Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbassare

Numero di risultati: 68 in 2 pagine

  • Pagina 1 di 2

La tecnica della pittura

254195
Previati, Gaetano 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
  • UNIFI
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Mescolando molta lacca di Robbia all’unico giallo disponibile sulla tavolozza e qualche po’ di bianco forse dopo molti impasti si riuscirà a mettere insieme una pennellata simile al migliore cinabro della China o dell’Olanda, ma di una liquidità estrema perchè a farlo seccare abbisogna molta vernice, onde, se per caso lo spazio da riempire con questa tinta, fosse alquanto esteso, bisognerebbe rinunziarvi perchè l’estensione rivelerebbe la impotenza del mezzo non essendovi finora colore alcuno che possa sostituire il cinabro salvo l’effetto di contrasto come sarebbe abbassare il tono circostante ad un rosso insufficiente o circondarlo di verde — ciò che evidentemente sposta l’argomento — e rivela il difetto di una teoria che sacrificherebbe volta per volta che si presentasse un ostacolo simile a quello ora accennato per un rosso, tutta l’intonazione del dipinto pel preconcetto di non porre sulla tavolozza un colore che già esiste e rispondente completamente allo scopo cercato, mentre dall’arte non si chieda altro nel dipinto se non che i colori rispondano all’imitazione del vero e che siano durevoli per quanto è in potere dell’artista di raggiungere.

Pagina 169

Le due vie

255312
Brandi, Cesare 1 occorrenze

Neppure la schiavitù era riuscita ad abbassare la dignità dell’uomo al livello di uomo-massa: l’uomo schiavo non era l’uomo massa e le civiltà che conobbero il male della schiavitù non furono per questo massificate: vi si produceva una coinè di cultura ma non una massificazione. La proletarizzazione del popolo a cui è seguita la massificazione della cultura è il riflesso del mutato orizzonte ontologico. Ma se così è, e se le varie manifestazioni della nostra civiltà anche le più dislocate fanno sistema, non dovrebbe essere possibile che una sola se ne eccettuasse, vogliamo dire che sfuggisse alla gravitazione, al modo che avviene per gli astronauti: o veramente, chi sfuggisse, sarebbe come l’astronauta, fuori dell’epoca come l’astronauta è fuori della terra. In questo senso, con un nesso dialettico ma non con un nesso causale, anche l’arte riflette il proprio tempo, non dunque deterministicamente, ma componendo dialetticamente col proprio tempo, nella gravitazione ontologica che di quel tempo è propria.

Pagina 126

Manuale per i dilettanti di pittura a olio, acquerello, miniatura, guazzo, pastello e pittura sul legno (paesaggio, figura e fiori)

258642
Ronchetti, Giuseppe 2 occorrenze
  • 1902
  • Ulrico Hoepli Editore Libraio della Real Casa
  • Milano
  • manuale di pittura
  • UNIFI
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Questo insegna e dimostra, che bisogna, presso a poco, collocarlo alla metà del vostro disegno, perchè, voi dovete includere nel medesimo, solamente quella porzione del vero che rocchio vostro può perfettamente abbracciare, senza abbassare nè alzare la testa.

Pagina 6

Una goccia di verde smeraldo schietto, può abbassare nello stesso modo, le tinte troppo verdi, e così via.

Pagina 95

Scritti giovanili 1912-1922

262096
Longhi, Roberto 2 occorrenze

L'umanesimo prestabilito di Michelangelo fu compreso anche dalla finezza critica di Vasari : «Ha Michelangelo atteso solo... alla perfezione dell'arte;perché né paesi vi sono né alberi, né casamenti; né anche certe vivacità e vaghezze dell'arte vi si veggono, perché non vi attese mai, come quegli che forse non voleva abbassare quel suo grande ingegno a simili cose».

Pagina 11

Il gruppo adunque perfettamente italiano nella sua unicità struttiva non si può richiamare che allo stile di Piero, anche per il modo di campire sul cielo e di abbassare il paesaggio che nelle poche macchie tozze degli alberi è il contrario del senso grettamente panoramico dei fiamminghi. Essi volevano vedere tutti i particolari, ahimè! Antonello voleva veder chiaramente pochi particolari capaci di esaltarsi in forme analogiche.

