Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbassarsi

Numero di risultati: 10 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

658788
Capuana, Luigi 1 occorrenze

E mentre, dopo la guarigione del Re, gli orecchi guastati dal suo vocione andavano guarendo senza bisogno di medicamenti, le voci, e per riguardo del Re, e per adulazione e poi per capriccio di moda, cominciarono ad abbassarsi, ad abbassarsi; e quello che poco prima era un paese di sordi, ora poteva dirsi proprio il paese degli sfiatati. Soltanto l'uomo delle pasticche, che mangiava a ufo e abitava nel palazzo reale, soltanto lui udiva il Re senza bisogno di accostargli l'orecchio alle labbra né farvi coppo con le mani, e poteva parlare con lui senza abbassare il tono della voce. Come andava questa faccenda? Sua Maestà non gli aveva detto mai, come agli altri: "Perché urlate? Non sono mica sordo!". Eppure colui gli parlava sempre con la voce naturale ch'era un po' strillante. Aveva dunque la lingua fatta diversa dagli altri? La curiosità della gente si accrebbe il giorno che il venditor di pasticche andò in furia, perché uno gli aveva detto per chiasso: - Mostrami la tua lingua! Vo' vedere com'è fatta. Non c'era niente di male in queste parole; ma colui, infuriato, pestando i piedi e piangendo, era andato a chiudersi nella sua camera del palazzo reale e non voleva uscirne più, perché nessuno potesse più dirgli: - Mostrami quella tua lingua! Vo' vedere com'è fatta. - Perché ti arrabbi? Vogliono vedere la tua lingua? E tu mostragliela, sciocco! Così! E fece l'atto. L'altro, sbadatamente, lo imitò; ed ecco la lingua scappargli di bocca, cadere per terra e farsi in mille pezzi quasi fosse stata di terracotta.Re: - Maestà, Maestà, la Principessa Senza-lingua! Oggi si compiono precisamente l'anno, il mese e il giorno. Il palazzo reale fu a un tratto sossopra. La gente affollata dietro l'uscio voleva entrare in quella camera e vedere la Principessa Senza-lingua. Invano il Re diceva: - Non può entrarvi nessuno, neppur io; ho dato la mia parola. Chi lo sentiva? Lo vedevano gesticolare con le braccia e muovere le labbra, quasi fingesse di parlare. Il Ministro accostò l'orecchio alla bocca del Re, facendo coppo con le mani; ma il Re, infuriato, con uno spintone lo sbatacchiò addosso alla folla. Per Fortuna, in quel punto l'uscio della camera s'aperse, e tutti stupirono alla vista del gran mucchio d'oro sovra cui stava comodamente sdraiata una bellissima giovane, vestita di broccato, ornata di perle e diamanti, con le bionde trecce sciolte su per le spalle, la faccia appoggiata a una mano, e un gran ventaglio nell'altra. Si faceva vento tranquillamente. Il mucchio d'oro era proprio lo stesso regalato dal Re al Mago, grosso quanto una botte. Il Re, in un baleno, si gettò ai piedi della Principessa e gli posò la fronte su le ginocchia. Ella lasciò il ventaglio, stese la mano, gli ficcò un dito tra i capelli e diè uno strappo. Il capello incantato fece una fiammata e le svaporò fra le dita. - Grazie, Principessa Senza-lingua! Grazie, mia Regina! - disse il Re col più bel suono di voce, che nessuno avesse mai udito. - Grazie, re Tuono, mio Signore e mio Re! Insieme con l'incanto dell'uno era sparito l'incanto dell'altra. La Principessa aveva acquistata la lingua, come le aveva predetto il Mago, adattandole quella artificiale cadutale poco prima per terra. - Il vostro destino voleva così! - disse il Ministro. - Dovevate essere sposi. E ora posso andarmene. - Perché mai? Perché? Il Re non finì di dire queste parole, che il Ministro, diventato un nanino vispo vispo, si ficcò, come un topolino, tra il mucchio dell'oro e sparì. Era un servitore delle Fate. Contenti come Pasque, il Re e la Principessa si sposarono, con feste e divertimenti d'ogni sorta. Il Re perdonò ai Ministri, li fece scarcerare e li rimise in carica. Non correvano più pericolo d'assordire. - Faranno sempre i sordi! Vedrete - prognosticò la gente. E il prognostico non fallì. Maturo è il frutto, secca la foglia; Dite la vostra, chi più n'ha voglia.

Oro Incenso e Mirra

678743
Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Lelio s'accorse di essere vicino a commettere una odiosa sciocchezza: con uno sforzo supremo di volontà costrinse la propria collera ad abbassarsi e mirandosi nello specchio rispose: - Hai ragione, ho lavorato tutta la notte. La principessa si alzò gaiamente per contemplarlo nello specchio invece di guardarlo in faccia: un'altra risata accolse questo scherzo, ma Lelio rimesso del tutto si era già tratto il cappello e le tendeva la mano. Ella la strinse come al solito. Poi si levò proponendo a tutti quei giovani di accompagnarla in un giro lungo tutto il Pavaglione; Lelio si era rivolto a proposito verso il banco per ordinare un vermouth chinato. - Non viene lei, signor Fornari? - gli domandò con accento vibrante di sottile ironia la principessa. - Mille grazie, ma ho un altro appuntamento. - Con chi era il primo? - Potrei forse dirlo se fosse andato a vuoto. - Altrettanta fortuna pel secondo - rispose dall'uscio salutandolo con un gesto amichevole. Egli si morse le labbra per rattenere una ingiuria plebea. Erano le cinque, l'ora del passeggio elegante sotto il portico del Pavaglione prima di rincasare per il pranzo; i negozi erano affollati, la giornata splendida, il sole di marzo aveva messo nell'aria una mollezza tiepida e profumata. Lelio sperando che la principessa sarebbe tornata a casa forse sola, a piedi, andò verso il suo palazzo per tagliarle la strada; in quel momento avrebbe voluto con lei una spiegazione a qualunque costo, anche a quello di uno scontro col marito o di sembrare grottesco a tutta la città. Ma anche quel fanciullesco proposito gli andò a vuoto, perché la principessa rientrò nel proprio palazzo dentro la carrozza della contessa Ghigi e col marito di questa. Lelio dovette rispondere al loro cortese saluto, quantunque gli sembrasse di leggere negli occhi verdi della principessa una bravata di canzonatura. Ormai quel duello lo preoccupava tutti i momenti. I compagni lo tentavano malignamente su quell'avventura, che lo aveva tanto mutato: si notavano le sue frequenti distrazioni, il suo imbarazzo nei discorsi offensivi che si tenevano su lei, si erano osservate le loro occhiate a teatro, certi fremiti in lui, quel minuscolo dramma di silenzi, di parole, di bugie pressoché uguale in tutti gli amori. Egli per difendersi affettava un cinismo anche più volgare verso tutte le donne, e si era lasciato trascinare a più di una cena con ballerine di ultima fila. Intanto il tempo passava. Una sera sui primi di maggio la contessa Ghigi invitò la principessa ad una gita sulle colline di Ozzano ad un suo podere, ove era solita recarsi tutti gli anni, almeno una volta, a pranzo dalla propria balia. Ella v'andava in confidenza entro un vecchio calesse, senza livree, col cavallo di un fattore: il principe Giulio presente all'invito domandò di esservi compreso, perché sarebbe stata per lui una eccellente occasione per apprendere se in quelle colline vi fossero delle quaglie. Lelio Fornari sopravvenne in quel punto. Ma la contessa Ghigi sembrava poco disposta ad accettare il marito dell'amica per non turbare il carattere di quella visita: i contadini avrebbero avuta troppa soggezione, e la piccola festa sarebbe diventata un'ordinaria gozzoviglia di signore in campagna. - Io sono cacciatore, trattatemi a pane di granturco: non sarà la prima volta che ne mangio - insisteva il principe. - Niente, poi nella calesse non ci si cape in più di due signore. - Ebbene, un'altra idea: vi raggiungeremo lungo la strada, magari solo al podere, io e il signor Fornari. Ella accetta, non è vero, signor Lelio? sul mio biroccino da caccia. Oh! vi attacco sempre delle rozze, io vesto male anche in città, quei contadini non mi riconosceranno. - Ma il signor Fornari - intervenne la principessa - consentirà a non essere elegante? Io - aggiunse ironicamente - mi farò prestare un abito dalla cameriera. - Io invece verrò in maniche di camicia - ribatté Fornari sul medesimo tono. La contessa rise, la partita era vinta: Lelio e la principessa si guardarono negli occhi, quindi si separarono senz'altro. L'indomani sul mezzogiorno, perché le signore malgrado tutte le vanterie della sera innanzi si erano alzate tardi, la contessa Ghigi e la principessa Irma arrivavano al podere Cà de' Varchi al disopra della vecchia badia, precedute dal principe Giulio e da Lelio Fornari montati sopra un rozzo biroccino e vestiti da caccia. Lelio conservava un certo aspetto signorile, il principe invece pareva davvero uno di quei fattori da buoi, arrossati dal sole dei mercati e dal vino delle bettole. Secondo il solito, credendo tutti quattro di andare incontro ad una grande gioia, rimasero seccati sino dal primo momento: i contadini, tranne il reggitore e i due vecchi, erano scappati per la soggezione, la casa era sporca, l'aia piccola, la buca pel letame si apriva presso la porta della cucina, unica porta di tutta la casa. Due gelsi brulli, già sfogliati pei bachi, dei quali si vedevano le stuoie dalle piccole finestre del piano superiore, battevano coi rami sui tetti. Si dovettero porre i due cavalli nella stalla dei buoi, chiamando a grandi grida uno dei ragazzi fuggiaschi pei campi, perché venisse a cavarne prima un paio di vitelli; la calesse e il biroccino rimasero sull'aia, momentaneamente all'ombra di due grossi fienili. Siccome la contessa aveva mandato avanti il cuoco con molte provviste, il pranzo era quasi pronto in una camera attigua alla cucina, e dalla quale con grave incomodo dei contadini si erano dovuti sgombrare un letto e due cassettoni. La balia, vecchia e secca, affettava molta servilità verso la contessa, che credeva ingenuamente di essere adorata da lei e da tutta la famiglia, mentre invece quella gita non riusciva loro grata se non pei cinquanta franchi, che ella lasciava sempre per regalo nelle manine sporche del ragazzo più piccolo. Né la contessa né i suoi invitati, quando per caso ne accompagnava qualcuno, avevano il senso o il gusto della campagna: volevano mostrarsi indulgenti verso le maniere o la povertà dei contadini, ed invece li umiliavano doppiamente senza trovare mai un solo accento, che destasse un'eco della loro vita. Lelio Fornari invece entrò nella cucina e coll'acuta sensibilità dell'artista si mise subito all'unissono con tutti: il cuoco già brillo vi si affaccendava col reggitore ed il nonno, intanto che la balia vestita cogli abiti della domenica doveva accompagnare la contessa, che le aveva passato il braccio sotto il braccio per mostrarsi buona in faccia agli altri invitati. Poco dopo capitò nella cucina una ragazza alta, scalza, bruna, cogli occhi ancora tutti pieni di sole, chiamata improvvisamente dal campo per girare l'arrosto. Le due signore e il principe seduti nell'aia all'ombra dei fienili si volgevano spesso verso la cucina, dalla quale venivano sino a loro risa, fumi e profumi, colla voce del cuoco e quella di Lelio, che scherzavano colla ragazza. Questa, passata sull'aia a testa bassa per la presenza dei signori, si era tosto rimessa; il cuoco diceva qualche barzelletta in bolognese, Lelio le acuminava e la ragazza imporporata dalle fiamme del focolare, sul quale girava il lungo spiedo carico di polli e di piccioni, sembrava anche più bella. Il busto rozzo, da cui la rozza camicia bianca emergeva vivamente, le dava una apparenza fantastica, coi capelli così scarduffati, più neri nell'ombra densa del camino, e le braccia nude e gagliarde, che avrebbero potuto brandire subitamente quello spiedo come un'arma. Lelio non aveva ancora pronunciata una sola parola d'italiano in quella cucina, movendovisi come se vi fosse sempre stato: anzi la sua disinvoltura, solleticata dalla loro famigliarità, lo aveva fatto trascendere sino a sturare una bottiglia dell'eccellente vino bianco, mandato su dalla contessa per berla tutta insieme nei bicchieri piccoli. - Signor Fornari - chiamò con voce secca la principessa dalla finestra, sorprendendolo, mentre pizzicava scherzosamente il collo alla ragazza. Egli invece di uscire corse all'inferriata. - Che cos'è, principessa? - e mise le mani presso le sue nel medesimo ferro. Egli stesso aveva il volto rosso, caldo; il principe Giulio e la contessa Ghigi volgevano loro in quel momento le spalle. La principessa sentì la voluttà di quel bel viso giovane. - Perché non esce sull'aia? - gli domandò con sussiego forzato dandogli del lei per la prima volta, mentre si erano trattati sino allora col voi francese. - Siete voi che lo desiderate? - l'altro replicò appressandole maggiormente il volto al volto. Nella cucina si era fatto un silenzio improvviso; la ragazza si volse di sbieco. - Vedete, principessa, avete fatto loro paura: venite dentro. Ella ebbe una smorfia di ripugnanza, Lelio si staccò dalla finestra freddamente. - Se voi amate le serve, a me non piacciono i servitori. Un lampo di collera si accese negli occhi neri di Lelio, ma seppe frenarsi, e senza nemmeno rispondere tornò al focolare presso la ragazza. Il pranzo parve anche più squisito in quella cameruccia dalle pareti scalcinate, a travi sudice, su quella tavola un po' zoppa, che la balia aveva coperta colla propria migliore biancheria; ma le posate erano rugginose, perché il cuoco aveva dimenticata a casa la sporta delle argenterie. Il principe avvezzo ai contrattempi della caccia ne rise, ma le due signore dovettero fare qualche sforzo per vincersi, mentre la vecchia balia a fianco della contessa ne restava umiliata, e suo figlio, il reggitore, bel pezzo di contadino già sui cinquanta, che serviva a tavola, cercava di scusarsi offrendo di forbirle subito un'altra volta colla sabbia. Poi l'allegria ricominciò. Lelio sentendosi in vena seppe divertire le signore con una girandola di motti fini ed originali, che finirono di guadagnargli il cuore dei contadini: nella cucina si udiva ridere, giacché tutti i ragazzi vi erano tornati dai campi. Solo la principessa ridiventava tratto tratto accigliata. Lelio la punse scherzosamente più volte, e allora ella si atteggiò nella sua bella posa di sognatrice; mangiava poco, abbandonandosi sulla sedia rustica, mentre la contessa sempre così serena le diceva dolcemente: - Ecco che ti annoi! te lo avevo predetto. - No, mia cara, sono anzi contentissima, è una giornata deliziosa. In quel momento Lelio le premé sotto la tavola un piede, ella si volse, ma non lo ritirò. Allora il dialogo si fece più scintillante; il principe, gran mangiatore, ratteneva sempre il reggitore in quella sua intensa preoccupazione di mutare i piatti per parlargli di quaglie; i prati sui colli vicini dovevano esserne pieni, perché le quaglie vi nidificano in gran numero, e l'inverno era quasi stato senza neve. Lelio corteggiava amabilmente la vecchia balia tenendo sempre fra i propri piedi un piedino della principessa, della quale il volto si velava sempre più di una fantasticheria poetica. Fuori il sole incendiava tutta l'aia di una gloria di luce, mentre da lontano gli alberi verdi sussurravano mollemente. Ogni tanto, all'aprirsi dell'uscio, si vedeva la cucina piena di gente, che mangiava in piedi, seduta, in tutte le pose; la bella ragazza scalza era sempre nell'angolo del focolare con un piatto sulle ginocchia. - Lasciate aperto - disse Lelio; - è più bello così! Ci vediamo tutti. - Sì - ripeté il principe; - democrazia almeno in campagna. Ma la principessa sorprendendo una occhiata di Lelio alla ragazza ritirò bruscamente il piedino. Lelio si sentì nel cuore un grido di trionfo; temerariamente allungò daccapo un piede sotto le sue sottane, e lasciandosi cadere il tovagliolo, le sfiorò un'anca. - Vi piacciono le contadine, signor Fornari? - domandò la principessa. - Non osereste la stessa domanda col principe. - Lo so, lo so, a lui piacciono, e a voi? - Perché negarlo? Sì. - Così sudicie - ella soggiunse a bassa voce con una moina di ripugnanza. - Come la frutta: chi lava le ciliegie in campagna? - Ben detto! - esclamò il principe. - Ah! voi dovreste tacere - gli si rivolse minacciandolo col dito la contessa: - vi si conosce anche troppo. Siete tutti così voialtri! - Che cosa trovate dunque voialtri uomini di meglio nelle contadine? - insisté la principessa. - Chi ha detto meglio? - ribatté il principe. Ma la domanda era rivolta a Lelio. - La sincerità. - O la facilità? - Spesso sono la medesima cosa -, e il suo sguardo la dominò dall'alto. Erano alle frutta. Lelio andò in cucina con una bottiglia sturata e un gran piatto di dolci per far bere i ragazzi, il principe lo seguì mettendo mano al portasigari; la confidenza tornava in tutti, ridevano fra un tintinnire di bicchieri e di piatti, perfino il vecchio cane pastore bianco era riuscito ad introdursi. Volevano scacciarlo, ma Lelio protestò gettandogli un gran pezzo di pagnotta, che l'altro scappò subito a mangiare dietro i fienili. Le due signore rimaste sole attendevano il caffè. Il cuoco brillo lo preparava in un pentolino sul focolare, ma avrebbero dovuto berlo nei bicchierini, perché si era scordato egualmente delle chicchere e del caffè, e la balia aveva dovuto andarne a cercare un cartoccino nella propria cassa. Ella sola ne prendeva qualche volta in famiglia. - Signor Fornari - chiamò la contessa - ci lasciate sole, tutti. - Usciamo piuttosto, qui si soffoca: prenderemo il caffè all'ombra del gran susino dietro la casa. Infatti uscirono tutti, anche la balia: furono portate delle sedie, si formò il crocchio. Giù da quella eminenza la valle si stendeva incantevole sino a Bologna restringendosi dietro verso i colli, che la chiudevano come un immenso muraglione giallastro. Potevano essere le due: si parlò ancora, si rise, poi la conversazione venne languendo in quella fatica della prima digestione. A poco a poco anche la cucina si era vuotata, il reggitore dopo aver condotto i cavalli a bere in una pozza non era più uscito dalla stalla, si udivano da lungi cantarellare voci fresche sui gelsi che i ragazzi sfogliavano per i bachi, e una pace dolce, voluttuosa, veniva da tutta quella campagna in fiore, colle grandi erbe ondeggianti e i grani, che si doravano lentamente alle prime intensità del sole. Lelio era caduto in una contemplazione di artista accanto alla principessa, coll'occhio vagante sulla vallata; improvvisamente si sentì addosso il suo sguardo. Si levò, anch'ella fece altrettanto; il principe discorreva tranquillamente di agricoltura colla balia e colla contessa, ma vedendoli alzarsi, tutti domandarono ad una voce: - Dove si va? - Bisogna pur muoversi. - Con questo sole! - esclamò la contessa, cui l'aria aperta metteva una bianchezza più fulgida sulle carni. - Appunto nel sole. Ah! contessa, non vi diventereste più bella perché è impossibile, ma vi mutereste per qualche giorno di bellezza. - Sì, davvero! A Rimini nel tempo dei bagni divento di un bruno orribile. - Confessate però che nessun uomo ve lo ha ancora detto. Anche la contessa, il principe e la balia si erano levati; entrarono tutti nell'aia cacciandosi nella poca ombra fra il calesse e i fienili. Il sole era ardente, la balia propose di salire nelle stanze superiori a vedere i bachi, e infatti ogni tanto si scorgeva dalla finestra il busto rosso della ragazza che li mutava di stuoia. - Ah! sei tu... - esclamò Lelio, che aveva girato il pagliaio, scorgendo il cane accosciato con un osso fra le zampe. Il cane agitò la coda come ad un saluto, ma si scostò appena di qualche passo per riaccovacciarsi subito. - La brutta bestiaccia! - disse la principessa arrivando dall'altra parte. - È un povero.... Ella era ancora così melanconica, ma negli occhi verdi le tremava una luce insolita; il sole dardeggiando sul fieno l'aveva arroventato e faceva intorno ad essi come un'aureola d'incendio. Ella alzò una mano per ripararsi la fronte. - Irma! - egli proruppe piegandosele sul volto col viso pallido e gli occhi ardenti. Erano soli; dietro il fienile un altro terrapieno si curvava quasi in una svolta, nessuno poteva vederli, ma udivano sempre dall'altro lato la vecchia balia vantare i bachi, che dormivano della seconda. - Se vogliamo andare a vederli... - Aspettiamo che abbiano finito di dar loro la foglia, si veggono meglio - rispose la contessa. - Irma! - ripeté Lelio, ma questa volta con voce così strozzata che l'altra ribatté come sfidandolo improvvisamente: - Che cosa vi prende? - Egli si guardò attorno, l'altra ebbe un moto di spavento, ma era tardi: l'aveva già afferrata alla cintura, premendola nella parete del fienile. Ella si sentì raschiare il collo, ardere la schiena, mentre il sole le batteva sugli occhi accecante, trionfale. - No, no... - Gridate dunque! - Ella fece ancora uno sforzo, ma l'altro la soverchiò con una demenza sùbita ed irresistibile. Fu un attimo. Ella dovette abbassargli il capo sulla spalla sotto la furia dei baci che le mangiavano il collo, presa dentro una stretta delirante, nella quale tutte le sue resistenze di donna svanivano, mentre una paura orribile, inutile le cresceva dalle voci parlottanti sempre all'altro lato. - No! - rantolò ancora sentendosi ardere improvvisamente i ginocchi da un raggio di sole, poi credette di svenire nella sensazione delle punte, che le foravano gli abiti sottili e le mani. Non era forse stato più di un minuto. Ella si ricompose per la prima, vinta, offesa, guardando istintivamente il cane, che non si era mosso; Lelio più sbalordito non riusciva a parlare, poi delicatamente, con due dita, le trasse una festuca dai capelli. - Questa la conserverò - disse finalmente. - Oh! - ella esclamò con accento tremulo e guardandosi intorno - se... - Io arrischiavo la vita, voi no - rispose l'altro superbamente. - Bestiaccia! - Perché dunque vi pare così brutto questo povero cane? - ribatté Lelio ad alta voce per farsi udire dall'altra parte. - Non gli guastate l'unica festa dell'anno: vedete bene che anche in questa gli toccano solamente le ossa. Questa disinvoltura finì di vincerla: Lelio calmo non si affrettava a ritornare dall'altro lato. - Andate, andate - ella diceva affannosa. - Perché? - rispose gettando un sorriso trionfante d'ironia attraverso il fienile. - Oh! Lelio! vai.

