Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Documenti umani

244705
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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"Se l'ora dell'angoscia scocca per voi, se l'unghia del dolore vi lacera le carni; ecco ogni ardire si fiacca, la viltà vostra vi fa abbassare la fronte e piegare i ginocchi; allora, allora soltanto voi tendete le mani congiunte ad un cielo prima schivato.... Cessi il dolore, scomparisca il pericolo, lo scettico o l'indifferente sorriso errerà nei vostri sguardi. "O ciechi affidamenti! o folli aberrazioni! Dal primo istante di vita, voi portate il vostro proprio lutto; fin dalla culla i vostri piedi stanno sulle soglie della morte. Il tempo v'inghiotte istante per istante; come le goccie d'acqua della clepsidra i vostri giorni se ne vanno l'un dopo l'altro; invano tentereste di arrestarne uno solo, voi potete soltanto contarli - e quando essi saranno tutti trascorsi, saranno fatti eguali all'attimo alato. Voi chiederete appena: Qual'ora è? - e la voce dell'Ignoto risponderà: L'Eternità.... "O uomini, o miei fratelli, mettete la vostra mano nella mia. Essa è scarna e tremante; nondimeno non chiede un appoggio. Io voglio guidarvi, io voglio farvi mirare uno spettacolo nuovo. "Nella solitudine nuda, quando nessuna cosa attrae l'occhio sulla terra, gli sguardi amano errare per le plaghe del cielo. Le nuvole vagabonde v'intrecciano i loro corsi: ed ecco in quelle forme ed in quelle colorazioni sono tutte le imagini del mondo. Tal fiocco leggiero naviga tranquillamente nell'azzurro, come nave cui sieno propizie le onde; tali plumbei ammassi spumosi sono un mare flagellato dalla tempesta. All'alba, piccole forme dorate, come alati messaggieri, dispiegansi alla luce saliente; al tramonto, fosche vampe si slanciano dall'occidente, si perdono in una caligine densa, come se l'orbe s'incendiasse. E sono ancora candori abbaglianti, come di campi nevosi, come di giogaie iperboree; e sono ancora immense fuliggini, come tediose tele di ragni colossali; e sono ancora monti di porpora e d'oro, miserabili cenci sdruciti, scaglie opaline di madreperla, ghirlande di rose, mucchi di sassi. Sorgono dall'ampia cerchia dell'orizzonte mutevoli forme; linee ondulate di lenitane colline, picchi superbi, rocche munite; aerei ponti si slanciano arditi, lunghi fiumi serpeggiano, isole e continenti si formano. Non reclinereste voi la stanca testa su quel morbido, voluttuoso guanciale? Qual pastore guida quell'armento sterminato? Di che sangue è tinta quell'immensa spada gocciolante?... Cozzano formidabili Titani, gonfi d'odio e di livore; s'intrecciano ali leggere che l'amore sospinge.... E tutto questo è un po' di vapore, un soffio: i monti s'adeguano, le rocche crollano, le rose si sfrondano, le spade si spezzano; tutto svanisce e tutto ricomincia.... Simigliante è lo spettacolo della vita; nel mare dell'essere tutto è soffio, è parvenza.... "Anch'io, anch'io misi un gran prezzo a tutto ciò che vi preme di più, anch'io amai e odiai, anch'io sognai la potenza e la gloria. Un po' del mio cuore è rimasto da per tutto lungo la strada, e la mia memoria è popolata e rumorosa come un alveare.... Dov'è la casa che mi vide nascere, il tetto che riparò la mia culla, il focolare intorno al quale il mio spirito cominciava a destarsi, sognando di fantasmi e di eroi? Distrutta, lontano! Dove sono i fiori che l'amore falciava nella stagione felice? Appassiti, dispersi.... O lacrime invano versate! O più vani sorrisi! Che cosa avanza di tante energie? Delle rughe sulla mia fronte, che in breve spariranno con me.... "Come nel profondo silenzio i suoni più flebili acquistano una straordinaria intensità: l'aliare di un insetto, il cader d'una fronda; così all'occhio di chi vede la morte vicina le cose più trascurate hanno sole un alto valore. Non più gl'interessi che si chiamano grandi, non più le passioni che si dicono forti hanno seduzioni per me. Savio era Lemminkainen, l'eroe che, partito ad espugnar la Pojola, vinto a mezza via dalla noia, dalla paura e dal dolore, si fabbricò un nero cavallo fatto di fastidii, con una briglia composta di giorni tristi ed una sella d'angosce, e se ne tornò