Pagina 83

Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

266564
Boito, Camillo 1 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
  • UNIFI
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Ma se c’è ramo dell’arte, in cui si cominci a stare di faccia agli stranieri senza dovere abbassare gli occhi, è il paesaggio. Non abbiamo per esso nessuna attraente tradizione italiana, nessuna influente Scuola accademica, e dall’altro canto sentiamo il bisogno di consultare a ogni tratto la natura, di seguirla con docilità. La campagna romana, con i suoi bufali selvatici, con le rovine de’ suoi monumenti, severe e grandiose come le linee del terreno e de’ colli; la spiaggia d’Astura, col mare che si insena, e le barche dei pescatori, ed i ragazzi che nuotano; un paese d’un verde chiaro nell’erba, d’un verde cupo negli alberi, e gli altri quadri del Vertunni, possono schierarsi, non ostante al colore qua e là crostoso e pesante, accanto ai migliori paesaggi stranieri. Peccato che alcuni degli ottimi nostri paesisti abbiano esposto un lavoro per uno e neanche dei più notevoli; peccato che altri non abbiano esposto nulla! L’Italia avrebbe avuto a Vienna, in grazia del paesaggio, quella lode dagli uomini colti, della quale per le figure dipinte non è stata creduta degna.

Pagina 380

Ricette di Petronilla

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Moretti Foggia Della Rovere, Amalia 1 occorrenze

Abbassare allora il fuoco e continuare a rimestare.

