Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il Drago e cinque altre Novelle per fanciulli

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Non poteva vederselo davanti, ritto in piedi, con quella tuba in testa che toccava la volta della camera, e il collo incastrato nell'alto colletto che non gli permetteva di abbassare il capo. - Sedete, dottore! Temeva che la sua voce di malato non riuscisse ad arrivare fino a lassù, sotto la tuba, e penetrargli dentro gli orecchi sempre turati con la bambagia. - Voialtre, andate di là, - soggiunse per allontanare le bambine. E appena esse furono uscite di camera, si mise a singhiozzare. - Dottore, ditemi la verità! Per quelle creature, che non voglio lasciare in mezzo a una via, ditemi la veri- tà! - Certe cose, caro don Paolo, - rispose il dottore, tirandosi le punte del colletto, - non bisogna mai riman- darle proprio agli estremi momenti, quando la testa non ci regge più! Così anche per le cose della santa Chiesa. - Dunque sono spacciato? - Non esageriamo caro don Paolo!... Ecco qui un calmante per la tosse! una cucchiaiata all'ora; poi pen- seremo alla febbre... Niente di grave. - La mia sentenza di morte! - pensava don Paolo, seguendo con gli occhi la mano che scriveva la ricetta sul ginocchio della gamba accavalcata all'altra. E prima che il dottore andasse via, egli lo pregò di mandargli il notaio Miani, pel testamento, erano a u- scio e bottega, non sarebbe stato troppo incomodo per lui. Il dottor Cipolla, che s'interessava molto anche della salute dell'anima dei suoi clienti, dopo il notaio, s'affrettò a mandargli pure suo compare, il canonico. Ma don Paolo, che aveva dovuto fare un bello sforzo per vincere l'idea di malaugurio del testamento, quando vide entrare il canonico, non potè frenarsi: - Venite a portarmi la jettatura anche voi? Lasciatemi in pace! - Sono venuto per una visita, - si scusava il canonico. Don Paolo però seguitava a strillare: - No, compare; se mi confesso muoio! - Siete cristiano, sì o no? - Cristianissimo; ma se mi confesso e prendo il viatico, muoio! - Le cose sante sono la miglior medicina, compare. - Ma se non debbo morire ... E non voleva morire, almeno questa volta. E ragionava, a modo suo, parlando a stento, fra un colpo di tosse e l'altro, per convincere il canonico, che si frenava a stento per non ridere. - Come? sono andato alla messa di Natale per devozione, ci ho condotto anche le bambine e il Signore, in ricompensa, mi farebbe morire? Non è possibile. Dio è giusto. Non può mandarmi all'inferno; non ho ruba- to, non ho ammazzato, non ho calunniato; ho fatto anzi un'opera di carità da meritarmi il paradiso ... - Questo non dovreste dirlo voi, - lo interruppe il canonico. - Se il Signore si avvede che mi son confessato e comunicato, dice: - Quel povero don Paolo portiamolo in paradiso, è meglio, giacchè ora si trova in grazia nostra! - No, Signore benedetto! lasciatemi star qui ... Non vedete che queste orfanelle hanno soltanto me, e che se muoio io, le spogliano, le riducono alla miseria con tutto il bel testamento che ho fatto? Lasciatemi quaggiù un altro pochino! - Il Signore sa bene quel che deve fare, non ha bisogno dei vostri consigli! ... - Non lo consiglio, lo prego! E dovreste pregarlo anche voi nella. santa messa! Io dico: Il Signore, non vuol farmi dannare. Ebbene, se muoio non confessato, mi danno... Dunque mi dia. la salute del corpo, non per me, per le orfanelle... E per ciò non mi confesso, no, no, no! Potete andarvene, compare canonico! Il canonico, dalle risa, era passato alla commozione per tanta ingenuità, che in fine significava profondis- sima fede in Dio; e non insistette, anche per non turbare il malato, che non gli sembrava così grave come il dottor Cipolla gli aveva detto. - Riposatevi; avete chiacchierato troppo! Infatti, calmatasi l'eccitazione, don Paolo era ricaduto, ansimante, con la testa sui guanciali, la bocca a- perta e gli occhi chiusi. Le orfanelle lo guardavano atterrite, senza osare di accostarsi al letto, interrogandosi con cenni: - Che dobbiamo fare? Non dovettero far altro che preparare qualche scottatura di tiglio, di cammomilla, e poi ottimi brodi di pollo durante la convalescenza. La quale, contro ogni previsione del dottore, fu così rapida, che una mattina in cui egli credeva di trovare il malato ancora a letto in attesa del permesso di alzarsi per qualche ora, lo trovò invece in cucina davanti a un fornello, mentre Giovanna grattava il cacio, e Lisa sbatteva in un piatto le uova per una magnifica frittata, e lui sminuzzava un po' di prezzemolo e di cipolla da servire pel condimento. Il dottore, che appunto tornava dalla casa di un cliente morto pochi minuti prima senza permesso di lui, ed era rimasto male davanti ai parenti in lagrime e che quasi l'accusavano di aver ammazzato il malato, visto don Paolo in atto di fare il cuoco, s'era messo a ridere e s'era sentito venire l'acquolina in bocca all'odore. - Ah, voi fate venir in casa il medico per invitarlo a colazione? - Se volete favorire, - aveva risposto don Paolo, sorridendo. Ma per levarselo di torno subito, gli aveva messo in mano una carta da dieci lire, pagamento delle visite. Non