Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

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Perodi, Emma 1 occorrenze

A un tratto s'accorse che il cavaliere col serpente sull'elmo non le levava gli occhi da dosso, anzi, quando anche non voleva, era costretta da quello sguardo ad accostarsi a lui e ad abbassare gli occhi. Un po' per la minaccia del padre e il timore d'essere rinchiusa per tutta la vita nella torre, un po' per quello sguardo affascinante che pareva le comandasse : " Devi scegliere me! Devi scegliere me! " Mariuccia lo scelse davvero, e terminato il banchetto andò dal padre. - Li hai guardati bene, hai scelto ? - le chiese il Principe. - Sì, signor padre, ho scelto il cavaliere col serpente sull'elmo. - Il padre storse la bocca. - Fra tanti principi, baroni e conti, che tutti conoscono e hanno feudi a bizzeffe, sei proprio andata a scegliere quello che non si sa chi sia, nè di dove venga ! - Eppure è il solo che sposerò fra tutti. - II Principe aveva promesso di contentarla, e quella sera stessa dichiarò a tutti i pretendenti che il prescelto era il cavaliere col serpente sull'elmo. Questi si fece avanti, chinò un ginocchio in terra e disse al Principe che era altamente onorato della scelta della Principessina e lo pregava di farla chiamare per scambiar subito con lei promessa di matrimonio e offrirle i doni che aveva recati. Il Principe, naturalmente fece chiamare la figlia, che comparve magnificamente vestita, ma quando si vide davanti lo sposo, tremò tutta, perché le parve che la guardasse più come un serpe che come un cristiano. Ma aveva promesso e si lasciò complimentare da lui e offrire monili bellissimi di zaffiri e smeraldi, di carbonchi e diamanti; ma appena il cavaliere se ne fu andato, Mariuccia incominciò a piangere dicendo : - Povera me, che scelta ho fatta ! Povera me, che scelta ho fatta ! Quello m'inghiottirà in un boccone come inghiottisce i polli ; quello non è un cristiano, ma un animale ! - Mentre piangeva così, si rammentò del cavallino sauro al quale tutti i giorni portava una bella razione di biada e che in quel giorno aveva trascurato. Scese nella scuderia, prese l'orzo e glielo porse. Ma il cavallino contrariamente al solito lo rifiutò. - Che hai, cavallino bello? - gli chiese la ragazza, prendendogli il muso fra le mani - hai sete ? - E gli porse da bere. Ma il cavallino rifiutò la limpida acqua che Mariuccia gli offriva, come aveva rifiutato l'orzo. Allora ella gli alzò la testa per guardarlo bene e s'accorse che il cavallino piangeva. - Ma che hai che piangi ? - Piango per te, - rispose il cavallino sauro. - Piango perché hai scelto per isposo chi non dovevi scegliere. - E perché non lo dovevo scegliere ? - Perché il cavaliere al quale hai dato promessa è un certo tale che per sette anni è uomo e per sette anni è serpente. - Ah, povera me ! - esclamò Mariuccia. - Per questo inghiottisce i polli intieri e ha negli occhi quello sguardo di serpe ! - Sicuro, e io piango perché ti voglio bene e non posso vederti infelice. - Liberami da lui, cavallino bello, e ti farò una mangiatoia tutta d'argento e ti terrò come terrei l'amica più cara. - II cavallino sospirò e rispose : - Ora non posso liberarti. Bisogna che stanotte io parli col Mago della grotta. Vieni qui domattina e forse ti potrò aiutare. - Com’era disperata Mariuccia! E dire che quella sera doveva assistere a un gran ricevimento e presentare a tutti il cavaliere come sposo! Invece di farsi vestire dalle cameriere, Mariuccia si rinchiuse in camera sua e versò tante lacrime quante non ne aveva versate da quando era al mondo. - Bum ! Bum ! - sentì fare alla porta. - Chi è ? - Sono il maggiordomo. Il signor Principe mi manda ad avvertire la Principessina che la sala è già piena d'invitati. - Vengo ! - rispose Mariuccia. Ma invece di chiamare le cameriere e farsi vestire, si mise a gridare : - Povera me ! Povera me ! Dopo tanto aspettare dovevo proprio scegliere colui che sette anni è animale e sette anni è uomo. - Di lì a un poco sentì fare di nuovo alla porta: - Bum ! Bum ! - Chi è ? - Sono il notaro e avverto la Principessina che si aspetta lei sola per firmare il contratto nuziale. - Vengo ! - rispose Mariuccia, ma aveva appena pronunziate queste parole che cadde svenuta, e quando, dopo pochi minuti, entrò in camera sua il padre, tutto infuriato e senza neppure bussare, la trovò lunga distesa per terra più bianca di un panno lavato, più fredda di una statua di marmo. Figuriamoci che scompiglio ! Furono chiamate le cameriere, i medici ; il Principe licenziò il notaro, disse agli invitati che la figlia era più