presso la madre. La madre è la natura, e sono le sue semplici vicende, il nascere e il morire del giorno, il germogliare e l'appassire del verde, le cangianti voci del vento e del mare, le sinfonie delle colorazioni, l'accendersi e lo sfolgorare degli sguardi astrali che lo spirito mio ansioso segue. "Interrogate, o voi cui morde l'enimma, questa infinita natura, sempre varia ed identica sempre: forse intorno a voi purissime essenze aleggiano irrequiete, dolenti della vostra trascuranza; forse in ogni atomo vibra una vita che vuol esser compresa. "Interrogate, interrogate la storia, chiedete ad ogni religione la sua filosofia, aspirate ad un olimpo, ad un nirvâna, ad un paradiso. Mille risposte si son date all'enimma, e chi sarà tanto ardito da dire: Io solo sono nel vero? "Qualcuno esiste. "Qualunque sia il nome dato alla sovrana potenza, essa permane, eternamente immutabile. Microscopici insetti annaspanti sopra un grano di miglio, noi siamo nella sua piena balia. Un soffio ci disperde, un turbine travolge col nostro miriadi di mondi, di su, di giù, per gli spazii infiniti.... La notte è formidabile; nell'oscurità formicolante di astri uno sguardo pertinace, inflessibile, sembra pesar su di noi. "Ma, ignoranti, noi abbiamo una grande scienza; deboli, disponiamo d'una forza grandissima. Essa è la Preghiera. Che importa la natura e la forma del Dio, se possiamo intrattenerci con lui, se possiamo fargli l'olocausto dell'anima? "La Preghiera è divina: la Parola che s'innalza al trono di Dio partecipa della sua divinità. Nel cielo di Brahma essa si confonde con lui. - Io son la regina, canta negli inni del Rik; io porto Mitra, Indra, Agni, gli dei Asvini e gli altri tutti. Per mezzo degli Dei io sono presente in tutte le cose e penetro tutte le cose. "Che cosa sarebbe rinunziare al mondo, mortificarsi, vestire di cenci cuciti insieme raccattati nei cimiteri o fra le immondizie, vivere di elemosine non chieste, soffocare ogni istinto, per amore dell'eterna salute?... Ebbene basterà che preghiate. In ginocchio, pregate! Pregate per voi e pei vostri fratelli, pei morti e pei nascituri!. La preghiera sarà la colonna di vapore e di fuoco che vi guiderà giorno e notte; sarà il Sinai sul quale la Legge vi verrà rivelata.... Siate umili, fatevi più piccoli ancora di quel che non siete; accettate ciò che è, benedite le gioie ed i dolori; soffrite la vita, adorate la mano che vi accarezza e che vi flagella. E le vostre inquietudini svaniranno, voi sarete affrancati dai vostri terrori. Venga ora la morte, essa non avrà virtù di turbarvi; sereni voi vi chinerete sulla faccia dell'abisso.... "Bestemmiate ancora, ribellatevi se vi credete zimbello d'uno stolto potere, se stimate che vi fu data una vista illusoria poichè la verità è stata inescrutabilmente nascosta! La bestemmia è una preghiera al rovescio, ribellarsi è un modo di credere, l'angelo caduto ha anch'esso la sua grandezza, e tutto, tutto è preferibile alla limacciosa indifferenza dove s'impantanano le anime vostre.... "Guai a voi che nessuna cura del futuro non morde! Guai, guai al secolo che non scruta il problema dei destini! Quando l'ora fatale sarà scoccata, quando voi sarete per naufragare nel mare dell'immensità, non sarà il vostro orgoglio, non sarà la vostra potenza terrena, non saranno i vostri vani piaceri che vi daranno soccorso! Nel commercio della vita, nel cozzo delle passioni, non saranno essi che vi additeranno la diritta via! "Ascoltatemi ancora; io voglio dirvi ciò che orecchio umano non ha ancora saputo; voglio confessarmi a voi, tutto. Come potrei aspirare ad essere seguito, se fossi sospettato di non esser sincero?... Ascoltate: io peccai. Sollecitato da brame violente, assicuratomi della umana impunità, col tradimento più nero, io armai la mia mano. Odo ancora gemiti del caduto, fuggo ancora nella notte tremenda.... Ed era come se le mura, gli alberi, i monti, tutta la terra si rovesciasse dietro di me, perseguitandomi. La fuga era inutile; nessuno m'inseguiva, nessuno mi aveva scorto. Io portavo fra gli uomini la mia fronte alta e serena, la mia mano era ancora stretta dalle mani leali. Solo io leggevo un'accusa in ogni sguardo, in ogni parola, in tutte le