Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 5 occorrenze

Spinto dal vento, che si manteneva costantemente favorevole, soffiando sempre dal sud-ovest, si librava ancora alla stessa altezza: però fra breve avrebbe dovuto abbassarsi a causa del restringimento dell'idrogeno, che è molto sensibile ai cambiamenti di temperatura. L'oceano aveva assunto una tinta cupa, e non si udivano che i suoi brontolii. Pareva che sotto l'aerostato si stendesse un immenso velo nerastro, o meglio uno strato di veli, il quale lasciasse trasparire, di quando in quando, dei vaghi riflessi, dovuti alle incerte luci degli astri. L'aria era di una purezza ammirabile, d'una trasparenza cristallina, ed in alto scintillavano a milione le stelle, le quali parevano seguissero il corso del vascello volante. All'orizzonte, una tinta lievemente argentea annunciava il prossimo spuntare dell'astro notturno e si rifletteva sulle lontane acque dell'oceano, che prendevano, in quella direzione, una tinta madreperlacea d'un effetto ammirabile, veduta da quell'altezza. O'Donnell, sorpreso e stupito, guardava quella scena senza parlare, curvo sulla poppa del battello d'alluminio; Kelly continuava le sue osservazioni e guardava particolarmente i suoi barometri per rendersi conto della discesa dell'aerostato; il negro Simone, più che mai spaventato, batteva i denti per il freddo, che diventava acuto, e per il terrore, tenendosi sempre aggrappato, con la forza della disperazione, alle corde di sostegno. "Tremila metri" disse ad un tratto l'ingegnere. "E scendiamo ancora?" "Sempre." "Che il nostro peso sia soverchio?" "No: è l'idrogeno che si restringe per il freddo." "Che sfugga invece da qualche apertura?" "Sentite odore di gas?" "No." "Tutto dunque va bene." "Ma fino a quando scenderemo?" "Lo sapremo più tardi." "Finiremo per toccare l'oceano?" "Forse nelle notti seguenti; ma ora no: la forza ascensionale del nostro aerostato è per ora troppo potente. Oh! Oh!" "Cosa avete?" L'ingegnere non rispose. I suoi occhi si erano fissati sulle due bussole, e la sua fronte si era corrugata. "Che la corrente da me studiata, e che soffiava costantemente dal sud-ovest verso il nord-est, finisca qui?" mormorò. "Ciò sarebbe grave." "Ma che cosa avete?" insistette l'irlandese. "Ho da darvi una seria comunicazione, O'Donnell." rispose l'ingegnere. "Noi abbiamo virato di bordo, come dicono i marinai." "E cosa importa?" "Voi sapete dove ci spingerà ora il vento?" "Io no." "Intanto ci riconduce verso l'America." "In direzione del banco!" "No: verso il nord-ovest, dritti allo stretto di Davis, fra la Groenlandia ed il Labrador." "Brutta scoperta, in fede mia! Cosa pensate di fare? Mi spiacerebbe assai ritornare nel Canada." "Se ci trovassimo vicini alla superficie dell'oceano, getterei le mie ancore: ma siamo tanto alti che tutte le nostre funi riunite non toccherebbero l'acqua." "E non ci si può abbassare di più?" "Sì, ma dovremmo sacrificare una parte del nostro gas, e capirete che per noi è troppo prezioso per lasciarlo fuggire." "A quale distanza ci troviamo dal banco di Terranova" "A centosettanta miglia." "E ritorniamo?" "Con una velocità di sessanta miglia all'ora. Continuando in questa nuova direzione, avvisteremo il Labrador fra quattro o cinque ore." "Dannato vento! Speriamo che cambi. Mister Kelly, quantunque non mi dispiaccia di andare al polo invece che in Europa. Sarebbe una magnifica scoperta." "Che per il momento lascio ad altri, O'Donnell, non avendo portato con me vesti adatte a quei terribili freddi, né una cucina portatile per farci qualche bevanda calda. Se il vento ci spinge in quella direzione, scenderemo alla prima terra e riprenderemo il tentativo più tardi, su un'altra costa." "Mi spiacerebbe assai." "E anche a me. Speriamo però che la corrente si ristabilisca col levar del sole." "Che la vostra corrente si mantenga a 3500 metri?" "Può essere che al di sotto di quell'altezza ne esista un'altra, quella che ora ci porta al nord-ovest." "Gettiamo zavorra e innalziamoci." "Sarebbe una grande imprudenza, O'Donnell: ci priveremmo di un peso che più tardi potrebbe esserci di estrema necessità, e quando il sole dilaterà il nostro idrogeno, noi saliremmo a tale altezza da non poter resistere. A 8000 metri la rarefazione dell'aria è mortale, o poco meno; a 9000 nessuno di noi resisterebbe." "Lasciamo dunque che il vento ci porti al nord-ovest, e domani vedremo." "Continuiamo a scendere?" "Sì," rispose l'ingegnere. "E da questa discesa spero assai di fermare l'aerostato. Eccoci già a 2500 metri, e non ci arrestiamo ancora: l'idrogeno si raffredda rapidamente: tanto meglio!" Infatti il pallone, o meglio i due palloni, a causa dell'umidità della notte, che li rendeva più pesanti, e del freddo acuto che restringeva l'idrogeno, calava a vista d'occhio, facendo dei bruschi salti. Si arrestava un momento, poi scendeva, come se le sue forze venissero improvvisamente meno e l'idrogeno perdesse la sua potenza ascensionale, poi tornava a fermarsi per riprendere, qualche minuto dopo, le sue ricadute. O'Donnell, quantunque avesse grande fiducia in quel vascello aereo e nel suo inventore, cominciava a diventare inquieto. In quanto a quel poltrone di Simone, ad ogni ricaduta mandava sordi gemiti e guardava con occhi smarriti la cupa superficie dell'oceano, che si avvicinava rapidamente. Quel