto. Lamentò Ildebrandino: - Che si è fatto da Aginaldo? Da Gisalberto? Baldo ancora aspetta coi cavalli! Che aspetta? In quella quattro uomini, gittando l'armi, venivano per la montagna, abbandonate le macchine e lasciati vilmente i compagni. Come videro i cavalieri e il trombetto Aimone, certo si sentirono a mal punto, il perchè due ad alta voce dissero a giustificazione: - Aginaldo e Gisalberto sono morti! Aldigero, Ugonello, Oddone, sono fuggiti alla valle! - e con artifìcio: - Voi che avete tromba, dove siete stato? Il capitano ci mandò in cerca di voi. Presto, suonate! ad avvisare i saluzzesi! - e si dispersero nel bosco. - Dio volesse che fosse come voi dite! - lamentò Aimone. - Pensiamo ai vivi - replicò Oberto con ambizione: - Due dì fa l'impresa fu cominciata da tale che aveva sproni d'argento! - E con quel tale io la compirò! - comandò lo zio: - Vi faccio cavaliere d'arme! Voi sarete tanto valente che sbatterete la testa di Adalberto sul ponte di Rupemala a orrendo giuoco dei mastini! - e così proclamando in atto di solenne promessa volse il capo nella direzione del suo castello. Una nube nerissima, a vortici rigurgitanti, dal sotto in su insanguinata da riflessi guizzanti, si levò dal basso del monte, roteando nella valle. - Oberto! - gridò Ildebrandino, afferrando il nipote per un braccio sì fortemente che quasi lo fece staffeggiare: - E non diemmo le mazze sul capo al malaugurato! Guarda! La masnada era corsa la! Oberto guardò e non riuscì che a dire: - E potemmo lasciare sola Imilda! Il trombetto si toccò la spada, dicendo, come ad ammansarli col pensiero di vendetta: - E affermava dunque il vero quel traditore! Ma gli ho pagato l'ambascerìa quanto valeva: tre stoccate sulla testa tanto vecchia e tanto pelata! E ancora parlava! «Ho difeso!» E voleva dirmi il suo nonme, e lo disse, ed io lo bandirò per vitupero dei traditori: Federigo saluzzese. - Il mio fedelissimo servo! - urlò lldebrandino: e Oberto spronava al suo castello. - Tu l'hai ucciso! Vitupero a te, figlio di bifolchi! Non conosci i forti e i fedeli?... Oberto! Oberto! attendimi al tuo fianco!... Tu l'hai uccìso? E tu mi tradisci?... Oberto! Oberto! Noi due soli? E i nemici quanti saranno? Ah! quelli cui diemmo il passo! E Federigo perchè lasciò Imilda? Forse che tutto era già perduto? Ma quelli che appiccarono il fuoco, non sono nemici di tutti! Dunque su tutti!... Suona la ritirata, o araldo, suona poi a raccolta e muoviamo al castello!... Oberto! Oberto! attendici! Saremo più di cento lance!... Suonate la ritirata, suonate, messer l'araldo! Suonate, per pietà! - Così finiva a supplicare il cavaliere, quasi impazzato, e pregava, alzando la mazza, e minacciava a mani giunte, e strappava le redini al cavallo per raggiungere Oberto e le strappava per accostarsi al trombetto. Aimone avrebbe le mille volte voluto una freccia a forargli le orecchie, piuttosto che quelle parole a straziargli l'anima, e chiamava il capitano che lo conducesse al furore di una zuffa, così: - Messer Ugo! Ditemi che non è morto! Perchè mi partii dal suo fianco? No, fu lui che mi mandò ad Eleardo! Messer Ugo!... - Suonate, la ritirata! E l'araldo dolorosissimo: - Oldrado non mi diede mai questo comando! - Dopo fate a raccolta!... Oberto! Oberto! - E se messer Ugo tornasse? - Anche là al mio castello sono i nemici di tutti! Il trombetto si disse con risoluzione guerresca: - La voce del capitano è la tromba: udite la voce - e squillò, verso il monte. - Che segno è questo? - domandò trepidante il cavaliere. - Quello che avvisa i saluzzesi di accorrere al portone! - disse superbamente l'araldo, e suonò verso la valle, e vide che dopo lo squillo si muoveva un drappelletto di cavalieri... Che? Un'insegna? Un'insegna quadra di comando. Fosse...? - Era l'insegna dì Ugo. Aimone staccò la tromba dalle labbra e guardò. Per una via Ugo veniva. E per un'altra Ildebrandino cacciavasi a rovinosa corsa dietro ad Oberto.... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alla mattina di quel giorno, nel castello d'Ildebrandino, partiti i cavalieri, lasciandovi poca scorta, madonna Imilda era scesa nella cappella. Oh sì eh'ella aveva grandissimo bisogno di conforto! - O Signore, o Vergine santissima! Fate che il padre mio mi torni salvo dall'armi! Almeno il padre! Oh come vi prego! Tu che sei interceditrice potente, e tu che tutto ascolti!... Se ci fosse anche la madre mia a pregarvi! Come la vorrei accanto a me! - E Imilda piangeva dirottamente: - Ella m'avrebbe salvata da questo tumulto! Vedi, anch'io vorrei esser tra l'armi, per udire quel grido: - vittoria!... Vergine dolcissima, tu sorridi a me che piango? E tu che sei Dio hai voluto per immenso gaudio avere in eterno la madre! A me l'hai tolta! Salvatemi il padre, che mi protegga!... Che sarebbe d'Imilda deserta nel castello degli avi?... Deserta?... O Signore, per un'altra persona io ti prego, per Oberto... Oh ma sarei deserta senza padre, sola nei lunghissimi giorni dell'abbandono! Oberto, povero Oberto, da tre notti non ho più cucito la tua fascia... Qual tormento, quale dolcezza novissima in me! Tu non sai! E se sapessi!... Ma che ho fatto? Che ha detto? Perché basta uno sguardo, una compassione, una lagrima?... Una vita infelice! - E Imilda fremeva tutta: e taceva, non osando nemmeno a sè stessa confessare il grido dell'anima combattuta: poi - A Oberto m'aveva promessa il padre: ed ero contenta, e sarei stata tranquilla... O Madonna, che voglio dirti? Che vuoi ascoltare? Non so... voglio... vorrei... devo, oh sì devo! come cristiana, pregarti per un altro cavaliero: devo, come nata da liberi castellani, pregarti per il capo dell'impresa! Egli ci rende tutto! Ed è valente, e cortesissimo.... Perchè sorridi, Vergine santissima? Non so, ma mi sorridi, come mai non facesti. Ah perchè anche tu lo scorgi benigna? E fai bene perchè mi fu detto ch'egli è infelice. Io sento che è infelicissimo! Non conobbe la mamma sua. Tu che sei la mamma di lassù fagli conoscere almanco... una sorella del suo dolore! E fammi grazia: disponi sì che ci sia un'altra giovinetta, bella e religiosa più di me, la quale preghi per Oberto. Così tu potrai esaudirla... Io sono... Io non so!.... Mi trovo irrequieta.... Ah tu sai ed esaudisci! Mi trovo tormentata! Amo messer Ugo! «Chi siete?» «Sono il figlio di Guidinga»... Ugo! Imilda era nella cappella da un pezzo e così pregava, quando nella corte ecco un grido spaventato, e un altro! Imilda si fa in piedi tremante, corre sotto un finestrone aperto. - I nemici! - ascolta la voce del vecchio Federigo: - Salvate madonna! - ed ecco ancora: - Fuoco! fuoco! La vergine, come a luogo di rifugio, si butta ai piedi dello altare, scongiurando con fiero rimorso: - O Signore, salvate mio padre! Come vi ho pregato? È il mio castigo dunque così pronto? - ed ode ancora un rumore di pugna, e uno sbattersi fragoroso di porte, e un correre affrettato su nelle stanze, e voci diverse, e tra tutte una irosissima che comandava: - Balestrate fuoco nelle finestre! - e un'altra: - Se tutto arde che ci rimane di bottino? - Combattete! - gridava Federigo agli uomini del castello: - Giuratemi! Alla fantasìa della fanciulla si presentò tutto il castello invaso da una turba di lupi e da un torrente di fuoco: e qua sotto alle scuri si sfasciavano gli usci: e qua si massacravano i servi: qua si sforzavano gli scrigni: dappertutto si portava ruina: e le fiamme divampavano più e più, alimentate dai cadaveri friggenti: e il fumo soffogava assalitori e assaliti. Chi precipitava dalle finestre: e chi dalle finestre entrava: chi si trascinava a morire sulla soglia, per avere fiato: chi impedito nella fuga o nella corsa di conquisto da qualche ferito pregante, gli faceva somma grazia o di una stoccata o di una maledizione... Venivano, venivano i furibondi! La camera del padre era deserta: lo scalone, il corritoio, lo stanzone dell'arme... - O Signore! la fanciulla se li imaginò al lume delle torce incendiarie nell'andito lunghissimo che conduceva alla cappella! Venivano, venivano!... Almanco le fossero già alle spalle, l'avessero già afferrata: ella si sarebbe trascinata all'altare, chiamando la Madonna! Ma oh come invece erano lenti e terribili! E che portava quel mostro? Dio! la non vedesse! Portava una testa sanguinosa!... O padre! O Ugo!... La povera vergine, esterrefatta dall'atrocissima visione, si rinversò con abbandono ai piedi dell'altare. - Non sia vero! - Fu scossa. Di nuovo la voce: - Balestrate fuoco nelle finestre! - E un'altra: - Sulle vetriere c'è su dipinta la croce: lì è la cappella. - Ancora la prima: - Sconficcate le inferriate! Imilda non ascoltò più, ed aggrappandosi ai gradini, discinse le chiome, le scompose, con quelle si velò il volto per pudicizia, poi ancora, ma più rassegnata, scongiurò: - E se vuoi mandarmi la morte! fa che non sia vergognosa! In quella al di là della porta del sacro luogo s'udirono due pedate affrettatissime e caute, e queste voci, diverse da quelle prime: - Capitano, qui c'è la cappella. Gli ori e gli argenti sono nostri. Non fate chiasso. Io provvederò - e fu chiusa la porta per di fuori e tolta la chiave. - Voi, Ingo, guarderete le finestre, e l'impresa avrà fruttato qualcosa, vi pare? - Dopo più nulla. Poi nella corte: - Oibò! guardate