cose; un'accusa sorda, implacabile.... Non era un'allucinazione della mente turbata? Tutto procedeva come di consueto, e nessuno mi rimproverava nulla. "Internamente, il rimorso mi assiderava; io mi chiedevo tremante: qual gastigo mi è riserbato? e stavo sempre nell'attesa di mali terribili, delle più spaventose miserie del corpo e dello spirito.... Il gastigo non veniva, la vita scorreva egualmente, con le stesse vicende. "Io mi chiedevo ancora, con più profondo terrore: Sarà forse la morte che mi colpirà, presto, prima che io abbia compita la mia carriera?... Ed io l'aspettavo da un momento all'altro; un triste sorriso m'increspava le labbra quando mi si parlava del domani. E la morte veniva; ma invece di colpir me, si abbatteva intorno a me, mi isolava in un cimitero sempre più vasto. Vecchi, giovani e piccoli, tutti se ne andavano: io solo persistevo, che avrei dovuto pagare pel primo; persistevo a misurare l'orrore dell'inutile colpa, la malvagità della speme bugiarda, il precipizio della nostra miseria; persistevo a misurare la terribilità del gastigo e la giustizia sovrana che l'infliggeva; invocando come una liberazione la morte temuta, ansioso di entrare finalmente nel Vero.... "Come me, voi tutti siete colpevoli; il giusto pecca sette volte il giorno; nessuno di voi è senza peccato! Nel profondo della vostra coscienza, inconfessata a voi stessi, è la storia delle vostre colpe; e che importa che esse non sieno state materialmente compiute, se esse sono state pensate? Il pensiero è infame.... Come me, voi tutti avete bisogno di redenzione!... "Io so la vostra risposta, io so la derisione di cui mi fate oggetto, per lo smarrimento in cui credete che il rimorso e l'età abbiano gettato la mia mente.... Siete voi, ciechi, stolti, miserabili, che mi fate pietà; è per voi, per riscattarvi, che io vorrei dare il poco sangue che ancora mi resta, che io vorrei salire un calvario e spirar sulla croce, se dall'alto d'una croce la mia parola fosse ascoltata. "Nessuno mi ascolta. La solitudine ed il silenzio mi circondano, il vento dell'oblìo disperde le mie parole, come il turbine del tempo disperde via l'un dopo l'altro i giorni irrevocabili...."

Il drago. Novelle, raccontini ed altri scritti per fanciulli

246540
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1895
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
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Non poteva vederselo davanti, ritto in piedi, con quella tuba in testa che toccava la volta della camera, e il collo incastrato nell'alto colletto che non gli permetteva di abbassare il capo. — Sedete, dottore ! Temeva che la sua voce di malato non riuscisse ad arrivare fino a lassù, sotto la tuba, e penetrargli dentro gli orecchi sempre turati con la bambagia. — Voialtre, andate di là, — soggiunse per allontanare le bambine. E appena esse furono uscite di camera, si mise a singhiozzare. — Dottore, ditemi la verità! Per quelle creature, che non voglio lasciare in mezzo a una via, ditemi la verità ! — Certe cose, caro don Paolo, — rispose il dottore, tirandosi le punte del colletto, — non bisogna mai rimandarle proprio agli estremi momenti, quando la testa non ci regge più! Così anche per le cose della santa Chiesa. — Dunque sono spacciato ? — Non esageriamo caro don Paolo !... Ecco qui un calmante per la tosse; una cucchiaiata all'ora; poi penseremo alla febbre... Niente di grave. — La mia sentenza di morte! — pensava don Paolo, seguendo con gli occhi la mano che scriveva la ricetta sul ginocchio della gamba accavalcata all'altra. E prima che il dottore andasse via, egli lo pregò di mandargli il notaio Miani, pel testamento; erano a uscio e bottega, non sarebbe stato troppo incomodo per lui. Il dottor Cipolla, che s'interessava molto anche della salute dell'anima dei suoi clienti, dopo il notaio, s'affrettò a mandargli pure suo compare, il canonico. Ma don Paolo, che aveva dovuto fare un bello sforzo per vincere l'idea di malaugurio del testamento, quando vide entrare il canonico, non potè frenarsi : — Venite a portarmi la jettatura anche voi ? Lasciatemi in pace! — Sono venuto per una visita, si scusava il canonico. Don Paolo però seguitava a strillare: — No, compare; se