morta che viva, e allo sposo, che insisteva per vederla, fece una spallata e lo consigliò d'andarsene, perché bisogna sapere che il Principe adorava la figlia, non l' aveva mai veduta malata e credeva che quel cavaliere misterioso col serpente sull'elmo fosse un iettato perché appena comparso lui capitavano tanti guai alla sua Mariuccia. A forza di rimedi, alla fine la Principessina si riebbe, fu messa a letto, ma non faceva che piangere e singhiozzare e strapparsi i capelli, e le sole parole che le uscissero di bocca erano : - Povera me ! Povera me ! - Il Principe lasciò due donne a vegliarla, trattenne due medici al palazzo e pareva ammattito dal dolore. Le due donne che dovevano vegliare Mariuccia. benché avessero promesso di non chiudere occhio, li chiusero tutti e due prima che il Principe avesse accompagnato i medici nelle rispettive camere per interrogarli sul malore preso alla figlia, e di lì a poco russavano, facendo rumore quanto due tromboni sonati con tutta forza. Uno dei medici sentenziò che la troppa gioia aveva sconvolto i nervi della Principessa; ma l'altro, più prudente, rispose che prima di pronunziarsi doveva aspettare il giorno dopo per vedere se lo.svenimento si ripetesse o no. Insomma nessuno di loro dette al Principe una risposta concludente. Frattanto Mariuccia, nel suo dolore, aveva la consolazione di sentir russare come ghiri le due donne, con le teste ciondoloni, una a destra e l’ altra a sinistra del suo letto, e sperava che facessero tutto un sonno fino a giorno chiaro per aver prima agio di conoscere dal cavallino la risposta del Mago della grotta. Appena incominciò ad albeggiare e gli uccellini del cortile si destarono, cinguettando sommessamente, Mariuccia pian piano scese dal letto, si vestì in fretta e in furia, e giù per i corridoi, per le scale segrete, per i passaggi reconditi per non esser vista, fino alla stalla del cavallino sauro. Quando il cavallino la sentì avvicinare, si mise a nitrire, e Mariuccia nel sentirlo si consolò. - Cavallino bello, l'hai visto il Mago della grotta ? - L'ho visto. - E che t'ha detto? - M'ha detto che tu non ti disperi e m'ha consegnato due bellissime arance, una rossa e una gialla ; quella rossa la dai a mangiare allo sposo e poi ti vesti da uomo e scendi giù. - Ah, se mi liberi da lui, cavallino bello, ti ho promesso la mangiatoia d'argento e te la faccio! - Sbrigati, - rispose il cavallino - a queste cose penseremo poi. - Mariuccia risale quatta quatta in camera sua e ritrova le donne che dovevano vegliarla, le quali russavano ancora come ghiri. Si mette a letto e finge di dormire anche lei. Di lì a un poco ecco che sente fare alla porta : - Bum ! Bum ! Bum ! - Le donne si svegliano, corrono ad aprire ed al Principe, che entra seguito dai medici, assicurano : - La Principessina non s'è mai risentita in tutta la notte. Un sonno più tranquillo non si poteva sperare. - E i medici la guardano, le tastano il polso, mentre Mariuccia finge ancora di dormire, e sentenziano che il pericolo è passato, che il deliquio non si ripeterà. In quel mentre Mariuccia apre gli occhi, sorride al padre e dice di sentirsi bene, che anzi vuoi alzarsi per ricevere lo sposo, il quale, poveretto, deve essere in grande angoscia. - Sì ; è già in sala da un pezzo che aspetta tue notizie, - risponde il padre. Mariuccia si fa vestire dalle cameriere, e col viso sorridente va un momento in giardino, dove finge di cogliere le due arance, e poi raggiunge lo sposo in sala e gli regala un' arancia rossa. - A quando le nozze ? - domanda il cavaliere col serpente sull'elmo. .- A domani, se non c'è nulla in contrario; - risponde Mariuccia e si scusa di lasciarlo subito perchè ha da preparare tante cose. Invece va nella guardaroba del padre, prende un vestiario completo da uomo, poi si chiude in camera, e zaffete ! con una forbiciata si taglia le trecce, si traveste e via dal cavallino sauro, che nitrisce sentendola avvicinare. - Eccomi pronta, - gli dice. - Che cosa debbo fare ? - Salimi in groppa e dove ti porto vieni ! - Mariuccia lo inforca, e il cavallino trotta e galoppa e la conduce in una città e si ferma davanti al palazzo del Re. - Sali su dal Re, - le dice - e domandagli se ha bisogno d'un cameriere. Se ti domanda come ti chiami, devi rispondergli che ti chiami don Peppino e che sei stato in casa del Principe tuo padre. - Mariuccia aveva piena fede nel cavalluccio : quanto esso ordinava ella lo faceva senza discutere. Salì dunque dal Re, fece passare ambasciata e si offrì per cameriere. Al Re piacque e la prese. Bisogna sapere che questo Re aveva un figlio, il quale, appena vide il nuovo cameriere disse al padre : .