dal porre mano sulle cose sacre! C'è su scomunica di pontefici sommi. Via, dalle inferriate, marmaglia! Ma più poderosa gridava la voce: - Balestrate fuoco nelle finestre! dappertutto! Madonna Imilda per somma grazia della Vergine santa aveva perduto i sensi. Quando dopo un pezzo risentì l'angoscia della vita, si trovò avvinghiata fra le braccia di un cavaliero. Era suo padre? Era Oberto? Era un nemico?... Il primo pensiero che le si affacciò fu questo tremendo: - Quanto castigo! Almeno Ugo sia morto nella pugna! Ugo tristissimo! La vergine spossata levò la faccia... Oh sì l'angoscia della vita! - Sei tu! Era Ugo il cavaliero. La cappella ardeva tutta: la porta infiammata vedevasi parte cadente, parte squarciata, parte a terra. Al di là ecco la voce d'Ildebrandino: - È qui! È salva! Oberto la tua sposa è salva! - Con queste parole il vecchio credeva aggiungere maggiore gloria al fatto di Ugo: ed adempiva ad una promessa tra la sua donna morta e il morto padre di Oberto. Ugo lanciò uno sguardo alla porta, e parvegli vedere il volto di Oberto, lo vide, e parvegli che le fiamme gli fischiassero il pensiero di quello: - Imilda nelle braccia di Ugo! - Sì! - esultò, come Lucifero, il cavaliero tormentato e tormentatore, in un minuto solo di trionfale passione e di vendetta! La salvata gli avvelenava la faccia coll'alito scottante, e la persona coll'abbandono delle membra, insidioso e annuente. Oberto mosse un passo, ma arretrò soffogato. A quel solo movimento di lui, Ugo addoppiò la stretta al corpo d'Imilda, e fu ventura ch'egli non inciampasse, ubbriacato dalla malìa di quel peso: poi la spinse verso le fiamme, con atroce disegno.... - Di qui passerete un giorno sposa! - lamentò Ugo. - Può essere la porta che conduca al paradiso o all'inferno! - susurrò Imilda. Oberto mosse un secondo passo. - Pietà! - stridette Imilda. - Non sai morire? - tempestò Ugo nell'anima, scagliò a terra l'azza, e rise. E veramente per la prima volta sghignazzò. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Come Ugo era accorso nella cappella? Rifacciamo un po' di cammino, tornando al luogo della battaglia. Lasciammo Ugo, sbalestrato a terra, vicino alla pozza d'acqua, stordito ed ammaccato. Quand'egli ebbe levata la persona e guardato intorno nel bosco folto ed altissimo, vide fanti e cavalli fuggenti per ogni direzione. Non scorse però nè Ildebrandino nè Oberto che volavano a Rupemala per un cammino assai basso e nascosto. Il dolore dell'anima in Ugo la vinse sui dolori del corpo, perch'egli disperatissimo si diede per riannodare tutta quella gente scompigliata, ma invano. Gridavano in cento: - Oh quanti morti! Sarà gran ventura se domani avremo le gole salve dal capestro. Fummo traditi! Messer Baldo e Ildebrandino già lo dissero. Fummo traditi! - E chi il traditore? - Traditrice la poca esperienza degli anni in voi. - Morire domani? Oh non è meglio cercare oggi un ultimo sforzo di vittoria e gloriosa vittoria? Ma i dispersi erano troppo spaurati dalla gravità del fatto commesso e dai casi della mattina... Ugo gridava... A un tratto ode uno squillo di tromba. - Il segnale ai saluzzesi! Suono come questo non può uscire che dalla tromba di Aimone! Demonio! che suoni di là, dall'altra vita? Non è più tornato! E chi mi disse ch'è morto? - sclama Ugo, e sorge sul suo cavallo e rizza l'insegna, e, mostrando la faccia audacissima e disarmata, chiama intorno a se tre o quattro lance accorrenti, Aroldo, Bonifacio, Eustachio, trova Aimone, muove alle macchie, scavalca, solleva i saluzzesi, e solo si precipita al castello.... Che? Nessuno vorrebbe credere, ma è così! il ponte levatoio calato. Ugo, strappata la scure a un tardo soldato e datagliela sul capo, si mette a lavorare contro il portone, con braccia poderosissime, tanto più quanto più dolorose. Accorrono a lui fanti. L'insidia tremenda! ad un tratto si scuotono i catenoni e il ponte si solleva. Ugo, perduto l'equilibrio, piomba all'indietro e per somma sua ventura, siccome non vi era sbarra, rotola nel fossato. I fanti volsero le spalle per fuggire, ma il legno inclinantesi all'insù li fece sdrucciolare giù al portone, ove tutti in un fascio si maledirono orrendamente schiacciati. Ugo si abbranca ad uno dei ritti che sostengono il ponte quando sia calato, e quivi, chiamando e richiamando, giunge a farsi porgere una lancia da Bonifacio. Appena in salvo alla riva, non trovando più il suo cavallo, stramazza d'arcione Aroldo, monta sull'animale di quello, comandando: - Sorprendiamo cogli arcieri dalla parte della valle! Aimone! Aimone! Dov'è Aimone? Cercate di lui e dite che suoni a richiamare tutti i duci vicino a me! Bonifacio osserva: - È troppo tardi! Qui tutto è perduto! - E che? In tutti un impeto solo! - Baldo e Ildebrandino vi diranno.... - Per Dio! obbediranno! Io solo sono il capo dell'impresa! Altissimamente lo grido alle castella, io, io! Aroldo, Bonifacio, Eustachio, non credevo di parlare con gente pari vostra! - Galoppa verso il terreno raso, ed alza la faccia... Vede un fumo sollevarsi di lontano. - Il forte d'Ildebrandino! Chi disse di lasciare sguernite le castella? O Gesù! - e con spronate furiose Ugo lancia il cavallo... In quale direzione? Pareva che cento demoni strappassero il freno all'animale, perchè era tormentato innanzi, indietro, a destra, a sinistra, come una cosa pazza. - Qui tutto è perduto! - ripeteva il cavaliero straziatissimo le parole di Bonifacio. - Ed io voglio vittoria! - Fugge il messere! Il capo dell'impresa! - fischiano dietro ad Ugo Bonifazio ed Eustachio: e poco dopo Baldo accorre dalla valle. Ugo lancia il cavallo così da averne mozzo il respiro, lancia e smania! Eccolo al ponte di Ildebrandino: entra nel castello, balza d'arcioni gridando: - Io voglio combattere i nemici! Qui si raggrupperà una fortissima pugna! Suonate tutte le trombe! Tutti i duci vicino a me! Gli si presenta a terra un ferito, il quale, giungendo le mani: - Per amore della croce, abbiatemi misericordia! - Dov'è madonna? - supplica Ugo: - Ah!... misericordia a me! - Non uccidetemi! - Dico di madonna! Madonna! I nemici! - Misericordia, gran barone! Il traditore è quello che era all'uscio della cappella! Ho risparmiato anche il veleno per voi, gran barone! Ugo si caccia per le scale e nelle camere, trova nemici predatori e li combatte. Scompigliati, gli scarsi che avevano tentato la sorpresa, facile dacchè il castello era poco difeso, sono stretti a sgombrare, gridando: - È qui Ugo con cento cavalli! - Ugo, giù ancora per lo scalone, entra nei corridoi incendiati. Oh ecco! vede Ildebrandino ed Oberto. Incalza Ugo: - Ov'è madonna? Quegli meraviglia spaventato: - I morti tornano! - E questi: - Ugo è risuscitato per mia dannazione! - E tutti e due, facendosi segni di croce, si danno a fuggire, guardandosi alle spalle. Ugo dolorosamente li chiama e li richiama per tutti i santi: poi si mette dietro ad essi, corre, corre... È nella corte ed inciampa. Lo stesso ferito geme: - Abbiate pietà! - Il cavaliero guarda, e vede che quegli ha sul petto lo stemma di Adalberto, e sulla testa sanguinosa la tonsura di chierico. E quello: - Fate da cavaliero cristiano! Sono sul sagrato! - Era Ingo difatti sotto una finestra della cappella. Ugo, con subito pensiero religioso, esclama: - Voto una lampada d'oro alla Vergine di Saluzzo! - e facendo sgabello col corpo del ferito, s'aggrappa all'inferriata di una finestra aperta, si strascina su col petto, e ripete: - In luogo sacro voto due lampade d'oro! - D'improvviso una vampa guizza dal sotto in su ad infuocargli i capegli, e un globo di fumo gli soffoca il respiro... Riapre gli occhi: storce la bocca a ricevere aria dalla corte, fa per balzare... No, prima nell'ardentissimo strazio dell'anima raddoppia il voto alla Vergine del cielo: - Quattro lampade d'oro, per quel che ho falto! per quello che voglio fare! - e fìcca gli occhi dolorosi nella cappella, cercando l'altare a cui drizzare la destra.... Imilda è là dentro arrovesciata ed immota!... Ugo balza a terra, strappa di sotto al corpo del ferito un'azza, precipita dove gli pare debba essere l'ingresso della cappella. L'uscio è in fìamme! Lo squassa terribilmente. È chiuso! Tempesta colla scure. A quell'indiavolare accorrono Ildebrandino ed Oberto. Essi avevano combattuto gli invasori, ma non avevano trovato Imilda per tutto il castello, né alcuna cosa saputa di lei. I servi e le ancelle crano stati uccisi: il povero Federigo più non tornava dal campo di certo. Accorrono dunque Ildebrandino e Oberto, sclamando: - È proprio lui! Gii spiriti hannobraccia di nebbia. Questo no, per Dio! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alla sera di quel medesimo giorno, narrano le cronache: Adalberto, andando nella sua camera e buttandosi armato sul letto, trovò al capezzale la fascia che Oldrado aveva riportato nel gioco d'arme, vent'anni prima, e su quella c'era scritto il numero dei morti e dei feriti nemici. Narrano anche che quello sparviero presentato all'omaggio, sorgesse dalle ortiche fra cui fu gettato, e apparisse cogli artigli di ferro e col becco di ferro, vecchio, lontano, lontanissimo, su un monte, ma ancora pronto a spiccare il volo. Queste ciance furono scritte dall'eremita di Malandaggio, un veggente che la sapeva assai lunga!

