Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La scuola di ballo

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Loria, Arturo 1 occorrenze

Anche il cameriere finì per fissare il bandone riccio della saracinesca con la intensità di chi aspetta qualcosa, poi andò ad abbassarlo del tutto per non veder più i piedi della gente. «È fatta» mormorò il padrone e spense un ordine di lampadine in alto, poi un secondo ordine dentro le nicchie. Immaginò che qualcuno assistesse dalla strada a quel precipitar di luce in ombra come ad una agonia chiara e comprensibile, pensò al marciapiedi impoverito ormai di quella luce riflessa che il caffè regalava ai passanti, a tutti coloro che aspettavano di trovarsi in quel tratto vivido per sorridere visibilmente, per volgersi e gettare uno sguardo alla donna mal compresa nell'ombra, e si sentì colpevole come avesse mancato a un dovere. In questo mentre la saracinesca rintronò d'un colpo battuto dal di fuori. Si raddrizzarono i due come ladri sorpresi a rubare; d'istinto si scambiarono un segno d'attesa e di silenzio. Un nuovo colpo, ma nessuna voce. Erano pallidi, tremanti d'indecisione. Il caffettiere cambiò il piede sollevato per l'ansia con l'altro e la scarpa cricchiò; l'inserviente, fermo sui piedi piatti come un soldato di piombo, barcollò un attimo e ritornò diritto. Ancora un colpo sul bandone sonoro. Le lingue paralizzate volevan chieder: "Chi è? Che c'è?" ma tardarono. Un gruppo di passanti disperse col suono delle voci il silenzio imperioso che accompagna l'immagine di una figura ritta in attesa dietro una porta. Il cameriere corse a sollevare la saracinesca. Nessuno. La gente correva alla cena su e giù per il marciapiedi formicolante: una figura fuggiva tra l'altre con un urlo atroce di strozza avvinazzata: un giornalaio. Quando, rialzata la saracinesca i due si ritrovarono isolati di nuovo dalla strada s'accorsero di aver avuto paura. «Non ci confondiamo» disse il caffettiere «qualcuno sarà stato. Forse il giornalaio che viene tutte le sere... Veramente l'avevo già avvertito di non venir più e non è tipo di bussare e star zitto con la sua vociaccia. Ora che ci penso» aggiunse «credo che sia stato il cinese. È venuto qui fino a ieri sera e io gli avevo promesso per oggi una bottiglia di sciroppo. È timido: ha bussato soltanto.» «È timido ma l'ha sempre vinta lui con quelle sue manierine. Non mi fido io di quei gialli.» «Di che vivrà?» insistette il padrone che al ricordo del cinese si sentiva profondamente triste come avesse perduto un amico. «Una volta sola gli ho visto vender qualcosa.» «Son gente quella che si sfama con quattro chicchi di riso» rispose il cameriere, e su questa fede mostrò che voleva risparmiarsi qualsiasi immagine di compassione. «Peccato! Non ho pensato a invitarlo per stasera!» «Come? Il cinese?» «Sicuro! Meglio lui che quel messicano maledetto! Siccome mi compra il locale vuol venire per forza con quell'altro giocoliere che s'è scusato di non portarmi anche sua moglie, perché in questi giorni la signora non si sente troppo bene. Non son più il padrone io, qui.» Si pentì di aver fatto quel lamento: «Va', va' in cucina a prendere i piatti» disse «e portami anche il mio costume arabo». L'inserviente venne a posar sul marmo di un tavolino un gran fagotto, aiutò il caffettiere a imbandir la tavola, e quando tutto fu in ordine fuggì per un usciolo, spegnendo la luce. «O stupido, riaccendi!» gridò il padrone, ma venutogli col buio un fresco senso di pace non insistette a chiamar l'altro. Dopo l'improvvisa caduta nell'oscurità il chiarore che dalla strada veniva dentro il caffè s'aumentava man mano sugli specchi, sugli ottoni rilucenti del banco, sulle bottiglie degli scaffali che uscivano ad una ad una dall'ombra, apparendo in improvvise file al girar degli occhi. Il caffettiere come volesse approfittare di una complicità delle cose prese intanto a spogliarsi. Buttata la giubba e la sottoveste, sfilati i pantaloni, si tolse anche, dopo un attimo di esitazione, le mutande. Tra due piani di marmo freddo si mosse la sua figura in camicia, si fece curva a slacciar le scarpe che furono lanciate lontano. I piedi strascicarono di agio dentro le babbucce. I pantaloni orientali salirono fino alla cintola, tagliando di un orlo bruno la camicia tesa e bianca sul ventre. Frusciando un casacchino serico vestì il busto sul quale s'allentò poi un'ampia giacca di seta. Così travestito il caffettiere salì in piedi sopra un tavolino e cercò di vedersi in uno dei grandi specchi. Si vedeva male perché più di mezza figura restava in una zona buia: fece per saltar giù coll'idea d'illuminar gli specchi quando un ricordo improvviso gli dette la ragione d'amare quella oscurità inconsciamente voluta. Rimase fermo un poco, pencolò a guardarsi meglio, fatti gli occhi al barlume azzurro, poi scese a nasconder vesti e scarpe dentro un mobile e andò a sedersi sopra un divano. Godeva la dolce luce non pagata ch'entrava dai vetri smerigliati fino a mezzo della loro altezza. Il lato della sala che rispondeva sul viale era pieno di ombre d'alberi che si allungavano sul pavimento, si spezzavano a salir sul piano marmoreo dei tavoli, si perdevano nel buio fitto di un angolo, ramificavano uno specchio o il cavo d'una nicchia di fatue apparenze boschive. L'altro lato che dava su una strada stretta era spoglio d'immagini riflesse. In alto, per i vetri chiari si vedeva l'opposta casa con una facciata biancastra dove la luce rosa e calda d'una finestra accesa metteva un gonfiore sentito da tutta l'architettura. Con gesto lento il caffettiere pettinava la sua barba, si palpava il corpo avvolto nella seta. I lampi intermittenti delle scritte luminose sul viale rompevano lo stagnare della luce indiretta come gridi nella sala vuota e sonante e a ciascuno corrispondeva un progresso verso un'immagine sepolta nella memoria come un masso bianco nell'acqua azzurra del mare. Si immergeva il caffettiere in quell'onda col disagio del soffocamento e insieme la trepidanza di toccare un fondo dal quale sarebbe risalito col tormento di un dolore e di un rimpianto ormai antichi. Aveva già compreso la forma dell'immagine finale di quel procedere e ancora non voleva vederla, se l'impediva con giuochetti di falsa attenzione all'ombre, ai lustri delle bottiglie, impaurito che fosse troppo viva. Chiuse gli occhi per non subire un nuovo lampo, ma ormai era troppo tardi per sviare un lavorio inconsciamente venuto a termine. Vedeva Susanna, ne sentiva l'approccio insidioso a quei doppi fondi della memoria che serbano terribilmente vivi i gesti, la voce, la nudità e l'odore delle donne amorosamente godute. Cuoca degli inquilini del terzo piano, corteggiata e festeggiata da lui con l'occhio e con la mano, Susanna si era persuasa a scendere di notte nel suo sotterraneo pieno di meraviglie. La complicità della portinaia apriva a quell'amore un usciolo interno del cortile per il quale Susanna giungeva ancor serva, ancor calda della lavanda fumigosa dei piatti ch'aveva reso esangui le mani grassocce e rossastre. Egli era ad attenderla nel suo costume arabo, messo la prima volta per darle quello sbalordimento che rende possibile o accelera la dedizione delle donne. Senza baci, senza carezze la spingeva in una specie di spogliatoio e scendeva nel sotterraneo ad aspettarla. Pochi minuti per indossar quattro cenci venuti dal deserto e la serva spariva, si mutava in una formosa ragazza araba piena di fuoco e di superba voluttà della quale pagava la gioia e lo stupore nuovo ogni volta, riprendendo l'abito e gli odori dell'acquaio. L'attesa, il caffettiere l'occupava a farsi bello come un principe carovaniere, ad accendere accorte luci nell'alcova, a dar fuoco ai legnetti odorosi che spandevano nel sotterraneo un'acre nuvola biancastra ch'egli con semplicità sentiva favorevole a gesti felini e silenziosi, a gridi gutturali di passione. In quelli chiamava Susanna "la mia gazzella", e lei rispondeva "il mio leone", e realmente per ciascuno nasceva dentro quella messa in scena una lirica libertà d'intendere che rendeva sincere le esotiche espressioni d'amore. Il piacere tradotto in mussulmano li ubriacava di imitar feroci costumi, di vivere e godere altrove, tanto atmosfera e ambiente agivano, così sorti dal caso, ma assai vicini nel resultato a quelli creati dall'infallibile cattivo gusto esotico delle megere che montano una casa da appuntamenti. La ridesta gelosia di un antico amante di Susanna aveva rotto l'incanto con una mancata tragedia di pugnale. La ragazza aveva dovuto partire con l'altro, schiava di un bestiale padrone che disarmava nel caffettiere ogni coraggio, ogni proposito di ricorrere a un aiuto di legge per la cupa volontà di sangue espressa negli occhi torbidi: pareva costui cercare nella denuncia delle sue brutalità un pretesto alla vendetta e quindi al gesto sanguinario. Un vero oblìo non era venuto mai per il caffettiere, bensì un senso penoso d'insufficienza, di viltà a crescergli le ceneri su quel fuoco ormai antico. Qualche volta pensava alla disgraziata proibendosi ogni ricordo erotico per rispettarla nel caso che fosse