- Io son sicuro che quel cameriere è una donna. - Sarà. Se vuoi sincerartene domani fa' venire l'orefice di Corte con molti oggetti e dì al cameriere di scegliere. Da quel che sceglie t'accorgi se è maschio o femmina. - La sera don Peppino andò a governare il cavallino sauro e il cavallino gli disse : - Bada che domani il figlio del Re ti sottoporrà ad una prova : farà portare dall'orefice di Corte diversi oggetti d'oro e ti dirà di sceglierne uno. Tu devi scegliere un anello da uomo. - Non dubitare che non mi tradirò, - rispose don Peppino. Il giorno dopo, mentre il cameriere spolverava lo studio del Re, eccoti l'orefice col Reuccio. Sulla tavola espone tanti oggetti diversi, perché il Re voleva scegliere doni per la Corte. Allora il Reuccio dice a don Peppino : - Ti voglio fare un regalo ; scegli quello che vuoi. - E don Peppino, senza esitare, sceglie un anello da uomo con una pietra. - Te lo dicevo che era un uomo ! - osservò il Re al figlio quando furono soli. - No, padre ; forse ha capito che lo sottomettevamo a una prova, ma sono sicuro che don Peppino è donna. Non vedete che viso bello e delicato che ha ? Non vedete che personale snello, che vitina sottile ? . - È così perché è giovane, - rispose il Re. - No, padre ; giurerei che è donna : Manuccia lunga, mano gentile, Faccia di donna che mi fa morire. - E si mise a piangere. Il padre gli disse : - Domani lo conduci nella distilleria del palazzo dove estraggono l'essenza di bergamotto ; se perde i sensi per il forte odore, è donna. - Il domani il Reuccio condusse il cameriere nella distilleria col pretesto di prendere una boccetta d'essenza di cedro. Don Peppino, sentendo già da lungi il forte profumo, cercò un pretesto per non entrarvi, ma il Reuccio disse voglio, e il cameriere dovette obbedire. Però non v'era appena entrato che cadde lungo disteso in terra. Il Reuccio mandò a chiamare le donne della Regina e fece trasportare il finto don Peppino nelle stanze della madre. Qui Mariuccia si riebbe, confessò tutto, disse di chi era figlia, e il Reuccio, appena lo seppe, dichiarò che la voleva sposare. - O lei o nessuna ! - La Regina storse la bocca perchè gli aveva destinato una sua nipote e non poteva soffrire quella intrusa. Ma il Re, interrogato, dette il consenso, e la Regina, volere o volare, dovette chinar la testa. Di lì a pochi giorni si fecero le nozze con gran pompa, e la Reginuzza non solo si fece amare dal marito e dal suocero, ma anche da tutto il popolo. Soltanto la Regina l'odiava a morte, e tanto più prese a odiarla quando il maggiordomo annunziò a tutti che di lì a poco la Reginuzza avrebbe dato alla luce un figlio. Ma ecco che il Re di un paese vicino muove guerra al suocero di Mariuccia. Il suocero era vecchio e alla guerra dovette andare il Reuccio. Compera disperato di lasciar la moglie, e quanto la raccomandò alla Regina ! - Madre mia, - badava a ripeterle - dovete volerle bene come a me, e non appena nasce il piccino dovete mandarmi un corriere per dirmi come sta Mariuccia e se il nascituro è maschio o femmina. - La madre glielo promise, benché non potesse digerir la nuora, e il Reuccio partì. A suo tempo la Reginuzza dette alla luce un bellissimo maschio e la Regina subito scrisse una lettera al figlio, la consegnò a un corriere fidato e gli disse di portarla al Reuccio al campo. Il corriere parte a spron battuto e corre corre per portare più presto la notizia al Reuccio, ma quando ha viaggiato alcune ore, ecco che il cavallo gli cade e si tronca una gamba. Che fare ? Proseguì la via a piedi guardando di qua, guardando di là se vedeva una casa dove potesse avere un'altra cavalcatura. Finalmente, all'uscire da un bosco, vide un bellissimo palazzo, con tutte le finestre chiuse, il portone chiuso che pareva disabitato. Nonostante il corriere ne salì la gradinata di marmo e si mise a bussare, e giù, bussa che ti busso! Dopo un pezzo che bussava, dal bosco uscì un serpente che gli s'avvicinò strisciando e gli disse: - Che fate a quest' ora qui ? - Sono il corriere del Re e mi ha spedito la Regina per andare dal Reuccio a portargli la notizia che la Reginuzza ha fatto un bel maschio. Però, poco distante di qui m'è caduto il cavallo e s'è rotto una gamba. Volevo domandare alla gente di questo palazzo se era possibile avere un'altra cavalcatura. - In questo palazzo ci sto io solo, - disse il serpente - ma posso benissimo darvi ospitalità per la notte e domani fornirvi un cavallo. Entrate ! - II serpente si rizzò fino a giungere ad aprir la porta, introdusse il corriere nel palazzo, gli cucinò la, cena, e gli