CENERE

663041
Deledda, Grazia 1 occorrenze

Anania, meno alto e più sottile di lei, le camminava al fianco, trepidante di piacere e di gelosia; gli pareva impossibile che la bella creatura regale e taciturna, nei cui occhi sdegnosi brillava tutta la fierezza d'una razza dominatrice, si abbassasse ad amarlo e neppure a guardarlo. Margherita parlava poco; non era civetta, non cambiava aspetto né voce, quando gli uomini le rivolgevano lo sguardo o la parola; e Anania l'amava anche per questo, e non vedeva che lei, non guardava altra donna che per paragonarla a lei e trovarla inferiore; e più egli diventava uomo e lei donna, e più la passione lo infiammava: spesso gli sembrava impossibile che anni ed anni dovessero ancora passare prima che ella diventasse sua. Durante le ultime vacanze si erano spesso trovati soli, nel cortile di Margherita, favoriti dalla serva che facilitava la loro corrispondenza. Di solito essi tacevano, ma mentre Margherita, o per paura o per pudore tremava, vigile e melanconica, Anania sorrideva completamente dimentico del tempo, dello spazio, delle cose e delle vicende umane. «Perché non mi ripeti le parole che mi scrivi?», le domandava. «Taci! ... Ho paura ... » «Di che? Se tuo padre ci sorprende io mi getterò per terra, gli dirò: "no, non facciamo del male; siamo già uniti per l'eternità ... ". Non aver paura; io sarò degno di te, io ho un avvenire davanti ... Io sarò qualche cosa!» Margherita non rispondeva, e vedendola così bella e gelida, con gli occhi illuminati dalla luna come gli occhi di perla d'un idolo, egli non osava baciarla, ma la fissava silenzioso e sussultava, non sapeva bene se di angoscia o di felicità. «Il mare è calmo. Dio sia lodato!», disse uno dei viaggiatori. Anania si scosse dai suoi ricordi e guardò la distesa verde- dorata del mare, che nel crepuscolo pareva una pianura illuminata dalla luna. Le rovine d'una chiesetta, un sentiero attraverso le macchie, perduto sull'estremo limite della costa, quasi tracciato da un sognatore che l'avesse condotto fin laggiù con la speranza di proseguirlo sul velluto marezzato delle onde, attirarono gli sguardi di Anania. Egli pensò a Renato del quale gli parve intravedere il triste profilo su una roccia guardante il mare ... No, non è lui, è un altro eroe di Chateaubriand, Eudoro, che sulle roccie marine della Gallia selvaggia sogna le rose dell'Ellade lontana ... Ebbene, no, non è neppure Eudoro ... è un poeta che si domanda: Questa roccia granitica erta sul mar che fa? ... Ma la roccia, la chiesetta ed il sentiero sono già spariti e con essi il profilo dell'incerto personaggio ... La tristezza dello studente aumentava: domande gravi e inutili gli attraversavano la mente, cadevano senza risposta, come pietre buttate nell'acqua. Perché non poteva egli fermarsi su quella costa selvaggia, dolcemente melanconica, e perché il profilo intraveduto sulla roccia non poteva essere il suo? Perché non poteva egli costrurre una casa sulle rovine della chiesetta? Perché pensava a queste stupide romanticherie, perché andava a Roma, perché studiava, perché studiava leggi? Chi era lui? Che cosa era la vita, la nostalgia, l'amore, la tristezza? Che cosa faceva Margherita? Perché egli l'amava? E perché suo padre era servo? E perché suo padre lo aveva replicatamente avvertito di visitare, appena giunto a Roma, quei luoghi dove si conservano monete d'oro ritrovate sotterra o nelle antiche rovine? Suo padre era o no un delinquente, o un pazzo affetto dall'idea fissa dei tesori? Che aveva egli ereditato da suo padre? L'idea fissa in forma diversa? Era dunque soltanto un'idea fissa, una malattia mentale, il pensiero costantemente rivolto a quella donna? Ma trovavasi ella veramente a Roma, e la ritroverebbe egli? «Anninia», disse con voce beffarda l'altro studente, dando ad Anania il nomignolo che i compagni gli avevano affibbiato, «fai la nanna? Su, via, non piangere, la vita è fatta così: un biglietto per viaggio circolare, con diritto di fermate più o meno lunghe. Consolati almeno che il mal di mare non verrà a interrompere i tuoi sogni d'amore ... » Infatti il mare era calmissimo e la traversata cominciò coi migliori auspici. La luna nuova calava illuminando fantasticamente le coste e la roccia enorme di Capo Figari, sentinella ciclopica vigilante il melanconico sonno dell'isola abbandonata. Addio, addio, terra d'esilio e di sogni! Anania rimase immobile, appoggiato al parapetto del piroscafo, finché l'ultima visione di Capo Figari e delle isolette, sorgenti azzurre dalle onde come nuvole pietrificate, svanirono tra i vapori dell'orizzonte; poi sedette sulla panchina, battendosi dispettosamente un pugno sulla fronte per ricacciar dentro le lagrime che gli velavano gli occhi; e rimase lì, pallido e sconvolto, intirizzito dalla brezza umida, finché vide la luna, rossa come un ferro rovente, calare in una lontananza sanguigna. Finalmente si ritirò, ma tardò ad assopirsi; gli pareva che il suo corpo s'allungasse e si restringesse incessantemente, e che una interminabile fila di carri passasse sopra il suo petto indolenzito; i più tristi ricordi della sua vita gli tornarono in mente: gli sembrava di udire, nello scroscio delle acque frante dal piroscafo, il rumore del vento sopra la casetta della vedova, a Fonni ... Oh, come, come la vita era triste, inutile e vana! Che cosa era la vita? Perché vivere? Così, tristemente, si assopì; ma svegliandosi si sentì un altro, agile, forte, felice. Si era addormentato in un tetro paese di dolore, fra onde livide vigilate da una luna sanguigna: si svegliava in mezzo ad un paese d'oro, in un paese di luce, - vicino a Roma. «Roma!», pensò, palpitando di gioia. «Roma, Roma! Patria eterna, abisso d'ogni male e fonte d'ogni bene!» Gli pareva di poterla abbracciare tutta, di muovere alla conquista del mondo intero. Già a Civitavecchia, attraversando la città umida e nera sotto il cielo mattutino, tutto gli sembrava bello, e diceva allo studente Daga: «Vedi, mi par d'essere nel vestibolo d'una grotta marina meravigliosa». Il Daga, che aveva già vissuto un anno a Roma, sorrideva beffardo, invidiando l'entusiasmo enfatico del suo compagno. L'arrivo rombante del diretto diede al giovane provinciale sardo un senso di terrore, la prima impressione vertiginosa d'una civiltà quasi violenta e distruggitrice. Gli parve che il mostro dagli occhi rossi lo portasse via, come il vento porta la foglia, lanciandolo nel turbine della vita. A Roma i due studenti andarono ad abitare al terzo piano di una casa in Piazza della Consolazione, presso una vedova, madre di due graziose ragazze telegrafiste, maestre, dattilografe, civette. I due studenti dormivano nella stessa camera, vasta, ma poco allegra, divisa da una specie di paravento formato con una coperta gialla; la loro finestra guardava su un cortile interno. La prima volta che Anania guardò da quella finestra provò un senso disperato di sgomento. Non vedeva che muri altissimi, d'un giallo sporco, bucati da lunghe finestre irregolari, e panni miseri, d'un candore equivoco, appesi a fili di ferro; uno di questi fili, con anelli scorrevoli, dai quali pendevano laccetti di spago attorcigliati, passava davanti alla finestra degli studenti. Mentre Anania guardava con disperata tristezza i muri perdentisi sul pallido cielo della sera, Battista Daga scosse il filo e cominciò a ridere: «Guarda, Anninia, guarda come gli anelli e i laccetti di spago ballano. Sembrano vivi. Così è la vita: un filo di ferro attraverso un cortile sporco: gli uomini si agitano, sospesi sopra un abisso di miserie». «Non rompermi le scatole», disse Anania, «sono abbastanza melanconico! Usciamo, mi par di soffocare.» Uscivano, camminavano, si stancavano, storditi dal rumore delle carrozze e dallo splendore dei lumi, dal passaggio violento e dal rauco urlo delle automobili. Anania si sentiva triste, tra la folla; gli pareva d'essere solo in un deserto, e pensava che se si fosse sentito male e avesse gridato nessuno lo avrebbe udito e soccorso. Ricordava Cagliari con nostalgia struggente; oh, balcone incantato, orizzonte marino, dolce occhio di Venere! qui non esistevano più né stelle, né luna, né orizzonte: solo un disgustoso ammasso di pietre, un pullulamento di uomini che allo studente barbaricino parevano d'una razza diversa e inferiore alla sua. Veduta attraverso lo sbalordimento, la stanchezza dei primi giorni, la suggestione melanconica del buio appartamentino di Piazza della Consolazione, Roma gli dava una tristezza quasi morbosa; nella città vecchia, dalle vie strette, dalle botteghe puzzolenti, dagli interni miserabili, dalle porte che parevano bocche di caverne, dalle scalette che sembrava si perdessero in un tenebroso luogo di dolore, egli ricordava i più miseri villaggi sardi; nella Roma nuova si sentiva smarrito, tutto gli appariva grande, le strade tracciate dai giganti per giganti, le case montagne, le piazze tancas sarde; anche il cielo era troppo alto e troppo profondo. Anche all'Università, dove egli cominciò a frequentare assiduamente i corsi di Diritto civile e penale e le lezioni di Enrico Ferri, lo aspettava una delusione. Gli studenti non facevano altro che rumoreggiare e ridere e beffarsi di tutto. Pareva si beffassero della vita stessa. Specialmente