morta, e si sentiva, indossato il suo vestito arabo, capace di vendicarla, d'inventar per questo torture e atrocità. Eran però ritorni brevi sui quali si stendeva la sonnolenza di un mestiere che per la decadenza del caffè aveva cessato d'essere attivo. I suoi sensi, ora, trovavano nell'identica luce di tante felici attese il ricordo e l'immagine di lei, ma attenuati da una saggia e pur dolorosa dimenticanza della tragedia e dei suoi riflessi per dargli solo un desiderio di donna, d'addio carnale al suo caffè. Per reagire al passo difficile il suo sangue voleva il piacere, pericoloso compenso richiesto dall'età in declino. Bussarono di fuori, alla saracinesca. Egli balzò in piedi, corse ad accender la luce e sparì in cucina, lasciando al servo la cura d'aprire. Gl'invitati, ch'entrarono in un primo gruppo di sette, parvero ritrovarsi in un luogo che li rendesse immediatamente curiosi e pieni d'imbarazzo. Forse era la tavola imbandita al centro creando una nuova forma del locale, forse era il fatto di ritrovarsi ospiti in un ambiente dove avevan sempre pagato, a stupirli. «Il padrone» avvertì il cameriere «viene subito. È di là, vestito da turco» e rise come se quella follìa lo solleticasse di graditi ricordi. Stupiti, gli ospiti s'aggiravano col cappello in mano come i visitatori di un'esposizione, presi dal penoso senso di aver commesso una mala azione obbedendo all'invito splendido di un uomo quasi rovinato. «Troppo! Troppo!» sussurrò uno dei professori. «Quest'uomo vuole andare in rovina col nostro aiuto» e il pensiero degli affari andati male e della gente che vi mangia addosso lasciò senza respiro i due commercianti del gruppo, intenti a valutar la spesa del vino dall'esame delle etichette illustri. Dalla cucina spuntò il padrone: aveva aggiunto all'abito un turbantino a strisce brune e gialle. Venne a stringer la mano ai suoi invitati che lo miravano con stupore e disse: «Ho pensato che il mio Caffè arabo deve finir bene. Lor signori sono pregati di passar di là e di mettersi i costumi. Ci tengo per l'insieme.» «I costumi? quali costumi?» «Arabi, arabi come il mio. Ne ho una collezione comprata all'Esposizione Coloniale di quindici anni fa. Li tenevo per darli a nolo ai clienti, quando nel mio sotterraneo si facevan davvero le notti d'oriente. Adesso è venuto il momento di adoprarli per l'ultima volta. Sono di là» e accennò a una porticina che dava nello spogliatoio. «Ma perché i costumi?» chiese il più giovane dei due professori. «Basta che l'abbia lei: le sta benissimo.» Gli altri sorridevano impacciati. Il caffettiere si rannuvolò tutto. «Mi facciano il favore: vadano di là. Ogni chiodo ha un costume completo. I costumi son freschi e puliti: li ho tolti oggi dalla naftalina. Allegria, allegria, signori! Pensate a quando da giovani vi mettevate in maschera» e intanto andava spingendoli un dietro l'altro in quella strettoia piena di attaccapanni. «Che fatica!» brontolò sbattendo la porticina per chiuderla, poi si volse a salutare il meticcio ch'entrava nel caffè col suo compare. Il primo, assonnito e pur malizioso, ammirò un poco il padrone nel suo travestimento, sorrise e disse: «È un'idea, sapete.» «C'è un costume anche per voi due» rispose l'altro. «Sentite» fece il giocoliere «devo scusare mia moglie che non è venuta non per farvi torto, ma perché aveva un altro impegno. Forse sul tardi passerà a prendermi.» «Sta bene, sta bene. Andate a vestirvi.» I due aprirono la porticina. S'udì un grido d'orrore dentro lo spogliatoio. «Che male c'è?» si scusò il giocoliere. «Siamo tutti uomini. Ma che bellezza! Par d'essere tra le comparse di un teatro. » «Pensi quel che vuole, ma chiuda» protestò un magrino occhialuto ch'era in maniche di camicia. Il meticcio, adocchiato un costume dai colori vistosi, lo staccò dal chiodo. «Piano, piano, è il mio» disse il suo vicino. «Le sarà largo» rispose abbandonando subito la preda, poi prese a spogliarsi dopo aver dato incarico al giocoliere di scegliergli un costume a modo. C'era nell'andito stretto un pigia pigia silenzioso, un sospirar d'uomini lenti, chini a slacciarsi le scarpe, a cercare il gemello caduto, a sfibbiare una cintola. La porta fu ancora aperta: s'affacciò il padrone. «Le babbucce» avvertì «sono tutte in quello scaffalino. Chi ha le mutande lunghe le arrotoli fino a mezza gamba» e disparve, richiudendo. «Chi è pronto aspetti gli altri» gridò poi attraverso il legno. «Voglio vedere il colpo d'occhio» e i poveri diavoli dentro lo stambugio si sentirono fatti schiavi di un perfido tiranno che li obbligava ad una ridicola parata. «Poteva dircelo di questi maledetti costumi» brontolò il grosso commerciante «che non saremmo venuti» ed esitava a togliere i piedi dalle scarpe e a stamparli caldi sul pavimento per andar in cerca di un paio di babbucce. I più eran pronti ormai, ma il lavorio non era finito. Ciascuno rivoleva i propri abiti per prendervi il fazzoletto, il sigaro, i fiammiferi, pretesti delicati per toglier dalle tasche i portafogli e gli orologi d'oro. Il cameriere, entrato per dare il suo aiuto, sorrideva, avvezzo alla sfiducia, e non s'azzardava a toccar nulla. «Andiamo, adesso.» Come attesi da un pubblico curioso del quale avevan paura, quelle comparse si disposero in fila. Il primo aprì la porticina. «Avanti, avanti» fece il caffettiere piantato lì vicino per scrutarli al passaggio, come il graduato che ispeziona i soldati alla porta della caserma. «Bene! Magnifico, Lei! Cos'è quello sbrendolo? Tiri, tiri su. Ci dev'essere un laccio.» E andava da l'uno all'altro per dar consigli e ritocchi. «Si siedano, ora. Prendano posto. Ci sono i bigliettini con i nomi, è facile.» In quel momento gli ospiti capirono bene d'esser morti come clienti del caffè. La coscienza d'offrire, una volta tanto, dava al padrone un tono un po' imperioso, un'aria d'esigenza assai spiacevoli. Cominciò la ricerca dei posti, lunga per lo scontento e la malavoglia di chi doveva sedersi a quel banchetto forzato. Tutti si guardavano intorno negli specchi: i tre occhialuti della compagnia provavano a togliersi e a rimettersi gli occhiali, strumenti doppiamente necessari a ritrovare la perduta somiglianza con la consueta immagine di se stessi. Quando tutti furono seduti, due posti rimanevano liberi, senza cartellini. Erano per i due anonimi, per il giovane e la ragazza che non bisognava più attendere: l'ora dell'appuntamento era passata da un pezzo. Tutti fissavano ai due posti vuoti, scoraggiati, come se quell'assenza fosse di cattivo augurio o li privasse dell'unico piacere rimasto da sperare. «È già tardi! Se ne saran dimenticati» disse il caffettiere in tono di rabbioso rammarico. «Avranno avuto meglio da fare» commentò uno dei professori, poi temendo d'aver offeso con la sua frase l'ospite, si perse a insistere su quel che pensava fosse "meglio", mentre la sua faccia sotto il turbante perdeva la gravità solita e si ringiovaniva d'una espressione cupida della bocca, bianca nel ghigno e barbara. «Non vengono. Non hanno gradito il mio invito, si vede!» gridò il padrone. «Tu, servi» fece al cameriere «ma leva prima quei piatti: mi danno fastidio.» Immediatamente dopo, ciascuno si trovò di fronte all'impegno di mangiare e di bere senza voglia, senza calore collettivo a incoraggiarlo. L'osservarsi reciproco non era ancor finito. Pareva che ogni commensale non persuaso dai volti degli altri, cercasse sotto i mantelli e i casacchini le linee note degli abiti e delle forme a riempirli, e al tempo stesso di tale ricerca si sentisse il solo non travestito e quindi in diritto di compierla. Per questo, quando lo sguardo gli ricadeva sul proprio petto, n'aveva un soprassalto di meraviglia, e poi un abbandono triste alla irrimediabile fatalità comune. Alta splendeva sulla tavola una grossa lampada: le altre più piccole intorno eran fredde di luce riflessa, così che solo il centro del caffè era chiaramente illuminato. Il perdersi dei tavolini nelle nicchie e negli angoli più lontani tra le colonnine gialle era inquietante, lasciava le spalle senza sicurezza, spiate da invisibili testimoni. Qua e là chiazze sul muro, macchie sul pavimento, fili di luce elettrica fuor di posto, abbandonati e lenti, denunziavano uno squallore insospettato, una rovina troppo d'accordo con la decisa chiusura del caffè. Dietro il banco sguarnito di bottiglie un usciolo aperto lasciava vedere un passaggio stretto, di pietra nera e scabra, come un foro di grotta. Era la via per la quale il cameriere partiva a corsa verso la cucina per ritornare carico di piatti, quando una chiamata del padrone non lo faceva riapparir con viso tra curioso e spaventato ciondolando con le mani in agitazione il tovagliolo della sua insegna. Ad uno dei suoi ritorni lo si vide con quel tovagliolo arrotolato in capo a mo' di turbante. Esitò, così contraffatto, a farsi vicino al caffettiere, poi prese ardire, e sorrise a se medesimo, contento che fosse andata liscia. Il coraggio di parlare non l'aveva nessuno degli ospiti: solo il meticcio scambiava qualche parola col giocoliere seduto accanto a lui, e in quella loro intesa, parevano il principe dissoluto e il