voleva conti in sospeso con nessuno, col medico soprattutti: certa gente è meglio tenerla lontana quanto più si può. - Staremo un bel pezzo prima di rivederci, caro dottore! - gli disse su l'uscio, allegro, quasi avesse in ta- sca il contratto con Domineddio, di dover campare un secolo o poco meno. E fu proprio così. * * * Erano passati dieci anni. Lisa aveva preso marito da sei mesi; si parlava già di certe trattative con un cu- gino del marito di Lisa che aveva posto gli occhi su Giovanna; e don Paolo sembrava più arzillo di quando aveva leticato con la strega per le bambine. Soltanto la testa non lo serviva bene come una volta; la memoria gli veniva meno di giorno in giorno. Chiacchierava troppo del passato, rammentandosi i più minuti particola- ri; ma gli avvenimenti vicini, anche della giornata, gli si scancellavan subito dalla mente. Le prime volte, accorgendosene, ne aveva riso egli stesso: - Comincio a istupidire, figlie mie! Da lì a qualche mese però le cose cambiarono. Non usciva più di casa; andava da una stanza all'altra come sperduto, con le sopracciglia aggrottate, le mani dietro la schiena, guardando attorno con aria diffidente, quasi andasse notando novità che gli dispiace- vano. Brontolava, si stizziva per cose da nulla, ripeteva certi atti giorno per giorno, a ora fissa, quantunque ogni volta si lasciasse subito convincere che aveva torto. A ora fissa, da una settimana, si metteva a preparare la tavola. - Che fate, nonno? - Lo vedi. Non si desina oggi forse? - Ma se abbiamo già desinato due ore fa! - Abbiamo già desinato? ... È vero, hai ragione. Stava un momentino esitante, e zitto zitto sparecchiava. Poi, da lì a un mese, non si lasciò convincere più. Era inutile ripetergli: - Abbiamo già desinato! - egli scoteva il capo, con aria maliziosa e continuava ad apparecchiare. Quando aveva finito, si sedeva a tavola, aspettando, battendo sull'orlo del piatto con la forchetta e col coltello, impazientendosi del ritardo: - Volete farmi morire di fame, povero vecchio? Ingrate, ingrate! Vi ho dato tutta la mia roba; mi sono spogliato per voi ... ed ecco la ricompensa! Dannate! L'inferno vi aspetta. Urlava, piangeva. Lisa e Giovanna un po' ridevano, un po' rimanevano stupite, afflitte di vederlo piange- re; poi, a furia di carezze e di buone maniere, riuscivano a farlo levare da tavola, a deviarlo da quella fissa- zione; suggerendogli: - È mezzanotte; andate a letto. Il sole vicino al tramonto inondava la camera dove lo conducevano, ma egli non se n'avvedeva; e mentre Lisa chiudeva gli scuretti della finestra, egli dava mano a spogliarsi, e intanto domandava: - E il santo rosario? - L'abbiamo recitato or ora. - Sì, sì, è vero; non bisogna scordarsene mai altrimenti la Madonna non ci aiuta. Andate a letto anche voi. È mezzanotte. Ma questo stratagemma giovò per poco. Una notte Lisa e Giovanna furono svegliate da forti picchi all'uscio. - Dormiglione, su, levatevi! È mezzogiorno. E d'allora in poi, a ogni mezzanotte era mezzogiorno per lui. Lisa si alzava, apriva la finestra: - Non vedete che è buio? - È annuvolato. C'è l'ecclissi ... Si rammentava dell'ecclissi di anni addietro, e affermava che il sole sarebbe ricomparso subito. Insomma ci voleva una pazienza da santi; e Lisa e Giovanna erano proprio due sante, che gli volevano bene, e lo ado- ravano, e lo compativano, povero vecchio. Lisa qualche volta leticava col marito che non aveva carità, com'ella gli rimproverava: - Forse sa quel che fa, poverino? Ora, di tanto in tanto, egli perdeva anche la conoscenza delle persone. - Chi siete? Che fate qui? Chi cercate? - Sono Lisa; non mi conoscete? - Lo so, lo so; ma costei, chi è costei? - Giovanna. A quei nomi rimaneva turbato. I ricordi delle figliuole morte e la figura delle due donne che si vedeva da- vanti lo imbrogliavano, lo rendevano dubbioso; e voltava le spalle, crollando la testa, ricominciando da capo dopo un momento: - Chi siete? Che fate qui? Il padrone sono io. La roba è mia. E si metteva a discorrere, divagando: - Avevo due figliuole ... Quella strega le mandava a chiedere l'elemosina ... E sono morte, povere creature, morte di tifo! ... Ve ne ricordate? Io ho fatto testamento; ho lasciato ogni cosa a loro ... Erano orfanelle, abbandonate da tutti ... Il Signore se l'è prese ... Sia fatta la volontà di Dio! Come vi chiamate? Lisa? Giovanna? Si chiamavano così anche le mie creature. Se volete stare con me e servirmi ora che sono vecchio, faccio testamento e lascio ogni cosa a voi ... Il padrone sono io. Ma qui non ci voglio più stare; voglio andarmene a casa mia. Prendete le chiavi; andiamo, andiamo! E bisognava secondarlo, perchè non s'arrabbiasse e non urlasse. Lisa fingeva di mettersi lo scialle - e spesso bastava buttarsi addosso una salvietta, un asciugamani - e gli dava braccio per le scale. Scendevano giù, in istalla o in cantina, e risalivano: - Eccoci in casa nostra! - Ah, come si sta bene qui! Colà non mi ci potevo vedere! ... In casa altrui uno non può fare a modo proprio. Si erano abituate a queste stranezze; spesso le prevenivano, le secondavano sempre, visto che era il mi- glior mezzo per non farle prolungare; e anche ci si divertivano quando