nell'aula IV, mentre si aspettava il Ferri, il chiasso e il divertimento oltrepassavano il limite; qualche studente saliva sulla cattedra e cominciava una parodia di lezione accolta da urli, fischi, applausi, grida di «Viva il Papa», «Viva Sant'Alfonso de' Liguori», «Viva Pio IX». Qualche volta lo studente, dalla cattedra, con una faccia tosta indescrivibile imitava il miagolar del gatto o il canto del gallo. Allora le grida e i fischi raddoppiavano; venivano lanciate pallottole di carta, pennine, fiammiferi accesi, finché l'arrivo del professore, accolto da applausi assordanti, metteva fine alla scena. Anania si sentiva solo, triste fra tanta gioia, e gli sembrava di appartenere ad un mondo diverso da quello ove era costretto a vivere. Solo quando il professore cominciava a parlare, egli provava una commozione profonda, quasi un senso di gioia. Fantasmi di delinquenti, di suicidi, di donne perdute, di maniaci, di parricidi, passavano, evocati dalla voce possente del professore, davanti al pensiero turbato di Anania. E fra tante figure egli ne distingueva una, che passava e ripassava davanti a lui, ad occhi bassi. Ma invece di fissarla con orrore egli la guardava con pietà, col desiderio di stenderle la mano. Una sera lui e il Daga attraversavano Via Nazionale: lo splendore delle lampade elettriche si fondeva col chiarore della luna: le finestre del palazzo della Banca erano tutte vivamente illuminate. «Sembra, che tutto l'oro racchiuso nella Banca brilli attraverso le finestre», disse Anania. «Ma bbraaavooo! Si vede che la mia compagnia ti dirozza.» «Sono più che mai romantico stasera. Andiamo al Colosseo!» Andarono. Si aggirarono a lungo nel divino mistero del luogo, guardando la luna attraverso ogni arco; poi sedettero su una colonna lucente e sospirarono entrambi. «Io sento una gioia simile al dolore,» disse Anania. Il Daga non rispose, ma dopo un lungo silenzio disse: «Mi sembra d'essere nella luna. Non ti pare che nella luna si debba provare ciò che si prova qui, in questo gran mondo morto?». «Sì», disse Anania, con voce flebile. «Questa è Roma.» Al ritorno passarono ancora per Via Nazionale. Chiacchieravano in dialetto. Era tardi, e su e giù, attraverso i marciapiedi quasi deserti vagavano molte farfalle notturne, così le chiamava il Daga. A un tratto una di esse passò accanto a loro e li salutò in dialetto sardo. «Bonas tardas, pizzoccheddos!» Era alta, bruna, con grandi occhi cerchiati: la luce elettrica dava al suo piccolo viso, emergente dal collo di pelo d'un soprabito chiaro, un pallore cadaverico. Come a Cagliari, la sera in cui Rosa e la compagna lo avevano fermato, Anania sussultò, preso da un senso d'orrore, e trascinò via il Daga che rispondeva insolentemente alla donna. Era lei? Poteva esser lei? Era una sarda ... poteva esser lei! II. Sdraiato sul suo lettuccio, dopo ore ed ore di amarezza, di dubbio, di opprimente melanconia, egli pensava: «È inutile illudermi: non sono pazzo, no; ma non posso più vivere così; bisogna ch'io sappia ... Oh, fosse morta! fosse morta! Bisogna che io cerchi. Non sono venuto a Roma per questo? Domani! domani! Dal giorno che arrivai ripeto questa parola, e l'indomani arriva ed io non faccio niente. Ma che posso fare? Dove devo andare? E se la trovo?». Ah, era di questo che egli aveva paura. Non voleva neppur pensare a quanto poteva accadere dopo ... Improvvisamente si domandò: «E se mi confidassi col Daga? Se io ora gli dicessi: "Battista, devo uscire, devo recarmi in questura per chiedere informazioni ... ". Ah, non ne posso più! Sono tanti e tanti anni che io trascino con me questo peso: ora vorrei liberarmene, gettarlo via come si getta un carico opprimente ... liberarmene, respirare ... Bisogna snidarlo questo verme roditore. Mi diranno che sono uno stupido, mi convinceranno che lo sono, mi diranno di smettere ... Ebbene, tanto meglio se mi convinceranno ... Che giornata triste! Il cielo si abbassa ... si abbassa sempre più ... Avrei sonno? Bisogna ch'io vada subito». Pioveva dirottamente. Anche il Daga sonnecchiava sul suo lettuccio, al di là del paravento. «Battista», disse Anania, sollevandosi, col gomito sul guanciale, «tu non esci?» «No.» «Mi presti il tuo ombrello?» Sperava che il compagno gli chiedesse dove voleva andare, con quel tempo orribile, ma il Daga disse: «Non potresti farmi il piacere di comprartene uno?» Anania sedette sul letto, rivolto al paravento, e mormorò: «Devo andare in questura ... ». E sperò ancora che una voce fraterna gli chiedesse il suo segreto ... Ecco, egli palpitava già pensando come cominciare ... Ma attraverso il paravento una voce beffarda chiese: «Vai a far arrestare la pioggia?». Il segreto gli ripiombò sul cuore, più amaro e grave di prima. Ah, non un paravento, ma una muraglia insuperabile lo divideva dalla confidenza e dalla carità del prossimo. Non doveva chiedere né aspettare aiuto da nessuno; doveva bastare a se stesso. S'alzò, si pettinò accuratamente e cercò nel cassetto la sua fede di nascita. «Prendilo pure, l'ombrello. Ma perché vai?», chiese l'altro, sbadigliando. Egli non rispose. Sulle scale buie si fermò un momento, ascoltando lo scroscio sonoro dell'acqua sull'invetriata del tetto: pareva il rombo d'una cascata, che dovesse di momento in momento precipitarsi entro la casa, già inondata dal fragore dell'imminente rovina. Una tristezza mortale gli strinse il cuore. Uscì e vagò lungamente per le strade lavate dalla pioggia: salì su per una viuzza deserta, passò sotto un arco nero, guardò con infinita tristezza i chiaroscuri umidi di certi interni, di certe piccole botteghe, nella cui penombra si disegnavano pallide figure di donne, di uomini volgari, di bimbi sudici: antri ove i carbonari assumevano aspetti diabolici, dove i cestini di erbaggi e di frutta imputridivano nell'oscurità fangosa, ed il fabbro e il ciabattino e la stiratrice si consumavano nei lavori forzati, in un luogo di pena più triste della galera stessa. Anania guardava: ricordava la catapecchia della vedova di Fonni, la casa del mugnaio, il molino, il misero vicinato e le melanconiche figure che lo animavano; e gli pareva d'esser condannato a viver sempre in luoghi di tristezza e tra immagini di dolore. Dopo un lungo ed inutile vagabondare rientrò a casa e si mise a scrivere a Margherita. «Sono mortalmente triste: ho sull'anima un peso che mi opprime e mi schiaccia. Da molti anni io volevo dirti ciò che ti scrivo adesso, in questo triste giorno di pioggia e di melanconia. Non so come tu accoglierai la rivelazione che sto per farti; ma qualunque cosa tu possa pensare, Margherita, non dimenticare che io sono trascinato da una fatalità inesorabile, da un dovere che è più terribile d'un delitto ... » Arrivato alla parola «delitto» si fermò e rilesse la lettera incominciata. Poi riprese la penna, ma non poté tracciare altra parola, vinto da un gelo improvviso. Chi era Margherita? Chi era lui? Chi era quella donna? Cosa era la vita? Ecco che le stupide domande ricominciavano. Guardò lungamente i vetri, il filo di ferro, gli anellini ed i lacci bagnati e saltellanti su uno sfondo giallastro, e pensò: «Se mi suicidassi?», Lacerò lentamente la lettera, prima in lunghe striscie, poi in quadrettini che dispose in colonna, e tornò a fissare i vetri, il filo di ferro, i laccetti che parevano marionette. Rimase così finché la pioggia cessò, finché il compagno lo invitò ad uscire. Il cielo si rasserenava; nell'aria molle vibravano i rumori della città rianimatasi, e l'arcobaleno s'incurvava, meravigliosa cornice, sul quadro umido del Foro Romano. Al solito, i due compagni salirono per Via Nazionale e il Daga si fermò a guardare i giornali davanti al Garroni, mentre Anania proseguiva distratto, andando incontro ad una fila ciangottante di chierici rossi, uno dei quali lo urtò lievemente. Allora egli parve destarsi da un sogno, si fermò e aspettò il compagno, mentre i chierici s'allontanavano, e il riflesso dei loro abiti scarlatti dava uno splendore sanguigno al lastrico bagnato. «Nella mia infanzia ho conosciuto il figliuolino d'un bandito famoso; il bimbo era già arso da passioni selvaggie, e si proponeva di vendicare suo padre. Ora invece ho saputo che si è fatto frate. Come tu spieghi questo fatto?», domandò Anania. «Quell'individuo è pazzo!», rispose il Daga con indifferenza. «Ebbene, no!», riprese Anania animandosi. «Noi spieghiamo o vogliamo spiegare molti misteri psicologici, dando il titolo di matto all'individuo che ne è soggetto.» «Per lo meno, però, è un monomaniaco. D'altronde anche la pazzia è un mistero psicologico complicato; un albero il cui ramo più potente è la monomania.» «Ebbene, ammetto. Ma l'individuo in questione aveva la monomania del banditismo; aggiungi, monomania atavica. Facendosi frate egli, sebbene uomo quasi primitivo, ha voluto liberarsi dal suo male ... » «E finirà con l'impazzire davvero, quel frate. Un uomo cosciente, colto dal malanno di un'idea fissa qualunque, deve liberarsene secondandola.» «Tu forse hai ragione», disse Anania, pensieroso. E non parlò più finché non arrivarono all'angolo di Via Agostino Depretis. Allora disse, svoltando strada: «Voglio prendere ... mi hanno incaricato di prendere l'indirizzo di una persona ... Devo andare in questura». Il compagno lo