mi confesso muoio ! — Siete cristiano, si o no ? — Cristianissimo; ma se mi confesso e prendo il viatico, muoio! — Le cose sante sono la miglior medicina, compare. — Ma se non debbo morire... E non voleva morire, almeno questa volta. E ragionava, a modo suo, parlando a stento, fra un colpo di tosse e l'altro, per convincere il canonico, che si frenava a stento per non ridere. Come? Sono andato alla messa di Natale per devozione, ci ho condotto anche le bambine, e il Signore, in ricompensa, mi farebbe morire? Non è possibile. Dio è giusto. Non può mandarmi all'inferno; non ho rubato, non ha ammazzato, non ho calunniato; ho fatto anzi un' opera di carità da meritarmi il paradiso... — Questo non dovreste dirlo voi, — lo interruppe il canonico. — Se il Signore si avvede che mi son confessato e comunicato, dice: — Quel povero don Paolo portiamolo in paradiso, è meglio, giacchè ora si trova in grazia nostra !... — No, Signore benedetto ! lasciatemi star qui... Non vedete che queste orfanelle hanno soltanto me, e che se muoio io, le spogliano, le riducono alla miseria con tutto il bel testamento che ho fatto? Lasciatemi quaggiù un altro pochino! — Il signore sa bene quel che deve fare, non ha bisogno dei vostri consigli !... — Non lo consiglio, lo prego! E dovreste pregarlo anche voi nella santa messa ! Io dico : Il Signore, non vuol farmi dannare. Ebbene, se muoio non confessato, mi danno... Dunque mi dia la salute del corpo, non per me, per le orfanelle... E per ciò non mi confesso, no, no, no ! Potete andarvene, compare canonico ! Il canonico, dalle risa, era passato alla commozione per tanta ingenuità, che infine significava profondissima fede in Dio ; e non insistette, anche per non turbare il malato, che non gli sembrava così grave come il dottor Cipolla gli aveva detto. — Riposatevi; avete chiacchierato troppo ! Infatti, calmatasi l'eccitazione, Don Paolo era ricaduto, ansimante, con la testa sui guanciali, la bocca aperta e gli occhi chiusi. Le orfanelle lo guardavano atterrite, senza osare di accostarsi al letto, interrogandosi con cenni: — Che dobbiamo fare? Non dovettero far altro che preparare qualche scottatura di tiglio, di cammomilla, e poi ottimi brodi di pollo durante la convalescenza. La quale, contro ogni previsione del dottore, fu così rapida, che una mattina in cui egli credeva di trovare il malato ancora a letto in attesa del permesso di alzarsi per qualche ora, lo trovò invece in cucina davanti a un fornello, mentre Giovanna grattava il cado, e Lisa sbatteva in un piatto le uova per una magnifica frittata, e lui minuzzava un po' di prezzemolo e di cipolla da servire pel condimento. Il dottore, che appunto tornava dalla casa di un cliente morto pochi minuti prima senza permesso di lui, ed era rimasto male davanti ai parenti in lagrime e che quasi l'accusavano di aver ammazzato il malato, visto don Paolo in atto di fare il cuoco, s'era messo a ridere e s'era sentito venire l'acquolina in bocca all'odore. — Ah, voi fate venir in casa il medico per invitarlo a colazione ! — Se volete favorire, — aveva risposto don Paolo, sorridendo. Ma per levarselo di torno subito, gli aveva messo in mano una carta da dieci lire, pagamento delle visite. Non voleva conti in sospeso con nessuno, col medico soprattutti : certa gente è meglio tenerla lontana quanto più si può. — Staremo un bel pezzo prima di rivederci, caro dottore ! — gli disse su l'uscio, allegro, quasi avesse in tasca il contratto con Domineddio, di dover campare un secolo o poco meno. E fu proprio così. ***

Pagina 40

La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247405