povero diavolo si riteneva ormai perduto ed aspettava, con inesprimibile angoscia, il momento in cui l'aerostato sarebbe stato inghiottito. L'ingegnere invece era tranquillo, anzi benediceva in cuor suo quell'umidità e quel freddo, che gli permettevano di gettare le sue ancore e arrestare quella marcia verso regioni affatto opposte a quelle che sperava di raggiungere. Alle 9 di sera l'aerostato non era che a mille metri dall'oceano. Si udivano distintamente i sordi muggiti delle cupe ondate, e si distingueva nettamente la spuma che le copriva. Alle 10 era a 500 e alle 11 e un quarto a 300. La discesa si arrestò: l'equilibrio si era ristabilito. "Giù le ancore" disse l'ingegnere. "Avremo funi sufficienti?" chiese O'Donnell, respirando liberamente. "Unendo le tre funi delle guide-ropes e tutte le altre, ne avremo a esuberanza." "Non scenderà più l'aerostato?" "Non credo: anzi lo alleggeriremo d'un peso notevole e lo costringeremo, per di più, a fermarsi. Aiutatemi, O'Donnell." I due grandi coni d'alluminio, della capacità totale di quattrocentosessanta litri, vennero trasportati uno a prua e l'altro a poppa e legati alle lunghe corde, che erano state rapidamente annodate. L'ingegnere e l'irlandese, aiutati da Simone che si era finalmente deciso a muoversi, calarono nell'oceano i due grandi coni, i quali tosto si capovolsero, riempiendosi d'acqua. L'aerostato scaricato di quel peso, tese subito le due corde e interruppe bruscamente la sua fuga verso il nord-ovest. I due immensi fusi virarono di bordo e si piegarono verso la direzione del vento; ma i due coni tennero fermo, opponendo una resistenza incredibile. Per alcuni istanti il vascello aereo rimase perfettamente immobile; poi il vento, che urtava con violenza le sue immense superfici, si diede a trascinarlo nella direzione primitiva. Ma la velocità della marcia era minima: l'ingegnere constatò che l'aerostato percorreva a mala pena tre miglia all'ora. "Questo risultato sorpassa le mie previsioni" disse. "In una sola ora di buon vento possiamo riguadagnare ciò che perdiamo in otto o dieci ore di marcia contraria. Volete ora un consiglio, O'Donnell?" "Parlate, Mister Kelly." "Avvolgetevi in una grossa coperta di lana e dormite, finché Simone veglia. Non corriamo alcun pericolo e possiamo chiudere gli occhi in attesa del nostro quarto di guardia." "Mi terrete compagnia?" "Fino alla mezzanotte. Alle quattro del mattino voi mi sostituirete." "Non domando di più. Buona notte, Mister Kelly, e se vi occorre qualche cosa, tiratemi le gambe senza riguardo, o fatemele tirare da Simone." I due aeronauti si avvolsero nelle loro coperte per ripararsi dall'umidità e dal freddo della notte e s'addormentarono profondamente, mentre il Washington filava lentamente verso nord-ovest, trascinando le due ancore, che fendevano le onde con sordi fragori. A mezzanotte Simone, che a poco a poco riprendeva coraggio e che non aveva osato chiudere gli occhi per tema di svegliarsi in fondo all'oceano, chiamò l'ingegnere. "Nulla di nuovo?"chiese questi al negro. "Nulla, massa" rispose l'interrogato. "Andiamo sempre verso il nord-ovest?" "Sì." "Va a dormire, e non fare brutti sogni." Si sedette a poppa del battello, accese una sigaretta e gettò uno sguardo sull'oceano, che brontolava a meno di 250 metri di distanza, mentre il raffreddamento dell'idrogeno continuava con l'abbassarsi della temperatura notturna. Nessun lume si scorgeva sulla nera superficie dell'Atlantico. Solo all'orizzonte le acque riflettevano il primo quarto della luna, tingendosi di una luce biancastra, e la luce rossastra od azzurrognola delle stelle prossime al tramonto. Il silenzio era solamente rotto dal fragore prodotto dalle ancore, che cercavano di opporre resistenza al vento, il quale spingeva l'aerostato e dai brontolii sordi delle onde. Alzò il capo e vide i due immensi fusi dondolarsi lentamente con le punte volte verso il nord-ovest. Il vento produceva dello pieghe sulla loro superficie, ingolfandosi nella seta; ma era debole e non poteva produrre alcun guasto. L'ingegnere avrebbe potuto eliminarle, gonfiando i due palloncini con la piccola pompa premente, ma non essendovi alcun pericolo, sarebbe stata una fatica vana. Più tardi, il calore solare si sarebbe incaricato di rendere lisce quelle superfici. L'ingegnere continuò a fumare tranquillamente, dolcemente cullato dalla navicella, che il vento faceva oscillare, in attesa di venire sostituito dall'irlandese, il quale russava sonoramente sotto un banco, strettamente avvolto nella sua coperta di lana. Già verso l'oriente una luce incerta cominciava ad apparire, tingendo il cielo di riflessi madreperlacei e facendo impallidire gli astri, quando l'ingegnere fu bruscamente strappato dalle sue meditazioni da un lontano muggito, che pareva si avvicinasse rapidamente. Si alzò e guardò sotto di sé; ma nulla scorse sulla nera superficie dell'oceano. Girò intorno lo sguardo e vide, verso l'ovest, tre punti luminosi solcare l'orizzonte con fantastica celerità. "Uno steamer," mormorò "una nave che va in Europa, o che si dirige verso gli stabilimenti della baia di Hudson." Ad un tratto mandò un grido. Una fiamma rossa era balenata fra quei tre punti luminosi, seguita poco dopo da una detonazione, e un proiettile era passato, fischiando, fra i due aerostati, ricadendo in mare con un sordo tonfo.