seguì, curioso. «Chi è questa persona? Chi ti ha incaricato? È del tuo paese?» Ma Anania non si spiegava. Arrivati davanti a Santa Maria Maggiore il Daga dichiarò che non sarebbe andato oltre. «Allora aspettami qui», disse Anania, senza fermarsi, «ti dirò poi ... » Messo in curiosità il Daga lo seguì per un tratto, poi lo aspettò sulla gradinata della chiesa. «Il dado è gettato?» chiese con enfasi, quando Anania ricomparve. Ma nonostante le sue domande e i suoi scherzi non riuscì a sapere che cosa il suo compagno era andato a fare in questura. Appoggiato al muro Anania guardava l'orizzonte e ricordava la sera in cui, bambino, era salito sulle falde del Gennargentu ed aveva veduto un pauroso cielo tutto rosso, animato da spiriti invisibili. Anche adesso sentiva un mistero aleggiargli intorno, e la città gli sembrava una foresta di pietra attraversata da fiumi pericolosi, e sentiva paura. III. Sì, come si legge nelle vecchie storie romantiche, il dado era gettato. La questura, dopo la domanda e le indicazioni di Anania, fece ricerca di Rosalia Derios, e verso la fine di marzo informò lo studente che al numero tale di Via del Seminario, all'ultimo piano, abitava una donna sarda, affitta-camere, il cui passato e i connotati corrispondevano a quelli di Olì. Questa signora si chiamava, o si faceva chiamare, Maria Obinu, nativa di Nuoro. Abitava in Roma da quattordici anni, e nei primi tempi aveva vissuto un po' irregolarmente. Da qualche anno, però, menava vita onesta - almeno in apparenza - affittando camere mobiliate e facendo pensione. Anania non si commosse troppo nel ricevere queste informazioni. I connotati combinavano; egli non ricordava precisamente la fisonomia di sua madre, ma ricordava che ella era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari: e la Obinu era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari. Inoltre egli sapeva che a Nuoro non esisteva alcuna famiglia Obinu, e che nessuna donna nuorese viveva e affittava camere a Roma. Evidentemente quindi la Obinu falsava il suo nome e la sua origine ... Tuttavia egli sentì che la donna indicatagli dalla questura non era, non poteva essere sua madre; questa non viveva a Roma dal momento che la questura non riusciva a scoprirla. Dopo giorni e mesi di attesa e di ansia, egli provò come un senso di liberazione. La primavera penetrava anche nel cortile melanconico di Piazza della Consolazione, in quell'enorme pozzo giallo esalante odori di vivande, animato dal canto delle serve e dal gorgheggio dei canarini prigionieri. L'aria era tiepida e dolce; sul cielo azzurro passavano nuvolette rosee, e il vento portava fragranze di rose e di viole. Affacciato alla finestra, Anania si abbandonava ai suoi sogni nostalgici. L'odore delle viole, le nuvole rosee, il tepore della primavera, tutto gli ricordava la terra natìa, i vasti orizzonti, le nuvole che dalla finestra della sua cameretta egli vedeva affacciarsi o tramontare fra gli elci dell'Orthobene. Poi ricordava la pineta di monte Urpino, il silenzio delle cime coperte d'asfodeli e di iris violette, il mistero dei viali vigilati dal puro sguardo delle stelle. E la figura diletta di Margherita dominava i freschi paesaggi natii, circondata di asfodeli e di gigli selvatici, coi capelli di rame sfumati nel fulgore del cielo metallico. La primavera romana non lo commoveva che per le rimembranze: gli sembrava una primavera artificiale, troppo ardente e luminosa, troppo abbondante di fiori e di profumi. Piazza di Spagna, ornata come un altare, con la scalinata coperta di petali di rose mosse dalla brezza, il Pincio con gli alberi avvolti di fiori violacei, le vie profumate dai cestini di narcisi e di ranuncoli che le fioraie, ferme sull'orlo dei marciapiedi, offrivano ai passanti, - tutta questa ostentazione, tutto questo mercato della primavera, dava allo studente l'idea di una festa banale, che a lungo andare rattristava e disgustava. La primavera palpitava al di là dell'orizzonte; giovinetta selvaggia e pura ella scorrazzava attraverso le tancas coperte d'erbe alte aromatiche, e cantava con gli uccelli palustri in riva ai torrenti, e scherzava coi mufloni e con le lepri, fra i ciclamini, sotto le immense quercie sacre ai vecchi pastori della Barbagia, e si addormentava all'ombra delle roccie fiorite di musco, nei voluttuosi meriggi, mentre intorno al suo letto di felci e di pervinche gli insetti dorati ronzavano amandosi, e le api suggevano le rose canine estraendone il miele amaro; amaro e dolce come l'anima sarda. Anania amava e viveva in questa primavera lontana; seduto accanto alla finestra guardava le nuvolette rosee, e s'immaginava di essere un prigioniero innamorato. Una sonnolenza piacevole gli velava lo spirito, togliendogli la forza e la volontà di pensare a determinate cose. Le idee venivano e passavano nella sua mente, - così come le persone passano per la via; lo interessavano per un attimo, ma non si fermavano ed egli le dimenticava subito. Più che mai amava la solitudine; e persino la presenza del compagno lo irritava, anche perché il Daga lo derideva continuamente. «Noi vediamo la vita sotto aspetti ben diversi», gli diceva, «cioè io la vedo e tu non la vedi. Io sono miope e vedo, attraverso lenti fortissime, le cose e le umane vicende, nitidamente, rimpicciolite; tu sei miope e non possiedi neppure un paio d'occhiali.» Talvolta infatti pareva ad Anania di aver un velo davanti agli occhi; egli viveva di diffidenza e di dolore. Anche la sua passione per Margherita, in fondo, era composta di tristezza e di paura. Un giorno, agli ultimi di maggio, egli sorprese il compagno stretto in tenero amplesso con la maggiore delle padroncine. «Sei un bruto», gli disse con disprezzo. «Non amoreggi anche con l'altra sorella? Perché ti burli di entrambe?» «Scusami, stupido: son loro che vengono a buttarmisi fra le braccia, le posso respingere?», chiese cinicamente il Daga. «Poiché il mondo è diventato un gambero, profittiamone. Ora son le donne che seducono gli uomini; ed io sarei più stupido di te se non mi lasciassi sedurre ... fino ad un certo punto ... » «Ma perché certe cose non accadono che a certi tipi? A me no, per esempio.» «Perché agli asini non può succedere ciò che succede agli uomini: eppoi le nostre soavi padroncine hanno, in fondo, l'onesto desiderio di trovarsi un marito e sanno che tu sei fidanzato.» «Io fidanzato? ... », gridò Anania, «chi lo ha detto?» «Chi lo sa? E di una Margherita, anche, che questa volta, meno male, va gettata ante asinos.» «Ti proibisco di ripetere quel nome!», proruppe Anania, andando addosso al Daga. «Capisci, te lo proibisco!» «Abbassa le dita, ché mi cavi gli occhi! Il tuo amore è feroce!» Fremente di collera Anania si mise a impacchettare i suoi libri e le sue carte. «Ah», diceva, a denti stretti, «me ne vado subito, subito. Io non so vivere fra gente curiosa e volgare.» «Addio, dunque!», disse Battista, gettandosi sul letto. «Ricordati almeno che nei primi giorni che siamo giunti, se non c'ero io rimanevi vilmente schiacciato da una carrozza.» Anania uscì, col cuore gonfio di fiele: si diresse automaticamente verso il Corso, e quasi senza avvedersene si trovò in Via del Seminario. Era un pomeriggio ardente; lo scirocco sbatteva le tende dei negozi: l'aria odorava di vernici, di droghe e di vivande. Anania sentiva i suoi nervi fremere come corde metalliche. In Via del Seminario passò in mezzo a uno stormo di chierici e di preti dalle mantelline svolazzanti e mormorò dispettosamente: «Corvi!», A un tratto, accanto a una piccola porta che dava su un andito buio, egli vide un numero, il numero della casa ove abitava Maria Obinu. Entrò, salì all'ultimo piano e suonò. Una donna alta e pallida, vestita di nero, aprì: egli si turbò, sembrandogli di aver veduto altra volta i grandi occhi verdastri di lei. «La signora Obinu?» «Sono io», rispose la donna con voce grave, «No», egli pensò, «non è lei; non è la sua voce.» Entrò. La Obinu gli fece attraversare un piccolo vestibolo buio e lo introdusse in un salottino grigio e triste; egli si guardò attorno, vide una testa di cervo e una pelle di muflone attaccate al muro, e immediatamente sentì i suoi dubbi rinascere. «Vorrei una camera; io sono sardo, studente», disse, esaminando la donna da capo a piedi. Ella era pallida e scarna, col collo lungo, il naso affilato quasi trasparente; ma i folti capelli neri, pettinati ancora alla sarda, cioè a trecce strette appuntate fortemente sulla nuca, le davano un'aria graziosa. «Lei è sardo? Ho piacere ... », rispose disinvolta. «Adesso non ho camere disponibili, ma se lei può pazientare una quindicina di giorni, ho una signorina inglese che deve partire ... » Egli chiese ed ottenne di veder la camera; il letto stava al centro, fra due cataste di libri vecchi e d'oggetti antichi; entro una vasca di gomma, ancora piena d'acqua insaponata, olezzava un fascio di gaggie; dalla finestra si scorgeva un giardinetto melanconico. Sul tavolino Anania vide, fra gli altri, un volumetto che egli amava con passione dolorosa. Erano i versi di Giovanni Cena: Madre. «Ho bisogno di andar subito via dalla casa dove sto; prenderò questa camera, ma intanto, non potrebbe darmene un'altra, fosse anche un buco? ... » Rientrarono nel salottino, ed egli si