Pagina 177

Squisitissime vivande preparate dalla cuciniera viennese italiana e francese

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1 occorrenze

Pagina 240

IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 2 occorrenze

Si rammentava che, sentendo discorrere di lui e dirne un gran male, aveva osservato come non si potesse poi pretendere che, da un giorno all'altro, un gondoliere diventasse un signore per bene; si ricordava pure i suoi occhi neri insolenti, che, incontrandolo, le facevano abbassare lo sguardo con un senso di strano timore. Del resto, la fanciulla non aveva mai pensato al matrimonio. Era vissuta sempre fra il nonno e la serva, una ottima donna, che le voleva un ben di vita e ch'era stata domestica di sua madre. Da quattro anni divideva la sua giornata fra lo studio del canto, nel quale la sua voce non robusta, ma estesa e morbida, era riescita ammirabile di agilità e di grazia, ed i fiori del piccolo orto, chiuso da alti muri di cinta, in uno dei quali s'apriva verso il canale l'ar- cata della riva d'approdo. Un poco di tempo lo dava alla cucina, per comporre con le proprie mani, piccole e polpute, qualche ma- nicaretto, che piaceva al nonno. Non usciva con altri che con lui, leggeva poco, cuciva poco, faceva trine e ricami: era soddisfatta di sé e della vita. Dalla cantoria il tenore, durante i riposi, piombava giù ai piedi dell'altare di San Clemente delle occhiate incendiarie, che incon- travano gli sguardi della Nene, la quale si sentiva ogni volta una lieve trafittura nel cuore ed una fiamma al viso, che lo faceva di- ventar di carminio. I capelli, più rossi che biondi e naturalmente ricciuti, circondavano la fronte non alta e le guance paffute, la- sciando vedere le delicate orecchie, da cui pendevano due perle piccine. Quando il tenore cantava con gli occhi alzati alla cupola d'oro popolata di santi bizantini, allora si scorgevano fra le tumide labbra della fanciulla, del color di ciliegia, i denti candidi tutti uguali, e un leggiero fremito scorrerle per le membra rotonde, e gli occhi cilestri non grandi assumere una nuova espressione di viva- cità e di sentimento. La ragazza si andava trasformando: diventava inquieta e, non di rado, impaziente: sembrava cresciuta di statura. Era giunta fino ai diciott'anni senza avere mai guardato dentro nel proprio animo, senza essersi mai resa nessun conto della propria coscienza, poiché alle pratiche religiose, alle preghiere, alla con- fessione attendeva con gravità umile, ma così per usanza, come operazioni di un rito, il quale avesse la sua radice ed i suoi intenti al. di sopra, al di fuori di lei. La fede era tanto indiscussa, la mo- rale così bene ridotta a precetti ed a formule, che il pensarci di- ventava inutile: non già che ai gradini dell'altare, di contro alla grata del confessionale, prostrata innanzi al Crocifisso della sua cameretta non sentisse una viva emozione, ma era cosa sentimen- tale o fantastica, non meditativa. Né il nonno, il quale non contava nella lunga vita una cattiva azione od una cattiva intenzione da espiare, aveva mai parlato alla nipote dei doveri e della dignità della donna. Gli sarebbe parso di mancare di rispetto alla virginità se avesse creduto necessario di ammaestrarla per via di consigli o di libri sulle tentazioni del godimento, sulla malvagità e la ipocri- sia di molti uomini, e rispetto alle seduzioni interiori della passio- ne e del desiderio, come intorno ai fatali inganni ed agli ancora più fatali sopori della coscienza. Egli stesso era vissuto senza mai sgarrare, ma come un orecchiante della virtù. La prima volta che Nene scrutò nel proprio petto, vi trovò una immagine d'uomo profondamente impressa, la quale non le ragio- nava rispettosa di matrimonio e di maternità, non le bisbigliava sommessa le soavi canzoni dell'affetto ideale, ma parlava sfaccia- tamente di ardori ancora vaghi ed oramai irresistibili. La fanciulla, seduta nell'ombra cupa del piccolo chiosco dell'orto, tutto coperto e circondato di fresca edera arrampicante, si lasciava vincere dai fantasmi dei desiderii inconsci, ripetendo di tratto in tratto, come stupita di sé medesima: "Eppure, se il nonno avesse risposto di sì, io non lo vorrei sposare!". Si destava in lei, contemporaneamente all'amore, la vanità. Am- mirava la propria voce, notava i pregi del proprio modo di canto, si guardava nello specchio, ora tentando di lisciare i capelli rossi ricciuti, ora arruffandoli, e dolendosi delle macchiette verdastre di lentiggini, che picchiettavano l'incarnato del viso e delle spalle, e la pelle lattea del collo e del seno. Confessava a sé stessa di esser piuttosto corta di statura; ma si giudicava tutta ben fatta dalla testa ai piedi, e meglio grassa che magra. Talvolta, è vero, invidiava gli occhi neri quanto il carbone della sua pettegola vicina, la Gigia, perché supponeva che le bionde con gli occhi neri dovessero eser- citare un terribile fascino; poi subito si confortava, notando come le pupille celesti s'accordino ammirabilmente con l'oro rossigno della capigliatura, e, benché più mansuete, non sieno meno poten- ti. Metteva spesso i suoi migliori abiti, che dianzi giacevano nel- l'armadio, il suo più grazioso cappellino, già destinato alle messe dei giorni solenni; chiamò una sarta, suggeritale dalla Gigia, per rimodernare le fogge dei vestimenti antiquati, e pregò lo zio di comperarle il raso cangiante per un abito nuovo alla moda. Sba- gliava i punti dei ricami e delle trine, che ogni tanto buttava nel cestino e ripigliava svogliata. Passeggiava nell'orto, anche