Le due valvole si chiusero, ma l'aerostato continuò ad abbassarsi con notevole rapidità. I due coni e la guide-rope sommersero e tosto rallentarono la sua marcia discendente, mantenendolo a sessanta metri dalla superfìcie dell'oceano. "Vedete nulla?" chiese O'Donnell all'ingegnere che aveva puntato un canocchiale da notte. "Sì, mi pare di scorgere una piccola striscia nera scivolare sull'oceano." "È lontana?" "Tre o quattro chilometri." "Allora fra poco il naufrago sarà qui. Come mai un ragazzo si trova perduto in mezzo all'Atlantico e solo?" "Lo sapremo più tardi. Udite lo sbattere dei remi?" "Mi pare di udire un lontano rumore. Ci vedrà quel mozzo ?" "Accendete una torcia: gli servirà da faro." La sottile striscia nera avanzava sempre verso il pallone e si distingueva ormai senza bisogno di cannocchiale e si udiva anche nettamente lo sbattere dei remi. In capo a mezz'ora era lontana poche centinaia di metri, su di essa si scorgeva una forma umana di piccole dimensioni, la quale manovrava i remi con grande energia. "Coraggio, giovanotto!" gridò Mister Kelly. "Grazie signore," rispose il naufrago. In pochi minuti superò la distanza, abbandonò il canotto, si fermò alcuni istanti sul primo nodo della guide-rope per riposarsi, poi si arrampicò con l'agilità di un gatto e raggiunse la navicella. O'Donnell lo afferrò per le braccia e lo depose nella scialuppa. "Grazie," ripeté il naufrago. Poi, dopo aver girato lo sguardo ardente sulle casse e sui barili che ingombravano la scialuppa, mormorò: "Da bere! ... Da bere, signori! ... Muoio di sete!"

"Quale salasso avrà dovuto fare ai palloni Mister Kelly per abbassarsi così presto! Fortunatamente c'è la riserva nei cilindri e la zavorra è ancora abbondante. Dannato polipo! E stato la causa di tutte le nostre disgrazie e della fine orribile del povero Simone. Per mille merluzzi! Sento gelarmi il sangue quando penso a quel tronco umano che ho visto sollevarsi sulle onde e quel ... " S'arrestò bruscamente, girando intorno lo sguardo spaurito. Gli era sembrato di sentire un rauco sospiro e un tonfo sordo. "Qualche pesce-cane?" mormorò battendo i denti. "Che sia destinato anch'io ad avere per tomba lo stomaco di uno squalo? Ventre di balena! C'è da impazzire, anche senza essere paurosi." Stette in ascolto parecchi minuti, trattenendo perfino il respiro: ma non udì più nulla. Credendo di essersi ingannato, riprese le mosse verso il sud, nella cui direzione cominciava già a scorgere il Washington che pareva ancorato a breve distanza dalla superficie dell'oceano. L'onda larga, investendolo e coprendolo di spuma, lo stancava, paralizzandogli le forze, che cominciavano ad esaurirsi. Si sentiva le estremità irrigidirsi a poco a poco e provava una grande oppressione al petto, che gli rendeva penoso il respiro. Tuttavia, la paura di venire assalito da qualche torma di squali affamati, lontano dall'aerostato, lo spingeva a tirare innanzi senza prendere riposo. Il Washington spiccava ora nettamente sul fondo madreperlaceo dell'orizzonte, avvicinandosi rapidamente l'alba, ma pareva che la distanza non scemasse mai. Per maggior disgrazia, la paura invadeva poco a poco il disgraziato irlandese, il quale credeva di udire dietro di sé i rauchi sospiri dei mostri marini e temeva che s'avvicinassero sott'acqua. Allora ripiegava le gambe e si arrestava in preda a un'angoscia indescrivibile, impallidiva come un morto e, malgrado il freddo che quel bagno prolungato gli procurava, si sentiva scendere sulla fronte grosse gocce di sudore. "Arriverò vivo al Washington o lascerò le mie gambe in quest'oceano?" si chiedeva ad ogni istante, con terribile perplessità. Alle cinque il sole apparve bruscamente sull'orizzonte, inondando l'oceano di raggi abbaglianti. O'Donnell respirò e salutò l'astro con un vero e proprio grido di gioia. "Almeno potrò vedere qualcosa e scorgere forse a tempo gli squali." disse. Guardò verso il sud. L'aerostato non era lontano che un miglio, e nella navicella scorgeva l'ingegnere, il quale alzava le braccia come per incoraggiarlo a fare presto. Raddoppiò gli sforzi e avanzò in quella direzione, respirando a grande fatica. Ma, percorsi tre o quattrocento metri, si arrestò con i capelli irti e il viso sconvolto da un'inesprimibile angoscia. A venti passi aveva scorto un punto nerastro emergere dalle onde e poi una larga pinna natatoria, che era subito scomparsa. "Gran Dio!" esclamò. "Ecco il nemico!" Abbandonò il salvagente, impugnò il bowie-knife e si tuffò. L'acqua era limpida, e si poteva scorgere, a grande profondità, un pesce di grosse dimensioni. Guardò a destra e a sinistra e vide una grande ombra che pareva s'immergesse venti o trenta metri più lontano. La seguì con gli occhi smarriti finché poté, poi tornò in superficie, aggrappandosi al salvagente. Non vide nulla. Aveva scambiato qualche grosso delfino con uno squalo, o lo squalo non l'aveva ancora visto? Si sa che questi terribili mostri, specialmente i tintoreas ci vedono assai male, e poteva darsi che il mostro che si trovava in quelle acque non avesse scorto la preda umana. O'Donnell rimase parecchi minuti immobile, con gli orecchi tesi e gli occhi ben aperti, poi si decise a riprendere il faticoso esercizio. Comprendeva che ormai la sua salvezza non dipendeva che dalla sua rapidità, perché lo squalo non avrebbe tardato a scoprirlo. Fece un ultimo e disperato appello alle proprie forze e si spinse innanzi con la maggior velocità possibile, ma procurando, nello stesso tempo, di non far rumore. Alle sei non era che a cento passi dal Washington, il quale si trovava trattenuto dalle due àncore a soli sessanta metri dalla superficie dell'oceano. L'ingegnere aveva calato le guide-ropes, alle cui estremità pendeva l'ancorotto a patte, che non era stato più staccato dopo l'abbordaggio con la nave dei morti. "Coraggio, O'Donnell!" gli gridò Kelly. "Ancora uno sforzo e siete salvo." "Vengo, Mister Kelly." rispose l'irlandese che era esausto. "Ma dov'è Simone? È morto ... ?" "Mor ... to." rispose O'Donnell, rabbrividendo. "Forse che ... " L'ingegnere si era bruscamente interrotto, gettando un grido di terrore.