fermò a guardare la testa imbalsamata del cervo. «È un ricordo di mio padre, che era cacciatore», disse la donna, sorridendo con bontà. «È di Nuoro, lei?» «Sì, ma sono nata là per caso.» «Anch'io sono nato per caso nel villaggio di Fonni», egli disse, guardandola in viso. «Sì, sono nato a Fonni; mi chiamo Anania Atonzu Derios.» Ella non batté palpebra. «No, non è lei!», egli pensò, e si sentì felice. «Per questi quindici giorni le darò la mia camera», disse finalmente la Obinu, cedendo alle insistenze di lui, ed egli accettò. La cameretta pareva la cella d'una monaca; il lettino candido, odorante di spigo, ricordava i semplici giacigli di certe patriarcali abitazioni sarde. E come in quelle abitazioni, Maria Obinu aveva appeso lungo le pareti grigie della sua camera una fila di quadretti e di immagini sacre; tre ceri, poi, e tre crocefissi, un ramo d'olivo e un rosario che pareva di confetti, pendevano in capo al letto; in un angolo ardeva una lampadina davanti ad una immagine dove le Sante Anime del Purgatorio, tinte di livido da un lapis turchino, pregavano tra fiamme insanguinate da un lapis rosso. Anania prese possesso della camera, e ben presto fu riassalito dai suoi dubbi. Perché la Obinu gli cedeva la sua camera? perché si mostrava così premurosa con lui? Mentre egli metteva a posto i suoi libri, Maria bussò e, senza avanzare, gli domandò se desiderava che la lampadina delle «Sante Anime» venisse spenta. «No», egli rispose con voce forte, «venga avanti, anzi, che le faccio vedere una cosa.» Ella entrò, pallida, sorridente; pareva avesse sempre conosciuto il suo inquilino e gli volesse bene. Egli teneva fra le mani uno strano oggetto, un sacchettino di stoffa unta, attaccato ad una catenina annerita dal tempo. Disse, mettendosi l'amuleto al collo: «Veda, anche io sono devoto, questa è la ricetta di San Giovanni, che allontana le tentazioni.» La donna guardava. Improvvisamente cessò di sorridere, ed Anania sentì il suo cuore battere forte. «Lei non crede a queste cose?», domandò Maria. «Ebbene, se non ci crede, almeno non se ne burli. Sono cose sacrosante.» Steso sul lettino odorante di spigo, Anania pensava continuamente al suo segreto. ... E se Maria Obinu era Olì? Se era lei? Così vicina e così lontana! qual filo misterioso lo aveva condotto fino a lei, fino al guanciale su cui ella doveva qualche volta piangere ricordando il figliuolo abbandonato? Che strana cosa la vita! Egli era dunque giunto così al suo destino, solo per forza di una volontà misteriosa che lo aveva guidato quasi a sua insaputa. Ma non era pazzo, dunque? Che sciocchezze, che puerilità! No, non era lei, non poteva esser lei. Ma se lo era? Se ella già sapeva di essere vicina a suo figlio, mentre egli si dibatteva nel dubbio? No, non poteva essere lei. Una madre non può non tradirsi, non può non gridare nel rivedere suo figlio. Era assurdo. - Sciocchezze, idee convenzionali. Una donna sa dominarsi anche tra le più violente emozioni. Essa, poi, che aveva abbandonato e buttato via la sua creatura! Appunto per questo doveva tradirsi, gridare, sussultare. Una madre è sempre una madre. Eppoi Olì, una selvaggia, una semplice figlia della natura, non poteva aver assimilato la perfidia delle donne di città, tanto da fingere come una commediante, da sapersi dominare così! Impossibile. Era assurdo, Maria Obinu era Maria Obinu, simpatica donna, mite e incosciente, che aveva avuto la fortuna, più che la forza, di emendarsi. Non poteva esser lei. Ma intanto egli ricordava la prima notte passata a Nuoro e il bacio furtivo di suo padre, e di momento in momento aspettava che l'uscio s'aprisse, e un'ombra si avanzasse, nel chiarore della lampadina, e un bacio rivelatore gli sfiorasse la fronte! ... «E se ciò fosse ... che farei io?» si chiedeva trepidando. I rumori della città si affievolivano, s'allontanavano, quasi ritirandosi anch'essi, stanchi, verso un luogo di riposo. Anania sentì rientrare i tardivi inquilini, poi tutto fu silenzio, nella casa, nella via, nella città. Ed egli vegliava ancora! Ah, forse quella lampadina? ... «Ora la spengo ... » Si alzò. Un rumore, un fruscio ... È l'uscio che si apre? Oh, Dio! Egli si gettò nuovamente sul letto, chiuse gli occhi e attese. Il cuore e la gola gli pulsavano febbrilmente. Ma l'uscio rimase chiuso, ed egli si calmò e rise di sé. Però non spense la lampadina.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679080
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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In quel momento gli parve che gli occhi del santo Evangelista, ch'egli invocava, brillassero di una luce vivissima e che la testa circondata dall'aureola si abbassasse in atto di annuire. Questo bastò a Valfredo per riacquistare fede nell'impresa e, uscito dall'acqua, stava per rivestirsi, quando si vide davanti uno dei mori, che formavano la guardia del Sultano. Questi, vedendo luccicar sul petto al cristiano la medaglia d'oro, stese la mano per afferrarla, ma Valfredo, che era agile e forte, spiccò un salto all'indietro, e afferrato un sasso minacciò di lanciarlo sulla testa a chi osava avvicinarglisi. Il moro non si lasciò intimidire da quella minaccia, e tolta dal fodero la terribile scimitarra che portava al fianco, la brandì e si slanciò contro Valfredo, il quale, indovinata l'intenzione del nemico, senza esitare, lanciò con gesto rapido la pietra. Essa colpì in pieno petto il moro, che cadde rantolando per terra. - San Marco benedetto, e tu, madre mia, abbiatevi un giuramento: nessuno mi toglierà questa medaglia, doppiamente sacra, altro che dopo la mia morte! - disse Valfredo. E, rivestitosi in fretta, lasciò il suo nemico agonizzante per terra, e si allontanò. Ma poco dopo sopraggiunse una squadra di guardie che, raccolto il ferito, seppe da lui, prima che spirasse, che il feritore non era altri che il cristiano addetto alla guardia del leone d'Africa. Questa indicazione bastò perché Valfredo fosse subito arrestato e condotto incatenato alla presenza del Sultano. Il genovese serviva al solito d'interprete fra il sovrano de' Turchi e il cavaliere di Romena. - Can d'un cristiano, - disse il primo, - perché hai uccisa una delle mie guardie? - Signore, - rispose Valfredo, - io possiedo un talismano che deve servirmi a domare il feroce leone e renderlo docile come una pecorella. Mentre uscivo da una vasca del giardino, nella quale avevo cercato refrigerio ai bollori meridiani, la guardia mi s'è avvicinata e ha voluto rubarmi il mio talismano. Io mi son fatto indietro ed egli ha sguainata la scimitarra per mozzarmi la testa. In quel momento, non avendo armi per difendermi, ho afferrato un sasso e l'ho colpito. Signore, io non ho difeso soltanto la mia vita, ma ho voluto conservare il talismano che deve procurarti la soddisfazione di vedere a' tuoi piedi, reso mansueto, il terribile leone del deserto. - Se è così, cristiano, hai fatto bene ad uccidere la guardia; ma io non ho molta pazienza di attendere, e voglio che non più dentro ad un mese, ma dentro una settimana, tu mi conduca davanti il leone sciolto, al quale in presenza mia tu conterai i peli della criniera. Hai capito? Valfredo capiva purtroppo, ma non si perdeva d'animo. Gli furono tolte le catene e venne rimesso in libertà. Egli si grattò il capo, non sapendo come cominciare l'educazione del leone, e ritornò dintorno alla gabbia. Il leone lo salutò con un ruggito, che pareva una cannonata. - Le disposizioni della belva sono buone; si principia bene davvero! - esclamò Valfredo. Mentre stava pensando al modo di addomesticare il leone, capitò accanto a lui un veneziano prigioniero. - Amico, - gli disse, - per tutto il palazzo non si parla altro che di te e della bella medaglia d'oro che porti al collo. Vuoi giuocarla contro questo prezioso pugnale che io tengo nascosto nelle vesti? E gli faceva vedere un'arma dalla impugnatura d'argento, tempestata di pietre preziose, e nello stesso tempo toglieva di tasca due dadi. Valfredo, alla vista del pugnale e soprattutto dei dadi che aveva sempre maneggiati con tanta passione di giocatore, si sentì rimescolare il sangue, e già stava per cedere all'invito, quando gli parve di scorgere dinanzi agli occhi la faccia rannuvolata di san Marco. - No, - rispose con fermezza, - io non cederò alla tentazione e non arrischierò il mio talismano contro il tuo pugnale prezioso; tu fai in questo momento con me la parte del Diavolo. Vattene! Il veneziano si offese della repulsa, e, pieno d'ira, si gettò addosso a Valfredo per piantargli l'arma nel cuore. Ma Valfredo, più pronto, gli afferrò la mano, lo disarmò, e come sfregio gli fece una leggiera scalfittura sulla guancia, poi se ne andò. Dopo un'ora, incatenato di nuovo, Valfredo era alla presenza del Sultano. - Dunque, can d'un cristiano, non vuoi concedermi un momento di pace e dovrò sempre occuparmi di te? Prima mi uccidi una guardia, ora mi ferisci uno schiavo, che io tenevo in gran conto perché era abilissimo nei lavori d'orafo ed ha arricchito il mio tesoro di gioielli ed armi preziose! Che dici a tua difesa? - Nulla, - rispose Valfredo, cui il genovese serviva d'interprete, - quel veneziano voleva che io giocassi il mio talismano, ed essendomi rifiutato, egli ha tentato di uccidermi, ed io l'ho