il povero vecchio si sfogava a parlare del passato lontano, molto lontano, che gli veniva alla mente con lucidità e precisione meravigliosa. Si divertivano quasi, anche quando se la prendeva con loro, con quelle ingrate che lo facevano morire di fame, che non potevano più vederselo dinanzi, perchè il padrone era lui e loro volevano tutta la roba per sè ... - Ma le gastigherò io! So io come gastigarle! - Come? - Straccerò il testamento, le lascierò nude in mezzo a una via! - Fate bene, - gli diceva Lisa ridendo. - Dovreste lasciare la roba a noialtre. - A voialtre? Che c'entrate voialtre? La roba mia è delle mie figlie, delle orfanelle che ho cresciute, nu- trendole con la carne del mio cuore, col sangue delle mie vene! Che c'entrate voialtre? Esse soltanto mi vo- gliono bene; e pregheranno per l'anima mia quando sarò morto; che c'entrate, voialtre? * * * Per altri due anni era durata così, senza un giorno di tregua. Poi il vecchio era diventato triste, muto. Passava le ore della giornata su una seggiola, con le mani su le ginocchia, guardando di tratto in tratto le due giovani, o tirando il laccio della culla dove dormiva Paolino, il bambino di Lisa; docile e obbediente alla parola di lei: - Su, cullate il bambino. Non aveva mai domandato di chi fosse quel bambino, nè come si trovasse in casa, nè come si chiamasse. Ma un giorno avevano visto il povero vecchio alzarsi dalla seggiola dov'era stato tutta la mattinata a sede- re, e stropicciarsi gli occhi e la fronte, quasi si destasse da profondissimo sonno. - Lisa! ... Giovanna! Le chiamava sorridendo, con voce tremula dalla commozione, maravigliato, quasi le rivedesse dopo lunga assenza. E pareva ricordarsi di tutto, e pareva si vergognasse di quel che ricordava ... - Sono stato pazzo? Oh, povere figlie mie, quanto vi ho fatto soffrire! ... Ma ora me ne vado; non vi tormento più ... Me ne vado a trovare quelle altre che mi aspettano da un pezzo ... Dio vi bene- dica, povere orfanelle! E fece atto di alzar le mani per benedirle ... Le lasciò ricadere ... S'era spento tutt'a un tratto, dolcemente, tra le braccia di Lisa e di Giovanna. Roma, novembre 1893.

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Il maggiordomo fece portare altri cuscini, poi abbassare sul dinanzi della tenda un gran drappo pure di seta, onde potessero riposare più tranquilli. Anche gli scikari ed i conduttori dei cani, approfittando della grande calma che regnava sotto le piante, e del nessun pericolo che li minacciava, si erano addormentati. Vegliavano invece gli elefanti, occupati a dar fondo ad un ammasso di foglie e di rami di pipal, di cui sono ghiottissimi, non avendo forse trovata sufficiente la razione fornita loro dai mahuts, quantunque composta di venticinque libbre di farina impastata con acqua, di una libbra di burro chiarificato e di mezza libbra di sale per ciascuno. Alle quattro, con una precisione cronometrica, tutta la carovana era pronta a riprendere le mosse. La tenda in un baleno era stata levata e gli elefanti, che erano appena allora stati spalmati di grasso alla testa, agli orecchi ed ai piedi, si mostravano di buon umore, scherzando coi loro mahuts. - Avanti! - aveva gridato Yanez che aveva ripreso il suo posto con Sandokan ed il bengalese. La carovana si mosse di buon passo, sempre coll'ordine primiero. Gli scikari, non essendo ancora giunti sul luogo della caccia, si tenevano ultimi insieme ai conduttori dei cani ed ai servi. Il paese accennava a cambiare. I grandi alberi scomparivano per dar luogo a immense distese di erbe palustri, grosse e diritte come lame di sciabola che i botanici chiamano thypha elephantina, perché assai amate dagli elefanti che ne fanno delle scorpacciate, ed a gruppi di bambù spinosi, alti solo pochi metri, ma invece molto grossi. Era il principio della jungla umida, il regno dell'acto bâgh beursah (la tigre signora) come l'hanno chiamata i poeti indiani. Della selvaggina piccola e grossa, spaventata dall'avvicinarsi di quei tre colossi accompagnati da tanta gente armata, balzava di quando in quando fuori da quei bambù, allontanandosi a corsa precipitosa. Ora erano dei samber, specie di cervi, più grossi di quelli europei, dal pelame bruno violetto sul dorso e bianco argenteo sotto il ventre e la testa armata di corna robuste, che spiccavano dei salti meravigliosi, scomparendo in pochi istanti agli occhi dei cacciatori; ora invece erano dei nilgò, le antilopi indiane, grosse quasi quanto un bue di media statura, di forme però eleganti e fini ed il pelame grigiastro; ora delle bande di cani selvaggi, grossi quanto gli sciacalli ai quali rassomigliano molto nella forma della testa e che sono famosi cacciatori di daini, dei quali ne distruggono un gran numero. Anche qualche bufalo delle jungle, strappato al suo riposo dal barrire degli elefanti, si scagliava, con impeto furibondo, fuori dalle macchie di bambù, mostrando la sua testaccia corta e quadra, armata di corna ovali e fortemente appiattite, curvantisi all'indietro. Si arrestava qualche momento, ben piantato sulle poderose zampe, guatando cogli occhi iniettati di sangue la carovana, smanioso forse di lanciarsi ad una carica disperata e di far