durante le ore più infuocate di quell'estate caldissima, sbadigliando, aspi- rando con le larghe narici del naso leggermente camuso gli effluvi acri e salsi del vicino canale, ed i profumi dei fiori, mezzo dissec- cati nei loro vasi, perché ella non si curava più di mondarli né di adacquarli. Non le piaceva l'olezzo delicato della vaniglia, dei ge- rani, dei pelargonii, dei gelsomini, degli amorini; preferiva, da po- co, l'odore inebbriante della gardenia, del garofano, della tuberosa. Una mattina di buon'ora, facendo fischiare in aria una sottile vermena di salcio, quasi volesse staffilare qualcuno, spiccò netto dallo stelo il grande fiore d'un giglio, che le sembrava troppo alto: in quell'istante si sentì alla porta di casa una furiosa scampanellata. Andò ad aprire. Era il maestro Zen, che, senza nemmeno salutar la fanciulla, corse dritto, tutto trafelato e sbuffante, nella camera da studio del Chisiola, ed asciugandosi il sudore sul volto con un faz- zoletto a fiorami pavonazzi, sudicio di tabacco, esclamò: "Maestro son disperato". Il vecchio lo guardò sorridendo amorevolmente, come si farebbe innanzi alle buffe disperazioni di un bimbo, e chiese: "Si tratta del setticlavio?". L'altro continuava: "Sono rovinato, sono rovinato, maestro, se ella non mi soccor- re!". Allora il vecchio diventato serio, disse: "Via, in che cosa posso aiutarti? Sai che ti ho sempre voluto be- ne, come ad uno de' miei più vecchi discepoli". Lo Zen s'era posto a sedere, accasciato, presso ad un tavolino, su cui stava una caraffa d'acqua, e ne aveva bevuto due grandi bic- chieri: "Ecco... ma prima ella mi deve promettere di non dirmi di no". "Promettere così ad occhi chiusi non posso. Ho molta fiducia nel tuo cuore, ma pochissima nel tuo cervello. Dio sa in quali pasticci ti sei cacciato". "La colpa non è mia, glielo giuro. Non è di nessuno. Se n'è immi- schiato il diavolo". "Dunque?". "Dunque ella sa, o forse non sa, perché è un pezzo che non vengo da lei, ed ella non legge i giornali: avevo promesso pubblicamente, solennemente di dare questa sera con i miei allievi un concerto per gli azionisti della mia scuola di setticlavio e di canto, invitandovi i gazzettieri della città". "Un concerto! Sei dunque infedele al tuo amico pianista, oppure hai imparato a trarti d'impaccio sulla tastiera?". "Maestro, mi corbella? Con queste mani da granchio! Ma sapevo troppo bene ch'ella non avrebbe approvato il mio impegno, anzi avrebbe tentato di dissuadermene. Non volevo mancarle di rispetto col resistere a' suoi consigli. Pregai dunque il nostro organista di San Marco, il quale, a patto d'intascare venti svanziche anticipate, ha consentito volentieri. Si fecero le prove, tutto andava a gonfie vele..." "Ed ora all'ultimo momento, l'organista s'ammala, e vieni da me a pregarmi di sostituirlo". "No, maestro. Ella non esce di casa la sera, e poi con questo cal- do, in una sala affollata! Non vorrei proporle una cosa che le po- tesse far male, se credessi di dovermi gettare in acqua con un ma- cigno al collo. Del resto, l'organista sta benone". "E allora?". "Peggio che un accidente all'organista, mille volte peggio: s'è in- freddata la Carlottina Bianchi, ch'ella conosce, la mia più ammira- bile allieva, quella che legge musica col setticlavio spedita e fran- ca quanto un prete il breviario, la mia speranza, la mia stella. Ieri all'ultima prova non istava bene. Stamani, prima di venir qua, va- do da lei; la trovo a letto con la febbre, una tosse da spaccar le co- stole, un cataplasma sul petto, e tale abbassamento di voce da non poter pronunciare una sillaba. Il medico dichiara che, se non se- guono altri malanni, fra due o tre settimane potrà cantare. Io in- tanto sono spacciato. Senza la Carlottina vanno in fumo quattro pezzi sopra otto, i più belli; e poi Mirate, che mi ha accompagnato sin qua, giura di non aprir bocca se non può cantare il terzetto della Lucrezia e il duetto dell' Elisir d'amore Così perdo anche O sì per voi già sento ch'egli dice da Dio. Rimandare il con- certo è impossibile. I giornali, aggirati dagli altri maestri di canto, i quali vedono di mal occhio la mia scuola gratuita, mi sono tutti contrari: la lira mi bistratta, la gazzetta mi stritola, il Sior An- tonio Rioba mi canzona. Domani sarebbe già troppo tardi. Gli azionisti..". "Li chiami azionisti! Vorrai dire i contribuenti alle spese della scuola. Quanti sono ora?". "Sarebbero ottantasei, impegnati con la firma a dare sei svanzi- che l'anno; ma di ottantasei, indovini, maestro, quanti hanno pa- gato. Sedici, sedici soltanto, e dopo quante sollecitazioni! Pensare che se avessero pazienza di aspettare che gli allievi diventassero tutti cantanti le azioni guadagnerebbero il cento per cento, a dir poco. Invece me le rimandano accompagnate da sarcasmi o da contumelie. Insomma, un concerto con i miei sette scolari basta a mettere in luce la verità, a sbugiardare i giornalisti, a confondere gli altri maestri di canto, a moltiplicare gli azionisti..". "Bastasse almeno a pagare i tuoi debiti!" soggiunse il maestro Chisiola, sorridendo con tristezza. "Debiti ne ho parecchi, maestro; ma, per dire il vero, ci penso poco. A me basterebbe poter pagare la pigione delle due stanze ove tengo la scuola, e il nolo del pianoforte e della musica. Conti- nuerei volentieri, come faccio da due mesi, a mangiare una volta al giorno pesce comperato dal friggitore e polenta annaffiata di un solo quartuccio di vino". "Povero amico mio, vittima del setticlavio! Dimmi alla fine come posso aiutarti". Lo Zen, che sapeva come la propria domanda