I FIGLI DELL'ARIA

682308
Salgari, Emilio 8 occorrenze

I soldati manciuri, avendolo veduto abbassarsi, si erano slanciati attraverso le vie della città, sparando di quando in quando qualche colpo di fucile. - Badate! - gridò il capitano a Rokoff e a Fedoro. - Tenetevi stretti. Do fuoco. Quasi nel medesimo tempo una spaventosa detonazione rimbombava sotto di essi. Una fiamma immensa squarciò l'aria, lanciando in tutte le direzioni una tempesta di macigni e di rottami. Lo "Sparviero", quantunque si trovasse a mille metri, fu violentemente spostato dalla spinta dell'aria e sbalzato innanzi, atterrando di colpo Fedoro e Rokoff, i quali non avevano avuto il tempo di aggrapparsi alla balaustrata. Urla terribili si erano alzate dalla città, urla d'angoscia e di terrore sfuggite da venti e forse da trentamila petti. - Ebbene, dov'è la torre e dov'è andato a finire il bastione? - chiese il capitano con voce tranquilla. - Guardate, signor Rokoff, e ditemi se l'aria liquida non vale meglio della dinamite. Il cosacco, quantunque ancora stordito dal terribile scoppio, si era curvato sulla balaustrata. Che spaventevole disastro! La torre era scomparsa e al posto dove poco prima si elevava il bastione, si vedeva una buca immensa, come se cento mine fossero scoppiate insieme. - Che cosa avete messo in quel tubo? - esclamò, guardando con terrore il capitano. - Un semplice pezzo di lana immerso prima in una miscela d'aria liquida e di glicerina; null'altro. - E avete ottenuto una simile esplosione! - Vi sorprende? - Voi allora potreste distruggere in pochi minuti una città intera. - Lo credo - rispose il capitano, freddamente. - Quale terribile strumento di guerra è il vostro "Sparviero"! Guai se tutte le nazioni dovessero possederne alcuni! - Verrà il giorno che ne avranno; allora la guerra sarà finita per sempre, ammenoché non pensino a corazzare le città minacciate. Macchinista a tutta velocità! Andremo a dormire al di là della grande muraglia. Lo "Sparviero" aveva ripreso lo slancio muovendo direttamente verso il nord, dove si vedevano delinearsi in lontananza alcune catene di montagne, assai frastagliate. Il suolo s'innalzava gradatamente, interrotto da boschetti di giuggioli, che producono una specie di dattero, da cui i cinesi estraggono una bella tinta gialla; da lauri splendidissimi e da lunghe file di alberi del sevo, bellissimi vegetali dal fogliame verde chiaro e cosparse di mazzetti di bacche che sono ricoperte da una sostanza molto grassa dalla quale si estrae una specie di cera assai bianca, che produce una fiamma brillante e che surroga benissimo quella delle api. Di quando in quando si vedevano anche delle piantagioni di tabacco, che riesce molto bene nella Cina settentrionale, di cotone che produce un filo splendido adoperato nella fabbricazione del famoso Nanking, e d'indaco verde. Graziosi villaggi, seminascosti sul margine dei boschi o delle piantagioni, apparivano bruscamente ed allora era uno scompiglio fra i contadini. Gli uomini urlavano, le donne piangevano, i ragazzi fuggivano disordinatamente, nascondendosi fra le piante, ma si rassicuravano presto, perché il terribile mostro alato continuava la sua corsa gareggiando vantaggiosamente cogli aironi che s'alzavano fra le risaie, coi beccaccini, colle oche selvatiche e cogli immensi stuoli di corvi gracchianti. Qualche colpo di fucile, sempre inoffensivo, sparato dietro qualche folto cespuglio o presso qualche capanna salutava di quando in quando gli aeronauti. II maldestro bersagliere s'affrettava però a fuggire all'impazzata, per paura che il formidabile drago lo facesse a pezzi col suo rostro. Alle sei di sera lo "Sparviero", che s'affrettava sempre, solcando lo spazio con una velocità di trenta miglia all'ora, si librava sopra la grande muraglia cinese. Questa gigantesca opera, che per molti secoli fu creduta immaginaria, è una delle più colossali e anche delle più meravigliose, perché si estende ininterrottamente per ben seicento leghe, ossia per duemila miglia, attraverso deserti, a steppe, a montagne e a fiumi dal largo corso, quali l'Hoang-ho, svolgendosi attraverso le più selvagge regioni della Mongolia e del Kuku-noor. Il primo imperatore che ne concepì l'idea fu Tsing-chi-hoang-ti, il secondo della dinastia dei Tsin. Vedendo succedersi le invasioni dei tartari, i quali ogni anno mettevano a ferro e a fuoco i confini dell'Impero, tutto distruggendo sul loro passaggio, ordinò di chiudere i passi pei quali quei bellicosi predoni entravano in Cina. I principi, che soffrivano assai da quelle scorrerie, ne imitarono l'esempio e la grande muraglia sorse, scorrendo attraverso regioni deserte e spingendosi perfino su monti quasi inaccessibili. Vista dalla parte del territorio cinese, questa grande muraglia parrebbe una costruzione semplicissima di terra battuta, coronata da merlature e da torri; osservandola invece dal lato esterno si presenta solidissima, piantata su larghi basamenti di pietra che i secoli non hanno potuto ancora danneggiare. In certi luoghi, reputati allora pericolosi, si innalza per venti e anche venticinque piedi ed è tanto larga che potrebbero avanzarvisi sei cavalli di fronte; ed in altri invece è molto più bassa. In tutta la sua lunghezza è guardata da massicce torri di forma quadrata e da fortezze nelle quali, ai tempi delle invasioni tartare, vi potevano stare perfino un milione di combattenti. Oggidì però, che la Mongolia è sottomessa all'impero, la muraglia non offre più la compattezza d'una volta. Vasti tratti sono stati lasciati a rovinare e i posti di guardia sono rari, eccettuato nel tratto settentrionale, destinato a coprire la provincia di Pechino. - Non credevo che fosse ancora in così buono stato - disse il capitano, nel momento in cui lo "Sparviero" la superava, tenendosi a un'altezza di trecento metri. - Si vede che i cinesi erano maestri in fatto di costruzioni. - E che torri poderose - disse Rokoff, il quale guardava con viva curiosità quelle solide bastionate. - Ma che soldati paurosi - aggiunse Fedoro. - Vedo là alcune guardie che fuggono come se avessero le ali ai piedi. Queste non valgono i manciù di Tschang-pin. Un gruppo di montagne, non troppo alfe e dai fianchi boscosi, si estendeva al di là della grande muraglia. Il capitano le indicò al macchinista, dicendo: - Andremo a riposarci lassù; nessuno verrà di certo a disturbarci. - Prenderemo terra? - chiese Fedoro, meravigliato. - E perché no? - rispose il capitano. - "La notte è stata creata per dormire" dicono i cinesi, e quando il sole tramonta tutti gli uccelli interrompono i loro voli e si cercano un rifugio. Noi, che siamo i figli dello "Sparviero", faremo altrettanto, signore. Il paese d'altronde mi sembra deserto e le guardie della muraglia non oseranno venirci a cercare. Lo "Sparviero", aiutato dalle due eliche orizzontali, s'innalzava gradatamente, volando sopra folte boscaglie di pini, di querce e di lauri, e a profondi burroni in fondo ai quali si udivano scrosciare impetuosi torrenti. Giunto sulla prima vetta, che appariva piana e ingombra solamente di cespugli assai bassi, che l'oscurità non permetteva bene di discernere, descrisse un ampio giro, poi cominciò ad abbassarsi lentamente, tenendo le immense ali alzate e lasciando solamente funzionare le eliche orizzontali. Cinque minuti dopo il fuso si coricava dolcemente fra le piante, senza alcuna scossa. - Ditemi se con un aerostato si sarebbe potuto discendere in questo modo - disse il capitano. - No, signore - risposero a una voce Fedoro e Rokoff. - Ciò vuol dire, dunque, che il mio "Sparviero" è superiore a tutti i palloni più o meno dirigibili e a tutte le macchine volanti finora inventate. - Dobbiamo ammetterlo senza riserve - disse Rokoff, con entusiasmo. - Verrete con me? Mi annoiavo di essere solo o quasi. - Non vi lasceremo, se così vi piace. - Macchinista, accendi il fuoco in mezzo a questi cespugli profumati e preparaci un buon pranzo. Abbiamo ancora alcune bottiglie di brodo di coda di canguro che abbiamo preparato in Australia e che ci daranno una zuppa eccellente. - Del brodo che viene dall'Australia! - esclamò Fedoro. - Gelato a quaranta gradi sotto zero - rispose il capitano, ridendo. - Sarà squisito, ve lo assicuro, quantunque messo nella mia ghiacciaia venticinque giorni or sono. Abbiamo anche dei pasticci, della carne di montone, del bue, dei puddings e anche dello champagne, che salterà ben alto. Ah! Sapete signori dove si è adagiato il mio "Sparviero"? In mezzo a una piantagione di tè! Signor Fedoro, voi sapete di certo prepararlo. Ne faremo una buona provvista, visto che i cinesi non vogliono lasciarci avvicinare. Mezz'ora dopo i quattro aeronauti, seduti presso un allegro fuoco, essendo la temperatura assai fredda, cenavano con un appetito invidiabile, facendo buona accoglienza alla zuppa di coda di canguro, ad un pasticcio di gamberi preparato chissà in quale città dell'America o dell'Australia, a un cosciotto di montone e a un superbo grappolo di banane ottimamente conservate. Il capitano fece servire dell'eccellente vino di California, poi una bottiglia di champagne, il cui vetro era incrostato di ghiaccioli. - Signor Rokoff - disse il comandante, messo in buon umore da quel delizioso vino bianco. - È l'aria delle alte regioni o la mia tavola che vi mette in appetito? - L'una e l'altra - rispose l'ufficiale, che aveva divorato per due e che da vero cosacco faceva gli occhi dolci a una veneranda bottiglia di whisky recata dal macchinista. - Voi, signore, avete una dispensa ammirabile. - Che cercheremo di vuotare presto per rinnovarla con qualche cosa di meglio. Entriamo in una regione ricca di selvaggina e il mio macchinista è un cuoco famoso. - Siete anche cacciatore? - Mi vedrete presto, alla prova. Nel deserto di Gobi gli yacks selvaggi abbondano e anche le lepri sono numerose. Faremo delle belle battute. - Attraverseremo il deserto? - Tale è la mia intenzione. - E poi? - chiese Fedoro. - Il Tibet mi tenta colle sue montagne spaventevoli, coi suoi altipiani immensi, coi suoi lama e il suo Buddha vivente. Tutto però dipende da certe circostanze. - E quali, se è lecito conoscerle? Il capitano, invece di rispondere, caricò flemmaticamente la sua pipa, l'accese, poi cambiando bruscamente tono, disse: - Signor Fedoro, voi che dovete aver viaggiato molto pei vostri commerci, siete mai stato a Kiakta? - No, signore - rispose il russo. - Meglio così - mormorò il capitano. - Perché dite questo? - Ah! Voi conoscete molto bene la preparazione del tè? - Ma ... - disse Fedoro, sorpreso da quel continuo cambiamento di discorso. - Come negoziante ... - Questo è vero. - Ne troveremo da raccogliere in questa piantagione? - Uhm! Ne dubito, capitano. La stagione è ancora troppo fredda. - Mi rincrescerebbe, perché la mia provvista è finita ed i cinesi non vogliono saperne di avvicinarsi a noi. - In tutte le case se ne trova qui - disse Rokoff. - Mi hanno detto che il cinese rinuncia piuttosto al riso anziché al tè. - E che cosa volete concludere? - Che la prima fattoria che troveremo la metteremo a sacco - rispose Rokoff. - Da noi si fa così, quando i soldati mancano del necessario. - È vero - disse il capitano, sorridendo. - Mi dimenticavo che voi siete cosacco. Signori, è tardi e le nostre cabine hanno dei buoni letti. - Andremo a dormire a bordo? - chiese Fedoro. - Ah! Voi non avete ancora veduto l'interno della mia aeronave. Macchinista, una lampada. - E vi fidate a dormire senza sentinelle? - Chi volete che di notte vada a passeggiare sulle montagne? Andiamo. Prese la lampada che il macchinista aveva acceso e condusse i suoi ospiti a bordo, facendoli scendere pel piccolo boccaporto situato dinanzi alla macchina. L'interno dell'immenso fuso di metallo era disposto con cura estrema e anche con molto lusso. Vi era un bellissimo salotto lungo quattro metri e largo quanto l'intera aeronave, due gabinetti da toletta, quattro cabine con soffici letti e un salottino da lavoro ingombro di carte geografiche e di strumenti di varie specie. Le due estremità erano occupate dalle ghiacciaie riboccanti di viveri d'ogni specie e dalle macchine destinate alla riproduzione dell'aria liquida. - Buona notte. - Domani faremo una lunga volata al disopra del Gobi e andremo a pescare le trote nei laghetti del Caracorum.

Le aquile, dopo essersi tenute ad una considerevole distanza volando sempre sopra lo "Sparviero", avevano cominciato ad abbassarsi descrivendo degli ampi giri che sempre più restringevano. - Canaglie! - esclamò Rokoff. - L'hanno con noi perché disputiamo loro l'impero dell'aria! Le signore sono molto stizzose! Vi calmeremo con un po' di piombo che vi guasterà le penne e anche la pelle. Il capitano vedendone una che stava per piombare sullo "Sparviero", sparò il primo colpo alla distanza di sessanta passi. I pallottoloni le fracassarono di colpo le zampe e l'ala destra. Il volatile per un po' si sostenne, battendo furiosamente quella che era rimasta incolume, poi incominciò a scendere verso il deserto, descrivendo dei bruschi angoli. - E una - disse Rokoff. - A me la seconda! Tre colpi di fucile rimbombarono, seguiti da altrettanti. Anche Fedoro e lo sconosciuto avevano fatto fuoco, quasi contemporaneamente. Due aquile capitombolarono come corpi morti e un'altra le seguì poco dopo, facendo sforzi disperati per sorreggersi. Le altre un po' calmate da quell'accoglienza punto incoraggiante, s'innalzarono precipitosamente, senza però decidersi a lasciare in pace il trenoaereo. - Sono ostinate - disse Rokóff. - Non ne hanno ancora abbastanza. - Ritenteranno l'assalto - rispose il capitano. - Non è la prima volta che il mio "Sparviero" viene assalito da quei rapaci volatili. Nel traversare le Montagne Rocciose m'hanno dato una caccia accanita per sette e più ore e m'hanno lacerata tutta la seta dell'ala destra, mettendomi in un gravissimo imbarazzo. Se non avessi avuto le eliche il mio viaggio sarebbe terminato in America. - Sono ben coraggiose - disse Fedoro. - Il mio macchinista porta ancora la traccia d'un colpo di rostro che gli aveva stracciato il cuoio capelluto. Se fosse stato più leggero, l'avrebbero portato via. - Che sia vero che talvolta le aquile osano rapire perfino delle persone? - chiese Rokoff. - Degli adulti no, ma dei ragazzi sì - rispose il capitano - Questi volatili posseggono una forza muscolare incredibile e veramente prodigiosa. Non si trovano imbarazzati a rapire dei montoni e dei camosci che poi portano nel loro nido per divorarseli con maggior comodità. - E anche dei fanciulli? - Nella Scozia, per esempio, dove le aquile sono molto numerose, ogni anno ne rapiscono e anche qui nel deserto. Le madri mongole hanno anzi tanta paura che non osano lasciare soli i loro bambini e se li tengono sempre presso, quando s'accorgono della presenza di qualche aquila. - Signore, tornano - disse il macchinista. - Ancora? Sono cariche le vostre armi? - chiese il capitano. - Sì - risposero il russo e il cosacco. - Mirate le ali. Le aquile si erano riunite in gruppo e tornavano ad abbassarsi. Questa volta pareva che avessero preso di mira i piani inclinati, la cui seta, che luccicava ai raggi del sole, doveva aver attirata maggiormente la loro attenzione. Calavano con furia, tenendo le ali aperte e le zampe allungate, con un gridio assordante. - Sono a buon tiro! - gridò il capitano. I cinque aeronauti, perché anche il macchinista si era armato abbandonando per un momento il timone, fecero due scariche l'una dietro l'altra in mezzo al gruppo. Fu una vera strage. Cinque su nove, caddero moribonde, volteggiando e starnazzando, mentre le altre fuggivano rapidamente, verso gli altissimi picchi dei Tian-Scian. - Che batosta! - esclamò Rokoff. - Capitano, se ci abbassassimo a raccogliere i morti? - Per cosa farne? - Degli arrosti. - Che sarebbero più coriacei della carne dei muli vecchi - rispose il comandante. - Mangiare degli uccelli che hanno forse uno o due secoli di vita! Preferisco i miei pasticci di canguro. - È selvaggina, signore - Che non vale una pipa di tabacco. D'altronde se siete amanti dei selvatici, presto ne troveremo in abbondanza. Il Tibet è ricco d'argali e anche di jacks selvatici che valgono, per la squisitezza delle loro carni, i bufali ed i bisonti. - E li cacceremo da qui? - E perché no? Correremo meno pericolo, signor Rokoff. Gli jacks addomesticati valgono i nostri buoi; allo stato selvaggio sono invece cattivissimi e non esitano a caricare i cacciatori a colpi di corna. In quell'istante delle urla acutissime si alzarono sotto lo "Sparviero". Il capitano, Fedoro e Rokoff, si erano vivamente precipitati verso la balaustrata, prendendo i fucili. - Una carovana! - esclamò il capitano. - Da dove è sbucata che prima non l'avevamo veduta? - Da quel bosco di betulle e di larici - disse Rokoff. - Ma ... to'! Si direbbe che ci adorano! Sono tutti in ginocchio e alzano le mani verso di noi con gesto supplichevole. - Sono calmucchi - disse il capitano. - Non sono predoni e non avremo nulla da temere da parte di loro. Volete che andiamo a visitarli? Vedo che stanno rizzando le loro tende e poi vi è un prete fra di loro. - Non mi rincrescerebbe - rispose Rokoff. - E poi, non sono che una dozzina - disse Fedoro. - Prenderemo le nostre armi. - Macchinista! Scendiamo - comandò il capitano.