fece ogni sorta di gentilezze. Però, non appena il corriere fa addormentato, gli frugò in tasca, prese la lettera scritta dalla Regina, la lesse, poi la risigillò e gliela rimise in tasca. La mattina dopo il corriere si alza, il serpente gli fa trovar pronta la colazione e il cavallo, gli fa mille complimenti e gli dice : - Al ritorno dovete assolutamente passar di qua; voglio che me lo promettiate. Il corriere glielo promise e partì. Al ritorno il serpente gli dette da cena, da dormire, gli prese la lettera dalla tasca e gli ce ne mise un'altra scritta da lui, in cui diceva al Re di scacciar Mariuccia e il piccino e di farla bruciare viva. Il Re, quando lesse quella lettera, credette che il figlio fosse ammattito e se n'andò dalla Regina: - Ma perché, - domandò - nostro figlio è così arrabbiato con la moglie ? Ma come mai ha perso per lei tutto l'affetto ? Chi l'ha così cambiato ? Io non capisco nulla, - e si grattava la testa, ma, per quanto si grattasse, capiva meno di prima. - Badiamo bene però di non dir nulla a Mariuccia, poveretta! - soggiunse poi. Però Mariuccia aspettava con ansia la lettera del marito, sperava che contenesse mille tenerezze, e ogni giorno chiedeva al Re e alla Regina : - È venuta la lettera dal campo? - La Regina, che continuava a odiarla, per farle dispiacere, trasgredì l' ordine del marito, le disse che la lettera era giunta e gliela fece anche leggere. La sfortunata Reginuzza ne ebbe un colpo tremendo. - Dal momento che mi vuole scacciare, me ne andrò da me, - disse. La suocera si sentì allargare il cuore, ma non fiatò. La notte Mariuccia prende il bimbo, monta sul cavallino sauro e se ne va, senza dir nulla a nessuno. Dopo lungo viaggiare giunge in un bosco, e quando ne esce vede il palazzo del serpente. Allora smonta da cavallo per lasciar pascere l' animale, e col suo bimbo fra le braccia siede sulla gradinata e sospira. H serpente la vede, la riconosce, e schizzando fuoco dagli occhi, le si avvicina e le dice: - Vieni qua, amica, fra noi dobbiamo fare certi conti. - Anche Mariuccia lo riconobbe subito e si mise a tremare. - Fammi tutto quello che vuoi, basta che tu non tocchi questo innocente, - disse stringendo a sè il piccino. Il serpente le ordinò di salire la gradinata, di entrare nel palazzo, e sempre sibilando, sempre fissandola con gli occhi che schizzavano fuoco, la cacciò nell'ultima stanza del palazzo, ce la chiuse a chiave e disse : - Tu mi avevi promesso la mano di sposa ; invece mi dasti con inganno l'arancia rossa e per colpa tua perdetti l'effigie d'uomo e divenni serpente. Dunque me la pagherai. Ti condanno a veder morire di fame tuo figlio ed a fare la stessa morte di lui. - Figuriamoci la disperazione di Mariuccia! Si mise alla finestra a gridare : - Cavallino mio, aiutami ! La mangiatoia d'argento te l'avevo fatta quand'ero Reginuzza. Se mi liberi dal serpente e se riacquisto l'affetto del Reuccio mio sposo, te la farò d'oro e non ci sarà cavallo meglio trattato di te ! Sai che mantengo quello che prometto e che alla Corte non passava giorno che non ti governassi io ! - La finestra accanto a quella dov'era Mariuccia ripetè le parole di lei, poi le ripetè la finestra seguente, e le ripeterono tutte finché non le ripetè quella che era sopra al prato dove pasceva il cavallino sauro. In quel momento il serpente strisciando usciva dalla porta del palazzo e la chiudeva con sette chiavi enormi. Il cavallino non disse nè ài nè bài. Intanto che il serpente infilava la prima delle sette chiavi nella prima delle sette serrature per rinchiudere Mariuccia i palazzo e farla assistere alla morte del figliolino e farvela morire di fame anche lei, fece una corsa, un lancio sulla gradinata, lo afferrò coi denti fra capo e collo, e stringi che ti stringo. Il serpente battè con furia la coda, mise fuori la lingua, gli occhi gli schizzarono dalla testa, s' arrotolò come un fascio di corda e cadde morto. - Mariuccia, sei salva ! - gridò il cavallino. - Il serpente è morto. Cerca di sfondare l' uscio ; il portone è aperto. - Mariuccia prese subito un'asse del letto, e con quella si mise a battere contro l' uscio. Batti batti, l'uscio cedette e la Reginuzza entrò in sala dove ci erano tante sedie tutte con ornati di bisce dorate aggrovigliolate insieme. Si rammentò allora d' aver serbato l' arancia gialla che le aveva data il cavallino nel palazzo del Principe suo padre quando fuggì, e la cavò di tasca. Aveva la buccia secca secca, ma tagliandola in mezzo, vide che conteneva ancora un po' di succo. Con quel succo bagnò la testa delle bisce dorate e, come per incanto, ritornarono tutte donne