strage di scikari e di valletti, poi s'allontanava a piccolo galoppo, volgendosi di quando in quando indietro e anche soffermandosi come per dire: un bhainsa della jungla non ha paura. Il sole era prossimo al tramonto e gli elefanti cominciavano a dar segno di stanchezza in causa della pessima natura del suolo che cedeva facilmente sotto i loro larghi piedi, quando Yanez, dall'alto della cassa, al di là d'una piccola jungla formata esclusivamente di piante spinose, vide scintillare una distesa d'acqua. - Ecco lo stagno della tigre nera, - disse. Quasi nell'istesso momento una viva agitazione si manifestò fra i cani. Tiravano i guinzagli e latravano furiosamente formando un baccano assordante. - Che cosa c'è dunque? - chiese il portoghese al mahut. - I cani hanno fiutata la pista della kala-bâgh, - rispose l'indiano. - Che sia passata per di qua? - Certo, sahib. I cani non latrerebbero così. - E quando passata? Di recente? - Solo i cani potrebbero saperlo. - Il tuo elefante non dà alcun segno d'agitazione? - Nessuno finora. - Avanzati verso lo stagno. Ne faremo il giro per vedere quale contegno terranno i cani. - Sì, sahib, - rispose il mahut alzando la sua corta picca armata lateralmente d'un uncino molto acuto. L'elefante che si era arrestato un momento, riprese il cammino scostando colla sua formidabile tromba i bambù. Era ancora tranquillo, tuttavia doveva essersi accorto anche lui che s'avanzava nel dominio della tigre perché non aveva più il passo lesto come prima. I cani, sotto una tempesta di frustate, non urlavano più, però di quando in quando tentavano di rompere le funicelle per slanciarsi attraverso le typha. - Che l'abbiano proprio fiutata la belva? - chiese Yanez, che sembrava inquieto, rivolgendosi verso Tremal-Naik. - Credo che il mahut non si sia ingannato, - rispose il bengalese. - Per precauzione faremo bene a preparare le carabine. Si è dato qualche volta che le tigri solitarie invece di fuggire si siano gettate improvvisamente addosso ai cacciatori. - Approntiamoci, Sandokan. - La Tigre della Malesia vuotò il suo cibuc e presa la sua carabina a due colpi, montò i grilletti mettendosela poi fra le ginocchia. Yanez e Tremal-Naik lo avevano imitato, poi avevano appoggiato contro l'orlo della cassa tre picche di corta misura che avevano però delle lame piuttosto larghe e coi margini affilatissimi. - Tu Sandokan, veglia sul mahut, io guardo a destra e tu Tremal-Naik a sinistra, - disse Yanez quando quei preparativi furono terminati. - Conto più su di noi tre che su tutta questa gente. - E su Kammamuri e sui nostri malesi, - aggiunse la Tigre della Malesia. - Non sono uomini da volgere le spalle nel momento del pericolo. - Quantunque tutto indicasse che quelle jungle fossero state percorse dalla terribile belva, gli elefanti giunsero senza cattivi incontri sulle rive dello stagno e ne fecero il giro levando solamente alcune coppie di pavoni ed una mezza dozzina di oche selvatiche, grosse quanto quelle europee, col collo invece più lungo, le ali orlate di nero, la testa adorna d'un ciuffo. Quello stagno non aveva che una circonferenza di cinque o seicento metri e serviva da serbatoio ad alcuni minuscoli torrenti che si perdevano nelle vicine jungle. Le piante acquatiche, le jhil, che somigliano al loto comune e che producono un grosso tubero assai apprezzato dagli indiani, lo avevano invaso per buona parte. - Accampiamoci qui, - disse Yanez al mahut. Gettò la scala e scese coi suoi compagni. Il maggiordomo lo aveva subito raggiunto per attendere i suoi ordini. - Fa' alzare la tenda e preparare l'accampamento. - Sì, mylord. - Una domanda prima. - Parla. - Vi sono altri stagni nei dintorni? - Nessuno. Non vi è che il fiume, ma è molto lontano ancora. - Sicché i nilgò ed i bufali sono costretti a venire qui a dissetarsi. - Ai villaggi non s'avvicinano mai e poi quelle fontane sono troppo frequentate dagli uomini e dalle donne. - Non mi occorre ora che una buona cena. - Gli scikari, i valletti ed i servi, aiutati anche dal malesi che erano sotto la direzione di Kammamuri, in meno d'un quarto d'ora prepararono l'accampamento intorno ad un magnifico pipal nim, dal tronco enorme e dal fogliame cupo e fitto, che coi suoi immensi rami lo copriva quasi tutto. Trattandosi di fermarsi in quel luogo forse parecchi giorni, gli scikari per premunirsi dalle sorprese della terribile kala-bâgh, con dei bambù incrociati avevano formata come una barriera tutta all'intorno, legandoli strettamente. La tenda, quantunque non fosse proprio necessaria, era stata rizzata contro un albero, ossia quasi nel centro del campo. Il pranzo, molto abbondante, poiché il babourchi aveva caricato alla lettera di provviste il terzo elefante destinato più al servigi della carovana che ad affrontare la pericolosa bestia, fu subito preparato e anche lestamente divorato dai cacciatori. - Mylord, - disse il maggiordomo entrando sotto la tenda, dopo che Yanez ed i suoi compagni ebbero finito di mangiare. - Devo far accendere dei fuochi intorno all'accampamento? - Guardati bene dal farlo, - rispose il portoghese. - Spaventeresti la tigre e allora dove andremo a cercarla? Noi siamo venuti qui per cacciarla e non