Lo "Sparviero" cominciava ad abbassarsi lottando faticosamente coi venti, che continuavano ad investirlo. Sorpassò le rocce e si adagiò dolcemente sullo strato di neve che copriva il fondo di quella depressione del terreno. Furono visitate innanzi tutto le ali e le eliche, per vedere se avevano sofferto, poi tutti s'affrettarono a entrare nel fuso, dove era stata accesa una piccola stufa a carbone. Al di fuori, dopo la scomparsa del sole, il freddo era diventato intenso e il vento crudissimo e nembi di neve turbinavano sugli altipiani. Chiusero il boccaporto, cenarono alla lesta e si cacciarono sotto le coperte, ben contenti di trovarsi in un ambiente riscaldato, dopo tutta quella neve e quelle raffiche. La notte passò tranquilla. D'altronde, chi poteva importunarli, su quei deserti di ghiaccio, dove nessun essere umano poteva abitare? Alle otto del mattino lo "Sparviero" riprendeva la sua corsa verso il sud-est, diretto verso la catena dei Crevaux e gli altipiani del Kuku-Nor. Il tempo era pessimo. Nevicava abbondantemente e il vento spazzava il deserto con foga incessante, facendo scricchiolare le armature d'acciaio delle due ali. - Avremo bufera - disse il capitano con qualche inquietudine. - Non sarebbe stato meglio fermarci dove ci siamo accampati? - chiese Rokoff. - Il vento ci avrebbe guastato le nostre ali sbattendole al suolo. Preferisco affrontare la burrasca. Ci terremo però vicini al suolo, non essendovi altezze da superare, almeno fino ai Crevaux, che non raggiungeremo prima di questa sera. Sapete che seguiamo una via già percorsa da un europeo? - Da chi? - chiese Fedoro. - Da Donvalot nel 1889-90. - Capitano! - esclamò Rokoff. - Vedo delle abitazioni in quell'avvallamento. - Anche Donvalot ne aveva trovato in questa parte dell'altipiano. Quale esistenza devono condurre quei disgraziati! - Da esquimesi, se non peggio. Non lasciano le loro casupole che nell'estate, per dedicarsi alla caccia o per condurre i loro montoni e i loro cammelli al pascolo. - E quali piante possono spuntare su questi desolati altipiani? - Delle misere graminacee e pochi ciuffi d'un'erba corta e legnosa che non deve essere troppo eccellente anche per le bestie più accontentabili. - E quella costruzione che vedo laggiù in fondo a quell'orribile burrone, che cos'è? - chiese Fedoro. - Un monastero buddista - rispose il capitano. - Fabbricato in mezzo a questo deserto? - Questo deserto è santo, mio caro amico, al pari dei dintorni del Tengri-Nor e di Chassa. Tutto il Tibet è terra venerata, perché tutto appare meraviglioso agli occhi dei pellegrini. Qualunque spaccatura, pei fanatici, è stata aperta dal Dio; qualunque piramide deve essere d'origine divina; perfino i sassi sono cose sante e si portano religiosamente via come reliquia d'una delle trecentosessanta montagne che si elevano in questa regione. - E che cosa fanno quei monaci in queste gole e fra questi dirupi? - Raccolgono le salme dei pellegrini morti in causa delle lunghe sofferenze, delle fatiche e della fame, o delle frecce o delle palle dei briganti, per cremarle e quindi mandare le ceneri ai monaci del Tengri-Nor affinché le gettino nell'acqua più sacra della terra. - Se scendessimo presso quel monastero, ci accoglierebbero male? - chiese Rokoff. - Nella nostra qualità di stranieri non buddisti, avremmo più da temere che da sperare un cordiale ricevimento - rispose il capitano. - Continuiamo perciò il nostro viaggio e teniamoci lontani da tutti. Il viaggio però minacciava di diventare molto difficile e anche assai pericoloso. La bufera di neve aumentava di violenza, e i venti, ormai scatenati, soffiavano con furia irresistibile minacciando di travolgere lo "Sparviero". Una fitta nebbia si estendeva a poco a poco sull'altipiano, coprendo le spaccature, i burroni, gli abissi e facendo velo alle montagne. La neve cadeva a larghe falde, turbinando burrascosamente, levandosi poi in cortine così fitte che talvolta Fedoro, il capitano e Rokoff non riuscivano a scorgere più il macchinista e il silenzioso passeggero che si trovavano a poppa del fuso. Lo "Sparviero", quantunque le sue ali e le sue eliche funzionassero rabbiosamente, descriveva dei bruschi soprassalti e piegava ora a destra e ora a sinistra, imitando il volo incerto e irregolare dei pipistrelli. Talvolta il vento riusciva a vincerlo, abbattendolo verso qualche abisso, ma passata la raffica il fuso si risollevava slanciandosi nuovamente attraverso gli altipiani. Nondimeno tutti erano inquieti, compreso il capitano, il quale temeva di dover cedere o di doversi abbassare in mezzo al turbine di neve. E poi vi era anche un altro pericolo gravissimo, quello di trovarsi improvvisamente dinanzi a qualche picco che la nebbia, che diventava sempre più fitta, alzandosi verso lo "Sparviero", non permetteva di distinguere a tempo. - Come finirà questa corsa? - chiese Rokoff al capitano. - Potremo noi continuarla senza riportare qualche grave avaria? Pensate che una delle ali è stata spezzata sull'Hoang-ho. - Lo so - rispose il comandante, la cui fronte si abbuiava. - E dove scendere? L'altipiano non si scorge più e potremmo cadere in qualche abisso. - Se ci alzassimo ancora? - Nelle alte regioni il vento sarà più impetuoso. Guardate le nuvole come vengono scompigliate e lacerate dalle raffiche. - Sapete dove ci troviamo? - So che corriamo verso i Crevaux. - Saranno ancora lontani? - Lo suppongo. - Non ci fracasseremo contro quei picchi? - Non sono molto alti, signor Rokoff; uno solo, il Ruysbruk mi dà molto da pensare, ignorando le sue dimensioni. - Speriamo che il vento non ci spinga da quella parte. Dove si trova quella montagna? - All'ovest. - E il vento soffia sempre dall'est, signore - disse il cosacco. - E non poter vedere più nulla! La nebbia avvolge tutto l'altipiano e aumenta sempre, salendo verso di noi. - E l'ala ferita scricchiola - disse il capitano, le cui preoccupazioni aumentavano. - Finiremo per vederla ripiegarsi. - E cadremo? - Ci sono i piani orizzontali, signor Rokoff, e ci sosterranno benissimo. Una discesa, anche con questo vento, non mi spaventa. La situazione dello "Sparviero" si aggravava di momento in momento. Le raffiche, sempre più violente, lo gettavano a ogni istante fuori di rotta, travolgendolo nonostante le battute poderose delle ali e pareva che anche il timone non servisse quasi più. Il fuso cadeva, si rialzava, volteggiava in mezzo al turbine, poi tornava ad abbassarsi: non aveva più alcuna direzione. E intanto la nebbia saliva avvolgendolo e la neve, spazzata dai venti, investiva gli uomini, impedendo loro di tenere quasi aperti gli occhi. D'un tratto lo "Sparviero" si rovesciò violentemente su un fianco. Rokoff aveva mandato un grido: - L'ala ha ceduto! Cadiamo! Era vero. L'ala, già guastata dalla palla dei cinesi e poi raccomodata dal macchinista, si era nuovamente spezzata a metà piegandosi in due. Il capitano, vedendola cadere sul fuso, era diventato pallido, però aveva subito riacquistato il suo sangue freddo. - Arrestate la macchina! - gridò. - Si rovescerà lo "Sparviero"? - chiesero a una voce Rokoff e Fedoro. - No, non c'è pericolo - rispose il capitano. - Lasciamoci portare dal vento. - Dove cadremo? - chiese Rokoff. - Non lo so, vedremo poi. Lo "Sparviero" cadeva, ma lentamente, essendo sempre sorretto dai piani orizzontali e dalle eliche, le quali funzionavano ancora. Il vento lo spingeva verso ponente, facendogli descrivere degli zig-zag che impressionavano il russo e il cosacco, i quali temevano sempre che venisse trascinato contro qualche picco e fracassato. Il capitano, curvo sulla balaustrata di prora, cercava di discernere la terra che la nebbia e la neve turbinante gli nascondevano. Dove cadeva lo "Sparviero"? Sull'altipiano, sulla cima di qualche rupe o in fondo a qualche spaventevole abisso? - Non vedete nulla? - chiese Rokoff, che si teneva da un lato onde il fuso non si squilibrasse. - Nulla, ma la terra non deve essere lontana. - Il vento ci porta e minaccia di travolgerci. Toccheremo rudemente. - Tenetevi saldi; possiamo venire rovesciati. - Maledetta nebbia! - Macchinista! - Signore! - Ferma anche le eliche. - Capitano! - esclamò a un tratto Fedoro. - Il vento è improvvisamente cessato. - Me ne sono accorto. - Dove siamo dunque noi? - Suppongo che scendiamo in un abisso. Non udite dell'acqua scrosciare? Pare che qualche cascata ci sia vicina. - Sì, l'odo anch'io - disse Rokoff. - E a me pare d'aver veduto un'enorme muraglia fra uno squarcio della nebbia - disse Fedoro. - Dobbiamo scendere in qualche abisso - rispose il capitano. - Diversamente il vento continuerebbe a soffiare. Preparatevi a saltare a terra appena toccheremo. Lo "Sparviero" continuava la sua discesa, lentamente, senza scosse, come un aquilone che viene tirato al suolo. Il vento non ruggiva più attorno ad esso, anzi regnava una certa calma. Doveva aver già raggiunto l'orlo dell'altipiano spazzato dalla bufera; la nebbia però non permetteva agli audaci aeronauti di vedere dove calavano. Lo scrosciare della cascata si udiva sempre verso destra e diventava anzi più assordante. Qualche enorme colonna d'acqua, proveniente da qualche ghiacciaio, doveva precipitarsi attraverso quella spaccatura, o burrone, o abisso che fosse. Il capitano cercava d'indovinare dove scendevano e non gli riusciva di discernere le pareti del vallone che la nebbia ostinatamente teneva celate. Era già trascorsa quasi una mezz'ora dalla rottura dell'ala, quando il fuso subì una scossa, piegandosi per un momento sul fianco destro. - Capitano! - gridò Rokoff, aggrappandosi fortemente alla balaustrata. - Abbiamo toccato. Il comandante si era spinto fuori dal bordo per riconoscere l'ostacolo e vide confusamente una punta aguzza che si piegava sotto il peso del fuso. - È la cima d'un abete o d'un pino - disse. - Pare che vi sia una foresta sotto di noi. - Potremo scendere? Invece di rispondere il capitano si slanciò verso la macchina mettendo in movimento l'elica anteriore. Cercava di spingere innanzi lo "Sparviero", temendo che dovesse cadere in mezzo a qualche foresta, ciò che avrebbe prodotto qualche catastrofe o per lo meno dei gravi danni. E infatti il fuso, non trovando spazio sufficiente, poteva rovesciarsi e piombare in mezzo alle piante fracassando i piani orizzontali e lacerandosi le ali. Sembrava però poco credibile al capitano che sotto di lui si estendesse una vera foresta, essendo gli altipiani del Tibet settentrionale quasi privi di piante d'alto fusto. Qualche abete o qualche pino, trovato il terreno favorevole, poteva essere cresciuto, ma non di più. Fortunatamente lo "Sparviero", rimorchiato dall'elica, a poco a poco si spostava, cadendo molto lontano da quell'ostacolo che aveva sfiorato l'estremità inferiore del fuso. Il capitano, che non aveva abbandonato il suo posto a prora, non ne aveva scorto altri. La nebbia però era sempre foltissima, anzi più che sull'altipiano. D'improvviso il fuso tornò a toccare. Si udì un urto, seguito poco dopo da uno scricchiolare di tavole o di rami, accompagnato da grida acute. - Mille milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Schiacciamo della gente noi? - Mi pare che siamo caduti su un'abitazione - disse il capitano. Urla di terrore risuonavano fra la nebbia, mentre il fuso s'inclinava verso poppa, trattenuto da un impedimento che non gli permetteva di adagiarsi orizzontalmente. A un tratto però l'ostacolo cedette sotto il peso e si sfasciò con mille scricchiolii. L'abitazione doveva essersi spezzata, perché lo "Sparviero" riprese il suo appiombo, rimanendo immobile. - Le armi! Le armi! - gridò il capitano. Attraverso la nebbia aveva scorto delle ombre umane agitarsi. Il macchinista e il suo muto compagno avevano portato in coperta degli Snider e dei Remington. Il