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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L'avvicinarsi alla sua casa, a tutti coloro che la conoscevano, le dava un tormento interiore che le faceva abbassare il capo sul petto. Aveva così poca fierezza ella! In piazza della Pignasecca, sulla soglia della ricca ed elegante farmacia del Caprio, il cavaliere Gabriele Scognamiglio era sulla porta, mentre un suo commesso inaffiava la via innanzi a lui. Il cavaliere stava sempre, dalle cinque alle otto, in farmacia, geloso dei suoi interessi, in fondo, sapendo bene dividere le ore dello svago da quelle del lavoro. - Oh donna Carmelina bella! - egli esclamò giocondamente - donde venite? - Dalla pruova, cavaliere - disse lei, fermandosi per cortesia. - Va presto, il Rolla, alle Varietà, cara carina? - Va sabato prossimo; fra tre giorni. - Verrò ad applaudirvi. Anzi, vi manderò dei fiori. Siete di prima fila alle Varietà? - Sì, sono guida di prima fila - mormorò ella, a occhi bassi. - Caspita, che avanzamento! - Sono teatro di estate, le Varietà: le buone ballerine mancano e allora... - No, non dite questo. Io verrò ad applaudirvi e vi manderò dei fiori. Non dirà nulla, Gargiulo? - ...No - rispose ella, dopo un momento di esitazione. Egli la guardò meglio: la squadrò, coi suoi occhietti vivi e maliziosi di uomo che capisce tutto, da una pausa, dalla velatura di una voce. - Che avete, donna Carmelina? siete malata? - No, grazie, sto benissimo, cavaliere. - Roberto Gargiulo vi ha lasciata - disse lui, crudamente. - Come lo sapete? - balbettò la poveretta, guardandolo con occhi persi. - Come se me lo avesse detto lui, Carmelina. Non poteva essere diversamente. - ...Già - sussurrò lei, a voce fioca. - Non vi disperate troppo, mia bella ragazza. - Le lagrime guastano la faccia e rovinano lo stomaco. - Io non ho pianto, cavaliere. Egli la scrutò bene: e le chiese, subito: - Dunque, non gli volevate bene? - ...No, cavaliere - rispose ella, voltandosi in - Neppure, lui, allora, ve ne voleva? - Lui, niente - ella replicò. - E allora... perchè? - Perchè?... e chi lo sa?... non si sa, il perchè. Buongiorno, cavaliere. - Ve ne andate? Restate. Ricordate che vi dissi, alla Regina d'Italia! Il vostro don Gabriele è qui, per voi. Siete una cara ragazza, io vi voglio molto bene, mi piacete assai; sono contento, in fondo, che vi siate liberata da quell'egoistaccio di Roberto. - Buongiorno, buongiorno, cavaliere - diss'ella, volendosene andare, non sopportando di udire quelle parole, ascoltandole per gentilezza e soffrendone molto. - Vi vengo a prendere questa sera. Andiamo a cena insieme? Non volete? Perchè non volete? Sono un galantuomo, sono un signore; vedrete subito la differenza con quel commesso! Non volete, siete ancora triste, eh? Andate a chiudervi in casa, un poco? Bene, bene, aspetterò, don Gabriele è un uomo paziente. Cara ragazza, non perdete tutta questa fortuna, non capita ogni giorno! E se ne rientrò in farmacia, indispettito in fondo, ma sereno nell'aspetto. La sera della prima rappresentazione del Rolla, il bel teatro estivo delle Varietà era gremito di una folla quasi simile, nella composizione, a quella che frequenta, nell'inverno, il teatro San Carlo, poichè la gente elegante napoletana lascia Napoli solo alla metà di luglio: nelle prime file di poltrone erano i soliti frequentatori del Massimo, fra cui don Gabriele Scognamiglio, e la corte che egli faceva a Carmela Minino era così evidente, i suoi bravo, Carmela! così udibili da tutta la fila, i fiori, che le aveva mandato nelle quinte, così olezzanti, che la ballerina ancora tutta triste dell'abbandono di Roberto si sentiva imbarazzata, confusa. Le compagne che l'avevano derisa per tre giorni, ora, la invidiavano, poichè, per quasi tutte loro, don Gabriele Scognamiglio rappresentava il tipo perfetto dell'amante di una ballerina, vecchio, ricco, donnaiuolo, generoso, occupato in molte ore della giornata, facile a ingannare: le sorelle Musto, scritturate anche esse, in prima fila, la tiravano in tutti gli angoli del palcoscenico, per dirle di non fare la imbecille, di non perdere questa magnifica occasione, di fare quattro giorni di buona vita, di accumulare un po' di denaro, almeno, per i tempi cattivi. E don Gabriele non era, anche, un simpaticissimo uomo, ben vestito, profumato? Carmela, stordita, confusa, crollava il capo, dicendo no, fiocamente, decisa a rifiutare, ma non sapendo farlo sgarbatamente. Così, solo per disimpegno, dichiarandoglielo, anzi, accettò di cenare, quella sera, con lui, al restaurantStarita, in Santa Lucia nova. Il restaurant Starita è collocato sulla penisoletta fra terra e mare, che è attaccata al forte Ovo: penisoletta circondata dal mare, in un piccolo porto artificiale, dove si ancorano piccoli yacht, piccoli cutters