Si potevano turare ma, prima che l'operazione fosse terminata, una parte considerevole di idrogeno doveva fuggire, compromettendo grandemente la stabilità del Washington il quale cominciava ad abbassarsi rapidamente, inclinandosi sul tribordo. Walter, legatesi un fazzoletto sulla bocca e sul naso per non venire asfissiato dal gas che irrompeva attraverso l'apertura, si mise rapidamente al lavoro, mentre l'ingegnere e O'Donnell preparavano i cilindri contenenti l'idrogeno compresso per iniettarlo nelle manichette dei fusi. Malgrado il mozzo cucisse rapidamente, il Washington si piegava sempre più e s'abbassava rapidamente, anzi precipitava. In cinque minuti era calato di 1500 metri e non si arrestava ancora. L'ingegnere che vedeva avvicinarsi l'oceano con grande rapidità, aprì il primo cilindro e lanciò nel fuso riparato i primi quaranta litri di idrogeno. Il Washington si raddrizzò e la sua discesa si arrestò, anzi si mise a salire, dapprima lentamente, poi con una certa rapidità, finché raggiunse i 3200 metri. Il mozzo aveva terminato la cucitura. La coprì con parecchie pennellate di vernice, si assicurò che non vi fossero altre aperture, poi ridiscese, passò altro fuso e ripeté l'operazione sulla seconda ferita, che era più grave dell'altra. Pareva fosse stata fatta con un proiettile tagliente. "Hai finito?" gli chiese l'ingegnere. "Sì, Mister Kelly." "Grazie, mio bravo ragazzo. Rinforziamo anche il secondo fuso." "Resisteranno le cuciture?" cinese O'Donnell. "Non ho la pretesa che non lascino sfuggire il gas" disse l'ingegnere, "ma infine la perdita sarà minore e, forse, potremo sostenerci in aria qualche giorno ancora. "E poi? ... il vento ci spinge sempre al sud, Mister Kelly e la costa è lontana." L'ingegnere non rispose, ma emise un profondo sospiro.

Fortunatamente non aveva cambiato direzione, e il Washington continuava ad abbassarsi. In un altro momento quella discesa sarebbe stata rimpianta dagli aeronauti: ora invece la benedicevano, poiché permetteva loro di abbordare il rottame senza sacrificare l'idrogeno. Alle quattro pomeridiane l'oceano non era che a centocinquanta metri e la nave a soli dieci chilometri. A così breve distanza, con l'aiuto del cannocchiale, l'ingegnere e l'irlandese potevano scorgerla nettamente. Era un veliero della portata di forse milleduecento tonnellate, di forme svelte, dipinto di nero. I suoi alberi pareva fossero stati tagliati rasente la coperta, poiché non si vedevano che due corti tronconi; qua e là, disperse a prua e a poppa, pennoni, lembi di vele e cordami. Dalle barcacce di babordo e di tribordo si vedevano pendere in acqua i paterazzi, le sartie e le griselle. Quella nave, che doveva essere stata attrezzata a brick o a brigantino, era inclinata sul babordo. Pareva che il suo carico si fosse improvvisamente spostato, forse durante qualche grande tempesta. Sul ponte non si scorgeva persona alcuna: però si vedeva correre da prua a poppa una forma nera che non si poteva ancora ben distinguere. "Che sia qualche animale?" chiese O'Donnell. "Sarà forse un cane" rispose l'ingegnere. "Abbandonato dell'equipaggio?" "Certamente." "Allora il disastro deve essere recente: se risalisse a qualche settimana, quel povero animale sarebbe già morto di fame." "Lo credo anch'io." Alle cinque il Washington si trovava a soli tre chilometri dalla nave. Il venticello lo spingeva proprio sopra di essa. L'ingegnere fece attaccare l'ancorotto a patte alle guide-rope e calò quasi a fior d acqua: per maggior precauzione fece calare anche i due coni, per fermare prontamente l'aerostato, se il vento lo avesse sospinto al largo. Alle cinque e un quarto il Washington si trovava a poche decine di passi dal rottame, il quale era immobile come un cadavere abbandonato in mezzo ad un bacino d'acqua tranquilla. Sul ponte, un cane enorme, dal pelame nero, guardava con due occhi ardenti il pallone che s'avvicinava, facendo udire dei sordi brontolii. "Attento all'àncora. O'Donnell" gridò l'ingegnere. "Fila dritta sulla baraccia di babordo e prenderà fra le sartie pendenti o le gru delle imbarcazioni" rispose l'irlandese. Il Washington si trovava proprio sopra la nave. Ad un tratto provò una forte scossa, i due grandi fusi s'abbassarono bruscamente, poi virarono su di loro e rimasero immobili. L'àncora, guidata dal braccio dell'irlandese, aveva preso, fissandosi fra le sartie e le griselle pendenti della barcaccia poppiera di babordo. Il cane, un enorme molosso, s'avventò rabbioso verso l'àncora, emettendo minacciosi ululati. "Diavolo!" esclamò O'Donnell. "Sarà un po' difficile ammansire quel guardiano! Se la prenderà coi nostri polpacci, Mister Kelly." "Lo uccideremo, O'Donnell. Ma ... " "Che cosa?" "Non sentite delle pestifere esalazioni salire fino a noi?" "Per mille merluzzi! E odore di morti questo!" esclamò l'irlandese, impallidendo. Ed era vero. Da quel vascello abbandonato sull'oceano, senza alberi, senza vele, semirovesciato, preda sicura del primo uragano, saliva un tanfo di carne corrotta che appestava l'aria. Si sarebbe detto che portava un carico di cadaveri: come un sinistro cimitero galleggiante!" L'ingegnere e O'Donnell, entrambi in preda a grand'emozione, cercavano di discernere qualcosa attraverso il boccaporto maestro, che era spalancato come la bocca d'una tenebrosa voragine, ma invano. "Gran Dio!" esclamò l'irlandese. "Quale lugubre scoperta abbiamo fatta! Che sia questo il vascello fantasma