furbo confidente, entrati in incognito nella casa del buon mercante. Gli altri mangiavano, ma i loro sguardi si posavano con discrezione sul caffettiere nero e truce, poi si nascondevano, paurosi di vederlo a un tratto balzare in piedi brandendo come clava una bottiglia, rovesciar la tavola e menar strage in un accesso di pazzia provocato dal rimorso dei denari spesi così male. Quello, afflitto di come andava la sua cena, tentò di reagire al disastro: prese a masticare e a grugnire di piacere esagerato per far festa alle vivande e creare un'atmosfera cordiale e sbottonata d'uomini soli e buoni intenditori di cucina. «Ma cari signori» disse, vedendo che non approdava a nulla, «bisogna bere. Che cos'è quest'astinenza? Siamo arabi, è vero, ma di Maometto ce ne infìschiamo, noi!» L'assemblea rise, finalmente, sollevata. Il giuocare all'arabo che beve vino a dispetto del Corano aveva per tutti un fascino curioso, geografico e infantile. Ciabattando intorno alla tavola il cameriere riempì i bicchieri di bel vino rosso. Ad ogni sosta dietro uno dei commensali batteva un piede a terra a marcarla, sorridendo da solo della propria trovata a fare allegria. S'ebbe un'occhiataccia padronale che lo rese strisciante e silenzioso come un rettile, ma scoraggiato, piantò le bottiglie in mezzo alla tavola e partì per altri traffici in cucina. Venne quindi un momento di pericoloso silenzio. Fu allora che gli occhi di tutti si volsero dove quelli del caffettiere fissavano intenti. Dietro una delle grandi finestre rispondenti sulla strada, s'intravedeva l'ombra nera di una testa ferma a spiare. Si allontanava dal vetro, si riavvicinava: a tratti la forma di un copricapo sporgeva disopra l'arabesco della smerigliatura, nel vetro chiaro, e pareva proprio quella del berretto di un agente di città che fosse insospettito del caffè chiuso ad ora insolita, con dentro buon numero di gente. Gli ospiti si sentirono subito in fallo con qualche regolamento di polizia e temettero un'inchiesta tra ironica e brutale sul banchetto e su quei loro travestimenti, che nell'immaginazione turbata perdettero di colpo la loro innocenza. Nella tavolata c'era un mistero; sorgeva per ognuno il senso di partecipare a un rito, ad una strana cerimonia d'iniziazione segreta, per uomini soli. Nel silenzio perfetto, mentre ognuno fissava il padrone a gravarlo di quella responsabilità, un ticchettìo multiplo divenne avvertibile come la voce di una colonia di tarli dentro la tavola. Erano gli orologi portati sul ventre, legati a qualche laccio interno delle brachesse arabe. Fu una sorpresa rassicurante, un ripiombar nell'occidente borghese. Le mani cercarono là dove palpitava lo strumento civile, quasi volessero esser pronte ad esibirlo come una prova d'identità, un documento di rettitudine e di buoni costumi. «Vado a dirgliene due, io, a quel curioso» fece il caffettiere alzandosi. Corse al vetro, e là, ritto in punta di piedi, cercò di guardar fuori. Gli altri lo videro saltellar d'improvvisa gioia, mentre l'ombra nera spariva per paura. Al suo ordine secco il cameriere aprì di furia la saracinesca e il padrone balzò in strada dietro al grido rugginoso. Si udirono i suoi passi ciabattanti correre intorno al lato del viale, entrar nella strada tra le esclamazioni esilarate di alcuni cocchieri seduti in serpa, poi tornò silenzio. Finalmente egli riapparve trascinando qualcuno che spinse dentro, mentre il servo aggrappato alla saracinesca la riabbassava contro il mondo esterno, curioso e nemico. «Ecco qua la nostra invitata!» gridò trionfalmente il caffettiere, e per esporre all'ammirata curiosità dei suoi ospiti la ragazza che avevan veduto nel caffè giorni prima, andò a girare due o tre chiavette, aumentando la luce. Tutto il lampadario splendette sulla vergogna di lei che si copriva gli occhi con le mani. Magra, in piedi e così afflitta, smentiva ella un felice e lussuoso ricordo: ora l'abito scollato che appariva dal mantello aperto davanti, mostrava una ricchezza falsa di vetrini mal cuciti sopra una stoffa fragile, e quella miseria le diventava fìsica come s'ella uscisse di malattia. «Avanti, avanti» la incoraggiò il caffettiere spingendola a sedere nel proprio posto. «Aprite gli occhi: guardateci. Gli arabi son cavalieri con le donne. Siamo belli, non è vero?» La maliziosa curiosità del già intravisto, portò lei a scoprirsi gli occhi e a girarli intorno sorridenti. Gli arabi seduti a mensa le facevano inchini gravi e rispettosi. «Lei è quel signore che era seduto là, l'altra sera.» La voce fresca, vicina al riso, colpì tutti gradevolmente. L'interpellato a mostrar la propria soddisfazione per esser stato riconosciuto s'alzò un poco e aprì il mantello per far vedere gli abiti europei che aveva sotto: scoprì soltanto un gran groviglio di spaghi e i pantaloni un po' aperti sul ventre. Tutti risero e si accomodarono meglio sulle sedie: il meticcio e il suo compare parevano due raffinati spettatori che escon dalla noia dello spettacolo consueto per l'arrivo del numero che a loro interessa. Quando la ragazza si trovò a incontrar lo sguardo del meticcio n'ebbe un'occhiata così spogliatrice che trasalì e abbassò il capo. «E come va» chiese il caffettiere rimasto in piedi presso la seggiola di lei «che il vostro amico non è qui? Io avevo invitato anche lui.» Ella abbassò gli occhi e non rispose subito. «Non l'ho più visto da martedì: non so dove sia.» Ci fu un silenzio dopo la confessione come se quell'assemblea di capitribù ascoltasse un naufrago raccontare di un barbaro trattamento avuto presso un popolo limitrofo; poi il padrone non potette trattenersi. «Non ve l'abbiate a male,» sbottò «ma è un bel mascalzone... Non si pianta così una ragazza come voi!» Senza voce gli altri assentirono, e il silenzio pareva lasciato perché ella potesse piangere a suo agio di confortata vergogna. Troppo invitata a questo, la ragazza ruppe in singhiozzi. «Non più venuto: non l'ho più visto. Speravo di trovarlo qui perché mi son ricordata che voleva venirci.» « Può darsi che venga » disse il magrino dagli occhiali, guardandola di sotto i vetri con occhi enormi e troppo bianchi. «Ma mangiate intanto. Avete l'aria patita.» «Diciamo la verità, figliuola» intervenne il padrone «da quanto tempo non avete mangiato?» «Io? Perché? Ho mangiato... ho mangiato.» «Sarà, ma non ci credo. Il signorino è andato e non v'ha lasciato neanche da cenare. Fanno tutti così, questi giovanotti!» Ella non fece proteste: allentò la mano che stringeva un pezzo di pane, lasciò cader la forchetta sulla tovaglia come avesse disgusto di un cibo che le costava così caro. «No, no. Non c'è niente di male. La verità è la verità. Siam felici per noi che siate venuta. Non è vero? Mangiate, dunque, e pensate a cose allegre. Tu, versale del vino e preparami un posto, qui, accanto a lei.» Il cameriere obbedì in fretta e propose: «Non sarebbe bene scaldar prima un po' di brodo, per la signorina?» «Sicuro. Corri in cucina e porta il brodo.» Nell'attesa ella cominciò a mangiare un panino ripieno. Faceva bocconcini e masticava adagio come chi è quasi sazio. Gli uomini la guardavano con l'aria di scoprire una donna che mangia per la prima volta, e si scambiavano occhiate di soddisfazione ad ogni boccone ingoiato da lei, come bimbi che ristorano un passerotto trovato mezzo morto nella neve. Estraneo a questa commozione, il meticcio indagava con acutezza d'intenditore le braccia nude e il busto della ragazza, che, avvertito un pericolo da quella parte, una volontà sicura del fatto suo, evitava di dirigere a lui gli occhi ridenti e ancor lacrimosi. Il giocoliere, vedendo quell'interesse del meticcio si spiegava finalmente la sua voglia d'intervenire alla cena e la sua delusa apatia di prima. Mosso da istinto cortigiano, ammiccando e sussurrando prese a far giudizi e a esprimere parolette lusinghiere per la ragazza. «È un tipo, non vi pare? Bisognerebbe allevarla noi e poi lanciarla insieme al nuovo teatro. Un po' di denaro speso su di lei, un po' di smaliziatura e avremo un'attrazione stupenda. Guardatela bene: ha il magro che piace adesso. Cercate di parlarle, dopo. Quelle ragazze lì non sognano che il palcoscenico.» Il meticcio sempre muto sorrideva, e il padrone, accortosi di quel maneggio, teneva d'occhio tutti e tre, gelosamente. Anche lui cominciava ad avere il suo piano intorno alla ragazza. S'alzò per prendere qualcosa dietro il banco e tornò esibendo un costume arabo da donna, bianco a ricami d'argento. «È per un'odalisca» disse e si mise a illustrarlo in ogni particolare alla ragazza che gridava: «Bello! Bello!» palpando amorosamente la seta. «E mettetevelo, dunque » pregò egli « vi starà tanto bene.» La curiosità per l'immagine nuova persuase tutti ad esigere il travestimento. Anche il meticcio uscì dal suo silenzio per dire: «Ma sì, vestitevi da araba, signorina. Sarete più graziosa di tante che si vedono al "Casino".» «Non credo, ma dove vado io a vestirmi?» «Di là, signorina» fece il padrone. «Vengo con voi per accendere la luce.» La partenza dei due dalla tavola lasciò un vuoto impressionante. Ognuno guardava dalla parte dello spogliatoio