avrebbe sorpreso e addolorato il maestro, esitò un momento, poi rapidamente rispose: "Permettendo alla signorina Nene di cantare questa sera, in luogo della Carlotta". Il vecchio nonno si rannuvolò. Guardava in faccia lo Zen tacen- do, come se nuove idee, nuovi timori gli confondessero la mente. Fece per rispondere, ma la parola parve troncata da un altro pen- siero triste. Già la nipote, durante le ultime due settimane, lo aveva turbato nelle sue aspirazioni e nelle sue consuetudini, poiché dian- zi si era andato via via persuadendo che nulla avrebbe alterato mai la serena pace della casetta e dell'orto; e come egli, presso alla fine de' suoi giorni, sentiva l'anima schiva da ogni agitazione mondana, così sperava dovesse essere nel cuore della giovane, la quale non conosceva ancora la vita. L'istinto dell'affetto gli figurava il primo passo nella via della vanità quale una voragine, in cui sarebbe pre- sto scomparsa l'esistenza solitaria e felice della fanciulla e di lui. Fece uno sforzo sopra di sé e, aperto l'uscio, chiamò: "Nene". Appena la ragazza fu entrata, il vecchio continuò con voce tre- molante, e interrompendosi spesso per respirare: "Senti, mia cara, l'amico Zen ti chiede un favore, una cosa che non hai fatto mai si- no ad ora, e che ripugna certo alla tua indole delicata e restia. Vor- rebbe che tu cantassi in un concerto questa sera, in compagnia di alcuni suoi discepoli, fra i quali il così detto Mirate, per sostituire Carlottina Bianchi, improvvisamente ammalata". "Signorina Nene, dica di sì" interruppe lo Zen: "la mia vita è nelle sue mani". "Sì, canterò" rispose la fanciulla, calma e sicura, senza nemmeno badare allo Zen, che gongolava e le baciava le mani. A un tratto il basso profondo, picchiandosi la fronte, si rivolse al vecchio: "Maestro, mi scordavo un incarico ricevuto or ora dal tenore, qui sulla porta. Desidera farle sapere che la richiesta di matrimonio fu un brutto imbroglio del soprano, nostro collega nella cappella, quell'usuraio lurido, indegno di appartenere all'onorato corpo dei cantori di San Marco. Egli sperava di combinare il negozio per certe sue ragioni d'interesse, mentre all'incontro Mirate è innamo- rato matto di un'altra: non mi ha detto di chi". La notizia fu di qualche sollievo al vecchio: la fanciulla invece l'accolse con altera incredulità. Avvicinatasi ai nonno per di dietro, gli diede un bacio sui capelli bianchi, bisbigliandogli: "Vedo che la mia risoluzione ti affligge. Perdonami. Sarebbero proprio riescite inutili tante tue cure per insegnarmi a cantare, se dovessi continuar tutta la vita a gorgheggiare con gli usignuoli dell'orto. Vedrai, mio buon nonno, che ti farò tanto onore". Nene conosceva i pezzi che doveva eseguire. Bastò una prova ra- pida in casa del maestro Chisiola, il quale, scordandosi un poco delle ubbie di prima, dava volentieri qualche savio suggerimento, e non sapeva vincere una certa compiacenza nell'ascoltar la nipote. Dopo finito un rondò del Cimarosa, rinzeppato di agilità e di trilli, il vecchio non poté trattenersi dall'esclamare: "Brava". Lo Zen farneticava di giubilo. Anche l'organista, tondo, sbarbato, un faccione da corcontento, súonava con ardore, non ostante alle sue mani rattrappite nell'uso quotidiano della piccola tastiera del- l'organo, e cercava i pedali, che non c'erano, pestando sul pavi- mento. Il concerto ebbe luogo in una sala offerta allo Zen per mezzo del famoso soprano, che tutti maledivano, ma che, lesto e ficchino com'era, o per via di prestiti o per altri servizi, si rendeva quasi sempre indispensabile. Stretta e lunga, la sala pareva un ampio corridoio, male illuminato da poche lampade ad olio pendenti dal soffitto basso, ove avevano lasciato dei larghi cerchi di filiggine. Prima delle otto già era quasi piena di un pubblico vario: impiega- ti, bottegai con le loro mogli e figliuole; bellimbusti amici di Mi- rate con alcune ragazze un po' scollacciate, qualche prete con le sorelle vecchie vestite di bruno; né mancavano parecchi signori della nobiltà, senza le dame, qualcuno cioè di quegli ultimi sedici azionisti, che continuavano a pagare la loro quota. I giornalisti ed i maestri di canto stavano in piedi, nel fondo, ammiccandosi, par- landosi nell'orecchio, indicando l'uno all'altro le più belle fanciul- le, e ridendo, ghignando alle barzellette ed ai motti di questo o di quello. Nene sembrava propriamente bella. I capelli rossi abbondanti, ti- rati alti sul capo e ornati di fiori candidi; il roseo fine del volto, in cui spiccavano le labbra coralline e gli occhi celesti; il collo di ne- ve; la persona non alta, ma formosa; sopra tutto quella sua nuova espressione di fermezza e di contentezza, le davano un aspetto singolare ed attraente. Il vecchio nonno, che aveva voluto per forza trascinarsi fin là, e s'era messo a sedere nella stanza destinata ai cantanti, presso al- l'uscio, il quale conduceva al palco rialzato di due gradini, non si saziava di guardar la nipote; e quando, durante i pezzi in cui can- tava e dopo la cadenza, scoppiavano gli applausi lunghi, ripetuti, fragorosi, ed era chiesto con entusiasmo il bis dagli occhi del nonno scorrevano giù per le guance le lagrime. Poi abbraccia- va la nipote, dicendole tra i singhiozzi: "Nene, mia cara Nene, come sono contento di te!". Finito il concerto ed uscito il pubblico, in una svolta buia delle scale, scendendo, Mirate circondò col braccio sinistro la fanciulla alla cintola e, tenendole con la mano destra il mento, le diede un vigoroso bacio sulle grosse labbra, che rimasero aperte e fidenti.

IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Soltanto l'uomo delle pasticche, che mangiava a ufo e abitava nel palazzo reale, soltanto lui udiva il Re senza bisogno di accostargli l'orecchio alle labbra né farvi coppo con le mani, e poteva parlare con lui senza abbassare il tono della voce. Come andava questa faccenda? Sua Maestà non gli aveva detto mai, come agli altri: "Perché urlate? Non sono mica sordo!". Eppure colui gli parlava sempre con la voce naturale ch'era un po' strillante. Aveva dunque la lingua fatta diversa dagli altri? La curiosità della gente si accrebbe il giorno che il venditor di pasticche andò in furia, perché uno gli aveva detto per chiasso: - Mostrami la tua lingua! Vo' vedere com'è fatta. Non c'era niente di male in queste parole; ma colui, infuriato, pestando i piedi e piangendo, era andato a chiudersi nella sua camera del palazzo reale e non voleva uscirne più, perché nessuno potesse più dirgli: - Mostrami quella tua lingua! Vo' vedere com'è fatta. - Perché ti arrabbi? Vogliono vedere la tua lingua? E tu mostragliela, sciocco! Così! E fece l'atto. L'altro, sbadatamente, lo imitò; ed ecco la lingua scappargli di bocca, cadere per terra e farsi in mille pezzi quasi fosse stata di terracotta.Re: - Maestà, Maestà, la Principessa Senza-lingua! Oggi si compiono precisamente l'anno, il mese e il giorno. Il palazzo reale fu a un tratto sossopra. La gente affollata dietro l'uscio voleva entrare in quella camera e vedere la Principessa Senza-lingua. Invano il Re diceva: - Non può entrarvi nessuno, neppur io; ho dato la mia parola. Chi lo sentiva? Lo vedevano gesticolare con le braccia e muovere le labbra, quasi fingesse di parlare. Il Ministro accostò l'orecchio alla bocca del Re, facendo coppo con le mani; ma il Re, infuriato, con uno spintone lo sbatacchiò addosso alla folla. Per Fortuna, in quel punto l'uscio della camera s'aperse, e tutti stupirono alla vista del gran mucchio d'oro sovra cui stava comodamente sdraiata una bellissima giovane, vestita di broccato, ornata di perle e diamanti, con le bionde trecce sciolte su per le spalle, la faccia appoggiata a una mano, e un gran ventaglio nell'altra. Si faceva vento tranquillamente. Il mucchio d'oro era proprio lo stesso regalato dal Re al Mago, grosso quanto una botte. Il Re, in un baleno, si gettò ai piedi della Principessa e gli posò la fronte su le ginocchia. Ella lasciò il ventaglio, stese la mano, gli ficcò un dito tra i capelli e diè uno strappo. Il capello incantato fece una fiammata e le svaporò fra le dita. - Grazie, Principessa Senza-lingua! Grazie, mia Regina! - disse il Re col più bel suono di voce, che nessuno avesse mai udito. - Grazie, re Tuono, mio Signore e mio Re! Insieme con l'incanto dell'uno era sparito l'incanto dell'altra. La Principessa aveva acquistata la lingua, come le aveva predetto il Mago, adattandole quella artificiale cadutale poco prima per terra. - Il vostro destino voleva così! - disse il Ministro. - Dovevate essere sposi. E ora posso andarmene. - Perché mai? Perché? Il Re non finì di dire queste parole, che il Ministro, diventato un nanino vispo vispo, si ficcò, come un topolino, tra il mucchio dell'oro e sparì. Era un servitore delle Fate. Contenti come Pasque, il Re e la Principessa si sposarono, con feste e divertimenti d'ogni sorta. Il Re perdonò ai Ministri, li fece scarcerare e li rimise in carica. Non correvano più pericolo d'assordire. - Faranno sempre i sordi! Vedrete - prognosticò la gente. E il prognostico non fallì. Maturo è il frutto, secca la foglia; Dite la vostra, chi più n'ha voglia.

CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Anche il Re e la Regina lo guardavano atterriti da un balcone del palazzo reale, e dovettero fare uno sforzo per non ritirarsi, quando il Reuccio fece abbassare il volo del drago e lo diresse proprio verso di loro e fermossi a discorrere mentre il drago si librava su le ali e si teneva quasi fermo per aria, inarcando il collo rugoso, proprio come il più superbo cavallo delle stalle reali. E fatta la prima prova con uno, la ripeteva nei giorni appresso con gli altri tre. Ora la gente gridava, sì, da ogni parte: - Il drago! Il drago! - ma era rassicurata, e godeva di vederlo aliare da un punto all'altro, col Reuccio a cavallo, che lo guidava a suo talento, e saliva e scendeva e risaliva fino a perdersi tra le nuvole a grande altezza. I brontoloni però non si davano ancora per vinti: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Vedrete, con questi draghi, che disgrazie accadranno. Sarà un Re sanguinario, se giunge a salire ai trono! Un giorno il Re chiamò il Reuccio nella sala del Consiglio. I ministri eran seduti gravemente attorno a lui. - Reuccio, - gli disse - è tempo di finirla coi capricci. Io sono vecchio, e posso morire da un giorno all'altro. Voglio lasciare ben ordinate le cose del Regno e della mia famiglia. Ho deciso di darvi moglie. Scegliete voi stesso tra le principesse più in vista. - Non ne conosco nessuna. Sarà degna della mia mano colei che, per dimostrarmi il suo affetto, avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. Il Re voleva troppo bene a quel figlio unico; si strinse nelle spalle, e accettò questa condizione. Ambasciatori partirono per diverse Corti, dove erano principesse da marito. - Dice il Reuccio: Sposerò colei che avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. Che cosa risponde la Principessa.? - Che il Reuccio è matto da legare. Gli ambasciatori si aspettavano questa risposta; e, secondo gli ordini del Re, si presentarono a un'altra Corte. Dice il Reuccio: Sposerò colei che avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. Che cosa risponde la Principessa? - Che il Reuccio è peggio che matto da legare. Gli ambasciatori, dopo questa seconda, non si aspettavano risposte diverse: ma, secondo gli ordini del Re, si presentarono a un'altra Corte. Con loro grande meraviglia, la Principessa interrogata rispose francamente: - Dite al Reuccio che accetto! Lieti di aver potuto compiere la loro missione, gli ambasciatori tornarono dal Re. - La Principessa di Spagna ha risposto: Dite al Reuccio che accetto. Il Reuccio aveva fatto costruire un'apposita stalla pei draghi, e passava lunghe ore con essi, che intendevano già ogni inflessione della parola di lui, e lo obbedivano mirabilmente. E quando egli, molto contento della risposta della Principessa, quasi sicuro o, almeno, desiderando di esser compreso, andò nella stalla ad annunziare: - Uno di voi avrà l'onore di portare sul dorso la Reginotta - parve che essi avessero inteso davvero, e proruppero in sibili acuti, girando le teste, vibrando le lingue, agitando le code. La Corte era in gran tramenìo pei preparativi delle nozze. Il vecchio Re e la Regina, che aveva pochi anni meno di lui, sembravano ringiovaniti. Il Reuccio ordinava nuove magnifiche bardature, con stoffe tramate d'oro, con galloni di oro e borchie di diamanti. Di oro era pure il freno delle briglie, e queste tutte trapunte di vere pietre preziose. Il giorno che li provò addosso ai draghi, essi parvero orgogliosi di vedersi ornati a quel modo, e sibilavano, e rizzavano le teste, e vibravano le lingue, e agitavano le code in più espressiva maniera. Anche questa volta non mancarono i soliti brontoloni di malaugurio: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Vedrete quel che accadrà con questi draghi maledetti! E avverrà anche peggio, quando costui salirà sul trono! Nella Corte della Principessa c'era un'ansiosa aspettativa, che nel popolo assumeva forza di terrore al solo pensare che il Reuccio avrebbe condotto due draghi, invece di carrozze e cavalli, e che Reginotta e Reuccio dovevano partire a cavallo di essi. - Ma sono bell'e addomesticati! - dicevano alcuni. - Con certe bestie non si sa mai! Il Re di Spagna volle interrogare novamente la figlia. - Siete proprio decisa, Principessa? -- Proprio decisa! - Ma voi non avete mai visto draghi; sono mostri orrendi. Li ho visti dipinti e non mi hanno fatto paura. Il Re era stupito di tanto coraggio; pure insisteva: - Se vi figurate, Principessa, di non trovare altro marito ... - O il Reuccio dei draghi, o più nessuno, Maestà. - Che il Cielo vi aiuti, figliola mia! Disse così; ma in fondo al cuore aveva un triste presentimento. Il giorno dell'arrivo del Reuccio poche persone si avventurarono nelle vie. La gente se ne stava rimpiattata in casa, dietro le imposte e dietro gli usci aperti a fessolino per poter assistere allo spettacolo senza incorrere in qualche disastro. Appena però s'intesero da lontano