giovani e belle e le raccontarono che il serpente le aveva tutte convertite in bisce perché non l' avevano voluto sposare. Anche Mariuccia narrò i casi suoi, ed esse, sentendo che era figlia di Principe e moglie di un Reuccio le dissero : - Giacché non hai dame nè cameriste, noi saremo le tue dame, le tue cameriste e le aie di tuo figlio, - e da quel momento Mariuccia fece una vita tranquilla in mezzo a tutte quelle donne che la servivano con amore. Gli anni passarono, il figlio di Mariuccia si fece un bellissimo giovinetto ed era sempre in groppa al cavallino o accanto alla sua mamma, circondato dalle sue aie che gl'insegnavano chi una cosa e chi un'altra così che era istruito, gentile e cortese come si conviene al figlio di un Reuccio. Lasciamo Mariuccia al palazzo sul limitare del bosco e torniamo al Reuccio. Terminata la guerra, che era durata tre anni, con lo sterminio del nemico, il Reuccio coperto di gloria se ne tornò alla Corte del Re suo padre, tutto bramoso di rivedere la sposa e di abbracciare il figlio che ancora non conosceva. Il popolo gli mosse incontro acclamandolo, la Regina e il Re gli andarono incontro fino alle porte della città. Appena li scorse, non vedendo ne Mariuccia ne il figlio accanto a loro, si turbò tutto e corse a chiedere dove fossero. Il Re e la Regina si guardarono maravigliati. - Ma non scrivesti tu che dovevano essere scacciati ? - domandò il Re. - Io ?! Ma io scrissi che li teneste di conto più che la pupilla degli occhi vostri. Ma la lettera l'abbiamo serbata, - disse la Regina. Basta. Tutta la gioia del Reuccio svanì. Vide la lettera e sentenziò : - Questa non l'ho scritta io. Qui c'è inganno, ma chi è stato il traditore? Ah, se l'avessi qui! - II povero Reuccio non faceva che disperarsi e far cercare la moglie e il figlio. Egli se ne stava sempre rinchiuso nella sua camera e non parlava se non coi messi che tornavano dall'aver cercato la Reginuzza e il bambino. Così passarono molti anni senza che il suo dolore si calmasse, e spesso la madre gli diceva : - Vedi, ormai non c'è più speranza di ritrovarli; dovresti pensare a prendere un'altra moglie per assicurare la successione al trono. - Ma egli rispondeva : - Non sposerò mai altra donna ; se Mariuccia e il figlio mio sono morti, io vivrò di dolore, ma nessuna Principessa prenderà il posto della mia sposa. - Un giorno alcuni signori della Corte stabilirono d'andare a caccia in un bosco lontano lontano, e tanto dissero e tanto fecero che indussero il Reuccio ad unirsi a loro. Partono a cavallo, battono il cinghiale, ma sul più bello si scatena una tempesta. I fulmini abbattevano gli alberi, il vento schiantava i rami, la pioggia e la grandine venivano giù come Dio le mandava. I cacciatori spronarono i cavalli per uscire dal bosco e schivare il pericolo d'esser fulminati. Appena all’aperto scorsero un bellissimo palazzo, bussarono e furono accolti gentilmente da tante cameriere, che li fecero entrare in una gran sala, dove in un vasto camino ardeva il fuoco. Da quella sala passò Mariuccia col figlio per andare nelle sue stanze, e tutti i cacciatori s’alzarono, credendola la padrona del palazzo, e l'ossequiarono. Ella, non appena ebbe fissato il Reuccio, lo riconobbe e impallidì, ma non disse nulla sul momento e si ritirò insieme col figlio. Però di lì a poco disse al giovinetto : - Hai veduto quel cacciatore più alto di tutti e col portamento così nobile, benché pallido e come affranto dal dolore ? Ebbene, quel cacciatore è il Reuccio tuo padre. Va’ da lui e baciagli la mano. - II fanciullo tornò nella sala, s'accostò al cacciatore che la madre gli aveva indicato, mise un ginocchio in terra e baciandogli la mano, gli disse : Padre mio, beneditemi ! - Figuriamoci quel che provasse il Reuccio in quel momento! Rialzò il fanciullo, se lo strinse al petto e pianse di gioia su quel capo che aveva tanto bramato di baciare. Poi si fece condurre dalla madre, e qui nuovi abbracciamenti e nuove lacrime. Mariuccia gli raccontò tutto quello che aveva .offerto e quanto l' aveva aiutata il cavalluccio e la promessa che gli aveva fatta di dargli una mangiatoia d’oro. Naturalmente il Reuccio insieme con la moglie, il figlio e il seguito andarono subito alla Corte. Il cavallino fa montato dal fanciullo e in città si fecero grandi feste a tutti, e anche al cavallino, che ebbe la sua mangiatoia d'oro e una stalla tutta di marmo e e visse tanti anni, grasso bracato, e vide il Reuccio divenir Re, la Reginuzza divenir Regina e poi regnare anche il figlio di Mariuccia. Finalmente un giorno anche il cavallino sauro morì, e il Re gli fece erigere una statua.