disarmato e ferito al volto. Del resto, signore, la sua ferita è così lieve che, se egli volesse, potrebbe subito tornare al lavoro. - Lieve o non lieve che sia, tu gliel'hai fatta, quella ferita, e devi essere punito. Non ti concedo più una settimana, ma un giorno per ammansire il leone, tanto da contargli in presenza mia i peli della criniera. Va'! Il cavalier di Romena, per ordine del Sultano, fu riposto in libertà, e afflitto e sconsolato andò in un punto solitario del giardino e si buttò in ginocchio. - San Marco benedetto, datemi un suggerimento, un'ispirazione per uscire da questo impiccio, perché io non so davvero come fare per ammansire il leone! Se mi aiutate, vi prometto, per l'eterna salute mia, di porre il mio braccio in difesa della fede e della città di Venezia, che vi ha eretto un tempio splendido e vi ha scelto a protettore. Subito dopo che aveva pronunziato questa promessa, si sentì invaso da una forza e da un coraggio straordinario. Gli pareva che avrebbe spezzato una incudine di ferro con una mano e avrebbe divelto dalla terra uno degli alberi giganteschi del giardino. Volle provarsi, e, cinto infatti con le braccia il tronco robusto di un albero, si mise a tirarlo. Con tre strattoni le radici si sollevarono dalla terra, come avrebbe fatto una pianta di rose da un vaso. Animato da questo primo esperimento, Valfredo aprì la gabbia del leone, e vi penetrò. La fiera ruggì, e con gli occhi spalancati, la bocca aperta, fece un lancio per saltargli addosso e piantargli nel petto i potenti artigli; ma Valfredo, invocato che ebbe san Marco, stese le mani, e, afferrato il leone per le gambe, lo mantenne a distanza. La fiera ruggiva, mandava schiuma dalla bocca e lampi dagli occhi, ma non poteva moversi, trattenuta dalle ferree mani del giovine cavaliere. La belva e l'uomo stettero così un pezzo con gli occhi fissi, e fu il leone che dovette abbassare lo sguardo dinanzi a Valfredo. Allora questi liberò le zampe dalla stretta; ma appena il terribile avversario si sentì padrone dei suoi potenti mezzi di offesa, con la bocca spalancata si avventò alle gambe del giovine, il quale, prima che le zanne gli lacerassero le calze, afferrò per le ganasce l'animale e lo costrinse a rimanere a bocca aperta senza poterlo mordere, senza poter fare nessun movimento. Dapprima, il terribile abitatore del deserto, fremette; ma poi, a poco a poco, si ammansì, e piegate le ginocchia rimase in atteggiamento umile dinanzi al suo soggiogatore. Le mani ferree si staccarono dalle ganasce del mostro, il quale non si mosse e con la lingua incominciò a leccare le palme di Valfredo. - San Marco, vi ringrazio di avermi fatto il miracolo! - esclamò il cavalier di Romena. - Ora sono salvo. E senza timore alcuno spalancò la gabbia e andò nel giardino. Il leone lo seguiva scodinzolando, ma i giardinieri, vedendolo, fuggivano spaventati, cosicché la notizia che Valfredo aveva domato il leone, giunse a palazzo prima che egli vi conducesse la fiera. Le guardie però non vollero lasciarlo entrare con quella compagnia, e il giovine cavaliere dovette attendere un ordine del Sultano. Intanto egli si era seduto sopra uno scalino di marmo e il leone gli stava accucciato ai piedi come un mansueto cagnolino. Poco dopo giunse l'ordine del Sultano, e allora Valfredo fu introdotto nella sala del trono alla presenza del temuto signore. - Cristiano, compi ciò che ti ho imposto, - ordinò. Valfredo non rispose, ma inginocchiatosi a fianco dell'animale incominciò a contargli i peli della criniera. Il conto riusciva lungo, perché la criniera del re del deserto era foltissima; ma il leone non si moveva e si lasciava toccare senza dar segno alcuno di tedio o di ribellione. Il Sultano non fiatava, ma le guardie, con la scimitarra sguainata, stavano pronte per difenderlo. Quando Valfredo ebbe terminato di contare, disse: - Vedi, potente signore, che io ho compiuto in un giorno un miracolo. Avevi una fiera e io l'ho ridotta più mansueta di un agnello. Questo leone potrai tenerlo ai piedi del tuo trono, ed esso darà maggior idea della tua possanza e sarai paragonato agli antichi imperatori di Roma e di Bisanzio. Non ti pare che in cambio di questo servizio io meriti qualche ricompensa? - E l'avrai, infatti, cane d'infedele! - rispose il Sultano. - Guardie, legatelo, e fra un'ora voglio che il suo cadavere penzoli dalla forca. Fremé Valfredo a tanta ingratitudine, e quando vide le guardie che si avanzavano per legarlo, urlò: - A me, leone di san Marco! A quel grido la fiera si scosse, ruggì, e, gettandosi addosso alle guardie, le sbranò; poi, saliti i gradini del trono, piantò gli artigli nel petto al Sultano e lo ridusse in pochi istanti boccheggiante cadavere. Le altre guardie fuggirono spaventate a rinchiudersi nelle cantine del palazzo. Ovunque era lo scompiglio. Si udiva il rumore di porte sbatacchiate, di catenacci scorrenti nei ferrei anelli. Valfredo era rimasto solo col leone, in presenza del cadavere del Sultano. Allora, animato da insolito ardimento, si slanciò nei giardini, preceduto dalla fiera, gridando: - A me, cristiani, per il leone di san Marco, noi siamo liberi! A un tratto una folla di prigionieri di tutte le nazioni, circondò il cavaliere di Romena. Accorrevano dal ponte, dalle galere, dai giardini, da ogni banda, carichi di ceppi, ma sorridenti a quel grido che prometteva loro la libertà. Invano i soldati turchi cercavano di sbandarli; il leone ne disperdeva le schiere, e la falange dei prigionieri avanzava sempre verso la rada del palazzo, nella quale si cullavano le dorate galere su cui sventolava l'orifiamma. I prigionieri se ne impossessarono mercè il leone, che fece strage dei mori che le costudivano, e poco dopo essi spiegavano le vele al vento e navigavano alla volta dell'Adriatico, verso la terra della libertà! Allorché le sentinelle della torre di Malamocco videro giungere le dorate galere sormontate dall'orifiamma, dettero l'allarme. Ma Valfredo scese in una imbarcazione, chiese di parlamentare e fu condotto dal Doge, al quale narrò dell'uccisione miracolosa del grande nemico della Repubblica e della liberazione di tanti cristiani, trattenuti lungo tempo in dure catene. Vennero fatti solenni rendimenti di grazia al protettore di Venezia per quel fatto, e quando Valfredo espresse il suo desiderio di porre il suo braccio e la sua spada al servizio della Serenissima, il Doge e il Consiglio lo investirono del comando delle navi prese ai Turchi. E su quelle Valfredo corse vittorioso i mari, sempre accompagnato dal leone, che era docile con i cristiani e ferocissimo con gli infedeli, sbranandone quanti più poteva. Il cavalier di Romena salì ai più alti onori e acquistò grandi ricchezze. Già inoltrato negli anni, tornò a Romena. Il padre suo era morto, morta la buona madre che lo aveva pianto così amaramente per lunghi anni, e i suoi fratelli eran tutti vecchi. Essi, che avevano contribuito a farlo scacciare dal padre, ora, sapendolo ricco, lo accarezzavano e lo circondavano di attenzioni, apparentemente affettuose, ma dalle quali egli non si lasciava ingannare. Valfredo si trattenne alcuni mesi nel castello di Romena, e in quel tempo, chiamati da Firenze architetti, scultori e pittori, fece costruire una ricca cappella in onore di san Marco, nella quale ordinò che fosse trasportato il cadavere della buona madre sua, di colei che lo aveva protetto nell'esilio. Vi potete figurare se il leone, che era il compagno inseparabile di Valfredo, destasse la curiosità degli abitanti del Casentino! Essi scendevano dai monti più alti per vederlo, e il leone, che era docile e buono con quelli che amavano il padrone, riprendeva i suoi istinti bestiali appena si accorgeva che qualcuno tentava di far male a Valfredo. Infatti sbranò un cugino del suo padrone perché lo diffamava, e staccò con una zannata la mano destra di un perfido suo nipote, il quale, non contento dei molti doni avuti da lui, gli aveva rubato una grossa somma in tanti fiorini d'oro della Serenissima Repubblica di Venezia. Quella belva pareva guidata da una intelligenza soprannaturale e si sarebbe detto che l'anima del santo protettore della città del mare si fosse trasfusa in lui. Valfredo visse molti anni e morì a Venezia carico d'onori. Il giorno stesso della sua morte fu trovato stecchito anche il leone, la cui pelle servì di lenzuolo funebre al cavalier di Romena. - La vostra novella, - disse Vezzosa quando si accòrse che la Regina aveva terminato di narrare, - ha prodotto il solito benefico effetto sopra di noi. Vedete, mamma, i volti nostri non esprimono più l'ansietà; voi ci avete divagati e noi siamo più calmi, più fiduciosi e più forti. Però, nonostante l'assicurazione che Vezzosa aveva data alla Regina, la conversazione languì. Nessuno osava parlare vedendo Maso col capo chino e gli occhi fissi in terra, come nei giorni della morte di un manzo o dello sperpero della raccolta; e quel silenzio e quell'abbattimento del capoccia si rifletteva su tutta la famiglia. Questo silenzio si sarebbe prolungato chi sa quanto, se un incidente non fosse venuto a interromperlo. - Una lettera! - gridò dalla viottola un frate converso di Camaldoli che tornava da Poppi. - Presto, datemi un mulo prima che faccia notte. Mentre i ragazzi correvano nella