capitano era balzato a terra assieme a Fedoro e a Rokoff, gridando in lingua mongola. - Pace! Pace! Non temete! Siamo amici! Degli uomini coperti di pellicce che li facevano rassomigliare ad orsi, si erano accostati. - Chi siete! - chiese una voce imperiosa. - Amici - rispose il capitano. - Da dove siete caduti? Avete schiacciato la mia capanna. - Siamo pronti a indennizzarvi dei danni che vi abbiamo recato. - Siete mongoli? - Europei che non vi faranno alcun male. - Che cosa sono questi europei? - Degli uomini bianchi - rispose il capitano. - Chi comanda qui? Conduceteci dal vostro capo. Quindici o venti uomini si erano radunati attorno al capitano e ai suoi compagni, mentre altri s'aggiravano presso lo "Sparviero", cercando di distinguere che cosa fosse quella massa enorme che cadeva dall'alto schiacciando le case. Un uomo, grosso come una botte, che aveva un enorme berretto di pelo e una casacca di grosso feltro, si era avvicinato al capitano, dicendo: - Se cercate il capo del villaggio, sono io. Che cosa volete? Da qual parte siete scesi in questa valle senza chiedermi il permesso e mettendo in pericolo i miei sudditi? Per poco non avete schiacciato una intera famiglia. - È l'uragano che ci ha fatto cadere qui. Se il vento non ci avesse spinti, non saremmo discesi. - E che cos'è quella bestia? Sarà poi una bestia? - È la nostra casa. - Gettata giù dal vento? E non vi siete uccisi? Siete uomini o demoni? - Vi ho già detto che siamo degli uomini bianchi. - Venite nella mia capanna; voglio vedere se somigliate a quelli che sono passati per di qui molti anni or sono. - Vi consiglio di far ritirare tutti i vostri uomini e di non toccare la nostra casa. Potrebbe scoppiare e farvi saltare tutti in aria. - Allora la vostra casa è una bestia cattiva! - esclamò il tibetano, retrocedendo vivamente. - Non toccatela e non farà male ad alcuno. Se ci accordate ospitalità, noi vi faremo dei regali. - So che gli uomini bianchi sono generosi. Anche gli altri mi hanno fatto dei regali. - A quali europei allude? - chiese Rokoff, cui il capitano traduceva le risposte del tibetano. - A quelli della missione Bonvalot - rispose il comandante. - Questo selvaggio probabilmente ha veduto il principe Enrico d'Orléans, il figlio del duca di Chartres e cugino del pretendente al trono di Francia. Giacché acconsente a offrirci ospitalità, andiamo subito nella sua capanna. Qui fa un freddo cane e non si vede a due passi di distanza. - E il macchinista e il vostro amico? - chiese Fedoro. - Rimarranno a guardia dello "Sparviero". - Che corrano qualche pericolo? - Ho detto loro di montare la piccola mitragliatrice e con un simile arnese possono tenersi sicuri. D'altronde non mi pare che questi montanari abbiano intenzioni ostili. Andiamo nella casa di questo capo. I tibetani, dopo aver ronzato un po' attorno allo "Sparviero", senza poter indovinare che cosa fosse, in causa della foltissima nebbia che lo avvolgeva, a poco a poco si erano dileguati. Era rimasto solamente il capo, il quale continuava a infagottarsi nelle sue pelli. - Vi seguiamo - disse il capitano, dopo essersi fatto dare dal macchinista dei viveri, alcune bottiglie e delle bazzecole che contava di regalare al montanaro. Tenendosi per mano onde non smarrirsi, si lasciarono condurre. A destra e a manca scorgevano confusamente delle masse oscure che dovevano essere o tende o capanne e che erano avvolte fra un denso fumo che il nebbione impediva di disperdersi. Dopo trenta o quaranta passi il tibetano aprì una porta e li introdusse nella sua abitazione formata da una sola stanza ingombra di pelli, di caldaie di rame, di quarti di jacks quasi gelati e ammassi di vecchi tappeti di feltro che dovevano servire da letto. Nel mezzo, su quattro sassi, bruciava dell'argol, il quale non è altro che dello sterco di toro indurito, l'unico combustibile usato sull'altipiano e che produce fumo in abbondanza. Un'apertura però, fatta nel tetto, permetteva che bene o male uscisse; ve ne rimaneva tuttavia tanto dentro, che gli aeronauti credettero per un momento di morire asfissiati. - All'inferno i palazzi tibetani! - esclamò Rokoff, che tossiva fragorosamente. Questa è una tana da volpi! - Ci abitueremo presto a questo fumo - rispose il capitano. Il capo si era intanto sbarazzata del suo immenso mantello, formato da una intera pelle di jack, che portava col pelo all'infuori, e del suo berrettone di pelle d'orso, che gli nascondeva mezzo volto. Era il vero tipo del montanaro tibetano, basso di statura, secco, con occhi piccoli, un po' obliqui come quelli della razza mongola, senza un pelo sul volto e invece con una capigliatura lunga e abbondante, molto ruvida e che portava raccolta in trecce cadenti sulla fronte bassa e depressa e sulle spalle. Aveva gli zigomi molto più pronunciati dei cinesi, il naso grosso, la bocca larga fornita di denti lunghi e acuti come quelli delle belve, male disposti e sporgenti in modo che gli uscivano dalle labbra. La sua pelle poi scompariva sotto un vero strato di sporcizia. Probabilmente quell'uomo non si era mai lavato dal giorno che era venuto al mondo. Prima d'accostarsi agli aeronauti, fece un goffo inchino alzando poi i pollici delle mani fino all'altezza della fronte e cacciò fuori dalle labbra una lingua lunga quasi mezza piede, che lasciò penzolare per alcuni istanti. - Per le steppe del Don! - esclamò Rokoff, guardandolo con stupore e con disgusto. - Sta appiccandosi costui? - Ci saluta - rispose il capitano. - Con quella lingua! Da dove l'ha cacciata fuori! - Tutti i tibetani l'hanno così lunga. - Dite mostruosa. È ributtante! Sembra quella d'un orso formichiere. - Se saremo costretti a fermarci qui ne vedrete ben altre più enormi. - Mille storioni! Il tibetano, dopo quel saluto, con una mimica molto espressiva, aveva invitato i suoi ospiti a sedersi attorno al fuoco, dove già si trovavano dei grossolani tappeti di feltro. Tutti i montanari di quei desolati altipiani, per lo più non si esprimono che con moti, come se incontrino qualche difficoltà nel parlare. Dipende forse dalle mostruose dimensioni della loro lingua e anche dalla pessima disposizione dei loro denti? Il fatto sta che fra di loro non parlano quasi mai. Si esprimono e si comprendono benissimo con moti della bocca e della lingua, agitando le labbra in vari sensi, aiutandosi anche coi pollici delle mani per meglio far comprendere i loro desideri. Anche quando vogliono salutare, invece di dare un cordiale "buon giorno" o la "buona sera", si limitano a sporgere più che possono la lingua. Il capo andò a prendere un coltellaccio e da un quarto di jack che era sospeso alla parete, staccò alcuni enormi pezzi che depose dinanzi agli ospiti invitandoli a mangiare. - Mille milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Questo scimmiotto ci prende per tigri o per lupi per darci della carne cruda. - Non usano cucinarla - disse il capitano. Questi montanari vivono nel modo più primitivo che si possa immaginare e non si nutrono che di farina d'orzo e di carne cruda. Immaginatevi che non conoscono nemmeno il tè! - Io non farò onore a questo pasto da cannibali - disse Fedoro. Abbiamo le nostre provviste e vedrete che il capo non si farà pregare per assaggiarle. Aveva portato delle scatole di carne conservata, un pudding gelato, dei biscotti, dello zucchero per prepararsi il tè e due bottiglie di ginepro. Depose ogni cosa intorno al fuoco e invitò il capo a prendere parte al pasto. Il montanaro, vedendo gli ospiti lasciare intatta la carne cruda era rimasto un po' confuso, però aveva subito accettata la parte che il capitano gli offriva, gettandosi avidamente sul pezzo di pudding e sulle gallette e guardando cogli occhi accesi i pezzetti di zucchero. - Io conosco quei pezzi di pietra - disse. - Gli uomini bianchi che sono passati per di qua molti anni or sono, me ne hanno fatto assaggiare. - To'! Li chiama pezzi di pietra! - esclamò Rokoff, dopo aver udita la traduzione. - A te, mio caro selvaggio, addolcisciti la bocca; poi te la riscalderai col ginepro. Terminato il pasto il capo, che era diventato molto loquace dopo parecchi bicchieri della forte bevanda, spiegò al capitano che erano caduti in una profonda vallata racchiusa fra montagne tagliate a picco, che aveva una sola uscita verso il Ruysbruck, il più alto ed imponente picco dei Crevaux e che il suo villaggio si componeva di sessanta famiglie di pastori. Si dimostrava però sempre curioso di sapere in qual modo erano caduti da una così spaventevole altezza senza fracassarsi le ossa e di sapere che cosa era quella massa enorme che aveva schiacciata una capanna. La spiegazione fu laboriosa ma senza successo, non avendo quel tibetano mai udito parlare né di palloni, né di macchine volanti e tanto meno di uomini che viaggiavano fra le nubi. - Se è vero quello che tu mi racconti - concluse il montanaro - tu devi essere l'uomo più potente della terra. Finché però non ti vedrò volare come le aquile, non ti crederò mai, perché solo Buddha, potrebbe tentare una simile cosa. Volle in seguito vedere i fucili degli aeronauti senza poter comprendere come facessero fuoco non avendo la miccia. Gli sguardi d'ardente cupidigia che lanciava su quelle armi erano tali da impressionare il capitano. - Finirà per chiedercele - disse a Rokoff ed a Fedoro. - Noi però non gliele daremo. Si accontenti del suo moschettone a miccia. Dopo un paio d'ore lasciarono la capanna, non fidandosi di dormire in compagnia del capo. Il nebbione non si era ancora alzato e la neve cadeva abbondante anche nel vallone. Il macchinista e lo sconosciuto per riparare il ponte del fuso, avevano in quel frattempo tesa una immensa tenda di tela cerata e messa in batteria una piccola mitragliatrice a sette canne disposte a ventaglio, arma sufficiente per tenere in rispetto i tibetani, nel caso che avessero tentato di saccheggiare o di guastare lo "Sparviero". - È venuto nessuno ad importunarvi durante la nostra assenza? - chiese il capitano. - Abbiamo veduto, a più riprese, aggirarsi fra la nebbia alcune ombre che si sono subito dileguate al mio grido d'allarme - rispose il macchinista. - Si direbbe che voi non siete tranquillo - disse Fedoro, un po' sorpreso. - I tibetani non vedono volentieri gli stranieri - rispose il capitano. - E poi qui, in queste gole, non vivono che dei briganti, non essendovi pascoli fra questi orridi dirupi. E poi sapete che cosa m'inquieta? - Dite, signore. - L'assenza completa delle donne; ne avete vedute voi? - Io no. Dunque non credete che le capanne e le tende siano abitate da famiglie. - Solamente da uomini. - Che ci diano delle noie? - chiese Rokoff. - Non mi sorprenderei. Durante la buona stagione, all'epoca dei pellegrinaggi, tutte le vie che attraversano gli altipiani sono infestate da banditi. Chi mi assicura che non lo siano anche questi? Vegliamo amici e non lasciamoci sorprendere. - Brutto affare, collo "Sparviero" immobilizzato. - Aiuteremo il macchinista ad accomodare l'ala. I pezzi di ricambio sono già pronti. - Sarà lunga la riparazione? - Non avrò terminato prima di domani a mezzodì - disse il macchinista. - Il vento ha spezzato più di mezze verghe. - Al lavoro - disse il capitano. - Intanto uno di noi veglierà passeggiando intorno al fuso, onde i Tibetani non ci guastino i piani orizzontali. Se sventrano la seta, per noi sarebbe finita e l'idea di un viaggio a piedi attraverso il Tibet, specialmente in questa stagione così fredda, vi assicuro che non mi sorride affatto. - M'incarico io del primo quarto di guardia - disse Rokoff. Si gettò sulle spalle un ampio gabbano di tela impermeabile, si calcò in testa il suo berretto di pelo simile a quello che portano i tartari della steppa e armatosi dello Snider balzò a terra, scomparendo nella nebbia.