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I CORSARI DELLE BERMUDE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Testa di Pietra lo trasse rapidamente da una parte, e mentre gli raccoglieva sulla nuca i suoi lunghi capelli biondi trattenendoli con una specie di cappuccio, che poi il boia avrebbe dovuto abbassare fino al mento, gli disse rapidamente: - Ricordatevi di quanto vi ho detto. Appena la corda si spezza fingete di cadere. - Io! Un corsaro! Un uomo di mare! - Si tratta della pelle, comandante. E poi gli americani fra un'ora saranno sotto il forte e monteranno all'assalto. Vi assicuro che si battono splendidamente. - Allora andiamo a farci impiccare - rispose il Corsaro. Il boia nel frattempo aveva levato da un pacco il famoso laccio e l'aveva esaminato rapidamente. Piccolo Flocco s'intratteneva col cappellano della guarnigione. - Occorre che gli leghi le braccia dietro il dorso? - chiese Testa di Pietra. - È necessario - rispose il boia, porgendogli una cordicella. Poi curvandosi rapidamente su di lui aggiunse: - Fate uno di quei nodi che al più piccolo sforzo cedono. - Me ne intendo di nodi, e potete essere sicuro che appena il capitano cadrà, le sue braccia saranno libere. - Va bene. In quel momento entrò il sottufficiale, che disse in tono burbero: - La forca è stata rizzata, ma è costata la vita a quattro bravi soldati! - Lo avevo detto al colonnello che era pericoloso quel cortile! rispose Testa di Pietra. - Doveva aspettare che gli americani se ne fossero andati. - Andati? Ci stringono sempre più da tutte le parti, e fra poco monteranno all'assalto. Non li ho mai visti battersi con tanta rabbia come oggi. - Avranno freddo, e vorranno riscaldarsi al fuoco delle artiglierie. - Siete sempre così allegri? - Sì; e soprattutto quando si tratta di mandare all'altro mondo qualche personaggio importante - rispose il bretone. Il cappellano della guarnigione si era avvicinato intanto al baronetto, e tenendo in mano il crocefisso gli diceva: - Coraggio, figliuolo. Presto o tardi la morte arriva per tutti. - Un uomo di mare ha sempre coraggio - rispose il baronetto. il quale conservava un sangue freddo meraviglioso. - La morte non ha mai fatto paura a chi è abituato a sfidare i furori degli oceani. Signor carnefice, è pronto il laccio? - Sì, signore. - Allora andiamo. Fra qualche minuto tutto sarà finito. Il sottufficiale si mise dinanzi, tenendo in una mano una pistola carica; seguivano il Corsaro col cappellano, poi i tre carnefici. Al di fuori la battaglia infuriava terribilmente; tre grosse batterie americane ed i pezzi della corvetta diroccavano rapidamente gli spalti, sventravano i bastioni e sfondavano i tetti delle caserme. Anche la fucileria si faceva udire e molto vicina. Molte palle cadevano anche nel cortile, dove il comandante del forte aveva appena potuto radunare sette od otto soldati. Il Corsaro guardò tranquillamente il lugubre attrezzo innalzato alla meglio e sotto il quale avevano collocato una sedia, per toglierla poi di sotto i piedi al momento opportuno. Il comandante del forte gli era andato incontro dicendogli con voce aspra: - Signore, sono stati uccisi per colpa vostra quattro soldati. - Mi terranno buona compagnia spero, nel gran viaggio per l'altro mondo - rispose il baronetto. - Basta con le chiacchiere: boia, impiccatelo! L'ex-galeotto si arrampicò sulla forca e legò il laccio, sotto l'infuriare della mitraglia. - Sbrigatevi! - gridò il colonnello. - Adagio, signore - rispose Testa di Pietra, che faceva sforzi supremi per reprimersi. - Per un gentiluomo ci vogliono certi riguardi. - Come sapete che questo condannato è un gentiluomo? - chiese il comandante. - Vivaddio! È il fratello del marchese d'Halifax! - Avete detto? - Il fratello del marchese d'Halifax - rispose il bretone. Il colonnello non rispose. Il boia di Boston aveva intanto assicurato il laccio alla traversa della forca ed era frettolosamente disceso, dicendo: - Sono pronto. - Impiccatelo subito - disse il comandante. - Purché una bomba non cada e non ci porti via tutti - rispose il boia - Fate presto. - Salite sulla sedia ordinò il boia al Corsaro. Il baronetto obbedì docilmente, dopo d'aver baciato il crocefisso che il cappellano della guarnigione gli porgeva; si lasciò mettere al collo il