già per tenerla lontana. - Può piombare sul campo, mylord. - E noi saremo pronti a riceverla. Fa' collocare delle sentinelle dietro la cinta e non preoccuparti d'altro. Hai del grasso tu? - Del ghi(burro chiarificato) che potrà servire ugualmente. - E delle scatole di latta? - Sì, quelle della carne conservata per te e pei tuoi compagni. - Riempiene tre o quattro di burro, mettici dentro un pezzo di tela od una funicella, falle accendere e collocale intorno all'accampamento, alla distanza di tre o quattrocento passi. - Io farò quello che vorrai. - Che cosa vuoi fare con quelle scatole Yanez? - chiese la Tigre della Malesia quando il maggiordomo si fu allontanato. - Attiriamo la bâgh, - dissero Tremal-Naik ed il portoghese. - Ah i furbi! - L'odore del grasso o del burro si espande a grandi distanze e giungerà alle nari della tigre, - continuò Tremal-Naik. - Facevo così quand'ero il cacciatore della jungla nera e le belve giungevano sempre ed anche in buon numero. - Amici, prendiamo le nostre armi ed andiamo a imboscarci fuori del campo, - disse Yanez. - Io sono certo che quella bestiaccia cadrà questa notte sotto i nostri colpi. - Sono pronto, - disse la Tigre della Malesia. Presero le loro carabine e le munizioni, si passarono nella cintura i kriss che sapevano, i due pirati specialmente, maneggiare meglio di qualunque altro e lasciarono la tenda. - Tu occupati dell'accampamento e fidati più dei miei uomini che dei tuoi scikari, - disse Yanez al maggiordomo che era ritornato. - E tu, mylord, dove vai? - chiese l'indiano con stupore. - Noi andiamo a scovare la kala-bâgh. - Di notte! - Non abbiamo paura, noi. Addio: presto udrai le nostre carabine. - Avvertirono anche Kammamuri di vegliare attentamente, poi i tre valorosi uscirono dal campo, tranquilli come se andassero a cacciare dei beccaccini. Era una di quelle splendide notti delle quali se ne vedono solamente nell'India. Le stelle fiorivano nel cielo purissimo, sgombro di qualsiasi nube e la luna s'alzava al di sopra delle cupe foreste che s'estendevano al di là del Brahmaputra, proiettando i suoi raggi azzurrini sulla jungla che circondava lo stagno. Yanez ed i suoi due compagni, oltrepassate le scatole piene di burro chiarificato che bruciavano crepitando e lanciando di quando in quando sprazzi di luce vivissima, s'addentrarono fra i canneti ed i cespugli della jungla finché ebbero trovato un piccolo spazio scoperto, una minuscola radura dove non crescevano che pochi mindi. - Ecco un magnifico posto, - disse il portoghese, deponendo la carabina. - Di qui possiamo sorvegliare l'accampamento e anche la jungla. Si direbbe che le piante non lo hanno invaso per far piacere a noi. - È vero, - rispose Sandokan. - Taci! - disse in quell'istante Tremal-Naik. - Che cosa hai udito? - La risposta non la diede il bengalese. Fu un hu-ab terribile, formidabile, che rintronò nella notte tranquilla come un colpo di tuono e che scosse perfino le salde fibre della Tigre della Malesia. La risposta l'aveva data la kala-bâgh!

I cinque minuti non erano ancora trascorsi, che gli elefanti si trovavano pronti a ripartire, quantunque dimostrassero il loro mal umore per quella inaspettata marcia, con sordi barriti e con un alzare e abbassare d'orecchi. Dayachi, malesi e prigionieri erano tutti al loro posto, chi entro le casse, chi sui larghi dorsi dei pachidermi, tenendosi ben stretti alle corde. Sandokan ed i suoi compagni, dopo aver fatta una breve punta senza nulla vedere di sospetto, si erano affrettati, a loro volta, a raggiungere l'elefante-pilota, il solo che si mantenesse tranquillo. - Siamo pronti? - chiese Sandokan quando si fu accomodato nella cassa a fianco di Surama. - Tutti! - risposero ad una voce malesi e dayachi. - Via! - Gli elefanti, quasi avessero compreso che un grave pericolo minacciava i loro conduttori, avevano cessato di barrire ed avevano preso un vero galoppo, e così rapido, che difficilmente un buon cavallo avrebbe potuto tenere dietro a loro. A vedere quelle masse enormi, che hanno qualche cosa di antidiluviano, si giudicherebbe che essi fossero eccessivamente tardivi, mentre invece posseggono un'agilità straordinaria ed una forza di resistenza incredibile, che permette a loro di gareggiare, e senza svantaggio, coi mahari, i famosi corridori del deserto di Sahara. Avevano appena preso lo slancio, quando un grido di rabbia ed insieme d'angoscia, sfuggì da tutte le bocche. A destra ed a sinistra, dalla via presa dai pachidermi, come per un segnale convenuto, i bambù e le erbe secche della jungla, arse dal sole, avevano preso fuoco su diversi punti! ... - Me l'aspettavo questo brutto giuoco! - esclamò Sandokan. - Cornac! Spingete la corsa, o morremo tutti arrostiti! - I conduttori, senza attendere quel comando, vedendo il fuoco propagarsi con rapidità incredibile, avevano già afferrati i loro corti arpioni, lasciandoli cadere violentemente sui crani dei pachidermi, lanciando contemporaneamente fischi stridenti. Vampe immense s'alzavano di già minacciando di rinchiudere i fuggiaschi in un cerchio di fuoco. I malesi ed i dayachi avevano aperto il fuoco, sparando all'impazzata in tutte le direzioni, mentre gli