Arrestato il movimento turbinoso delle tre eliche, l'aerotreno che aveva già raggiunto la punta estrema dell'isolotto, cominciò ad abbassarsi lentamente, sorretto dai piani inclinati, i quali agivano come due immensi aquiloni. Passò sopra i primi alberi sfiorandone le cime, poi calò dolcemente proprio in mezzo a quel brano di terra, coricandosi fra i cespugli. Le due ali, con un mezzo giro dell'albero motore, si erano distese orizzontalmente, in modo da rimanere perfettamente nascoste a qualunque navigante che scendesse o salisse il fiume. - Che cosa ne dite di questa discesa? - chiese il capitano con voce assai lieta. - Che non poteva riuscire migliore - rispose Rokoff. - Potete andare superbo della vostra macchina, signore. Eppure io avrei giurato che saremmo precipitati in mezzo al fiume. - Sì, se il mio "Sparviero" non fosse stato munito dei suoi piani inclinati - disse il capitano. - Andiamo a vedere l'avaria prodotta da quella maledetta palla. Sbarcarono balzando fra gli sterpi, sotto i quali si udivano pigolare numerosi uccelli e si vedevano fuggire bande di piccoli rosicchianti, ed esaminarono l'ala. Il proiettile aveva spezzato nettamente l'asta principale, a circa metà altezza, asportandone un pezzo lungo trenta centimetri e forando la seta, sicché le nervature superiori, non più sorrette, si erano ripiegate. Era una mutilazione grave, ma non irreparabile. - Quanto tempo ti è necessario? - chiese il capitano al macchinista. - Non meno di dodici ore - disse l'interrogato. - Rispondi della saldatura? - Sarete soddisfatto. Abbiamo una buona scorta d'aste d'alluminio e la fucina. - Ti possiamo essere utili? - Farò tutto da me. - Portami dei fucili da caccia. Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro, disse: - Signori, facciamo una battuta fra i canneti della nostra possessione. Un po' di carne fresca spero che l'accoglierete bene. I fagiani dorati e argentati non devono mancare fra questi cespugli. - Una passeggiata la faccio volentieri - rispose Rokoff. - E poi mi preme di sapere se i manciù del fortino sono rimasti sui loro bastioni. - Temete che vengano a disturbarci? Non credo che ci abbiano veduti calare su questo isolotto. - Non abbiamo percorso molte miglia, capitano. - Una mezza dozzina. - Siamo ancora troppo vicini. - Li consiglierei a non venire qui - disse il capitano. - Abbiamo una mitragliera che tira stupendamente. Signori, in caccia!

Lo "Sparviero", sorretto solamente dai piani inclinati, continuava ad abbassarsi dolcemente. L'irbis sempre più spaventato dalle ondulazioni che subiva il fuso, continuava a brontolare e a dare segni d'inquietudine. S'alzava sulle zampe posteriori fiutando rumorosamente l'aria e girava continuamente la testa in tutti i sensi. A un tratto avvenne un urto: lo "Sparviero" aveva toccato terra. - Attenzione! - gridò il capitano. Il leopardo con un salto immenso aveva varcata la balaustrata precipitandosi sulla neve. Stette un momento immobile, stupito forse di trovarsi a terra, poi spiccò tre o quattro salti dirigendosi verso un gruppetto di betulle nane. Il capitano, Rokoff e Fedoro si erano precipitati sulle carabine. - Fuoco! ... Tre spari rimbombarono formando quasi una sola detonazione. Il leopardo che si trovava a solo cento passi dal fuso, si rizzò di colpo mandando un urlo prolungato, girò due volte su se stesso, poi cadde in mezzo alla neve, agitando pazzamente le zampe. Quasi nel medesimo istante si udirono dei clamori selvaggi, poi degli spari. - Mille folgori! - esclamò Rokoff. - Che cosa succede ancora? - I mongoli! - gridò il capitano. - Su, alziamoci! - E il leopardo? - Lo lasceremo a quei banditi; ci manca il tempo di raccoglierlo. Presto: grandina e s'avanzano al galoppo. Un istante dopo lo "Sparviero" s'alzava maestosamente, salutato da una scarica di fucili.