laccio e calare il cappuccio nero fino al mento. Il boia di Boston si assicurò che tutto fosse pronto, poi levò di sotto i piedi del Corsaro la sedia. Proprio in quel momento i cannoni da caccia della corvetta lanciavano attraverso il cortile una bordata. Il Corsaro, abbandonato a se stesso, penzolò un momento all'estremità del laccio, poi cadde di colpo, stendendosi sul terreno. Il boia gli si era subito precipitato sopra, allargandogli innanzi tutto il laccio. - Che cosa fate? - gridò il comandante del forte, impugnando una pistola. - Il mio dovere, signore, - rispose freddamente il boia. - Quale? - Quest'uomo, secondo le leggi inglesi, per quarantotto ore non verrà più appeso. - A chi lo dite? - A voi. Non siete mai stato il rappresentante della giustizia: quindi di queste cose non potete intendervi. - Come mai la corda si è spezzata? - Chi lo sa? Forse una palla l'ha tagliata. - Ne siete ben sicuro? - Lo suppongo, perché la mia corda aveva impiccati tredici uomini. - Il numero di Giuda! - brontolò Testa di Pietra. - E non potreste riannodarla ed impiccarlo nuovamente? - Le leggi inglesi vi si oppongono, signore. - Allora lo farò fucilare. - No, colonnello. Quest'uomo è stato affidato a me, e non morrà che per mia mano. Sono il boia di tutte le colonie americane e, non obbedisco che al governo. Il colonnello lanciò tre o quattro bestemmie; congedò i soldati e anche il sottufficiale, e disse ai tre carnefici: - Riportatelo nella cappella. Testa di Pietra prese fra le sue robustissime braccia il baronetto e scappò via, seguito dal boia, da Piccolo Flocco e dal colonnello. Il cappellano, spaventato forse dalle bombe che continuavano a cadere, era sparito, per rifugiarsi probabilmente in qualche casamatta. In un lampo il bretone entrò prima nel magazzino, poi nella cappella, sulle cui tavole ardevano ancora due candele, e le depose su di una branda. Il comandante del forte si volse verso il boia e gli disse: - Dunque vi rifiutate di riappiccarlo. - La legge non lo permette prima di quarantotto ore. - Allora lo ucciderò lo. Aveva levata dalla cintura una magnifica pistola inglese a due colpi colle canne arabescate, e l'aveva puntata sul Corsaro, il quale conservava sempre un'immobilità assoluta. Testa di Pietra, fortunatamente, vigilava. Il suo pugno di ferro piombò su quello del colonnello, ritorse la pistola contro quel giustiziere di nuovo genere e fece scattare i due grilletti. Due detonazioni rimbombarono perdendosi tra il fragore delle cannonate. Il colonnello, colpito in pieno petto, era caduto senza mandare un grido. - Che cosa hai fatto, Testa di Pietra? - chiese Piccolo Flocco spaventato. - Come vedi, l'ho ammazzato! - rispose il bretone. Il Corsaro era balzato in piedi udendo così vicini quei due spari. - Morto? - chiese. - Lo avrebbero ucciso gli americani - rispose Testa di Pietra. - Sono già sotto le trincee e montano all'assalto. - Udite? Hurrà formidabili echeggiavano al di fuori. Gli scorridori avevano piantato le scale, approfittando del tiro delle loro artiglierie e montavano furiosamente all'assalto. Testa di Pietra afferrò il colonnello e lo gettò sotto una branda, gridando: - Fuori! Fuori! Facciamo qualche cosa anche noi. Aveva levato al colonnello la sciabola ed un'altra pistola a due colpi. Il Corsaro aveva afferrato una sbarra di ferro, che aveva servito poco prima a schiodare la porta. I quattro uomini si precipitarono nel cortile che in quel momento era deserto. I pezzi inglesi, ridotti ormai al silenzio, non rispondevano più né ai tiri della corvetta, né a quelli della grossa batteria americana. La guarnigione ormai era sgominata, ed invano cercava il comandante, che solamente Testa di Pietra sapeva dove si trovasse.. Gli americani, protetti dalla loro formidabile batteria, correvano all'assalto come una torma di lupi, sostenendosi di quando in quando con nutrite scariche di moschetteria, le quali spazzavano gli ultimi artiglieri che cercavano di resistere. Testa di Pietra, udendo le palle grandinare fittissime, spinse il baronetto ed i suoi compagni dentro una casamatta, dicendo: - Aspettiamo che il combattimento sia finito. Noi soli ben poco potremo fare; è vero, comandante? - Ti approvo sempre - rispose sir William col suo solito pallido sorriso. - Quando gli americani