e le yoles dei due Circoli di canottieri, che sorgono dirimpetto. Colà sono delle case che furono fatte, in inizio, per albergare i marinai della vecchia strada di Santa Lucia, che è tutta in rifazione, da dieci anni; anzi, quelle poche case, a un piano, prendono il nome di Borgo Marinai. Però, veramente, marinai non ce ne sono ancora, poichè essi abitano sempre Santa Lucia vecchia, immobile sotto la lentezza della sua trasformazione: e la modicità delle pigioni di quel borgo vi ha indotto delle piccole famiglie di infima borghesia, vi ha indotto dei pittori poveri, e quasi tutti coloro che sono impiegati, in estate, al grande stabilimento di bagni Eldorado, con relativo cafè-chantant. La banchina di terrapieno, colà, fa un gomito lungo e sui due lati di questo gomito sono sorte tre o quattro trattorie, in piena aria, con le loro tavole imbandite sotto le tende, dietro alcune leggiere balaustre di legno dipinto, coi lumi che si riflettono nel mare, che è a un paio di metri di distanza. Ivi, di estate, con la vicinanza dell'Eldorado, delle Varietà, vi sono sempre persone che pranzano, che cenano, prima dello spettacolo e dopo lo spettacolo: alle famiglie borghesi si mescolano delle coppie d'innamorati; delle chanteuses, delle ballerine, delle equilibriste, delle mime, vi appaiono, in lieta compagnia. Due o tre di quelle trattorie sono più modeste, più volgari e vi va gente minuta: il restaurant Starita ne rappresenta l'aristocrazia. Si sta sul mare, al fresco, di sera: sotto le chiglie dei yacht, dei cutters ammassati si vede scintillare l'acqua bruna del piccolo porto, chiuso dalla scogliera; sulla via del Chiatamone brillano i lumi dei grandi alberghi Royal e Vésuve, passano equipaggi continuamente: alle spalle, il forte Ovo dirizza la sua singolar linea di castello tragico. Si mangiano delle zuppe di pesce, delle fritture di pesce, come al lontano Posillipo che tutti trascurano, oramai, poichè ci vogliono tre quarti d'ora per arrivarvi, e Santa Lucia nova è nel centro della città; si paga molto caro, ma è così bello, sul mare, nelle sere di estate, a un passo dal centro, sotto gli occhi di tutti gli uomini chic, scapoli specialmente, o mariti le cui mogli sono già partite per la villeggiatura, guardando tutte le bellezze vere o artifiziose che si agitano nel mondo del piacere, in estate, a Napoli! In verità, quella sera, don Gabriele Scognamiglio ebbe un tatto squisito per non impaurire Carmela Minino. Gli bastava, infine, a lui, per cominciare, che la ragazza avesse accettato di venire a cena con lui, al restaurant Starita, in un posto dove tutti quanti li avrebbero visti; non voleva altro, per allora. Egli non era innamorato di Carmela, giacchè, alla sua età, egli lo dichiarava, non si sentiva tanto stupido da innamorarsi di una donna qualsiasi, più giovane o meno giovane: forse, in tutta la sua vita, non era stato innamorato mai, sentendo, nel suo egoismo, che un tale sentimento, in tutta la sua esplicazione e in tutta la sua forza, avrebbe turbato la sua linea di condotta, dedita solo alla gioia. La ragazza gli piaceva, da più tempo, malgrado che non fosse nè bella, nè aggraziata, nè elegante: era giovine, era nuova, diceva lui, non aveva tutte le perfidie e le perversità di chi ha già troppo precocemente vissuto, e ciò gli bastava, a don Gabriele Scognamiglio. Non era una gran conquista, tanto più che vi era stato un altro prima di lui: ma, a circa sessant'anni, il gaudente farmacista sapeva contentarsi, e, quasi, quasi era contento di poter succedere a Roberto Gargiulo, senza preoccupazioni, senza rimorsi. Carmela Minino glielo aveva preferito: era troppo filosofo per seccarsi, quando le donne gli preferivano un giovane. E ora raccoglieva quella povera anima afflitta e abbandonata, la trattava con gentilezza, non le parlava d'amore, sapendo bene il modo come vanno prese le donne, esseri capricciosi, malati e incomprensibili: non incomprensibili a chi, da quarant'anni, non si occupava che di loro. Le camminava accanto, per la via del Chiatamone, senza darle il braccio, cercando di farla ridere con le sue barzellette, raccontandole qualche aneddoto spiritoso, narrandole qualche avventura di viaggio. Don Gabriele Scognamiglio