elefanti, atterriti, raddoppiavano lo slancio, barrendo spaventosamente e sfondando, come mostruose catapulte, le folte macchie che si paravano a loro dinanzi. Quella fuga rapidissima aveva qualche cosa di spaventoso ed insieme di fantastico. Cominciando a cadere le scintille addosso agli elefanti e anche sulle persone che stavano nelle casse, Sandokan sciolse rapidamente una coperta e la gettò addosso a Surama, avvolgendola completamente, mentre Tremal-Naik gridava agli altri: - Sciogliete le tende ed i materassini! Copritevi e riparate le groppe degli elefanti! - L'ordine fu subito eseguito ed appena in tempo, poiché le due linee di fuoco, ormai diventate giganti, stavano per raggiungersi e chiudere completamente la ritirata. - Poggia verso il fiume, cornac! - comandò Sandokan che conservava, anche in quel terribile momento, tutta la sua calma di grande capitano. - Là sta la nostra salvezza! Getta questa coperta sulla testa dell'elefante e bendagli gli occhi! Fate altrettanto voialtri! Su, forza, attraverso al fuoco! - I pachidermi, spaventati di vedersi dinanzi quelle cortine fiammeggianti, pareva che esitassero a proseguire la corsa. Quando però si sentirono avvolgere la testa dalle coperte e dalle tende, presi da un maggior spavento, si slanciarono innanzi all'impazzata, mandando clamori orribili. Le due cortine di fuoco non distavano che pochi metri l'una dall'altra. Ancora un mezzo minuto di ritardo e si sarebbero raggiunte. Scintille, cenere ardente, foglie accese, cadevano da tutte le parti e l'aria minacciava di diventare, da un istante all'altro, irrespirabile. I cinque elefanti giunsero, come un uragano, là dove le due linee fiammeggianti stavano per operare la loro congiunzione, e attraversarono il passo coll'impeto dei proiettili, raddoppiando i loro spaventevoli clamori. Quattro o cinque colpi di carabina li salutarono al passaggio, sparati però a una così notevole distanza, che le palle non produssero alcun effetto contro il grosso cuoio che rivestiva quei colossi. I cornac s'affrettarono a togliere le coperte che avvolgevano le teste degli animali, mentre i malesi ed i dayachi gettarono via materassini e tende, che avevano già preso fuoco. - Non credevo di avere tanta fortuna, - disse Sandokan che appariva di buon umore. - Se gli elefanti continueranno questa corsa indiavolata per tre o quattro ore, non avremo più nulla da temere da parte degli assamesi. Che cosa ne dici, Tremal-Naik? - Dico, - rispose il bengalese, - che da questo momento noi potremo proseguire tranquillamente il nostro viaggio verso Sadhja, senza essere più disturbati. È vero, Bindar? - Sì, sahib - rispose il fedele giovanotto. - Tra due giorni noi saremo fra le montagne dove regnava il padre della principessa, il valoroso Mahur. - Come rivedrò volentieri il mio paese natio! - esclamò la futura regina dell'Assam, con un sospiro. - Purché si ricordino ancora del capo dei kotteri. - Non ci sono io forse? - disse Bindar. - Mio padre era uno dei più fedeli servitori del tuo e, lassù, fra le montagne, ho molti parenti. Basterà che io ti presenti a Khampur. - Chi è costui? - Il nuovo capo dei kotteri. Era un amico intimo di tuo padre e sarà ben lieto di rivederti e di mettere a tua disposizione tutti i suoi guerrieri. Egli odia Sindhia e non si rifiuterà di prestarti man forte. - Speriamolo, - rispose Surama. - A me basta di liberare il sahib bianco, che tanto amo. - Lo rivedrai più presto di quello che credi, - disse Sandokan. - Non lascerò l'Assam, checché debba accadere, senza aver prima strappato il mio fratellino bianco dalle zampe di quell'ubriacone di Sindhia e senza aver saldato i conti con quel cane di greco, causa principale di tutte le nostre disgrazie. Fra quindici giorni, e fors'anche prima, tutto sarà finito e andrò a respirare una boccata d'aria marina, della quale sento un bisogno grandissimo. - Come! Non ti fermerai alla mia corte, ammesso che io possa diventare la rhani dell'Assam? - Sì, per un paio di settimane, ma poi tornerò laggiù, al Borneo, - disse Sandokan che era diventato improvvisamente cupo. - Anche nelle mie vene scorre sangue di rajah ed un giorno mio padre fu potente, e dominava una regione forse più vasta dell'Assam. Pensiamo a dare ora un trono a te ed a Yanez: poi penserò a posare anche sul mio capo una corona. Sono vent'anni che medito una vendetta e sono vent'anni che un miserabile straniero siede sul trono dei miei avi, dopo d'aver spazzato mio padre, mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle! Quel giorno che comparirò sulle rive del lago di Kini Ballù sarà un giorno di sangue e di fuoco. - Sandokan! - esclamarono Tremal-Naik e Surama. Il terribile pirata si era alzato cogli occhi accesi, il viso alterato da un furore spaventevole, agitando la destra come se brandisse una scimitarra assetata di sangue e di stragi, ma dopo qualche istante tornò a sedersi, calmo come prima, dicendo con voce rauca: - Aspettiamo quel giorno! - Caricò rabbiosamente la pipa, l'accese e si mise a fumare con furia, guardando la jungla che fiammeggiava sempre dietro gli elefanti. Tremal-Naik gli batté su una spalla. - Quel giorno, - gli disse, - spero che mi avrai per compagno. - Ti