Il capitano aveva ordinato al macchinista di abbassarsi sperando di fare un buon colpo sugli argali che si vedevano sempre numerosissimi, ma quei sospettosi e agilissimi animali non si lasciavano accostare. Appena scorta l'ombra proiettata dallo "Sparviero" s'affrettavano a cacciarsi nei boschi, rendendo così impossibile l'inseguimento. Verso le tre pomeridiane, ossia due ore dopo lasciato l'accampamento dei calmucchi, il treno aereo sboccava nello Sciamo meridionale, presso la via carovaniera di Chami e d'Urumei. Quasi subito, fra due colline, apparve un aggruppamento di costruzioni in legno e di tende. - Turfan - disse il capitano. - È ora di svegliare il monaco - disse Rokoff. - Anche per nostra salvaguardia - aggiunse Fedoro. - È incaricato di proteggerci. - Aprirà poi gli occhi? - chiese il cosacco. - Sarà ancora ubriaco. - Gli somministreremo un po' d'ammoniaca in un bicchier d'acqua - disse il capitano. - Se dovessimo sbarcarlo in questo stato, i calmucchi sarebbero capaci di prendersela con noi. Il macchinista, il quale aveva ceduto il timone allo sconosciuto, che si era sempre tenuto da parte senza mai parlare, portò il bicchiere e forzò il monaco a berlo. Il povero diavolo lo mandò giù facendo delle smorfie e sternutendo sonoramente parecchie volte. - Questo non è koumis! - esclamò. - Briganti di servi! Che cosa avete dato al vostro sacerdote? Probabilmente credeva di trovarsi ancora sotto la sua tenda. Accortosi dell'errore e vedendo sopra di sé agitarsi le immense ali dello "Sparviero", impallidì e si portò le mani alla fronte. - Dove sono? - si chiese, con accento smarrito. - Sopra Turfan - rispose il capitano, ridendo. - Su, in piedi, se volete diventare ghetzull o hellung. - Turfan! - esclamò il calmucco, che penava molto a raccapezzarsi. D'un tratto mandò un grido: - I figli della luna! - Pare che l'ubriachezza gli sia finalmente passata - disse Rokoff. - E che sia molto spaventato - aggiunse Fedoro. - Non c'è più alcool nel suo corpo che gli dia del coraggio. - Gliene faremo ingollare dell'altro. Il monaco, aiutato dal capitano, si era alzato aggrappandosi alla balaustrata. Appena ebbe dato uno sguardo all'abisso che gli si apriva sotto i piedi, retrocesse vivamente, agitando le braccia come un pazzo. - Ho paura! - esclamò. - Non gettatemi giù! Sono un povero mandiki. - Che cosa vi salta pel capo, ora? - chiese il capitano. - Volevate andare a Turfan coi figli della luna e noi vi abbiamo accontentato. - E non ci ammazzeremo tutti? - chiese il monaco, che sudava freddo. - Giungerete in ottimo stato, ve lo prometto. - E questa bestia non mangerà nessuno? - Non le piacciono gli uomini, specialmente quelli della vostra razza. Il mandiki, un po' rassicurato, si riaccostò alla balaustrata, poi tornò a retrocedere, coprendosi gli occhi colle mani. - Cadiamo! - gemette. - Animo - disse il capitano. - pensate che da questa discesa dipende il vostro avanzamento. Ecco gli abitanti che vi acclamano. Una folla numerosissima si accalcava sulla piazza del villaggio, mandando urla di sorpresa e anche di terrore. Si vedevano donne e fanciulle fuggire e uscire invece dalle tende uomini armati di fucili e di tromboni. - Fatevi vedere - disse il capitano al monaco. - Se fanno fuoco io non scenderò e sarete costretto a rimanere con noi. - Ho paura! Ho paura! - balbettava il mandiki. - Se non obbedite vi getto giù! A quella minaccia il calmucco impallidì come un cencio lavato e fu lì lì per lasciarsi cadere. Vedendo però il capitano avanzarsi, si fece animo e si curvò sulla balaustrata, gridando alcune parole. Le urla erano subito cessate. I calmucchi avevano lasciato cadere le armi, facendo gesti di maraviglia e di stupore. Il loro mandiki scendeva dal cielo, portato da quel mostruoso uccello! La cosa doveva sembrare ben meravigliosa a quei poveri nomadi, che non avevano mai udito parlare né di aerostati, né tanto meno di macchine volanti. La loro sorpresa era tale, che parevano come pietrificati. Lo "Sparviero" intanto scendeva descrivendo dei larghi giri che a poco a poco si restringevano, poi le sue ali rimasero tese formando un paracadute assieme ai piani orizzontali e la massa si lasciò cadere proprio in mezzo alla piazza. La folla, vedendolo abbassarsi, si era ritirata precipitosamente per non farsi schiacciare, mentre il monaco, che aveva riacquistato il coraggio, ritto a prora con un'aria da trionfatore, trinciava benedizioni a destra e a manca, invocando Buddha. Grida d'ammirazione scoppiavano da tutte le parti. Si urlava, si applaudiva il monaco che aveva saputo, certo per opera del dio, domare quell'enorme mostro e renderlo docile ai suoi voleri. Tuttavia nessuno osava accostarsi a quell'uccellaccio di nuova specie, anzi alcuni avevano armato i fucili, temendo un improvviso attacco. Il mandiki, con un gesto da sovrano, impose silenzio alla turba e gridò con un vocione da basso profondo: - Giù le armi, figli miei. Questa bestia non farà male a nessuno, perché io l'ho domata e fate buona accoglienza agli uomini che mi accompagnano, che sono i figli di Buddha. - Ah! Il volpone! - esclamò Rokoff. - Per lui eravamo figli della luna; ora siamo diventati, per gli altri, nientemeno che figli del dio. Sfrutta bene l'ignoranza di questi poveri calmucchi. Il mandiki, dopo molti sforzi e anche coll'aiuto del cosacco e di Fedoro, era riuscito a scavalcare la balaustrata, muovendo, con incedere maestoso, verso la folla che gli si era subito stretta intorno disputandosi l'onore di baciargli l'orlo della veste. I calmucchi parevano in preda a un vero delirio. Finirono per sollevare il monaco, nonostante il suo enorme peso, portandolo in trionfo per la piazza. - Ci lascia? - chiese Rokoff. - Non sarei stupito che se ne andasse dimenticandosi d'inviarci i promessi montoni. Ma il cosacco giudicava male il mandiki, perché questi, appena calmatosi un po' l'entusiasmo della folla, si fece deporre a terra e s'avvicinò allo "Sparviero", dicendo al capitano: - Signore, degnatevi d'accettare l'ospitalità nella tenda della principessa che comanda in Turfan. Si sta preparando il pranzo pei figli di Buddha. - Durante la nostra assenza nessuno toccherà il mio uccello? - Oh! Non temete! Questi stupidi hanno troppo paura e non oseranno nemmeno accostarsi. Non sono sacerdoti essi. - Per prudenza lasciamo qui il macchinista e quel signore - disse il capitano. - E noi, signor Rokoff e voi, Fedoro, armiamoci delle rivoltelle. Non si sa mai quello che può accadere. Nascosero le armi sotto le larghe fasce, delle rivoltelle di grosso calibro, vere Colt americane e seguirono il monaco fiancheggiati da due o trecento calmucchi, i quali però si tenevano a una certa distanza. - Sarà giovane o vecchia questa principessa? - chiese Rokoff al capitano. - Se sarà bella e giovane, vi concedo il permesso di corteggiarla - rispose il comandante, ridendo. - Non rimarrà insensibile agli omaggi d'un figlio di Buddha. - Non mi comprenderà. - Ah, sì, mi dimenticavo che non parlate nemmeno il cinese. - Ditemi, capitano, comandano le donne qui? - Sarà la vedova di qualche capo. - Allora sarà vecchia. - Aspettate a giudicarla. All'estremità della piazza s'alzava una vastissima kibitka di forma quasi ovale, coperta di grosso feltro impermeabile, con un'apertura sulla cima per lasciar penetrare la luce e uscire il fumo, non conoscendo i calmucchi, al pari dei duzungari loro vicini e anche dei mongoli, i camini. Il mandiki alzò un lembo della tenda e li introdusse, pregandoli di aspettare la principessa, la quale stava abbigliandosi in una tenda vicina. L'interno era montato con un lusso, che stupì perfino il capitano. In un canto vi era un letto monumentale, con una coperta di seta azzurra a fiorami rossi e gialli, con baldacchino pure di seta e tende bianche e rosa. Dinanzi stava un divanetto con un ricco tappeto di provenienza persiana o tibetana e in disparte un ricco cofano d'origine cinese, a colori brillanti e lacca, carico di coppe ricolme di riso e di frumento, di sonagliuzzi di varie grandezze, con due bambole vestite di seta, simili a quelle che vendono i cinesi. In mezzo si vedeva una statuetta di Buddha coperta da una mussola ricamata in oro. Intorno poi alla tenda v'erano numerosi cuscini di seta, posti su piccoli tappeti, destinati di certo ai visitatori. - Che lusso! - esclamò Rokoff, che non poteva star zitto un minuto. - La principessa deve essere bella e molto graziosa per avere un così ricco letto. Mi rincresce di dover starmene muto dinanzi a lei. - Eppure voi, che siete cosacco, dovreste conoscere qualche parola di calmucco - disse il capitano. - Questa razza, nomade fra le nomadi, si è sparpagliata fino ai confini dell'Europa e ha tribù numerose perfino nel Caucaso e nell'Astrakan. - Ha invaso mezza Asia? - Se non di più, signor Rokoff. È una razza di conquistatori, che ha avuto, secoli indietro, parecchie fasi di gloria e di potenza, e che sotto il famoso Genghiz Khan portò le sue armi vittoriose fino in Russia. Sapete che si dice che gli unni, che con Attila invasero perfino l'Italia, siano stati gli antenati di questi nomadi, che ora vedete così miserabili? - Ne ho udito parlare. Ora però non sono capaci d'altro che di condurre al pascolo i loro montoni e i loro cammelli. - Perché si sono troppo dispersi e suddivisi in un numero infinito di tribù indipendenti le une dalle altre. - Ecco la principessa - disse Fedoro. I tre aeronauti si erano alzati guardando curiosamente verso l'entrata della tenda, che l'enorme monaco teneva alzata. - Ah! La brutta vecchia! - esclamò Rokoff. - Ma questa è una strega! La principessa si era avanzata, facendo colle mani un saluto rispettoso. Era una donna piccola, magra come un chiodo, colla pelle del viso color del pan bigio, grinzosa e incartapecorita, con due occhietti neri ancora vivaci e di una mobilità straordinaria. Quale età poteva avere? Ottanta o cent'anni? Rokoff gliene avrebbe dati anche di più. Come tutte le ricche calmucche, indossava una lunga veste che le scendeva fino ai piedi, aperta in alto in modo da lasciar vedere la camicia di seta bianca. Sul capo portava una specie di berretto colla parte superiore quadrata e l'inferiore rialzata da una parte e aveva i capelli raccolti in trecce e ancora neri e abbondanti, chiusi in una fodera di seta nera. Le dita ossute erano coperte di anelli d'oro e d'argento e anche al collo portava pesanti monili formati da tael cinesi e da grani d'oro. Nonostante quello sfarzo di gioielli, il colore azzurro della veste e le ricche babbucce di pelle rossa con ricami d'argento, la principessa era d'una bruttezza ripugnante. Il monaco, che pareva all'apice del suo trionfo, presentò alla vecchia i figli viventi di Buddha, chiamandoli suoi amici e suoi protettori, poi li fece sedere sui cuscini mentre egli prendeva posto sul divanetto assieme alla principessa. Quasi subito entrarono parecchi servi portando quattro capretti arrostiti interi, vasi ricolmi di koumis e focacce di frumento e di riso. - Diamo un saggio della capacità degli stomachi dei piccoli Buddha - disse Rokoff. Il mandiki, nella sua qualità di monaco, aveva servito agli ospiti dei pezzi enormi su piatti d'argento, invitandoli a far onore alla modesta cucina della principessa Khurull-Kyma-Chamik. - Mi pare che abbia sternutato - disse Rokoff. - No, ha pronunziato il nome della bella principessa - rispose Fedoro. - Un nome superbo! Compiango suo marito, se ne ha avuto uno, costretto a sternutare forse cinquanta volte al giorno per chiamare la sua sposa. Si erano messi a mangiare con molto appetito, trovando tutto squisito. Anche la principessa, quantunque quasi sdentata, si sforzava di tener dietro agli ospiti, masticando come meglio poteva e bevendo molto koumis. Durante quella laboriosa operazione, alzava sovente il viso, guardando di sfuggita i tre uomini bianchi e fermando soprattutto i suoi occhi su Rokoff, le cui forme erculee e la barba rossastra dovevano averle prodotto un certo effetto. Anzi, sovente si curvava verso il monaco, che divorava per quattro e beveva per otto, mormorandogli all'orecchio qualche parola e indicandogli il cosacco. Il capitano, che si era accorto di quelle manovre, urto Rokoff, dicendogli: - Badate! La principessa fa troppa attenzione a voi. Temo che le abbiate toccato il cuore. - Per le steppe del Don! Non ditelo nemmeno per scherzo. - E che, non vi piacerebbe diventare principe di Turfan? - Con quella vecchia! - Non è poi tanto brutta - disse il capitano, frenando a stento le risa. - Che il diavolo se la porti! - E sarà anche ricchissima. - Non continuate, o scappo via. - Non guastate le nostre buone relazioni con questi calmucchi. Sarebbero capaci di mandarci in pezzi lo "Sparviero". - Dopo il pranzo ce ne andremo. - Dobbiamo assistere alla festa delle lampade. La popolazione sta già facendo i preparativi. - Chi ve lo ha detto? - Il mandiki. - Avrei preferito andarmene. - Più tardi, quando avremo ricevuto i montoni promessi. Mentre chiacchieravano, la principessa continuava a guardare sottocchi il cosacco e bisbigliare col monaco il quale, troppo affaccendato a rimpinzarsi di pasticci e di focacce, si limitava a rispondere con dei cenni del capo. Avevano appena terminato il pasto, quando al di fuori si udirono rullare dei tamburelli e strepitare dei gong. Il monaco si era alzato dicendo: - Ecco che la sulla comincia. I figli del possente Buddha onorino la festa colla loro presenza. Tutti uscirono dalla tenda, preceduti dalla principessa. La notte era calata, ma miriadi di lumi brillavano nelle vie della borgata e intorno alle tende, avanzandosi verso la piazza come un immenso serpente fiammeggiante. Dinanzi alla dimora della principessa, dei servi avevano alzato una specie d'altare, il dender, formato con rami d'abete intrecciati e piantati su pezzi di legno coperti d'erba. Su due lati ardevano due piccoli falò ed in mezzo ai rami s'alzava una statua di Buddha formata d'argilla seccata al sole e abbellita di pezzi di carta dorata e da collane di tael. La festa della sulla ossia della lampada, è una delle più grandi ed anche delle più originali che celebrano i calmucchi ed ha qualche somiglianza coi quella delle lanterne dei vicini cinesi. Giacché riesca di maggior effetto, si aspetta la notte. Allora tutta la popolazione della tribù si schiera, munita di lampade ripiene di grasso, i cui lucignoli sono formati dagli steli d'una pianta ben secca, avvolti in un po' di cotone, e devono essere tanti quanti sono gli anni di colui che deve portare il lume. Preceduti da una musica indemoniata, devono fare tre volte il giro dell'altare, sempre ballando e procurando di non cadere, perché la via che devono percorrere deve essere prima stata interrotta da fossati e da buche scavate appositamente. Un uso molto curioso poi, vuole che un bambino nato il giorno prima della sulla, debba venire considerato l'indomani come già vecchio d'un anno. Mentre la principessa attendeva l'arrivo della tribù che s'avanzava fra un clamore assordante, il monaco si era accostato al capitano, impegnando con lui una misteriosa conversazione, accompagnata da gesti maestosi. - Che cosa può raccontare il mandiki? - si chiese il cosacco, il quale, senza conoscere il motivo, non si sentiva punto tranquillo. - Deve essere molto interessante, perché vedo che il capitano ride a crepapelle. - Io non so, ma vedo una cosa. - Quale? - Che la principessa, a poco a poco si avvicina a te e che non ti stacca di dosso gli sguardi. - Che quella vecchia pazza ... - Signor Rokoff - disse il capitano, che gli si era accostato. - Sono stato incaricato, dal mandiki, d'una commissione per voi. Permettete che fin d'ora vi faccia le mie congratulazioni. Corbezzoli! Quanto v'invidieranno i sudditi di Khurull-Kyma-Chamik. - Una commissione per me? - chiese il cosacco, che si sentiva bagnare la fronte da freddo sudore. - Quattromila montoni, trecento cammelli, sette tende e non so quanti cofani pieni di pezzi di seta e di gioielli ed un titolo! Sono fortune che non capitano tutti i giorni. - Che cosa c'entrano i montoni ... i cammelli ... Il capitano, fattosi serio disse, inchinandosi comicamente: - Io saluto in voi il principe di Turfan. - Io principe! - gridò Rokoff che pareva in procinto di scoppiare. - Mi hanno pregato di chiedere la vostra mano da parte della bellissima, ricchissima e potentissima principessa Khurull-Kyma-Chamìk, che si è degnata di scegliervi per suo quinto sposo. - Fulmini del Don! - Fortunato amico! - gridò Fedoro, schiattando dalle risa. - E il briccone si lagnava d'avermi accompagnato in Cina!