dell'olandese maledetto, o la nave-feretro?" "Siete coraggioso, O'Donnell?" chiese l'ingegnere. "Lo credo" rispose l'irlandese. "Allora seguitemi!" "E Simone?" "Rimarrà a guardia dell'aerostato. Un altro spavento lo farebbe impazzire." "Non fidatevi, Mister Kelly. Guardate i suoi occhi e il suo viso." L'ingegnere si volse verso il negro e lo vide curvo sul bordo della scialuppa, con gli occhi fissi sulla nave; ma quegli occhi tradivano una paura orribile, e il volto era diventato grigio, cioè pallidissimo. "Simone!" disse l'ingegnere. Il negro non rispose e non abbandonò la sua posa. Pareva che cercasse d'indovinare la causa di quelle esalazioni pestifere, che salivano fino all'aerostato, a ondate. "Simone," ripetè "cosa fai?" Questa volta il negro alzò il capo e guardò il padrone con due occhi smarriti. "Dei morti?" chiese, battendo i denti. "Io paura." "Ma quali morti, pauroso?" "Là! Là!" balbettò il negro, rabbrividendo e indicando il boccaporto. "È la nave dei morti!" "Tu sogni, Simone" "No" disse l'africano con strana energia. "Rimanete a guardia del Washington Mister Kelly" disse l'irlandese. "Quel povero pazzo può farci un brutto scherzo." "Quale?" "Può tagliare la fune e lasciarci su quella nave del malanno." "Rimanete qui voi, O'Donnell. Scenderò io." "Ma laggiù vi è un carnaio, signore, e un cane idrofobo." "Non ho paura. Rimanete a guardia di Simone e, se vi sarà bisogno d'aiuto mi raggiungerete." "Ah no, signore. Voi siete il capitano qui e non dovete abbandonare l'aerostato ed esporvi a dei pericoli." Poi, prima che l'ingegnere pensasse a opporsi, il bravo irlandese superò il bordo della scialuppa, s'aggrappò alla fune e si lasciò scivolare. "Badate al cane" gridò l'ingegnere. "Ho la rivoltella" rispose O'Donnell. Di mano in mano che scendeva, il puzzo diventava così orribile che si sentiva asfissiare. Gli pareva di scendere in una immensa fossa di cadaveri putrefatti. Giunto all'ultimo nodo, si fermò e guardò sotto di sé. L'enorme molosso stava presso all'ancora e lo guardava con due occhi che mettevano paura, mandando dei sordi brontolii. Aveva il pelo arruffato, la coda penzoloni e delle lunghe bave alla bocca. "È idrofobo!" esclamò O'Donnell che si sentì correre un brivido per le ossa. "Bel guardiano a questa nave dei morti!" Impugnò la rivoltella con la mano destra, mentre con la sinistra si teneva aggrappato alla fune, e scaricò quattro colpi contro quel cagnaccio, il quale stramazzò sul ponte della nave. "È morto?" gli chiese l'ingegnere, dall'alto. "Lo credo" rispose O'Donnell. "Se si rialza ho altri due colpi." Si lasciò andare e cadde sulla tolda. "Corna di cervo!" esclamò. "Che profumi! Ma che cos'è accaduto qui? Che l'equipaggio si sia scannato?" S'avvicinò al cane e vedendolo ancora agitarsi lo fulminò con una quinta palla in un orecchio; vincendo la ripugnanza che lo invadeva e coprendosi il naso con una pezzuola, avanzò verso il boccaporto maestro, che era, come si disse, aperto. Guardò in quella voragine e vide che era semipiena di botti accatastate confusamente le une sulle altre e addossate alle pareti di bordo. In mezzo ad esse, scorse il cadavere di un marinaio in piena putrefazione. "Non può essere quello solo che manda queste pestifere esalazioni" mormorò. Si diresse verso il quadro di poppa, e sulla ruota del timone lesse queste parole: Benito Juarez. Vera Cruz. "È una nave messicana" gridò, volgendosi verso l'ingegnere, che lo guardava con ansietà. "Vi sono dei morti?" chiese l'ingegnere. "Ho veduto un solo marinaio; ma temo che nel quadro e nella camera di prua ve ne siano ben altri, dalla puzza orribile che qui si sente." "Udite nessun rumore, nessun gemito?" "Regna un silenzio di tomba. Mister Kelly. Qui devono essere tutti morti, e forse da qualche settimana." "Temo un grave pericolo, O'Donnell." "Bah! I morti non si muovono." "Ma avvelenano, uccidono." "Ho la pelle dura" rispose l'irlandese, che forse non aveva compreso l'allusione dell'ingegnere. Senza aggiungere parola, scese coraggiosamente la scaletta che metteva nel quadro, malgrado la puzza orrenda che ne usciva. La sua assenza fu breve. L'ingegnere lo vide risalire rapidamente, coi capelli irti, il viso sconvolto, pallido come un cadavere, e precipitarsi verso l'ancora, che con un colpo di mano staccò dai paterazzi e dalle griselle. "Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!" gridò con accento di terrore. S'aggrappò alla guide-rope e, senza rispondere all'ingegnere per non perdere tempo, si mise a salire facendo sforzi sovrumani per far più presto che poteva. In un minuto superò la distanza e si issò sulla scialuppa, ripetendo con voce atterrita: "Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!" "Ma che cosa avete veduto, O'Donnell?" chiese l'ingegnere. "Siete pallido e sconvolto." "Ho ... che forse noi, che abbiamo respirato ... quei miasmi, ... siamo perduti." "È scoppiata una epidemia su quella nave?" "Sì, e forse la più tremenda: la febbre gialla!" "Fuggiamo" ripeté l'ingegnere, il quale, nonostante il suo coraggio, aveva provato un brivido. Rovesciarono i coni, che mantenevano il pallone prigioniero, e gettarono un sacco di zavorra. L'aerostato, scaricato di quel peso, s'innalzò rapidamente, fuggendo dalle mortali esalazioni che irrompevano da quel cimitero galleggiante.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

682364