presiedeva ai suoi affari, in farmacia, per dieci mesi dell'anno: ma due mesi, in primavera o in autunno, li consacrava ai viaggi all'estero, dove vi era grande vita e belle donne, o donne, senz'altro, ma donne diverse, donne varie. Più spesso andava a Parigi, anzi, malgrado la sua professione, malgrado i contatti delle sue giornate di lavoro e delle sue notti napoletane, era un parlatore di francese perfetto. Nel discorso, quando furono nella viottola che porta al forte Ovo, egli disse: - Carmelina, vi voglio portare a Parigi. Ella abbozzò un assai smorto sorriso. Sapeva che don Gabriele le diceva quello per solo atto di galanteria: ed ella, per buona educazione, non lo interrompeva. Malgrado fosse tardi, il restaurant Starita era pieno: i suoi lumi piovevano luce su tavole dove cenavano i Napoletani, a gruppi di tre, di quattro, di cinque, con un affaccendarsi di camerieri, che non bastavano alle richieste. - Vi piace, qui, Carmelina? - Sì, è bello - ella disse, guardando la città, il mare e il Vesuvio, macchinalmente. Trovarono un tavolino piccolo, per due, accanto a una tavola imbandita per otto persone, coperta di piattini di antipasto, da trionfi di frutta e da due mazzi di fiori, ma vuota. Era fissata la grande tavola, per una cena, dalla mattina. I commensali sarebbero arrivati fra un quarto d'ora: e il cameriere, che don Gabriele interrogava, sempre curioso, ne nominò qualcuno. - Il conte di Sanframondi, don Ferdinando Terzi, il conte Althan... - Tutti amici, tutte conoscenze... - approvava il farmacista gaudente, felice - di esser vicino a quella cena. Carmela Minino lo guardò con certi occhi supplici e smarriti; ora provava un imperioso bisogno di andarsene: ma non aveva il coraggio di dirlo al suo compagno. Fuggire, dove? Che avrebbe pensato, don Gabriele Scognamiglio? Che ella era una malcreata, una pazza. Come dirgli? Che cosa dirgli? E perchè fuggire? Là, o in altro posto, non era la medesima cosa? Trangugiando delle rade lacrime ardenti, che le erano salite agli occhi, ella restò al suo posto, sulle spine, rispondendo come meglio poteva a don Gabriele Scognamiglio, che le chiedeva che volesse da cena, tutta rigida nel suo vestitino di seta bianco e nero, il solo buono che possedesse, un po' terrea sotto un cappellino di velo celeste che la modista le aveva voluto fare assolutamente e che le stava abbastanza male. Così vicina, quell'altra tavola! E, infatti, dopo poco tempo, con un gran rumore di voci, di risate femminili giunsero le quattro coppie, Emilia Tromba, Concetta Giura, la chanteuse spagnuola Mariquita che cantava e ballava all'Eldorado, la mima Alina Bell che agiva nel ballo Rolla alle Varietà. Si sedettero, con gran fracasso di sedie, accanto ai quattro gentiluomini che le accompagnavano in silenzio. Carmela Minino non vedeva Concetta Giura ed Emilia Tromba dalla primavera, dalla fine della stagione di San Carlo: le due ballerine si davano il lusso di non ballare in estate. E malgrado si dicesse che Sanframondi non ne poteva più di Concetta, che Ferdinando Terzi tenesse Emilia Tromba solo per rimedio, oramai, ai sospetti di un marito geloso, i due continuavano a portare in giro le loro amanti, a pagar loro da cena. Ferdinando Terzi, nel sedersi, capitò dirimpetto a Carmela Minino. Nulla era mutato in lui: con una bottoniera di garofani bianchi allo smoking, egli era sempre il bel gentiluomo dai fini mustacchi biondi, rialzati mollemente sopra una bocca rossa e sensuale, che non sorrideva mai, dal profilo nobilissimo ma così rigorosamente aquilino che pareva tagliato col coltello, dagli occhi azzurro pallidi, freddissimi, altieri, glaciali. Per un istante li fissò sovra Carmela. Poi si curvò ad Emilia, facendole in due parole, una domanda. Carmela comprese subito che s'informava di lei, di quel posto e di quella compagnia in cui ella si trovava: e comprese anche, che, ridendo, in poche parole, Emilia Tromba gli narrava la sua caduta. Guardava Carmela intensamente e dal modo sprezzante delle labbra di Ferdinando Terzi, ella intese, sentì magicamente le due parole: - Che sciocca! Carmela guardò, nell'ombra, la città, il mare, la montagna ardente, senza vederli: e pensò che tutto, tutto era inutile.