dove il caffettiere buttando a terra abiti e camicie scopriva nella parete uno specchio. «Vi lascio: chiudo l'uscio.» Senza indugio, quello tornò in sala col viso di un asciutto cavaliere. Ormai tutti tenevano d'occhio la porta giallina, dove il buco della serratura apriva la sua frastagliata fauce nera. La coscienza che a pochi metri da loro una donna si spogliava agiva come un fluido. I discorsi eran rotti da risatine, da ammicchi, da sorrisi nervosi. Solo il caffettiere restava impassibile, deciso a parere il più discreto di tutti, ma cercava di ascoltare le parole che si scambiavano il meticcio e il suo compare, potenti nemici delle sue intenzioni, come aveva già capito. «Son quasi pronta» annunziò la ragazza di là dall'uscio, suscitando la visione di un disordine spumeggiante tra il quale la sua bellezza fiorisse di mal celate nudità. «È quasi pronta» ripete una voce, e tutti risero, fauni discreti e sicuri di dominarsi. Ella aprì la porta e uscì, finalmente, a passo di danza, agitando un velo verde. Felice d'indossare il costume e al tempo stesso un po' confusa del proprio coraggio, era bellissima. Il caffettiere, impallidito e a bocca aperta, senza sorriso, la fissava incantato da quell'immagine prepotente che confondeva ogni suo ricordo. «È troppo!» gridò poi tra lo stupore generale e, pentito, abbassò lo sguardo. Una perfezione sognata, un'odalisca da gran principe era davanti ai suoi occhi e li sentiva ciechi, abbacinati. Bevve, si alzò, venne vicino a lei che il grido aveva impaurito e: «Brava! Brava!» mormorò con una voce arrochita di cui gli altri uomini provarono disgusto e gelosia. «Brava!» ripetè. «Lasciatevi vedere, odalisca. Questa è la gran notte del mio povero Caffè arabo. Ho sempre sognato d'esser arabo» confessò traboccando di mescolate emozioni. «L'amore dev'esser più bello per loro.» L'uscita destò una secca, ironica ilarità negli ospiti e l'irritata protesta del magrino dagli occhiali che si mise a spiegare come ogni popolo abbia delle idee sbagliate a questo proposito sugli altri. Per sua esperienza tutto il mondo era paese. Trascinato da una foga vendicativa, non si peritò a dire che molti uomini capiscono l'amore solo in maschera, dimostrandosi degni di quella o di quell'altra categoria internazionale di viziosi. La ragazza, tornata al suo posto per mangiare il dolce e la frutta, appariva impensierita di tutto quello sfogo contro il fascino orientale, e un po' s'accigliava e un po' rideva con un'altra se stessa che l'era allegra compagna nell'avventura. Il meticcio ridacchiava coi professori e i commercianti, affermando che le città europee insegnavano a tutti i popoli in materia d'amore, perfino a lui, misto di razze lussuriose e raffìnatissime. Il caffettiere taceva non sapendo se sentirsi offeso o no dal discorso del magrino, però, siccome aveva l'odalisca seduta accanto, prendeva vantaggio di arie da padrone tenendo la mano sulla spalla di lei che non ci faceva caso: ogni tanto s'alzava a offrir vino in giro per ricordare agli altri che erano suoi ospiti. Fu bussato alla saracinesca. «È mia moglie certamente» fece il giocoliere per calmare la nuova inquietudine che veniva a tutti da quel colpo. «Viene a prendermi: siam d'accordo così.» Intanto l'inserviente aveva aperto. La donna meschina e grigia esitò sulla soglia, smarrita di non riconoscer nessuno di quegli uomini travestiti. «Entrate, entrate presto» ruggì il padrone. «Avete paura, o volete che tutti ficchino il naso negli affari nostri?» Impaurita ella si fece avanti: scrutava tutti con gli occhi rossi di piagnona. Scoprì finalmente il marito: allora corse a lui come a un porto di salvazione. «Beh! Sedetevi, mangiate, bevete, già che siete venuta» gli fece il caffettiere indispettito da quella presenza miserevole e di cattivo augurio. «E voi, presentatela, vostra moglie, a questi signori. Mi dispiace proprio, ma per lei non ho un altro costume da odalisca.» Tutti risero forte, anche il giocoliere che l'aveva messa a tavola e le porgeva i piatti di dolci come a dirle: "To', godi, e poi va' a raccontare alla gente ch'io son cattivo!". Si vide tentennar d'ira la testa grigia di lei. «Non lo vorrei neanche» rispose umilmente e, reclinando il capo, si mise a piangere. «Siete cattivo» disse la ragazza al caffettiere, e si mosse per offrir le sue consolazioni alla vecchia. Egli le tenne dietro, scusandosi che aveva voluto fare uno scherzo innocente, senza offese. Volle versar da bere alla sua vittima, riempirle di biscotti una gran borsa nera di tela cerata, protestando la sua amicizia con parole e carezzine. Rasserenata la vecchia, e finiti quei convenevoli, il padrone annunziò che il caffè sarebbe stato servito nel sotterraneo. «Molti di loro non lo conoscono, perché non si son mai azzardati a scenderci anche quando era una cosa allegra. Andiamo?» In fondo alla sala una ringhiera faceva riparo al pericolo di precipitar giù per una scala aperta al livello del pavimento. L'ospite scese per primo. Contro l'ultimo scalino una porta tagliata entro una nicchia portava scritto: "Notti d'Oriente". «Vedete?» fec'egli volgendosi a guardar gl'invitati che scendevano dietro a lui. Spinse la porta e girò una chiavetta di luce elettrica. Insieme a un odore un po' sgradevole di cantina e di stoffe rinchiuse usci dall'antro una fioca luce verde, rossa e azzurra, che si divise in macchie oleose sulla pietra degli scalini. «Avanti a tutti l'odalisca» fece il caffettiere che sentiva la ragazza ridere, premuta dagli uomini complimentosi e struscioni. Ella si liberò e fu la prima a entrar nel sotterraneo. Era una saletta quadrata, dal soffitto a volta dipinto a stelle e ad arabeschi d'oro su fondo cupo: nel muro opposto all'ingresso una gran nicchia aveva dentro una sorta di trono o di alcova sormontata da un baldacchino a mezzelune d'argento. Intorno alla tazza asciutta di una fontanina posta nel centro c'eran divani e tavolinetti sui quali enormi vassoi d'ottone velati di polvere riflettevano sordamente il lume composito delle lampadine a vetri colorati, sospese in alto, giro giro. Dai tappeti e dai cuscini dei vari giacitoi veniva un seccume ch'entrava nelle nari e dava il sospetto di prurigine per. le parti che dovevan sedervisi. Il caffettiere cercò sotto una botola una chiavetta e il primo getto gorgogliante e faticoso della fontana sprizzò alto, si spense e risalì fino a una zona dove si caramellò di verde e di rosso. «Bene! Molto bello!» approvarono gli ospiti, ma rimanevano in piedi, aggirandosi tra i divani e i tavolini come se cercassero un pretesto per andarsene. «Sedetevi, signori. Avremo qui il caffè e i liquori.» Vinta l'esitazione, qualcuno cominciò a sedersi sui divani scricchiolosi provocando il cadere a terra di una pioggerella minutissima d'imbottiture ridotte in polvere. Era rimasta libera l'alcova. Là il padrone condusse la ragazza a sedersi. Egli aveva gli occhi un po' lustri e la mano carezzevole sulla schiena di lei. Vennero il caffè e i liquori. Essere in pena che non trovava posto né pace, la moglie del giocoliere cercava l'unica vicinanza del marito, il quale faceva di tutto per scansarla, seccato di vedere il suo meticcio scontento. Tenace, ella lo seguiva ad ogni cambiamento di posto. L'uomo, allora, insieme ad uno sguardo di minaccia, le offriva bicchierini di liquore in segno di squisita attenzione e tentava poi di lasciarla lì, accanto al vassoio delle bottiglie. Quando vide che la sua manovra era inutile, si buttò furibondo in un sofà, e l'attirò giù a sedere, fingendo una di quelle improvvise tenerezze ch'esibiscono i vecchi sposi tra molta gente. Il rumor dell'acqua e il vederla fornivano un senso fresco che ingoiava il secco entrato nelle nari insieme all'odore delle stoffe tarlate e imbevute di polvere. In quella tregua venne ad ognuno di prendere un aspetto indolente e orientale. Chi era già recline sul divano, vi si coricò, e con la testa in basso e le gambe alzate su qualche appoggio lasciava lo sguardo perdersi nelle nuvole di fumo odoroso che mandavano gl'incensi accesi dal padrone accanto all'alcova, o nella contemplazione dei piedi chiusi dentro le babbucce ricamate. Le voci eran divenute discrete, velate. Poi ci fu un silenzio, un invito al sogno e al sonno che i passi del cameriere che scendeva la scala, ruppero di sorpresa. Ognuno si ricompose e guardò all'alcova. Caffettiere e odalisca eran decentemente seduti un po' discosti l'un dall'altra, e meditavano, seri seri. C'era però intorno a loro il senso di una inquietudine dominata, di quella forse che segue al rifiuto della donna offesa da un troppo ardito tentativo. L'immobilità trasognata di lei poteva nascondere lo sdegno, la fissità quasi sofferente di lui, rivelava piuttosto quello speciale atteggiamento del punito che chiede perdono per poter ricominciare l'assalto col vantaggio di un tacito discorso che ha rotto i primi pudichi preliminari. Comunque ebbero tutti coscienza che un lavoro di seduzione spicciola era stato iniziato nel momento del loro riposo, e l'invidia creò un'ira serpeggiante da l'uno all'altro, tanto più che la ragazza, volgendosi al padrone sempre