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Subito le rive del fiume si allargarono considerevolmente e cominciarono ad abbassarsi, quasi al livello dell'acqua. In lontananza si disegnò la grande isola di Sangor, che segna il confine fra le acque del fiume e quelle del mare. - Il mare! - gridò il marinaio installato sulla crocetta della maestra. Tremal-Naik, bruscamente strappato dalle sue meditazioni da quel grido, si slanciò a prua, mentre i marinai s'arrampicavano sulle sartie e sulle griselle. Tutti gli sguardi si volsero verso le Sandheads (teste di sabbia) immensi banchi pericolosissimi proiettati dal Gange nel golfo del Bengala. Nessun vascello appariva sulla linea dell'orizzonte, né al di qua, né al di là dell'isola Sangor; nessun lume brillava nella semi-oscurità. Un grido di rabbia irruppe dalle labbra di Tremal-Naik. - Gabbiere! - gridò all'indiano che si trovava sulla crocetta dell'albero, col cannocchiale puntato. - Capitano! - Si scorge? - Non ancora. - Udaipur, carica le valvole. - Abbiamo la massima pressione, - osservò il macchinista. - A sei atmosfere! - gridò Hider, che si mordeva la barba. - Quattro uomini di rinforzo nella macchina. - Saltiamo in aria, - brontolò Udaipur. Quattro indiani discesero nella camera della macchina. I fornelli furono riempiti di carbone. La cannoniera non correva più; saltava sulle onde azzurre del golfo, fischiando e tremando. Un calore torrido saliva dalla stiva e un fumo nerissimo usciva furiosamente dal tubo. - Dritto all'isola Raimatla! - gridò Hider, al timoniere. La distanza che li separava dall'isola spariva rapidamente. Tutti gli indiani si erano issati sulle imbarcazioni sospese alle grue od alle sartie od alle griselle dell'albero e scrutavano l'orizzonte. Un silenzio profondo regnava sul ponte, rotto solamente dalle febbrili pulsazioni della macchina e dai sibili del vapore che usciva dalle valvole. - Nave a prua! - gridò ad un tratto il gabbiere. Tremal-Naik provò una scossa come fosse stato toccato da una pila elettrica. - La vedi? - tuonò egli. - Sì, - rispose il gabbiere. - Dove? ... - Al sud. - Ed è? ... Il gabbiere non rispose. S'era alzato in piedi sulla crocetta, per abbracciare maggior orizzonte e guardava fisso fisso col cannocchiale. - Nave a vapore! - gridò poi. - La fregata! ... La fregata! ... - urlarono gl'indiani. - Silenzio! - tuonò il quartier-mastro. - Ehi, gabbiere, dove va quella nave? - All'est, radendo l'isola Raimatla. - Guarda la prua. - La vedo. - Come è? - Ad angolo retto. Il quartier-mastro si slanciò verso Tremal-Naik che stava sulla lunetta. - È la fregata, - gli disse. - Non v'è in India che la Cornwall che abbia lo sperone ad angolo retto. Tremal-Naik in preda ad un'indicibile emozione, emise un grido di trionfo. - Dove va? - chiese egli con voce stridula. - Osserva bene. - Sempre all'est. Gira l'isola, al di fuori, temendo forse di non trovare acqua bastante nel canale. - Sei certo? - Certissimo. - Sicché la incontreremo? ... - Al di là dell'isola, se ci inoltriamo nel canale. - Governate in modo da incontrarla. - Ma ... - disse Hider. - Silenzio, comando io. Tremal-Naik lasciò la lunetta e discese nel quadro di poppa; Hider si collocò invece alla ruota del timone. La cannoniera, che camminava tre volte di più della fregata, non impiegò molto a girare l'isola. Alle dieci del mattino usciva dal canale formato da Raimatla e le terre vicine, celandosi dietro l'estrema punta di un isolotto deserto, che sorge di fronte a Jamera. Hider con un solo sguardo si assicurò che la nave nemica era ancora lontana. - Tremal-Naik! - gridò. Il cacciatore di serpenti apparve sul ponte, ma non era più lo stesso uomo di prima. La tinta bronzina della sua pelle era diventata olivastra quanto quella di un malese; gli occhi apparivano assai ingranditi, mediante segni biancastri ben tracciati; i denti, poco prima bianchi come l'avorio, erano diventati neri come quelli del più arrabbiato masticatore di betel. Così sfigurato, con un cappellaccio di fibre di rotang sul capo, una cotonina rossa ai fianchi, due lunghi kriss (pugnali serpeggianti a punta avvelenata) sospesi alla cintura, era affatto irriconoscibile. - Mi riconosci? - chiese al quartier-mastro che lo guardava con ammirazione. - Ti riconosco perché a bordo non ho visto malesi. - Credi che il capitano mi riconoscerà? - No, non è possibile. - Dimmi ora, come si chiamano i due affiliati imbarcati sulla Cornwall. - Palavan e Bindur. - Terrò in mente questi nomi. Fa' mettere in mare un'imbarcazione. Ad un cenno del quartier-mastro la yole fu calata. - Cosa vuoi fare? - chiese dipoi. - Aspettare qui la fregata e poi salire a bordo. - Ed io? - Tu andrai a nasconderti nel canale di Raimangal. Alla prima detonazione che odi, uscirai in mare e mi raccoglierai. Afferrò una corda e discese nella yole la quale rullava vivamente sotto le ondate. La cannoniera emise un fischio sonoro e s'allontanò rapidamente. Un'ora dopo non era più che un punto nero sull'orizzonte, appena visibile. Quasi nel medesimo istante, al sud, appariva un altro punto, sormontato da un pennacchio di fumo. Tremal-Naik lo guardò. - La fregata! - esclamò. - Ada, dammi la forza di compiere la mia ultima impresa. Poi sarai mia sposa ... e saremo finalmente felici! ... Afferrò i remi e si mise ad arrancare furiosamente, allontanandosi dall'isola le cui coste cominciavano a confondersi coll'azzurro del cielo. La fregata si avanzava forzando la macchina e ingrandiva a vista d'occhio. Tremal-Naik