stalla a prendere il trapelo, Vezzosa aveva preso la lettera a lei diretta e la leggeva alla luce dell'ultimo chiarore crepuscolare. Non appena ebbe terminato di leggerla, esclamò: - Le nostre speranze non sono deluse, le nostre fatiche non sono state sprecate. Sentite: la moglie del nuovo ispettore, la buona signora Durini, mi dice che sua madre e suo padre prendono tre stanze da noi per quattro mesi e ci dànno cento lire al mese e il servizio a parte. Sperano che li provvederemo di vino, d'olio, di farina, di legna, di tutto, insomma. Dobbiamo rispondere subito, se siamo, o no, contenti della somma che ci offrono, perché essi cercano una villeggiatura. Il padre della signora Durini è stato ammalato ed ha bisogno di rimettersi. - Sia ringraziato il Cielo che ha esaudite le mie preghiere! - esclamò la buona Regina con le lacrime agli occhi. - E quando giungerebbero? - domandò la Carola. - Martedì, che è il primo luglio. Maso era il più attaccato all'interesse di tutti i Marcucci. Prima di dare una risposta egli si consultò coi fratelli e domandò loro se non credevano che dall'affitto di una parte della casa potessero ricavare un utile maggiore. Aveva sentito dire che il segretario comunale di Poppi aveva affittato quattro stanze e la cucina per centottanta lire al mese, e che l'Amorosi, il locandiere di Bibbiena, prendeva da ogni camera quarantacinque lire. Non potevano essi pretendere di più? Eppoi, due vecchi soli, che cosa avrebbero consumato? Non credevano i fratelli che se la famiglia fosse stata più numerosa, avrebbero guadagnato di più vendendo il vino, l'olio, i polli e il resto? I fratelli gli fecero però osservare che questo era un affare fatto, e se aspettavano una offerta più lucrosa, rischiavano di perdere il mese di luglio e forse l'intiera stagione. - Maso, non vi riconosco; - disse la Vezzosa, - lasciare il certo per l'incerto, scusate, mi sembra una bella pazzia. Inoltre, una famiglia molto numerosa, con bambini, per esempio, sperpererebbe le frutta e l'uva. Non vi lasciate tentare da un guadagno maggiore, e accettate questo di cento lire, che ci piovono dal Cielo. Chi sa che non doveste pentirvi di aver dato un calcio alla fortuna! Scusate se io, ultima venuta in casa, m'ingerisco di queste cose; ma darei metà del sangue mio per levarvi dalle angustie. - Ti devo proprio dare ascolto? - disse il capoccia a Vezzosa. - Vi prego, per quanto ho di più caro a questo mondo, che è il mio Cecco, accettate. - Vada dunque per cento lire! - disse il capoccia. - Vezzosa, tu che sai mettere in carta tanto benino, scrivi alla signora Durini che i suoi genitori possono pure venire quando vogliono e da noi troveranno un piatto di buon cuore, che è tutto ciò che i poveri possono offrire. Quella sera i Marcucci cenarono con grande appetito e la notte dormirono tranquillamente, sicuri ormai che una buona sommetta sarebbe entrata nella cassa della famiglia. E la mattina dopo, donne e uomini erano di nuovo tutti in faccende per lustrare ancora e pulire tutta la casa, Pareva che aspettassero l'acqua benedetta, tanto si davano da fare. Vezzosa mandò i ragazzi nei boschi in cerca di rami di quercia, e alle bimbe dette incarico di portare quanti fiori avessero potuto trovare. Essi tornarono carichi, e Vezzosa disponeva i rami sulle porte a guisa di festoni, e i fiori nei rozzi vasi di vetro e anche nei bicchieri. - Fanno allegria! Fanno festa! - ella diceva a mano a mano che coi fiori adornava le stanze. - I signori debbono ricevere una buona impressione della nostra casa e debbono conservarla ... Bambini miei, - aggiunse poi rivolta ai nipotini, - a voi spetta di esser molto cortesi con i villeggianti, per tre ragioni: sono gente anziana, sono signori e sono nostri ospiti, avete capito? I bambini avevan capito benissimo e si proponevano di rendere lieto il soggiorno di Farneta ai genitori della signora Durini.

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

682200
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Mister Kelly: ma nel caso che la nostra situazione diventasse disperata e che l'aerostato si abbassasse per non più rialzarsi, getteremmo l'ultima riserva. Sessanta chilogrammi sono qualche cosa, per un pallone." "Di quale riserva intendete parlare?" "Della mia, Mister Kelly. Per Bacco! Spiccherò un bel salto e voi risalirete." "Siete pazzo, O'Donnell. Non avremo bisogno di ricorrere a un sì terribile espediente. Ci rimane la scialuppa, e quella può portarci tutti, comodamente, alla costa più vicina. Orsù, bando ai tristi pensieri e mettiamoci a tavola." Mentre divoravano la cena, l'aerostato ricominciava la discesa. La notte era calata, abbassando bruscamente la temperatura, e l'idrogeno si condensava con pari rapidità. Alle nove il Washington da 3500 metri era disceso a soli 400. Colà una nuova corrente d'aria, che soffiava radendo la superficie dell'oceano, lo avvolse e lo trascinò verso il sud con una velocità di trenta chilometri all'ora. L'ingegnere che temeva di venire trascinato nell'Atlantico meridionale ad incrociare i venti alisei, fece gettare le ancore. Come la prima sera, Simone montò il primo quarto di guardia. Alla mezzanotte lo sostituì O'Donnell, e alle tre del mattino l'ingegnere gli diede il cambio. Il Washington filava lentamente verso il sud, con un leggero dondolamento, e di quando in quando si abbassava di parecchi metri, rimontando quasi subito. I due coni, trascinati, opponevano sempre una forte resistenza. Verso le cinque, mentre l'ingegnere stava accendendo una sigaretta, l'aerostato provò una scossa così brusca da rovesciare alcuni barili e parecchi altri oggetti. Il battello si era inclinato verso prua, e i due immensi fusi si erano abbassati di parecchi metri, risalendo poscia lentamente. "Che cosa accade?" si chiese il Mister Kelly, al colmo dello stupore. "Se non ci trovassimo in pieno oceano direi che il battello ha urtato, ma contro che cosa?" Guardò attorno e non vide nessun ostacolo. L'atmosfera sola circondava il vascello aereo. Alzò il capo e s'accorse che i due palloni erano immobili; sentiva la brezza mattutina sibilare attraverso i cordami. "Cosa può averci arrestati?" si domandò, maggiormente stupito. "Che i due coni si siano arenati su qualche banco situato a fior d'acqua?" Stava per spiegare la carta dell'Atlantico settentrionale, al fine di accertarsi se in quella latitudine e longitudine segnalasse qualche scoglio o qualche banco, quando una seconda scossa, più violenta della prima, lo atterrò. L'inclinazione della scialuppa verso prua fu tale, che O'Donnell e il negro Simone rotolarono l'uno addosso all'altro. "By God! "esclamò l'irlandese, sbarazzandosi precipitosamente della coperta di lana che lo copriva. "Si cade?" "Massa! ... massa! Aiuto!" si mise a strillare Simone, il quale credeva che il pallone precipitasse nell'oceano. "Il caso è strano!" esclamò l'ingegnere, che si era prontamente rialzato. "Se le mie ancore fossero munite di punte, si potrebbe supporre che qualche pescecane avesse addentato qualche braccio; ma sono coni lisci." "Un pescecane?" chiese O'Donnell. "Siamo presi a rimorchio, Mister Kelly?" "No, poiché siamo perfettamente immobili." "Che cosa accade dunque?" "Ecco quello che cerco di spiegare, ma invano, O'Donnell." "Diamine! che qualcuno si sia aggrappato ai coni?" "Chi mai?" "Non vedete alcuna nave?" "No, non vedo che l'oceano." Un'altra scossa fece inclinare i due aerostati verso la prua. Non vi era più da dubitare. Qualche mostro aggrappatosi al cono che era stato calato a prora del battello cercava di trascinare con sé il Washington, il quale, però, data la sua forza eccezionale, non cedeva, tornando sempre al precedente livello. Quelle scosse potevano causare qualche grave danno: o guastare la seta dei due fusi, o spezzare le funi, o disarticolare la scialuppa. I tre aeronauti afferrarono la guide-rope di prua e operarono una energica trazione, ma il mostro che imprimeva all'aerostato quelle scosse doveva essere estremamente pesante e dotato di una forza eccezionale, poiché non abbandonò il cono. "Ma in che modo è rimasto aggrappato?" chiese O Domiell. "Che qualche pescecane di gran mole lo abbia inghiottito?" "Un pescecane non può avere tale gola da assorbire un cono che contiene duecento trenta litri." "Sarà una balena." "Nemmeno, poiché la balena ha il canale tanto stretto da non poter inghiottire dei pesci più grossi del nostro braccio." "Sarà un capodoglio. So che quei cetacei hanno delle gole enormi." "A quest'ora ci avrebbe trascinati sottacqua o avrebbe troncato la fune." "Ma quale mostro volete che sia?" "Non lo so." "Che cosa decidete di fare? Tagliare la corda e abbandonare l'ancora?" "Sarebbe una grande imprudenza perdere uno dei nostri coni. Manderò Simone a vedere." "Lui! ... quel pauroso! ... Con il vostro permesso, andrò a vedere io, Mister Kelly." "Ci sono trecentocinquanta metri da discendere, e voi non potete tentare una così pericolosa impresa, O'Donnell. Simone è agile come una scimmia delle foreste africane e può toccare il cono senza stancarsi." "Ma come salirà poi?" "Lo solleveremo noi fino alla navicella, ritirando la fune. Orsù, Simone, prendi una rivoltella e và a vedere che cosa accade laggiù."

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