assorto nella sua afflizione, sorrise come a concedergli quel perdono. Un sottile desiderio di guastare l'intesa e prender vendetta invase gl'invitati maschi: la vecchia rideva e tuffava il capo grigio in seno al suo uomo, sguaiatamente letificata da quella atmosfera, ma dopo alcune parole di lui, sussurratele all'orecchio fra tigreschi sorrisi, finì in un pianto ancor più molesto dello sghignazzare di prima. Il caffettiere aveva preso una mano della ragazza e gliela carezzava sorridendo. La coppia seduta nell'alcova si isolava così, senza pensiero degli altri, che si sentiron considerati come dei cari eunuchi, testimoni obbligatori di un tale approccio amoroso. Nessuno protestò con un grido o con un gesto all'orrore dell'immagine, ma ad un vendicativo resultato ciascuno giunse ugualmente fissando la ragazza ed esprimendole senza vergogna il proprio bisogno di consolazione fisica, chiedendo, implorando per pietà un segno, un cenno che lo chiamasse il favorito. Il caffettiere, turbato dai suoi ricordi e dalla ricchezza delle impressioni e delle speranze nuove, s’era distratto; però manteneva la mano sulla spalla di lei. Quell'avanzata collettiva di desiderio e di passione fu una rivelazione improvvisa per la ragazza che sussultò di sgomento. Il suo compagno, così avvertito, rise imprudentemente con la prontezza con la quale grida lo scottato, e gli altri aggiunsero alla loro ira quella per esser stati scoperti nel tentativo malizioso. Tutti risero, dopo, ma silenziosamente, come se capissero la loro sfortuna e disincantati vi si rassegnassero. Ma un resultato lo avevano ottenuto togliendo a lei l'incoscienza della sua posizione. La ragazza sorrideva, ora, non sapendo cos'altro fare, mentre da ogni parte le veniva risposto con una amorevolezza che prendeva impegno di nutrirla, di vestirla, di mantenerla e amarla quanto una sposa. Emanava da quegli egoismi una bontà nuova per lei, avvezza a star coi giovani: era una rinuncia a tormentarla per gelosia del suo passato, era un comprender largo, un prometter più cure che passione; ed ella capì il proprio valore relativo agli uomini ch'aveva d'intorno. Non le parvero più vecchi, né ripugnanti nelle loro profferte, anche perché il costume esotico li salvava da una rivelazione precisa delle brame, concedendo al loro contegno una fantastica libertà da attori che fanno la pantomima. Però uno tra tutti la turbava: era il meticcio. In lui non c'era influsso del travestimento: prometteva in modo chiaro larghi compensi. Eppure lo vedeva bello, così bruno di pelle e armonioso nei movimenti, ne indovinava come un futuro pericolo i successi tra le invidiate donne dei varietà, ne subiva il fascino d'uomo notturno, danzatore e bevitore vizioso. Era tentata e provocata da quella fredda attesa, e avrebbe voluto vederlo goloso e ridicolo come gli altri per non trovarsi più davanti al rischio che lui rappresentava d'una vita per la quale ricordava l'orrore appreso da bambina nei discorsi uditi in casa, pieni d'ingiurie e di maledizioni. Dovette volger sugli altri lo sguardo per sentirsi la bianca caduta in un'oasi di predoni paciocconi e paterni. «È vero:» confessò liberamente «ero affamata stasera. Da ieri mattina non mangiavo» e le parve con quella frase di rinunziare ad ogni attrattiva per il meticcio lussuoso, di ritornare a un mondo capace di sentir certe miserie di buona figliola. Un sospiro affannoso le ridette coscienza che il caffettiere era seduto accanto a lei. Si volse a guardarlo e sorrise di gratitudine quand'egli mormorò: «Poverina! Poverina!». Reclinando il capo si vide indosso il bel costume di donna araba e n'ebbe vergogna, desiderò di distogliere da sé tanti sguardi che dopo la sua confessione eran divenuti speranzosi e vivaci quasi per effetto di un liquore generoso. Un po' inquieta si accomodò, raccogliendosi tutta in un gesto pudico, poi vide l'altra donna dai capelli grigi come una protezione, un'ancora di salvezza, e con un cenno gentile la chiamò a sé. Quella venne correndo: il marito lanciò al meticcio un'occhiata di trionfo. Da quel momento il caffettiere temette le male arti della vecchia e non pensò più che al modo più sbrigativo di sbarazzarsi di lei e di tutti i suoi ospiti. S'alzò e salì nel caffè. Ci fu un silenzio d'attesa. La vecchia aveva strinto affettuosamente la ragazza e: «Bimba mia» le sussurrava «la fortuna va presa per i capelli. C'è qui un signore che può farvi un avvenire. Pensate che a giorni sarà padrone di un teatro di varietà. M'avete capito?». Intanto il meticcio s'era avvicinato fingendo d'osservar gli arabeschi dipinti nell'alcova, ma niente sfuggiva agli altri che sorridevano e ammiccavano, sebbene il giocoliere esprimesse a gesti che non ne vedeva il perché. Silenzioso e monumentale il padrone riapparve sulla porta del sotterraneo. Comprese il maneggio avvenuto nella sua assenza: la megera tentava, a favore del suo rivale, la bella fanciulla, ma si tenne calmo, per non compromettere con un errore la vittoria che sentiva di meritare. «Mi dispiace molto» annunziò «ma l'ora di chiusura per un locale come il mio è già passata. Non vorrei trovarmi a delle seccature.» Tutti si levarono in piedi. «No, no: c'è tempo ancora per un bicchierino. Lo dicevo così, tanto per avvertire.» Il magrino dagli occhiali s'avanzò risolutamente verso l'alcova. «Signorina» disse «le sono molto grato. Lei ha dato un po' di sorriso a noi uomini per solito poco allegri» e le baciò rispettosamente la mano. «Spero d'incontrarla ancora.» Fece un inchino al caffettiere. «Serberemo il ricordo di questa bella serata. Vi auguro di trovar presto un'iniziativa felice.» I due professori fecero dei saluti più sbrigativi e lo seguirono su per la scaletta. «La scienza è partita» gridò il padrone, e c'era nella sua voce la maliziosa attesa di veder presto partire anche l'industria e il commercio. I rimasti compresero e vennero a salutare la ragazza. «È tardi» disse ella scendendo dall'alcova «anch'io devo partire.» «Allora signorina, io e mia moglie possiamo accompagnarvi.» Il caffettiere lanciò un'occhiata furibonda al giocoliere, ma lo vide corazzato, imperturbabile, allora tentò una estrema difesa del suo bene. «Vi dico che la signorina l'accompagnerò io. Sta lontano di casa e intendo offrirle il viaggio in carrozza.» «Se è così, m'arrendo» rispose l'altro vedendo che il meticcio gli faceva segno di lasciar andare, e si diresse con la moglie verso la scala. Il meticcio, il padrone e la ragazza lo seguirono. Giunti su nel caffè, le voci dei primi chiusi nello stambugio col servizievole cameriere ricordarono che bisognava mutar d'abiti. «La signorina aspetterà che i signori abbiano finito» disse il caffettiere col tono di un ordine, e spinse tutti, anche la vecchia, nell'anditino. «Andate ad aiutar vostro marito» le impose. La porta dello spogliatoio nessuno l'aveva rinchiusa. Gli ospiti pigiati là dentro buttavano via i mantelli e i giubbetti restando in camicia con acrimoniosa, deliberata mancanza di rispetto verso la donna destinata a un altro. Qualcuno veniva in sala ancor sbracalato per abbottonarsi, tossicchiava e rientrava nell'andito donde un terzo usciva già vestito, tornando alla solita vita disadorna e compassata. Gli addii furono cortesi, ma senza gratitudine. Il meticcio venne a stringer la mano del caffettiere, gli sorrise come a un rivale buon vincitore, poi si volse a salutar lei che lo sentì tanto sicuro della sua rivincita che con un gesto vago gliela promise per l'avvenire. «Quando han fatto andrò anch'io a vestirmi» disse ella. «Come? Anche voi?» sussurrò piano ma disperatamente il caffettiere e girò gli occhi intorno per sincerarsi che nessuno poteva udire. «Restate ancora un po', ve ne prego. Ho da dirvi una cosa» e si precipitò ad aiutare un ospite che faticava a infilarsi la giacca. Mentre tutti salutavano al passaggio della saracinesca alzata a metà, egli si teneva accanto a lei, vigile, e sospettoso come un carceriere che teme d'aver concesso troppo ai visitatori. L'ultima schiena nera s'abbassò sotto il bandone: egli n'afferrò l'appiglio, tirò giù con forza e spinse fino in fondo, aiutandosi col piede. S'accorse allora del cameriere. « Quanto hai fatto di mancia?» domandò. «Poca roba, se devo dire la verità.» «Pigliati quello che c'è nel cassetto e va' a dormire. Per i nostri conti ci vedrem domattina a casa mia.» Commosso, il cameriere volle stringere in un abbraccio il suo padrone, poi a inchini esprimere alla ragazza la sua devozione anche per lei. Indugiava a partire, fermo nel centro della sala, come volesse fare un malinconico saluto al caffè. Infine sentendosi di troppo, sparì silenziosamente per il corridoio della cucina. «E ora torniamo giù» propose dolcemente il caffettiere. «Parleremo meglio. Voi siete la mia gazzella, non è vero?» e gli tremava d'ansia la voce. Non attese risposta: girò la chiave della luce per spegnere i tre ordini illuminanti della sala. Gli altri di fuori videro il caffè sparire nel buio, la casa ricomporre la sua architettura fin giù al marciapiedi solo un lucore rimase dietro ai vetri che veniva da. profondo mistero della notte araba.