Pagina 66

Saper vivere. Norme di buona creanza

248706
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1923
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
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L'uomo perfettamente bene educato deve prestare il suo giornale, il suo orario, il romanzo che legge, alla prima richiesta di un compagno o di una compagna di viaggio: deve sempre sapere il nome della stazione, in cui si arriva: deve sempre aprire o chiudere lo sportello, sollevare o abbassare le tendine, chiamare il conduttore, il facchino, parlamentare col capostazione. L'uomo perfettamente bene educato, in barca, in omnibus, in carrozza, in ascensore, in automobile, in cima a una torre, in fondo a una cripta, deve sempre eclissarsi innanzi alle signore, lasciando loro il miglior posto, o guidandole, scortandole, proteggendole. Egli, in albergo, non fa chiasso, non canta, non ride, non urta nei mobili, non batte alle porte, non suona a distesa: in ascensore, sta sempre col cappello in mano, se vi è qualche signora; a table d'hôte viene in frack o in smoking, sempre a tempo; si serve modestamente, non mangia molto, non si ciba, ma gusta il pranzo; non si mette a fumare, prima di arrivare al fumoir; non sequestra i giornali nel salon de lecture; non legge quello che scrive la sua vicina nella salle d'écriture. L'uomo perfettamente bene educato, nei teatri, nei café - chantant, nei musei, nelle gallerie, non toglie la visuale a nessuno e se la lascia togliere, senza mormorare. L'uomo perfettamente bene educato, in viaggio, è una vittima: ma ha qualche consolazione. Talvolta, egli incontra una compagna di viaggio che, stupita di trovarsi con un uomo bene educato, dopo aver incontrato tutti uomini male educati, s'innamora perdutamente di lui.

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Dramm intimi

249966
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1884
  • Casa Editrice A. Sommaruga e C.
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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Perché la fatalità facesse abbassare quello teste alte e fiere, bisognava che le avesse messo per la prima volta di fronte a un fatto che rovesciava bruscamente tutta la loro logica o no mostrava la falsità. La rivelazione della contessa aveva sbalordito Danei; ora ripensandoci ne era spaventato; e in quel contrasto d'affetti e di doveri combattentisi sotto il riserbo imposto ad entrambi dalla rispettiva posizione che li rendeva più difficili, si trovava imbarazzato. Parlò di loro due, del passato, dell'avvenire che gli faceva paura, cercando le frasi e le parole per scivolare fra tanti argomenti scabrosi, per non urtare o ferire alcuno di quei sentimenti così delicati e complessi. — Pensateci bene, Anna! a! Questo matrimonio è impossibile! Ella non sapeva che dire. Balbettava solo: — Mia figlia! mia figlia! — Ebbene... Volete che parta?... che mi allontani per sempre?... Sapete qual sacrifizio io farei!... Ebbene, lo volete? — Ella ne morrebbe. Roberto esitò, prima d'affrontare l'ultimo argomento. Poi mormorò, abbassando la voce: —Allora..... allora non resta che confessarle ogni cosa.... La madre s'irrigidì in una contrazione nervosa, con le dita increspate sul bracciuolo della poltrona. E rispose con voce sorda, chinando il capo: — Lo sa!... Lo sospetta!... — E nondimeno?.... — ripreso Danei dopo un breve silenzio. — Ne sarebbe morta.... Lo ho fatto credere che s'ingannava. — E lo ha creduto? — Oh! — esclamò la contessa con un triste sorriso.— L'amore è credulo... Lo ha creduto! — E voi? — chiese Roberto con un tremito che non potè dissimulare nella voce. — Io ho già tutto sacrificato a mia figlia. Poi gli stese la mano, e soggiunse: — Sentite com'è calma? — Siete corta che sarà sempre così calma? Ella rispose: — Sempre! E sentì freddo sulla nuca, alla radice dei capelli. Si alzò vacillante, e si strinse il capo di lui sul petto. — Ascoltate, Roberto, ora è vostra madre che vi abbraccia! Anna é morta. Pensate a mia figlia! Amatela per me o per lei. Ella è pura e bella come un angelo. La felicità, la farà rifiorire. Voi l'amerete come non avete mai amato... Dimenticherete ogni cosa... siate tranquillo!... Roberto era pallido.*

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