Magra speranza, perché l'aerotreno non accennava ad abbassarsi nemmeno d'un metro. Sorretto dai piani inclinati e dalle eliche orizzontali e rimorchiato da quella proviera, continuava la sua marcia, quantunque il vento non accennasse ad aumentare. Solamente la sua velocità da trenta miglia all'ora era discesa ad appena dieci e se i mongoli avessero voluto, avrebbero potuto facilmente raggiungerlo e moschettarlo. Alle dieci le colline non si trovavano che a cinquecento metri. Formavano una immensa doppia collina, la quale si estendeva dall'est all'ovest per parecchie decine di miglia. Più che colline erano rocce colossali e aridissime. Non si vedeva spuntare, né sui loro fianchi né sulle loro cime, la menoma pianticella ed erano così rigide da non permettere la scalata nemmeno a una scimmia. Non essendo alte più di trecento metri lo "Sparviero", che manteneva i suoi quattrocento metri, poteva facilmente sorpassarle senza urtarvi contro. I mongoli, accorgendosi che la preda agognata stava loro per sfuggire, sferzavano violentemente i cavalli e raddoppiarono i loro clamori, ricominciando un fuoco violentissimo, quantunque ancora inefficace per la poca portata delle loro armi. Si agitavano furiosamente sulle loro cavalcature, snudavano le loro scimitarre trinciando colpi a destra ed a manca ed insultavano gli aeronauti i quali si accontentavano di sorridere a quell'impotente rabbia. - Ci prenderete un'altra volta? - gridò a loro Rokoff, minacciandoli col fucile. - Per ora non abbiamo tempo di occuparci di voi. Una scarica violentissima fu la risposta, ma ormai lo "Sparviero" filava maestosamente sulla prima catena di rocce, attraversando un immenso abisso. I mongoli s'arrestarono dinanzi a quegli ostacoli insormontabili, continuando a sparare, poi si slanciarono a corsa sfrenata verso l'est. - Che cerchino di girare le colline? - chiese Rokoff. - Pare che ne abbiano l'intenzione - rispose il capitano. - Dovranno però percorrere almeno una quarantina di miglia prima di giungere là dove declinano e poi altrettante e anche più per raggiungerci. - I loro cavalli non potranno di certo percorrere d'un fiato un centinaio e mezzo di chilometri - disse Fedoro. - Sono già esausti. - Mi rincresce - disse Rokoff. - Questa caccia emozionante m'interessava. - E se fossimo caduti? - chiese il capitano. - I mongoli non ci avrebbero risparmiati, ve lo assicuro, essendo assai vendicativi. - Il vostro "Sparviero" è troppo ben costruito per fare un capitombolo. - Un guasto poteva avvenire nella macchina. Meglio che la sia finita così, signor Rokoff. - Ed ora dove andiamo? - chiese Fedoro. - A gettare le nostre reti nei laghi del Caracoruzn - rispose il capitano con uno strano sorriso. - Tanto ci tenete alle trote di quei laghi, signore? - domandò Rokoff. - Si dice che siano così eccellenti? - Le avete assaggiate ancora? - No, me l'ha detto un mio amico. - Le giudicheremo - concluse Rokoff, quantunque non credesse affatto che lo scopo di quella corsa fossero veramente le trote. Lo "Sparviero" aveva allora superata anche la seconda catena di rocce e ridiscendeva verso il deserto piegando un po' verso l'ovest. Lo Sciamo, al di là di quelle colline, perdeva molto della sua aridità. Se vi era maggior copia di neve su quelle immense pianure si vedevano anche molte erbe altissime e gruppi di betulle e di pini i quali formavano dei graziosi boschetti popolati dai nidi di falchi, di pernici da neve, di lepri e di ermellini. Era quella la regione abitata dai Chalkas, tribù di nomadi ospitali, che si dedicano all'allevamento del bestiame e che vivono sotto vaste tende di feltro che piantano qua e là, secondo che li spinge il capriccio. In quel luogo, in quel momento non si vedeva alcun attendamento. Probabilmente il freddo li aveva ricacciati verso l'est per cercare pascoli più abbondanti sui pendii dei Grandi Chingan o sulle rive del Kerulene della Chalka. Poco dopo il mezzodì lo "Sparviero" che aveva incontrata una corrente d'aria favorevole che spirava dal sud-est, si librava a poca distanza da un laghetto, le cui rive erano coperte da una vegetazione abbondante, composta di abeti giganteschi, di betulle, di larici, di lauri, di cespugli, di rose canine, di pomi selvatici e di noccioli. - Possiamo scendere - disse il capitano, facendo cenno al macchinista di arrestare le eliche. - Le nostre trote ci aspettano. - Ci fermeremo molto qui? - chiese Rokoff. - Finché il macchinista avrà riparata l'ala in modo da garantirmi che non si spezzi più. Avete forse fretta di tornare in Europa? - Nessuna, signore - rispose il cosacco. - Ah! Il telegramma! - Quale, capitano? - Quello del vostro compagno. Signor Fedoro, volete scriverlo? Il russo guardò il capitano, il quale sorrideva. - Vi è qui qualche ufficio telegrafico? - chiese Fedoro. - Qui no, ma non è molto lontano. - Se siamo nel cuore del Gobi? - E perciò? Badate a me, preparate il telegramma per la vostra casa. Ah? Signor Rokoff, voi non avete paura degli orsi, è vero? Vi avverto che qui non sono rari. Io vi farò assaggiare le trote; voi uno zampone di plantigrado. Vi piace? - Farò il possibile per soddisfarvi, capitano - rispose il cosacco. - Eccoci a terra: facciamo colazione, poi a me le reti ed a voi i fucili. Passeremo qui una bella giornata. Poi balzò verso la riva del lago, mentre Rokoff e Fedoro, sempre più sorpresi si guardavano l'un l'altro, chiedendosi: - Chi capirà quest'uomo?