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Gli occhi gli uscivano dalle orbite, aveva la schiuma alle labbra ed il suo braccio anchilosato subiva dei fremiti, come se da un momento all'altro dovesse spezzarsi sotto gli sforzi disperati che faceva il suo proprietario, per abbassarlo verso la bacinella piena d'acqua. Urla spaventevoli, che rassomigliavano agli ululati d'un lupo idrofobo, gli sfuggivano di quando in quando dal petto oppresso dalla terra. Vedendo Sandokan e Tremal-Naik, i suoi occhi s'iniettarono di sangue ed il suo viso assunse un aspetto orribile. - Acqua! - ruggì. - Sì, quanta ne vorrai, se ti deciderai a parlare - rispose Sandokan sedendosi di fronte al miserabile. - Voglio farti una proposta. Dimmi prima quanto ti hanno dato per rapire quella giovane indiana o per aiutare i rapitori. - Il gussain fece una smorfia, e non rispose. - Poco fa ho deciso il demjadar dei seikki a dirmi tutto quello che io desideravo, e quello è un fiero soldato e non già uno stupido fanatico come sei tu. Segui il suo esempio e avrai acqua e anche delle rupie. Se ti rifiuti io non mi occuperò più di te e ti lascerò morire entro la tua buca. Scegli! - Rupie! - rantolò Tantia, guardando fisso la Tigre della Malesia. - Cento, anche duecento. - Il gussain ebbe un fremito. - Duecento! - esclamò con voce appena intelligibile. Ebbe ancora un'ultima esitazione, poi rispose: - Parlerò ... se mi farai avere un sorso d'acqua. - Finalmente, - esclamò Sandokan. - Ero sicuro che tu ti saresti deciso a confessare. - Prese la bacinella e l'accostò alle labbra del gussain, lasciandogli bere alcuni sorsi. - Te la do per scioglierti meglio la lingua, - disse. - Se vuoi il resto devi dirmi tutto. Per conto di chi hai lavorato? - Pel favorito del rajah - rispose Tantia che pareva fosse rinato dopo quei pochi sorsi d'acqua. - Chi è costui? - L'uomo bianco. - Sandokan e Tremal-Naik si guardarono l'un l'altro. - Deve essere quel greco, - disse il primo. - Certo, - rispose il secondo. La fronte di Sandokan si era abbuiata. - Mi sembri inquieto, - disse Tremal-Naik. - Ho mille ragioni per esserlo, - rispose il famoso pirata. - Se quel cane ha fatto rapire Surama, vuol dire che in qualche modo è venuto a conoscenza dei nostri progetti e ciò, se fosse vero, sarebbe grave. Vi è la testa di Yanez in giuoco. - Non spaventarmi, Sandokan. - Oh! Non l'ha ancora perduta e noi non siamo ancora morti. Tu sai di che cosa sono capace io, e quella testa non cadrà se io non lo voglio e tu sai anche quanto io amo Yanez più che se fosse mio fratello, più che se fosse mio figlio. - Lo so: non potrebbe esistere una Tigre della Malesia senza il suo amico portoghese. - Sandokan che si era un po' allontanato dal gussain, onde non potesse udire il suo discorso, tornò verso la buca. - Vediamo, - disse. - Forse noi ci creiamo dei timori che non esistono. Può trattarsi d'una semplice vendetta. - Si rivolse a Tantia che lo fissava sempre intensamente e gli chiese: - Il favorito l'hai veduto tu? - No. - Chi ti ha dato l'ordine di rapire la donna? - Un ministro, amico intimo del favorito. - E come hai fatto? - Prima l'ho addormentata con dei fiori, poi l'ho calata dalla finestra. Sotto vi erano dei servi del favorito. - E dove l'hanno portata? - Nella casa dell'uomo bianco. - Dove si trova? - Sulla piazza di Bogra. - Bindar! - L'assamese che si trovava a breve distanza, masticando una noce d'areca con un pizzico di calce, fu lesto ad accorrere. - Tu sai dove si trova la piazza di Bogra? - gli chiese Sandokan. - Sì, sahib. - Benissimo: continua gussain. - Che cosa vuoi sapere ancora? - chiese Tantia. - Ti ho detto perfino troppo. - Ma hai guadagnato duecento rupie. - Me le darai? - Io sono un uomo che quando prometto mantengo, non scordartelo, fakiro, - rispose Sandokan. - Allora posso aggiungere qualche cosa d'altro a quanto ti ho detto, - disse Tantia. - Ossia? - Io ho saputo che il chitmudgar del favorito, ha dato da bere a quella giovane donna non so quale miscela per farla parlare. - Sandokan ebbe un soprassalto. - Ed ha parlato? - chiese con ansietà. - Certo, poiché hanno assalito la pagoda dove tu ti nascondevi. - Che abbia compromesso Yanez? - si chiese a mezza voce Sandokan mentre la sua fronte si copriva d'un freddo sudore. Si mise poi a passeggiare per la spianata colle mani chiuse, il viso alterato. Un improvviso scoppio di furore lo assalì d'un tratto: - Cane d'un greco! - gridò tendendo un braccio in direzione della capitale dell'Assam. - Non lascerò questo paese se non ti avrò prima strappato il cuore! Come ho uccisa la Tigre dell'India, ucciderò anche te! - Anche Tremal-Naik appariva molto preoccupato e nervoso. Egli si chiedeva insistentemente quali parole erano riusciti a strappare dalle labbra di Surama. Egli aveva già provato, quando aveva cercato di lottare cogli strangolatori della jungla nera, l'effetto di quei misteriosi narcotici, che solo certi indiani conoscono. Se erano riusciti a scoprire lo scopo della loro presenza nel principato d'Assam, doveva succedere una catastrofe completa, pensava. Sandokan dopo d'aver passeggiato qualche minuto, stringendo continuamente le pugna e aggrottando di quando in quando la fronte, tornò precipitosamente verso il gussain. - Hai più nulla da aggiungere a quanto hai detto? - No, sahib. - Ti avverto che tu rimarrai nelle nostre mani fino al nostro ritorno e che se hai mentito ti farò levare la pelle. - Ti aspetterò tranquillo - rispose il fakiro. - Invece di duecento rupie ne hai guadagnate quattrocento, che ti verranno contate subito. - Io sono tuo anima e corpo. - Vedremo, - rispose Sandokan. Si volse verso i malesi dicendo loro: - Levate quest'uomo dalla buca e dategli da mangiare e da bere finché vorrà. Vegliate però attentamente anche su lui. Ed ora mio caro Tremal-Naik, prepariamoci a partire. Surama sarà salva, se non sopravvengono altri incidenti. - Chi condurremo con noi? - Bindar, Kammamuri e sei uomini; gli altri rimarranno a guardia dei prigionieri. - Saremo sufficienti per tentare il colpo? - In caso di bisogno chiameremo in nostro aiuto i sei malesi che ha Yanez. Non perdiamo tempo e partiamo. - Sandokan ed i suoi compagni, dopo d'aver raccomandato a Sambigliong di tenere un piccolo posto di guardia sulle rive della palude, lasciavano la pagoda per raggiungere il Brahmaputra. Essendo quasi mezzo giorno non dovevano correre alcun pericolo nella traversata della jungla, poiché ordinariamente le belve, a menoché non siano eccessivamente affamate, durante le ore più calde del giorno si tengono sdraiate nelle loro tane. Solo la notte si mettono in caccia, favorendo le tenebre i colpi di sorpresa. La traversata infatti la compirono senza vedere alcun animale pericoloso. Solo qualche coppia di bighama, ossia di cani selvaggi, li seguì per qualche tratto urlando senza osare di attaccarli. Giunti sulle rive della palude trovarono la bangle nel medesimo luogo ove l'avevano lasciata, segno evidente che nessuno si era spinto fin là. Le guardie del rajah non avendo potuto seguire le tracce dei fuggiaschi in causa del fiume dovevano aver abbandonato l'inseguimento. - Bindar, - disse Sandokan salendo a bordo della barcaccia, - governa in modo da farci giungere in città a notte inoltrata. Non voglio che ci vedano entrare nel palazzo di Surama, che dovrà servirci da quartier generale. - S'imbarcarono levando l'ancora, ritirarono l'ormeggio ed imboccarono il canale che doveva condurli nel Brahmaputra remando lentamente, non avendo molta fretta. Una gran calma regnava sulla palude e sulle sue rive. Solo di quando in quando qualche uccello acquatico s'alzava pesantemente, descrivendo qualche curva intorno alla bangle, poi si lasciava cadere fra i gruppi di canne. In mezzo alle piante del loto, mezzo affondati nel fango, sonnecchiavano dei grossi coccodrilli, i quali non si degnavano di muoversi nemmeno quando la barca passava accanto a loro. Fu verso le sei della sera che Sandokan ed i suoi compagni raggiunsero il Brahmaputra. Due poluar, specie di navigli indiani, i più adatti alla navigazione interna, perché assai leggermente costruiti, colla prora e la poppa