accetto fin d'ora, - rispose la Tigre della Malesia. - Ed io, - disse Surama, - metterò a tua disposizione tutti i tesori dell'Assam e tutti i seikki. - Grazie fanciulla, ma a tuttociò, preferisco Yanez, il mio buon genio. Il principe consorte potrà assentarsi per un paio di mesi. - Anche per dodici se lo vorrai. - Gli elefanti, ancora spaventati dai bagliori dell'incendio, continuavano intanto la loro rapidissima corsa, ansando fortemente ed imprimendo alle casse tali scosse, che le persone che le montavano, di quando in quando, cadevano le une nelle braccia delle altre. La jungla continuava ad estendersi lungo la riva destra del Brahmaputra, però a poco a poco tendeva a cambiare. I bambù sparivano per lasciare il posto alle alte graminacee, ai folti cespugli, alle mangifere che formavano dei superbi gruppi, ai tara ed ai latania. Era però sempre una regione senza villaggi, senza capanne, non amando gli indiani abitare là dove imperano le tigri, i rinoceronti, le pantere ed i serpenti dal morso mortale. Quella corsa velocissima durò fino alle dieci del mattino, poi Sandokan, vedendo che gli elefanti rallentavano, diede il segnale della fermata. Ormai gli assamesi non erano più da temersi. Anche se avessero avuto dei cavalli di buona razza, non avrebbero potuto tenere dietro a quei colossi, che avevano mantenuto per cinque o sei ore una velocità assolutamente straordinaria. Quella fermata si prolungò fino alle quattro del pomeriggio, poi gli elefanti ripresero, di buon umore, la loro corsa, senza aver bisogno di essere aizzati dai loro conduttori, avendo trovato, durante quel riposo, un'abbondante provvista di typha e di rami di bâr (ficus indica), il cibo che preferiscono sopra tutti gli altri, quando non trovano delle foglie di pipal (ficus religiosa). A mezzanotte marciavano ancora, avanzandosi verso le non lontane catene di montagne, abitate dai sudditi del defunto Mahur, il padre di Surama. Le jungle erano a poco a poco scomparse, per lasciare il campo a pianure ondulate e coperte da fitti gruppi di alberi, all'ombra dei quali, cominciavano a succedersi piccoli villaggi, circondati da risaie. Un'altra fermata fu fatta che si prolungò fino alle sette del mattino: poi gli instancabili elefanti ripresero la corsa rimontando verso il nord-est, dove già si delineavano alcune catene di altissime montagne, coperte da foreste immense. Altre due tappe, poi i pachidermi, sempre agili e sempre rapidi, salivano il giorno dopo i primi scaglioni di quelle boscose catene, innalzandosi gradatamente. Il paese cominciava a popolarsi. Minuscoli villaggi di quando in quando apparivano sui declivi, in mezzo a folte macchie di mangifere e di tamarindi stupendi. - Ecco i sudditi di mio padre! - diceva Surama con un sospiro. - Quando sapranno che la figlia del vecchio capo dei kotteri, dopo tanti anni, è ritornata, non le rifiuteranno il loro appoggio. - Lo spero, - rispose Sandokan. Quella sera l'accampamento fu piantato in mezzo alle foltissime foreste e mai notte fu più calma di quella, non abbondando sulle montagne né cani selvaggi, né sciacalli, ed essendo anche piuttosto rare le tigri, le quali preferiscono il clima umido e caldo delle jungle. La sveglia fu suonata da Bindar, che possedeva un ramsinga di rame, alle quattro del mattino, desiderando tutti di riposarsi alla sera a Sadhja, l'antica residenza del capo dei kotteri. Gli elefanti, ben riposati e anche ben pasciuti, avendo trovato dei banian da saccheggiare, avevano subito ripresa allegramente la marcia, costeggiando una enorme spaccatura, in fondo alla quale rumoreggiava il Brahmaputra, che forse dopo migliaia e migliaia d'anni, si era aperto un varco fra quelle montagne, per raggiungere il sacro Gange e riversare le sue acque nel golfo del Bengala. Quantunque le chine fossero faticosissime, gli elefanti procedettero sempre con grande rapidità; dimostrando ancora una volta la loro incredibile resistenza e la loro agilità assolutamente straordinaria. Verso il tramonto la carovana, dopo aver superate altre altissime montagne, sempre ricche di boscaglie, poiché la vegetazione dell'India non cessa che là dove cominciano le nevi ed i ghiacciai, entrava finalmente in Sadhja, la capitale del piccolo stato, quasi indipendente, ossia dei kotteri, dei montanari guerrieri, i più valorosi dell'Assam. Bindar guidò i suoi padroni verso una vasta capanna, circondata da un giardino, dimora di un suo parente, la quale si trovava un po' fuori dal bastioni della cittadella, desiderando non suscitare, almeno pel momento, la curiosità della popolazione. Essendo già prossima la notte, quasi nessuno aveva fatto attenzione all'arrivo della carovana, trovandosi la maggior parte di quei montanari nelle loro casette a cenare. Due vecchi indiani, parenti del giovane, accolsero cortesemente gli ospiti raccomandati dal nipote, mettendo a loro disposizione tutte le provviste che possedevano. - Cenate senza preoccuparvi di me, - disse Bindar, - e consideratevi come in casa vostra. Io vado ad avvertire Khampur del vostro arrivo. - Come accoglierà la notizia? - chiese Sandokan che appariva un po' pensieroso. - Khampur era l'amico devoto di Mahur, il grande capo dei