saranno qui, ci faremo riconoscere e spero che non ci pianteranno nel petto le loro baionette. Ma voi, comandante, siete armato d'una magnifica sbarra di ferro che deve pesare non meno di quaranta chilogrammi. Se i primi arrivati non vorranno intendere ragione, li metterò a posto con quel bastoncino. Intanto l'assalto si approssimava. Spezzati i bastioni, i ridotti e le lunette da furiose scariche di mitraglia, gli artiglieri, i quali avevano ormai la maggior parte dei loro pezzi fuori servizio, cedevano rapidamente. Gli scorridori, o stracorridori, come li chiamavano allora, erano già scesi nei fossati e avevano piantato le scale, incoraggiandosi con hurrà strepitosi. La fanteria leggera stava dietro di loro, pronta a montare all'assalto, mentre quella pesante continuava a scaricare i suoi moschetti e le sue carabine. - Eccoli! - gridò ad un tratto Testa di Pietra, il quale osservava da una feritoia Gli scorridori montavano infatti intrepidamente all'assalto, bruciando sulle scale le loro ultime cariche. In un momento superarono i bastioni, lavorando ferocemente colle baionette ed inchiodando non pochi artiglieri inglesi sui loro pezzi. La guarnigione del forte fuggiva in tutte le direzioni, cercando di barricarsi in caserma, ma gli scorridori, in un attimo occuparono il cortile, nel cui centro sorgeva la forca, e intimarono la resa, minacciando uno sterminio generale. Nello stesso momento quattro soldati, guidati da un ufficiale, si precipitarono a baionetta spianata dentro la caserma occupata dal comandante della corvetta, dai due marinai della Tuonante e dal carnefice, urlando ferocemente: - Arrendetevi, o vi accoppiamo tutti! Testa di Pietra, che per precauzione aveva impugnata la sbarra di ferro, alla quale faceva descrivere un terribile mulinello, scoppiò in una risata. - E che? - gridò - Vorreste ammazzare il comandante e i marinai della Tuonante? Giù le armi, corpo di un pescecane! L'ufficiale guarda con stupore i quattro uomini, abbassando la spada, ed esclama: - Il comandante della Tuonante, avete detto? - Ecco qui, signor mio, il baronetto sir William Mac Lellan, - rispose il mastro indicandogli il comandante. - È per questo valoroso che vi siete battuti: me l'aveva promesso il colonnello Moultrie. - Voi, signore! - gridò l'ufficiale, muovendo rapidamente incontro al baronetto. - Sì, son io - rispose il comandante della Tuonante. - Possibile? Non vi hanno dunque impiccato? - No: mercè l'astuzia e la generosità di questo brav'uomo che chiamano il boia di Boston. Se sono ancora vivo, lo devo a lui. Si era avvicinato all'ex-galeotto, il quale era diventato d'un pallore tale, da far temere che da un momento all'altro cadesse svenuto. - Qua la vostra mano, carnefice! - gli disse. - Vi devo la vita. Il boia retrocesse smarrito, lasciando penzolare le braccia. - Qua la mano, vi ho detto! - ripeté il Corsaro. - Senza di voi a quest'ora sarei morto. Due grosse lacrime spuntarono negli occhi del boia, poi la sua mano si tese per stringere energicamente quella che il gentiluomo gli porgeva. - To'! ... Un carnefice che piange! - borbottò Testa di Pietra. - Si è mai veduta una cosa simile? - Sir, - disse l'ufficiale. - sgombriamo subito. Fra poco il forte Johnson sarà completamente distrutto. L'avevamo giurato, e manterremo la nostra promessa. Era veramente la fine di quella imponente fortezza. La guarnigione, decimata dalle artiglierie della corvetta e dalla cannonate americane, dopo un tentativo di resistenza dentro le caserme, si era finalmente arresa ai due colonnelli americani. Il fuoco era stato sospeso; ma un altro fuoco ben più terribile aveva preso il posto delle artiglierie. Magazzini, caserme, casematte, ridotti ardevano spaventosamente. - Orsù! - disse Testa di Pietra. - È il nostro momento di andarcene, prima di essere arsi vivi. Nell'acqua ci sto: nel fuoco niente affatto. Questo è solamente buono ad accendere la pipa: ma la vecchia reliquia, non so per quale guasto, non tira più. A notte fatta, del forte non rimanevano che poche rovine, ed il Corsaro insieme col colonnello Moultrie, coi suoi due marinai e col boia di Boston, il quale ormai aveva rinunciato al suo infame mestiere per tornar marinaio, si trovavano radunati sulla Tuonante.

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