continuava a remare cercando di tagliare la via. A mezzodì cinquecento passi appena dividevano la yole dalla Cornwall. Era il momento aspettato dal cacciatore di serpenti. Attese che un'onda inclinasse la yole, poi si gettò violentemente a babordo e la rovesciò, aggrappandosi alla chiglia. - Aiuto! ... aiuto! ... - gridò con voce tonante. Alcuni marinai si slanciarono sulla prua della fregata, poi una imbarcazione montata da quattro uomini fu calata in mare e si diresse verso il naufrago. - Aiuto! ... ripeté Tremal-Naik. L'imbarcazione volava sulle acque nel mentre che la fregata rallentava la sua corsa. In cinque minuti fu presso la yole. Il naufrago afferrò le mani che un marinaio gli tendeva e salì a bordo borbottando: - Grazie, ragazzi! I marinai ripigliavano i remi e ritornarono alla Cornwall. Una scala fu gettata ed il falso malese grondante d'acqua, cogli occhi abilmente stravolti, fu condotto in presenza dell'ufficiale di quarto. - Chi sei? - gli domandò questi. - Paranga di Singapura, - rispose Tremal-Naik, guardandosi attorno con curiosità. - Appartenevi a qualche nave? - Sì, all'Hannati di Bombay, calata a picco quattro giorni or sono, a cento miglia dalla costa. - A mare tranquillo? - Sì s'era aperta una falla sotto poppa. - E l'equipaggio? - Si è annegato. Le imbarcazioni erano avariate e appena calate in acqua andarono a picco. - Hai fame? - Sono dodici ore che ho mangiato il mio ultimo biscotto. - Olà, mastro Brown, conducete questo povero diavolo in cucina. Il mastro, un vecchio lupo di mare con una barba grigia, cavò di bocca il suo mozzicone di sigaro mettendoselo delicatamente nel berretto, e, preso per mano il falso malese lo condusse sotto prua. Una pentola ripiena di fumante zuppa fu messa dinanzi a Tremal-Naik, il quale l'assalì vigorosamente. - Hai un buon appetito, giovanotto, - disse il mastro, studiandosi di sorridere. - Ho lo stomaco vuoto. A proposito, come si chiama questo vascello? - La Cornwall. Tremal-Naik, guardò con sorpresa il lupo di mare. - La Cornwall! - esclamò. - Ti spiace il nome forse? - Tutt'altro. - E allora! - Mi ricordo che su di una fregata che portava un nome simile, si erano imbarcati due indiani miei amici. - To'! che combinazione! E si chiamano? - L'uno Palavan, e l'altro Bindur. - Questi due indiani sono qui, giovanotto. - Qui a bordo? - Sì, a bordo. - Bisogna che li veda. Oh! Quale fortuna! - Te li mando subito. Il mastro risalì la scala e poco dopo due indiani si presentavano a Tremal-Naik. L'uno era lungo, magro, dotato d'una agilità da scimmia; l'altro di mezzana statura, membruto, più somigliante ad un malese che ad un indiano. Tremal-Naik si guardò d'attorno per vedere se erano soli, poi tese la mano dritta mostrando a loro l'anello. I due indiani caddero ai suoi piedi. - Chi sei? - chiesero con voce soffocata. - Un inviato di Suyodhana, il figlio delle sacre acque del Gange - rispose Tremal-Naik, sottovoce. - Parla, comanda, la nostra vita è nelle tue mani. - Corriamo pericolo di essere uditi? - Tutti sono sul ponte, - disse Palavan. - Dov'è il capitano Macpherson? - Nella cabina; dorme ancora. - Sapete dove va la fregata? - Tutti lo ignorano. Il capitano Macpherson ha detto che lo dirà quando saremo giunti a destinazione. - Dunque anche gli ufficiali non sanno nulla? - Assolutamente nulla. - Quindi uccidendo il capitano si spegnerà con lui il segreto. - Senza dubbio, ma noi temiamo che la fregata si rechi a Raimangal ad assalire i fratelli. - Non vi siete ingannati, ma la fregata non sbarcherà i suoi uomini. - Ma come? ... Perché? ... - La faremo saltare in aria prima che arrivi all'isola. - Quando tu lo vorrai, daremo fuoco alle polveri. - Quando giungeremo a Raimangal, secondo i vostri calcoli? - Verso la mezzanotte. - Quanti uomini ci sono a bordo? - Un centinaio. - Sta bene. Alle undici ucciderò il capitano, poi faremo saltare il vascello. Una parola ancora. - Parla. - Bisogna che il capitano, alle undici, dorma profondamente. - Verserò un narcotico nella sua bottiglia di vino, - disse Palavan. - Si potrà giungere alla sua cabina senz'essere veduti? - La cabina comunica colla batteria. Questa sera la porta sarà aperta. - Basta così. Alle undici verrete a prendermi qui. Tremal-Naik si rimise a mangiare. Divorò di poi un beefsteak capace di nutrire tre persone, vuotò una dietro l'altra, parecchie tazze di eccellente gin, si fece dare una pipa, poi si arrampicò su di un'amaca e vi si sdraiò mormorando: - Salire sul ponte non è prudente. Il capitano potrebbe riconoscermi. Cercò di addormentarsi, ma lo stato del suo animo era troppo agitato. Mille e mille pensieri si cozzavano tumultuosamente nel suo cervello. Pensava alle vicende passate, pensava alla sua adorata Ada, ed al momento in cui finalmente, dopo tante sofferenze, dopo tanti pericoli, la rivedrebbe e la farebbe sua sposa, e all'ultimo colpo che stava per giuocare. Cosa strana, incomprensibile per lui; ogni qualvolta pensava all'assassinio che stava per commettere, si sentiva invadere da un sentimento per lui nuovo. Si avrebbe detto che quel delitto gli faceva orrore. Le ore scorsero così, lente, lente. Nessuno era disceso nella cabina, né egli ardiva mostrarsi sul ponte. Persino i due affiliati non si erano più fatti vedere. Tremal-Naik cominciava a provare qualche timore e si domandava se era toccata, ai due thugs, quella disgrazia. Alle otto il sole scese all'orizzonte e la notte calò