ad eguale altezza e muniti di due piccoli alberi che sorreggono due vele quadrate, navigavano a poca distanza l'uno dall'altro radendo quasi la riva opposta, dove la corrente si faceva sentire più forte. - Che siano barche in crociera? - si chiese Sandokan, che le aveva subito notate. - Non vedo seikki a bordo, - disse Tremal-Naik. - Mi hanno più l'apparenza di navigli mercantili. - Vedo una spingarda sulla prora di uno di essi. - Talvolta quelle barche sono armate non essendo sempre sicuri i corsi d'acqua che attraversano queste regioni. - Tuttavia li sorveglieremo, - mormorò Sandokan. - Possiamo accertarci subito se sono dei semplici trafficanti od esploratori. - In quale modo? - Rimanendo noi indietro o sopravvanzandoli. - Proviamo: giacché non abbiamo fretta facciamo ritirare i remi e lasciamoci portare dalla corrente. - I malesi, subito avvertiti, ritirarono le lunghe pale e la bangle rallentò la sua corsa, andando un po' di traverso. I due poluar continuarono la loro marcia, aiutati dalla brezza che gonfiava le loro vele ed in pochi minuti si trovarono considerevolmente lungi dalla bangle, sparendo poi entro la curva del fiume. - Se ne sono andati - disse Tremal-Naik. - Come vedi io non m'ero ingannato. - Sandokan crollò il capo senza rispondere. Non pareva affatto convinto della tranquillità di quei due piccoli navigli. - Dubiti? - chiese Tremal-Naik. - Un pirata fiuta gli avversari a grandi distanze, - disse finalmente la Tigre della Malesia. - Io sono più che sicuro che quei due poluar perlustrano il fiume. - Ci avrebbero fermati ed interrogati. - Non siamo ancora giunti a Gauhati. - Che i seikki ci abbiano seguìti nella nostra ritirata attraverso la jungla? Eppure quella sera io non vidi alcuna barca a darci la caccia. - E le rive non le conti? Voi siete tutti corridori insuperabili ed un uomo che avesse seguito la riva sinistra avrebbe potuto facilmente tenersi sempre in vista della bangle e notare il luogo ove aveva imboccato il canale della palude. - E perché non ci hanno assaliti nella jungla? - Può darsi che non abbiano avuto il coraggio di farlo - rispose Sandokan. - Le mie non sono però che semplici supposizioni e potrei benissimo ingannarmi. Tuttavia apriamo bene gli occhi e teniamoci pronti a qualunque evento. Sento per istinto che dovremo lottare con un uomo fortissimo che vale dieci volte il rajah. - Quel greco? - Sì, - rispose Sandokan. - È lui il nemico pericoloso. - È vero. Senza quell'uomo Yanez avrebbe fatto a quest'ora chissà che cosa. - A me basta avere i seikki sottomano. Se il demjadar riesce a persuaderli a mettersi ai miei servigi, vedrai che pandemonio saprò scatenare io a Gauhati. - Accese il suo cibuc e si sedette sulla murata di prora, lasciando penzolare le gambe sul fiume che rumoreggiava intorno alla bangle. Il sole stava allora tramontando dietro le alte cime dei palas, quei bellissimi alberi dal tronco nodoso e massiccio, coronato da un fitto padiglione di foglie vellutate, d'un verde azzurrognolo, donde partono degli enormi grappoli fiammeggianti, dai quali si ricava una polvere color di rosa, adoperata dagli indù nelle feste di Holi. Sulle rive, numerosi contadini battevano, con un ritmo monotono, l'indaco, raccolto durante la giornata e messo a macerare entro vasti mastelli per meglio distaccare le particelle e farle precipitare più presto, avendo gli indiani un modo diverso per trattare tale materia colorante. Altri invece spingevano in acqua colossali bufali per dissetarli, guardandoli attentamente onde i coccodrilli non li afferrassero pel naso o pel muso e li tirassero sotto, cosa comunissima nei fiumi dell'India. La bangle, verso le nove, giunse in vista dei fanali che splendevano nelle vie principali della capitale dell'Assam. Stava per passare vicino all'isolotto su cui si alzava la pagoda di Karia, quando si trovò improvvisamente dinanzi ai due poluar che chiudevano il passaggio. Una voce si era subito alzata sul più vicino: - Ohe! Da dove venite e dove andate? - Lascia che risponda io, - disse Tremal-Naik a Sandokan. - Fa' pure, - rispose questi. Il bengalese alzò la voce gridando: - Veniamo da una partita di caccia. - Fatta dove? - chiese la medesima voce di prima. - Nella palude di Benar, - rispose Tremal-Naik. - Che cosa avete ucciso? - Una dozzina di coccodrilli che andremo a raccogliere domani essendo affondati. - Avete visto degli uomini in quei dintorni? - Null'altro che dei marabù e delle oche. - Passate e buona fortuna. - La bangle, che aveva rallentata la marcia, riprese la corsa a tutta forza di remi, mentre i due poluar allentavano le gomene per lasciarle il passo. - Che cosa ti ho detto? - disse Sandokan a Tremal-Naik, quando furono lontani dai due navigli. - Noi pirati abbiamo un fiuto straordinario e sentiamo i nemici a distanze incredibili. - Me ne hai dato or ora una prova, - rispose Tremal-Naik. - Che ci abbiano proprio seguìti? - Non ne dubito. - Tuttavia ce la siamo cavata benissimo. - Per la tua buona idea. - Dove sbarcheremo? - Nel centro della città. Questa notte desidero dormire nel palazzo di Surama. Forse là troveremo notizie di Yanez. Kubang non avrà mancato di fare una visita ai servi. - È quello che pensavo anch'io. Quel malese è molto intelligente. - Un gran furbo, - disse Sandokan. - Se non lo fosse non sarebbe un malese. Bah! evitata la crociera tutto andrà bene. Domani ci metteremo in cerca di Surama e prepareremo al greco od ai suoi uomini un bel tiro. Credi che nel suo palazzo abbia un chitmudgar? - Certo, Sandokan, - rispose Tremal-Naik. - Un indiano che si rispetta, deve avere una ventina di servi per lo meno ed un direttore di casa. - Che si lasci pescare da me ed il colpo sarà fatto. Non si tratta che di sapere i luoghi che frequenta. - Perché? - Lascia fare a me: ho la mia idea. Ehi, Bindar, possiamo approdare? - Sì, sahib. - Accosta la riva dunque. - La bangle in pochi colpi di remo attraversò il fiume e andò ad ancorarsi dinanzi ad un vecchio bastione che difendeva la città verso occidente. - A terra, - comandò Sandokan, dopo essersi assicurato che dietro la bastionata non vi era nessuno. - Due soli malesi rimangano a guardia della bangle. - Presero le loro armi e scesero sulla riva che era coperta da fitte macchie di nagatampo, alberi durissimi e che producono dei fiori odorosi e bellissimi, dei quali si adornano le giovani indiane. - Seguitemi, - disse Sandokan. - Giungeremo al palazzo di Surama inosservati, se non vi saranno intorno delle spie. - Che cosa temi ancora? - chiese Tremal-Naik. - Eh! Quel greco è capace di aver teso degli agguati, mio caro. In cammino amici e se vi sarà da menar le mani non fate uso che delle scimitarre. Nessun colpo di carabina o di pistola. - Sì, Tigre della Malesia - risposero i malesi. - Venite! - Si misero a costeggiare il fiume coperto da enormi tamarindi, che rendevano colla loro ombra l'oscurità più fitta; poi raggiunto il sobborgo orientale, si cacciarono fra le viuzze interne dirigendosi verso il centro della città. Essendo già molto tardi, pochissimi abitanti si trovavano per le vie e anche quelli s'affrettavano a girare al largo, scambiando probabilmente Sandokan ed i suoi uomini per soldati del rajah in cerca di qualche malvivente. La mezzanotte non doveva essere lontana quando il drappello sbucò sulla piazza dove sorgeva il palazzo, che Yanez aveva acquistato per la sua bella fidanzata. Sandokan si era arrestato lanciando un rapido sguardo a destra ed a sinistra. - Vedo due indiani fermi dinanzi al palazzo, - disse a Tremal-Naik. - Non mi sono sfuggiti, - rispose il bengalese. - Che siano due spie di quel maledetto greco? - Può darsi. Egli ha interesse a far sorvegliare il palazzo. - Cerchiamo di prenderli in mezzo. Ci faremo credere guardie del rajah intenti ad eseguire una ronda notturna. - I due indiani però, accortisi della presenza del drappello, si allontanarono rapidamente non ostante che Tremal-Naik avesse subito gridato dietro a loro: - Alt! Servizio del rajah! - Non devono essere due galantuomini, - disse Sandokan quando li vide scomparire entro una viuzza tenebrosa. - Lasciamoli andare. - Poi volgendosi verso Kammamuri