Vedo la nube abbassarsi con rapidità spaventevole. - Stiamo giocando una carta disperata - rispose il comandante. - Non credevo che questa bufera dovesse scatenarsi con tale violenza. - Dove siamo noi? - In mezzo al lago, suppongo. - Riusciremo a toccare la riva opposta, prima che il vento ci fracassi le ali o che le folgori ce le incendino? - Chi può dirlo? Come vedete, ho impresso al mio "Sparviero" tutta la velocità possibile, ma i venti ci travolgono. Temo di dover cedere e di lasciarmi trasportare dalle raffiche. - E tornare verso la costa settentrionale? Il capitano non ebbe il tempo di rispondere. Una tromba d'aria, formata dai venti che pareva s'incontrassero proprio in mezzo al lago, aveva preso lo "Sparviero", facendolo girare su se stesso con rapidità spaventevole. Le ali, impotenti a lottare, si torcevano e scricchiolavano paurosamente, come se da un momento all'altro dovessero spezzarsi e perfino i robusti fianchi del fuso gemevano. Il treno aereo, sempre roteando, veniva spinto in alto, verso il vertice della tromba, dove si vedevano le nubi disgregarsi, formando come un immenso cono rovesciato. Per alcuni istanti, in fondo a quel tubo, si vide apparire una specie di disco rosso che pareva fosse incandescente, forse il sole, poi un'oscurità profondissima avvolse lo "Sparviero" e gli aeronauti. Dove si trovavano? Erano stati spinti o meglio assorbiti dalla immensa nuvola nera? Il capitano lo credette. A un tratto però a quell'oscurità successe una luce intensa, abbagliante, seguita da tuoni formidabili che sembravano scoppi di mine colossali o di polveriere. Linee di fuoco correvano a destra e a sinistra degli aeronauti atterriti, facendo scintillare il fuso, il quale pareva che fosse diventato incandescente. Erano folgori che passavano a pochi metri e che subito scomparivano in mezzo alle masse di vapore che il vento travolgeva burrascosamente. Un odore acuto, che pareva di zolfo, si espandeva all'intorno soffocando gli aeronauti. Tutto era in fuoco. Migliaia di scintille correvano sulle ali, sui piani inclinati, sulle eliche, sul ponte, sulle vesti stesse degli uomini. Perfino la barba di Rokoff era piena. - Capitano! - gridò il cosacco cercando di dominare, colla sua robusta voce, quei rombi e quegli scoppi. - Che cosa succede? - Siamo in mezzo alla meteora - rispose il comandante, con voce soffocata. D'improvviso quelle luci si spensero, i tuoni cessarono bruscamente, i ruggiti del vento si quietarono. Non si udiva altro che un continuo crepitio, come se della grandine minuta percuotesse i fianchi del fuso. Una calma profonda era successa a tutto quel tramestio. Lo "Sparviero" aveva cessato di roteare e s'abbassava lentamente verso il lago, sempre avvolto fra una fitta nebbia che impediva di vedere a due o tre passi di distanza. - Signore, cadiamo - disse Fedoro, slanciandosi verso il capitano. - Ho fermato le ali e le eliche - rispose questi. - Il lago sta sotto di noi. Non udite le onde muggire? - A suo tempo arresteremo la discesa. Cerchiamo per ora di uscire da queste nubi o verremo tutti fulminati. Non spaventatevi, signor Fedoro, e nemmeno voi, signor Rokoff. Credo che il momento più terribile sia passato. - Ma questa calma? - chiese Rokoff. - Scendiamo nel centro della tromba. Ecco il vento che riprende il suo movimento circolare; tentiamo di spezzare le sue spire. Macchinista! A tutta velocità! I ruggiti del vento ricominciavano e lo "Sparviero" tornava a roteare su se stesso. Le ali ben presto si rimisero a battere a colpi vigorosi, precipitati e il fuso, forando con uno slancio irresistibile la colonna d'aria, sfuggì alla stretta della formidabile tromba. Ma anche fuori da quella meteora, l'uragano imperversava con furia incredibile. Lo "Sparviero", dopo qualche istante, veniva trascinato verso settentrione, senza essere più capace di tenere testa alle raffiche. Correva all'impazzata, travolto, sbattuto in tutti i sensi, ora salendo e ora abbassandosi fino quasi a sfiorare i cavalloni del lago. Vibravano le ali, incurvavansi i piani, fremevano i fianchi del fuso. Certi momenti pareva che fosse lì lì per rovesciarsi e precipitare, fra le acque spumeggianti, gli aeronauti. Quanto durò quella corsa? Venti minuti o un'ora? Nessuno sarebbe stato capace di dirlo. Delle grida strapparono Rokoff dal suo sbalordimento. Guardò giù. Un promontorio si prolungava sul lago e su un'alta rupe scorse, alla luce dei lampi, un vasto edificio a tetti arcuati. Su una specie di terrazzo, degli esseri umani si dimenavano, alzando le braccia verso lo "Sparviero", che l'uragano trascinava in una corsa vertiginosa. - Signore! - gridò. - Una casa ... un convento ... una fortezza ... non so ... là ... guardate ... guar ... Non poté proseguire. Un lampo abbagliante aveva avvolto il fuso, mentre una linea di fuoco piombava in mezzo al ponte. Fece per aggrapparsi alla balaustrata, ma prima che l'avesse toccata si sentì scaraventare nel vuoto, mentre un rombo formidabile scuoteva l'atmosfera. Erano scoppiati i serbatoi dell'aria liquida o la macchina? Non poté saperlo. Udì vagamente un tonfo seguito da un grido, poi si sentì sprofondare e coprire da un'onda spumeggiante. Quando, ancora stordito da quell'improvviso capitombolo e ancora abbagliato da quella luce che per poco non gli aveva abbruciato gli occhi, tornò alla superficie, lo "Sparviero" era scomparso! - Per le steppe del Don! - esclamò. - È saltato in aria o l'uragano l'ha trascinato entro la nube nera? Un'onda che lo investì impetuosamente, riempiendogli la bocca d'acqua amara e salata, gli tolse, almeno pel momento, l'idea di occuparsi dei compagni. - Pensiamo a salvare la pelle, per ora - disse. - Poi vedremo di sapere che cosa è avvenuto dello "Sparviero". Dove sono caduto? Sarà lontana la riva? Avrò molto da lottare per uscire vivo da questo lago. Le onde si succedevano alle onde, ora spingendolo in alto, ora precipitandolo negli abissi mobili e ora coprendolo e sballonzolandolo in tutti i versi. Anche il lago era in tempesta e non era cosa facile sottrarsi ai suoi assalti. Rokoff era però un valente nuotatore. Si lasciò portare dalle onde e come poté si sbarazzò della sua lunga casacca, che gl'impediva di muoversi liberamente. Era rimontato a galla, quando sentì sotto mano qualche cosa che le onde trastullavano. Credendo che fosse qualche albero o qualche oggetto caduto dallo e Sparviero", allungò le braccia e strinse un corpo umano che pareva privo di vita. - Mille steppe! - gridò, rabbrividendo. - Qualcuno dello "Sparviero"? Con uno sforzo supremo sollevò il capo dell'annegato, cercando di ravvisarlo. Proprio in quel momento un lampo vivissimo illuminò le acque del lago. Un urlo di disperazione gli sfuggì. - Fedoro! È morto forse? Gran Dio! No ... non è possibile! Pur continuando a nuotare con suprema energia per non venire subissato dalle onde che lo incalzavano da tutte le parti, col braccio sinistro si strinse al petto l'amico, cercando di tenergli la testa fuori dell'acqua. Nel fare quell'atto gli parve che un tremito avesse scosso quel corpo che poco prima aveva creduto inerte. - No ... non è morto! - gridò. - Salviamolo! La cosa però era tutt'altro che facile, perché non sapeva dove si trovasse, quantunque si rammentasse vagamente di aver scorto, poco prima della caduta, un promontorio e una vasta costruzione. E poi le onde erano ben lungi dal calmarsi e aveva da sostenere l'amico. - Se non potrò salvarlo, almeno morremo insieme - pensò il bravo cosacco. - Ah! Se ci fosse qui anche il capitano ad aiutarmi? Ma chissà se sarà ancora vivo. Nuotava con furore, facendo sforzi prodigiosi per non venire travolto dai marosi, girando gli sguardi in tutte le direzioni per vedere se scopriva la riva. I muggiti delle onde e i fischi acuti del vento lo stordivano, eppure continuava a lottare coll'energia che infonde la disperazione. No, non voleva morire. Nuotava da dieci minuti, quando gli parve, fra le urla del vento e lo scrosciare delle acque, di udire delle grida umane. Alzò gli occhi e distinse confusamente su una rupe la medesima costruzione che aveva veduto poco prima di venire precipitato nel lago. - La costa è vicina - pensò. - Cerchiamo di raggiungerla e badiamo soprattutto di non venire sfracellati contro le rocce. Si lasciava portare dalle onde, nuotando solamente coi piedi, per tema che la violenza della risacca gli strappasse dalle braccia Fedoro. A un certo momento si trovò dinanzi una superficie spumeggiante, quasi calma. Non più marosi e non più controndate. Era entrato in qualche piccola baia difesa da uno o più promontori o da qualche linea di scogliere? Almeno lo suppose. Comunque fosse, colà l'acqua era tranquilla e se vi era una terra vicina, l'approdo non doveva essere né difficile, né pericoloso. - Ecco una fortuna insperata - disse Rokoff. - Se ... Non proseguì. Le sue gambe avevano toccato un fondo duro, probabilmente roccioso, irto di punte. Si rizzò e s'accorse d'aver l'acqua solamente fino al petto. - Siamo salvi! - esclamò. A cinquanta o sessanta passi si estendeva un breve tratto di costa, una specie di punta abbastanza bassa per potervi approdare senza fatica. Più oltre, invece, s'alzava una rupe gigantesca sulla quale Rokoff aveva scorto, alla luce dei lampi, quella massiccia costruzione che gli era sembrata un monastero o una fortezza. Le onde, in causa d'una ripiegatura della costa e d'una scogliera altissima, non potevano giungere fino al luogo dove trovavasi il cosacco. Si frangevano con mille muggiti contro quegli ostacoli che non potevano rovesciare, provocando, in quella specie di baia o di cala, solamente una certa ondulazione. Tenendo sempre alto Fedoro, il quale non dava ancor segno di tornare in sé, Rokoff attraversò velocemente l'ultimo tratto e raggiunse la spiaggia, arrestandosi sotto la gigantesca rupe che cadeva a piombo. - Se vi fosse qualche rifugio - mormorò, gettando un rapido sguardo verso la parete. L'oscurità era però così fitta da non poter vedere a dieci passi di distanza, essendo ormai calata la notte e il cielo sempre coperto da quell'immensa nuvola nera che il vento non era ancora riuscito a disgregare e lacerare. - Lo cercherò più tardi - pensò. - Ora occupiamoci di Fedoro. Depose l'amico su uno strato di sabbia fine e lo spogliò della casacca e del panciotto, mettendogli una mano sul petto. - Il cuore batte - disse con voce giuliva. - Quale fortuna averlo trovato subito! Se le onde mi spingevano pochi passi lontano, era finita per questo povero Fedoro. Gli aprì la bocca, prese la lingua e si mise a tirarla con movimenti lenti e eguali per riattivare il funzionamento dei polmoni. Coll'altra mano intanto gli alzava ora l'uno ora l'altro braccio. La pioggia cadeva a torrenti e il vento spazzava rabbiosamente la spiaggia, ma Rokoff non se ne preoccupava e continuava a operare quelle trazioni con delicatezza. A un tratto un profondo sospiro sfuggì dalle labbra del russo. - La respirazione è riattivata - disse Rokoff - tutto va bene. Lasciò la lingua e si mise a strofinargli vigorosamente il petto con un pezzo di lana strappata dalla fodera della giubba. Fedoro tornava rapidamente in sé, rigettando di quando in quando, sotto quelle pressioni, delle boccate d'acqua. Finalmente anche i suoi occhi si aprirono. - Dove ... sono ... io? - chiese con voce debole. - Rokoff ... capitano ... - Eccomi, sono presso di te - rispose il cosacco, coprendogli il petto. - Tu ... amico ... Rokoff ... che cos'è accaduto? - Una catastrofe, un accidente, non lo so nemmeno io. Siamo stati scaraventati entrambi nel lago, forse dalla folgore e ti ho trovato per puro caso, nel momento in cui stavi per andare a tenere compagnia ai pesci. - Ah! Sì ... mi ricordo ... quella luce ... quel rombo ... poi le onde ... E mi hai salvato? - Ti ho portato qui. - E il capitano? - Non ne so più nulla. - E lo "Sparviero"? - Scomparso, forse caduto nel lago, fracassato dalla folgore o dallo scoppio dei serbatoi d'aria liquida o della macchina. - No ... no! ... - esclamò Fedoro. - No, caduto. - Come lo sai tu? - chiese Rokoff sorpreso. - Quando le onde mi hanno portato a galla, io l'ho veduto ... sì ... me lo ricordo ... il vento lo trascinava verso il nord ... rapidamente ... - Non è scoppiato? - No, Rokoff. - Quanto mi sarebbe rincresciuto che quel meraviglioso treno-aereo fosse stato annientato e che quel valoroso capitano fosse stato ucciso. Sei certo d'averlo veduto fuggire, Fedoro? - Sì, Rokoff, il vento lo travolgeva. - E non bruciava? - No. - Allora non sono i suoi serbatoi che sono saltati? - È stata la folgore che è piombata sul ponte e che ci ha precipitati nel lago. - Ah! Respiro! ... - esclamò il cosacco. - Allora lo rivedremo tornare dopo cessato l'uragano. - Ma noi dove ci troviamo? - Presso un monastero o una fortezza. - Non facciamoci scoprire, Rokoff - disse Fedoro. - Rimaniamo nascosti fino al ritorno dello "Sparviero". Il capitano verrà a raccoglierci, ne sono certo. - Non lo dubito nemmeno io. Sarà però necessario cercarci un nascondiglio; il monastero sta sulla cima di questa rupe e domani potremmo venire scoperti. Rimani qui, vado a vedere se posso trovare qualche crepaccio o qualche caverna. Mi pare che questa parete sia tutta screpolata. - Tu sei senza casacca! - esclamò Fedoro. - Indossa la mia. - Ho dovuto abbandonarla alle onde per poterci salvare entrambi, tuttavia non preoccuparti di me. Ho la pelle dura io e il freddo non ha presa sulle mie carni. Non muoverti e aspetta il mio ritorno. Il cosacco s'allontanò seguendo la rupe che appariva tutta screpolata alla sua base. Essendo i lampi cessati, era costretto a procedere a tentoni e cercare il rifugio colle mani. La burrasca, lungi dal calmarsi, imperversava con rabbia estrema. Onde gigantesche correvano pel lago, frangendosi furiosamente contro le coste con boati e muggiti formidabili e dalle nevose vette dei monti scendevano raffiche gelate e d'una tale violenza, che talvolta il cosacco si sentiva mancare perfino il respiro. - Sarà impossibile allo "Sparviero" poter tornare finché dura quest'uragano - pensava Rokoff, senza cessare di perlustrare. - Il vento soffia sempre dal sud e chissà dove lo avrà trascinato. A un tratto si fermò, mandando una imprecazione. Fra le tenebre aveva scorto dei punti luminosi gialli, verdi, rossi e azzurri che s'avanzavano seguendo la parete. Parevano lanterne cinesi, o qualche cosa di simile. - Che i monaci ci abbiano veduto approdare e vengano a cercarci? - si chiese. - O che ci abbiano anche veduto a cadere nel lago? Mi ricordo d'aver notato degli uomini, un momento prima che la folgore avvolgesse lo "Sparviero". Gridavano e alzavano le braccia verso di noi. Cosa fare? Attenderli o fuggire? Fuggire? E dove, se questa parete è tagliata a picco? Stette un momento esitante, non sapendo a quale partito appigliarsi, poi decise di raggiungere Fedoro, onde avvertirlo del pericolo che li minacciava. - Lui conoscerà i tibetani meglio di me - disse. I punti luminosi o meglio le lanterne continuavano ad avanzarsi, seguendo ora la parete rocciosa e ora la spiaggia. Pareva che gli uomini che le portavano cercassero qualche cosa, perché ora si fermavano e abbassavano le lampade, ora si disperdevano e ora si raggruppavano di nuovo. - Fedoro - disse Rokoff, quando fu vicino all'amico. - Stiamo per venire scoperti e non sono riuscito a trovare alcun nascondiglio. - Ho notato anch'io quei punti luminosi - rispose il russo. - Che quegli uomini cerchino noi? - Non ho alcun dubbio. Siamo stati veduti cadere dallo "Sparviero" o approdare. - Chi saranno costoro? - Dei monaci, suppongo. Mi hai detto d'aver veduto un'enorme costruzione. - Sì, Fedoro, ma poteva essere anche una fortezza. - Non ne esistono su questo lago; qui non vi sono che monasteri. - Sono cattivi i preti di questo paese? - Non credo, però avrei preferito non essere scoperto. - Bah! Se sono monaci, non ci faranno paura - disse Rokoff, mostrando i suoi pugni. - Mi sento in forza per affrontarne cinquanta. - Non vi è alcun modo di fuggire? - Ricacciarci nel lago. - Non pensiamoci; la tempesta invece di scemare aumenta sempre e le onde cominciano a giungere anche qui. Vediamo quale accoglienza ci faranno questi buddisti; se si mostrano ostili daremo battaglia. - Le mie braccia sono pronte a grandinare pugni santissimi che faranno loro vedere le stelle e anche il sole. Fedoro si era alzato. I monaci non erano lontani che cinquanta o sessanta passi e continuavano ad esplorare la spiaggia. Erano una mezza dozzina, non vi era quindi da temere con un uomo della forza di Rokoff. - Andiamo ad incontrarli - disse Fedoro risolutamente. - Anche rimanendo qui ci troverebbero egualmente. - Ti seguo - disse il cosacco, rimboccandosi le maniche della camicia. Avevano percorso mezza distanza, quando videro le lanterne fermarsi, proiettando la luce innanzi. Delle esclamazioni che parevano di stupore, sfuggirono agli uomini che le portavano. - Ci hanno veduto - disse Fedoro. - Chi sono, dunque? - chiese Rokoff. - Monaci, che portano delle tonache di grosso feltro con un manto bianco? - Sì, e che dà loro l'aspetto di fantasmi, specialmente fra questa oscurità. Fedoro mosse incontro a loro alzando le mani e dicendo in cinese: - Pace! ... Pace! ... I sei monaci stettero un momento immobili, col più vivo stupore impresso sui loro volti giallognoli, poi deposero le lanterne e si inginocchiarono dinanzi ai due naufraghi coi segni del più profondo rispetto, pronunciando delle parole che né il russo, né il cosacco riuscivano a comprendere. - Eh! che cosa ne dici, Fedoro? - chiese Rokoff. - Che questi uomini ci adorano. - Che ci prendano per figli della luna o delle tempeste? - Per i figli del grande Buddha, amico mio. Devono averci veduto cadere dallo "Sparviero". - Per le steppe del Don! Sapremo approfittare della loro ignoranza per farci regalare almeno una buona cena e un comodo letto. Spero che non saranno poi così stupidi da credere che i figlioli di Buddha vivano d'aria. Alzatevi, reverendi, basta colle adorazioni: abbiamo fame ed anche freddo. E siccome i monaci non accennavano a levare la fronte che tenevano posata al suolo, ne prese uno e lo sollevò come fosse un pupattolo, mettendolo in piedi. Gli altri s'affrettarono a rialzarsi, cacciando fuori le lingue lunghe una buona spanna e dimenandole in tutti i sensi. - Abbiamo capito, ci salutate - disse Rokoff. - Ma basta; conduceteci con voi. I monaci si guardarono l'un l'altro cercando probabilmente di comprendere ciò che chiedeva il cosacco, poi uno di loro, che portava al collo un grosso monile formato di pietruzze traforate e molto trasparenti, fece alcuni segni, indicando replicatamente la cima della roccia. - Che c'invitino a salire lassù? - chiese Rokoff. - Mi sembra - rispose Fedoro. - Non puoi farti capire da costoro? - Non comprendono il cinese. Nel loro monastero ci sarà, spero, qualcuno che lo parlerà, essendo i tibetani tributari della Cina. Sì, Rokoff, c'invitano a seguirli. - Andiamo - rispose il cosacco. - Mi sento gelare il sangue e desidererei un buon fuoco. Tre monaci si misero dinanzi, illuminando la spiaggia colle loro lampade e levando i ciottoli che potevano far cadere i due aeronauti, gli altri seguivano. - Molto gentili - disse Rokoff. - Mi pare che questa avventura debba finire meglio di quello che credevo. Purché lo "Sparviero" torni presto! ... Non si sa mai quello che può accadere, anche ai figli di Buddha, in questo paese che gode poco buona fama. Seguirono la parete per tre o quattrocento passi, poi salirono una stretta gradinata e raggiunsero il piano superiore, su cui giganteggiava una enorme costruzione, con alti tetti arcuati e doppi e due torri di stile cinese. - Che siamo caduti presso il monastero di Dorkia? - disse Fedoro. - È uno dei più belli? - chiese Rokoff. - Non solo, ma anche il più celebre del Tengri-Nor, visitato ogni anno da migliaia e migliaia di pellegrini e perfino dal Dalai-Lama. - Saranno ricchissimi questi monaci? - Prodigiosamente, Rokoff. - Allora siamo certi di trovare una buona tavola.

Cerca

Modifica ricerca