rapidamente sulle azzurre onde del golfo di Bengala. Tremal-Naik, in preda alla più viva ansietà, salì la scala e sporse la testa sul ponte. Soldati e marinai erano in coperta, alcuni affollati a prua cogli occhi fissi fissi all'oriente ed altri arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sulle crocette e sui pennoni. A poppa scorse degli uomini che stavano armando alcune imbarcazioni. Guardò sulla lunetta. Quattro ufficiali passeggiavano fumando e chiacchierando con vivacità. Il capitano Macpherson non c'era. Ritornò nell'amaca ed aspettò. La suoneria di bordo batté le nove, poi le dieci e quindi le undici. L'ultimo tocco non era ancora cessato, che due ombre scendevano silenziosamente la scala. - Presto, - disse una voce imperiosa. - Non abbiamo un minuto da perdere. Abbiamo Raimangal in vista. Tremal-Naik riconobbe i due affiliati. - Il capitano?- domandò con un filo di voce. - Dorme, - rispose Bindur. - Ha bevuto il narcotico. - Andiamo. Nel pronunciare questa parola la voce di Tremal-Naik tremava. Provò un brivido tanto forte, che lo scombussolò. Palavan aprì una porticina ed entrarono nella batteria, arrestandosi dinanzi ad una seconda porta che mettevano nel quadro di poppa. - Siete risoluti? - chiese Tremal-Naik. - Abbiamo messo la nostra vita nelle mani della dea Kâlì. - Avete paura? - Non sappiamo che cosa sia la paura. - Uditemi. I due thugs s'avvicinarono a lui cogli occhi fiammeggianti. - Io vado a uccidere il capitano, - diss'egli con voce triste. - Tu, Bindur, scenderai nella Santa Barbara e accenderai un bel fuoco. - Ed io? - chiese Palavan. - Voglio fare qualche cosa anch'io. - Tu ti fornirai di tre salva-gente, poi verrai da me. Andate e che la vostra dea vi protegga. Tremal-Naik afferrò una scure, varcò la soglia e penetrò nella cabina illuminata da una lanterna di talco. Prima cosa che vide fu uno specchio che riflesse la sua immagine. Nel mirarsi ebbe paura. La sua faccia era orribilmente stravolta, irrigata da grosse goccie di sudore e gli occhi fiammeggianti come le lame di due pugnali. Abbassò lo sguardo su di un letto coperto da una fitta zanzariera. Un leggiero sospiro giunse fino a lui. - È strano, - mormorò. - Non ho mai provato nulla di simile. Fece tre passi e con mano tremante sollevò il velo. Il capitano Macpherson era sdraiato sul letto e sorrideva. Senza dubbio quell'uomo sognava. - I thugs, lo vogliono, - mormorò l'indiano. Alzò sull'addormentato la scure, ma la riabbassò subito come se le forze gli fossero improvvisamente mancate. Si passò una mano sulla fronte e la ritrasse bagnata. Si guardò attorno con profondo terrore. - Cos'è? - si chiese, sorprese, stupito. - Avrei io paura? ... Chi è quest'uomo? ... Cos'è questa terribile emozione che mi scuote? ... Tornò ad alzare la scure e per la seconda volta la abbassò. Non gli era mai accaduto una cosa simile. Gli parve che una voce interna gli mormorasse che quell'uomo era per lui sacro, che quel sangue che stava per versare non era sangue straniero. - Ada! Ada! - esclamò quasi con rabbia. Ad un tratto impallidì indietreggiando vivamente. Il capitano s'era alzato a sedere e lo guardava con due occhi sbarrati. - Ada! ... - esclamò Macpherson con viva emozione. - Chi pronuncia il nome di mia figlia! ... Tremal-Naik, pietrificato, spaventato, era rimasto immobile. - Ada! - ripeté il capitano. - Il nome di mia figlia! ... Poi s'accorse della presenza dell'indiano. - Cosa fai tu qui, nella mia cabina? - chiese. Un lampo attraversò il cervello di Tremal-Naik; un terribile sospetto gli era entrato nel cuore. - Ma chi siete voi? - chiese con voce strozzata. Di quale Ada intendete parlare? Della mia forse? - Della tua! ... - esclamò il capitano stupito. - Parlo di mia figlia! ... - Dov'è? - Dov'è? ... Nelle mani dei thugs! ... - Possente Brahma! ... Se fosse vero! ... Una parola, capitano, un nome, vi prego! ... Come si chiamava vostra figlia? - Ada Corishant. Tremal-Naik si nascose il volto fra le mani emettendo un grido d'orrore. - La mia fidanzata! ... Ed io stavo per ucciderle il padre! ... Ah! ... l'orribile trama! ... Poi cadendo ai piedi del letto esclamò: - Perdono! ... perdono! ... Il capitano, stupito, guardava Tremal-Naik chiedendosi se sognava o se era desto. - Ma spiegati infine! ... - esclamò. Tremal-Naik, colla voce rotta dai singhiozzi, in poche parole gli svelò la trama infernale di Suyodhana. - E tu sai dov'è mia figlia? - chiese il capitano che era già balzato in piedi, pallido per l'emozione. - Sì, ed io vi condurrò dove si trova, - disse Tremal-Naik. - Ritornamela e ti giuro che se ella ti ama sarà tua. - Ah! grazie, capitano! La mia vita è vostra. - Non perdiamo tempo; corriamo a Raimangal. Io stavo appunto per recarmi ad assalire i thugs nel loro covo. - Un istante: ho due complici a bordo e forse stanno per far saltare la nave. - Li appiccheremo. Uscirono correndo e salirono sul ponte. - Quattro uomini nella Santa Barbara e si arrestino i traditori che stanno per far fuoco alle polveri. Invece di quattro, venti uomini si precipitarono nei depositi delle munizioni. Poco dopo s'udirono due tonfi seguiti da alcuni spari. - Si sono gettati in mare, - disse un ufficiale lanciandosi sul ponte. - Che si anneghino, - disse il capitano. Sono sicure le polveri? - Ai traditori è mancato il tempo di spezzare i barili. - Iddio ci protegge! ... A tutto vapore al Mangal! ...

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