continuò: - Tu resta qui di guardia coi malesi. La nostra spedizione notturna non è ancor finita e prima che sorga il sole voglio fare la conoscenza colla dimora privata di quel cane di greco. - Salì la gradinata seguìto da Tremal-Naik e da Bindar e percosse, senza troppo fracasso, la lastra di bronzo sospesa allo stipite della porta. Il guardiano notturno che vegliava nel corridoio, fu pronto ad aprire e riconoscendo in quegli uomini gli amici della sua padrona, fece un profondo inchino. - Conducimi subito dal maggiordomo, - disse Sandokan. - Sbrigati, ho fretta. - Entra nel salotto, sahib. Fra mezzo minuto ti raggiungerò. - Sandokan ed i suoi due compagni aprirono la porta ed entrarono in una elegantissima stanzetta che era ancora illuminata. Si erano appena seduti dinanzi ad uno splendido tavolino d'ebano di Ceylan filettato in oro, quando il maggiordomo del palazzo, appena coperto da un dootèe di tela gialla, si precipitava nel salotto, esclamando con voce singhiozzante: - Ah signori! Quale disgrazia. - La conosciamo, - disse Sandokan. - È inutile che tu perdi il tempo a raccontarcela. Il sahib bianco della tua signora s'è fatto vedere? - No. - Ha mandato nessuno? - Quell'uomo dalla faccia olivastra, con una lettera per la padrona. - Dammela subito. I minuti sono preziosi in questo momento. - Il maggiordomo s'avvicinò ad un cofanetto laccato con intarsi di madreperla e prese un piccolo piego, porgendolo al pirata. Questi ruppe il suggello e lesse rapidamente ciò che stava scritto dentro. - Yanez non sa ancora nulla, - disse poi a Tremal-Naik - Kubang ha conservato bene il segreto. - E poi? - Avverte Surama di non inquietarsi per lui e che il favorito guarisce rapidamente. Già tutti i bricconi hanno la pelle a prova di acciaio e di piombo. - E null'altro? - L'incarica di far sapere a noi che pel momento non corre alcun pericolo e che si è già guadagnata la stima e la confidenza del rajah. Giacché si trova benissimo alla corte e non sa che gli hanno rapito la fidanzata, lasciamolo tranquillo, operiamo da noi soli. - Poi volgendosi verso il maggiordomo che stava ritto dinanzi a lui, in attesa dei suoi ordini, gli chiese: - È avvenuto nessun altro fatto dopo il rapimento della tua padrona? - No, sahib. Ho notato però che alla sera ronzano attorno al palazzo, fino a notte tardissima, delle persone. - Ah! - esclamò Sandokan. - Si sorveglia qui. Non ne dubitavo. Hai fatto delle ricerche? - Sì, sahib e sempre infruttuose. - Hai avvertito la polizia? - Non ho osato, temendo che la padrona sia stata rapita per ordine del rajah. - Hai fatto benissimo. Tremal-Naik, Bindar, rimettiamoci in caccia. - Ed io, signore, che cosa devo fare? - chiese il maggiordomo. - Assolutamente nulla fino al nostro ritorno. Gli uomini che il sahib bianco ha lasciati a guardia di Surama sono sempre qui? - Sì. - Li avvertirai di tenersi pronti; posso aver bisogno anche di loro per rinforzar la mia scorta. Domani sera, a notte inoltrata, noi saremo qui. Addio. - Uscì dal salotto e raggiunse i suoi uomini che si erano seduti sulla gradinata. - Deponete le carabine, - disse loro. - Conservate solo le pistole e le scimitarre. Ed ora in caccia! -

Io non posso abbassarlo. - È un affare che riguarda te. Vieni Tremal-Naik: quest'uomo comincia a diventare noioso. - A cinquanta passi dalla gradinata s'alzava uno splendido lauro sotto il quale i malesi avevano stesi alcuni tappeti e collocati alcuni cuscini. Sandokan e Tremal-Naik, seguiti da Kammamuri, si diressero verso quella pianta e si sdraiarono sotto la fitta ombra accendendo le loro pipe. Il gussain non cessava di urlare come un dannato, chiedendo acqua. Il pimento cominciava a fare i suoi effetti, tanagliandogli le viscere. - All'altro ora, - disse la Tigre della Malesia. - Kammamuri va' a prendere il demjadar. - Terremo la corte di giustizia sotto quest'albero? - chiese Tremal-Naik scherzando. - Siamo più sicuri qui che nella pagoda - rispose Sandokan. - Eh non so, amico! Tu dimentichi che siamo in mezzo ad una jungla. - Finché i miei uomini battono i bambù non abbiamo nulla da temere. - Pronunceremo un'altra sentenza? - Tutto dipenderà dalla buona o cattiva volontà del prigioniero. - Kammamuri tornava in quel momento col capitano dei seikki. Era questi un bel tipo di montanaro indiano, d'una robustezza eccezionale, con una lunga barba nerissima che dava maggior risalto alla sua pelle appena abbronzata e con due occhi pieni di fuoco. Essendogli state slegate le mani, salutò militarmente Sandokan e Tremal-Naik, portando la destra sull'immenso turbante bianco colla calotta rossa ricamata in oro, che gli copriva la testa. - Siedi amico, - gli disse la Tigre della Malesia. - Tu sei un uomo di guerra e non già un gussain. - Il demjadar che conservava una calma degna d'un vero soldato, obbedì senza batter ciglio. - Io voglio sapere da te se hai preso parte al rapimento d'una principessa indiana insieme col fakiro. - Io non ho mai avuto alcun rapporto con quell'uomo, - rispose il seikko quasi con disprezzo. - Io sono mussulmano come tutti i miei compatriotti e non mi occupo dei santoni. - Dunque tu non sai nulla di quel rapimento. - È la prima volta che odo parlare di ciò. Poi io non mi occuperei di tali cose. Affrontare dei nemici sia pure; lottare con delle donne che non possono difendersi, mai! I seikki della montagna sono guerrieri. - Chi ti ha incaricato di assalirci? - Il rajah. - Chi aveva detto a S. Altezza che noi abitavamo nella pagoda sotterranea? - Io sono abituato a obbedire alle persone che mi pagano e non di chiedere i loro affari, - rispose il seikko. - Quanto ti dà il rajah all'anno? - Duecento rupie. - Se vi fosse un uomo che te ne offrisse mille, lasceresti il rajah? - Gli occhi del demjadar lampeggiarono. - Pensaci, - disse Sandokan, a cui non era sfuggito quel lampo che tradiva una intensa cupidigia. - Mi risponderai su ciò più tardi. Ora voglio sapere altre cose. - Parla, sahib. - Sei tu che comandi la guardia reale? - Sì, sono io. - Di quanti uomini si compone? - Di quattrocento. - Tutti valorosi? - Un sorriso quasi di disprezzo spuntò sulle labbra del demjadar. - I seikki della montagna sanno morire bene e non contano i loro nemici, - disse poi. - Quanto ricevono i tuoi uomini dopo un anno di servizio? - Cinquanta rupie. - Che cosa hai pensato dell'offerta che ti ho fatta? - Il demjadar non rispose: pareva facesse qualche calcolo difficile. - Sbrigati, non ho tempo da perdere, - disse Sandokan. - Il rajah del Mysore ed il guicovar di Baroda, che sono i più generosi principi dell'India, non mi darebbero tanto, - rispose finalmente il seikko. - Sicché tu accetteresti per una tale somma di lasciare il rajah dell'Assam e di passare sotto altre persone? - Sì, purché paghino. Noi siamo mercenari. - Anche se quella persona si servisse di te e dei tuoi uomini per dare addosso al rajah dell'Assam? - Il demjadar alzò le spalle. - Io non sono un assamese, - rispose poi. - La mia patria è sulle montagne. - Risponderesti della fedeltà dei tuoi uomini se si offrissero a loro duecento rupie per ciascuno? - Sì, sahib, assolutamente - rispose il demjadar. - Tutti quei montanari li ho arruolati io e non obbediscono che a me. - Ti farò versare oggi un acconto di cinquecento rupie, ma per ora tu non devi lasciare il mio campo e non cesserà la sorveglianza intorno a te. - Non sarebbe necessaria perché tu hai la mia parola, però fa' come vuoi. È meglio non fidarsi, ed io al tuo posto farei altrettanto. - Ora puoi andartene: devo occuparmi del fakiro. Kammamuri! - chiamò poi; il maharatto che stava accoccolato dinanzi a Tantia ascoltando, impassibile alle urla feroci che mandava il disgraziato, fu lesto ad accorrere. - A che punto siamo? - gli chiese Sandokan, mentre il demjadar si allontanava. - Il gussain non può più resistere: è idrofobo. - Andiamo a vedere se si decide a parlare. Vieni Tremal-Naik: noi non avremo perduta la nostra giornata. - Comincio a sperare che la corona di Surama non sia lontana, - disse il bengalese. - Anch'io, amico: ormai non è più che una questione di pazienza. -

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