kotteri guerrieri, e sarà ben felice di rivedere la figlia del forte montanaro. E poi so che odia mortalmente Sindhia e che non gli ha mai perdonato d'aver venduta, come una miserabile schiava, l'ultima principessa di Sadhja. - Ciò detto il bravo giovanotto, dopo aver presa per precauzione, forse eccessiva, la sua carabina, uscì entrando in città. Sandokan si rivolse al capo dei seikki che gli sedeva di fronte e gli chiese: - Posso sempre contare sulla fedeltà dei tuoi uomini? - Sempre, sahib - rispose il demjadar. - Quando tu lo vorrai, spiegheranno la tua bandiera, se ne hai una, e apriranno il fuoco contro il palazzo reale. - Ho la mia bandiera fra i miei bagagli, - rispose Sandokan, con uno strano sorriso. - È tutta rossa con tre teste di tigre. Sanno gli inglesi quanto vale. - Dammela ed i miei seikki la faranno sventolare dinanzi al rajah. - Sì, domani, quando ridiscenderemo il Brahmaputra, - rispose Sandokan. - Sarà la nuova bandiera dell'Assam, è vero Surama? - E che io conserverò religiosamente se diventerò veramente la rhani - disse la giovane principessa. - Così mi ricorderò sempre di dover la mia corona alle Tigri di Mompracem. - Avevano appena terminata la cena, quando Bindar entrò seguìto da un bel tipo d'indiano sulla quarantina, vestito come un ricco kaltano, ossia con un costume mezzo orientale, con una larga fascia di seta rossa piena di pistoloni e di armi da taglio. Era un uomo di statura imponente, vigoroso come uno jungli-kudgia, barbuto come un brigante della montagna, con due occhi nerissimi e sfolgoranti ed i lineamenti energici. Solo a vederlo si capiva che doveva essere un gran capo e soprattutto un uomo d'azione. Prima ancora che Sandokan ed i suoi compagni si fossero alzati, mosse diritto verso Surama e le si inginocchiò dinanzi, dicendole con voce alterata da una profonda commozione: - Salute alla figlia del valoroso Mahur! Tu non puoi essere che quella. - La giovane principessa con un rapido gesto l'aveva rialzato. - Il mio primo ministro non deve rimanere ai miei piedi, se io un giorno riuscirò ad atterrare Sindhia, - disse. - Io ... tuo primo ministro, rhani! - esclamò il montanaro, meravigliato. - Se, coll'aiuto di queste persone che mi circondano, che per valore valgono mille uomini ciascuno, otterrò la corona che mi spetta. - Khampur gettò uno sguardo sui malesi e sui dayachi, fermandolo sulla Tigre della Malesia. - È quello il capo, è vero, Surama? - chiese. - Un uomo invincibile. - Lo si vede, - rispose l'assamese. - Me ne intendo di uomini. Quello ha la folgore negli occhi. - E anche la mano lesta, - disse Sandokan sorridendo e avanzandosi verso il montanaro, che pareva aspettasse una vigorosa stretta di mano. - Tu sahib, sei un valoroso, - disse il montanaro, - e ti ringrazio di aver raccolta e protetta la figlia del mio amico, il prode Mahur. Bindar tutto mi ha raccontato: che cosa posso fare? Che cosa vuoi tu? Parla: Khampur è pronto a dare la sua vita, se fosse necessario, per la felicità di Surama. - Io non desidero da te che mille uomini della montagna, risoluti a qualunque sbaraglio e le barche necessarie per condurli a Goalpara, - rispose Sandokan. - Puoi tu fornirmeli? - Anche duemila se ne vuoi, - rispose il montanaro. - Quando i miei sudditi domani sapranno che la figlia di Mahur è ritornata, affileranno subito le loro armi e staccheranno dalle pareti i loro scudi di pelle di bufalo. - A noi basta la metà purché siano scelti e valorosi, - disse Sandokan. - Noi possiamo contare sulla guardia del rajah, che è formata tutta di seikki provati al fuoco, è vero demjadar? - Quando tu lo vorrai, sahib, saranno pronti, - rispose il capo dei mercenari. - Non avrò da dire a loro che una parola. - Khampur guardò attentamente il seikko, poi disse con una certa soddisfazione: - Ecco un vero guerriero: conosco il valore di questi montanari. - Quando potranno essere pronte le barche? - chiese Sandokan. - Domani dopo mezzodì i miei uomini saranno pronti a discendere il Brahmaputra. - Di quanti legni puoi disporre? - Ho una ventina di piccoli legni fra poluar e bangle e potremo caricare su ognuno una cinquantina d'uomini, - rispose Khampur. - Quanto credi che impiegheremo a giungere a Gauhati? - Non più di due giorni, se non troveremo degli ostacoli. So che il rajah tiene una flottiglia sul fiume. - Hai delle bocche da fuoco? - Una cinquantina di falconetti. - S'incaricheranno i miei uomini di provarli sulle barche del rajah, se cercheranno di sbarrarci il passo, - disse Sandokan. - D'altronde non ci avanzeremo che con estrema prudenza e cercheremo di non destare sospetti. È necessario piombare improvvisamente sulla capitale e prenderla d'assalto con un colpo di mano. - Tu farai, sahib, quello che meglio crederai, - disse Khampur. - I miei uomini ti seguiranno dovunque. Vado a far battere il tumburà, onde domani siano qui tutti i guerrieri della montagna. - S'inginocchiò dinanzi a Surama e le baciò replicatamente l'orlo della veste, omaggio che si rende solo ai sovrani e alle principesse del sangue; e dopo d'ager augurato a tutti la buona notte, uscì rapidamente rientrando nella cittadella.

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