i sibili acuti dei draghi e si avvicinò il rumore delle loro ali da pipistrello larghe come vele, nessuno poté frenarsi di affacciare la testa e poi di protendersi dal davanzali; la curiosità aveva potuto più della paura. I draghi arrivavano maestosamente, con lento volo. Il Reuccio che cavalcava su uno di essi, si traeva dietro per la briglia l'altro destinato alla Principessa. Alla vista di quei mostri, ella impallidì un po' e si senti correre un lieve brivido da capo a piedi, ma si rinfrancò subito. Il Reuccio diresse il volo dei draghi verso la terrazza dov'era raccolta la famiglia reale. - Ben arrivato, Reuccio! - Ben trovata, Reginotta! - Ben arrivato, Reuccio! - Ben trovata, Maestà! Il Reuccio scese davanti al portone del palazzo reale, introdusse egli stesso i draghi nell'ampia stalla preparata per essi; li legò con catene alla mangiatoia e chiuse a chiave, per cautela, la porta. Il giorno dopo si celebrarono le nozze. Il Reuccio aveva notato un'insolita irrequietezza nei draghi; ma non se ne era dato pensiero; il lungo viaggio fatto e il nuovo locale della stalla gli parvero sufficiente spiegazione. Arrivati il giorno e l'ora della partenza, il Reuccio andò a trarre di stalla i draghi, magnificamente bardati e imbrigliati. Abbracci, baci, saluti; la Reginotta non sapeva staccarsi dal padre. Il Reuccio dové farle dolce violenza. E tra gli applausi della folla e i gridi di augurio, egli aiutò a montare sul drago la Reginotta e le mise in mano la briglia, poi montò lui e diè agli animali impazienti il cenno della partenza. Distesero le ali, si elevarono lentamente, poi presero un largo volo, e sparvero dagli sguardi di tutti. Arrivarono, dopo alcuni giorni, quelli del séguito del Reuccio, ed egli e la Reginotta, che avrebbero dovuto giungere molto prima, non si vedevano ancora. Il Re, la Regina, i Ministri spiavano il cielo dall'alto di una terrazza; ed ogni ora, ogni istante che passavano, li riempivano di ansia e di spavento. Alla Corte di Spagna attendevano, con uguale ansietà, notizie dell'arrivo degli sposi. Avrebbero dovuto ricevere staffette da correre a spron battuto, e non ne arrivava nessuna!Che cosa era dunque accaduto? Era accaduto che, dopo un lungo tratto di volo, i due draghi avevano cominciato a non più obbedire al freno della briglia. Il drago della Reginotta voltava indietro la testa quasi a fiutarla, e il drago del Reuccio, girando attorno all'altro, stendendo anch'esso la testa quasi a fiutare la Reginotta. L'odore di quelle carni fresche, non mai sentito da loro, aveva risvegliato tutt'a un tratto in essi l'istinto tenuto in freno e sopito dall'addomesticamento fatto dal Reuccio, ma non distrutto. I draghi finalmente si fermarono, non vollero più andare avanti né indietro. Si libravano su le ali e stendevano la testa con la bocca spalancata vibrando le lingue che parevano di fuoco, tentando di addentare la Reginotta e di farne due bocconi. Ella non capiva il pericolo, ma il Reuccio ne fu spaventato. Afferrò disperatamente le redini, e con rapido moto le attorse attorno al collo del suo drago e strinse forte forte, per soffocarlo. Il drago diè due trabalzi per buttar giù di sella il Reuccio, poi barcollò, piegò a metà le ali e cominciò rapidamente a scender giù, tramortito. L'altro seguì il compagno; ma il Reuccio, colto il momento, slanciossi a cavalcioni su lui, afferrò le redini e gliene attorse al collo come all'altro, e strinse forte forte. Il mostro diè due, tre balzi, barcollò, piegò a metà le ali e segni più rapidamente nella discesa, tramortito, il compagno. Appena toccata terra, Reuccio e Reginotta saltaron giù di sella. I due draghi, soffocati, davano gli ultimi tratti. Per la campagna dove erano discesi non si vedeva anima viva. Stoppie, stoppie, stoppie, a perdita di vista e qualche albero qua e là. In fondo, una casetta di contadini; ma bisognava far molta strada per arrivarvi. Dopo quattro giorni di cammino a piedi, Reuccio e Reginotta non si riconoscevano più dagli stenti e dalla fatica. Finalmente s'imbatterono in un carro guidato da un contadino. - Se ci porti fino al palazzo reale, farai la tua fortuna! - E voi chi siete? - Siamo il Reuccio e la Reginotta. - Il Reuccio e la Reginotta sono morti. Il Re e la Regina hanno già preso il lutto. A chi volete darla a intendere? Vi porto per carità, perché siete due poveri diavoli affamati e stanchi. Su, montate. Giunti alla porta della città, il contadino voleva che scendessero. - Accompagnaci fino a casa nostra e sarai ricompensato. Il contadino disse: - Ho fatto novantanove; facciamo cento! E tirò avanti. Il portone del palazzo reale era chiuso per lutto. Quando il contadino capì che quei due poveri diavoli affamati e stanchi, come li aveva chiamati, erano davvero il Reuccio e la Reginotta, cominciò a tremare dalla paura di averli offesi. E per ingraziarseli si diè a picchiare forte, gridando: - Aprite, aprite! ... Il Reuccio! ... La Reginotta! Le guardie lo presero per ubriaco o per pazzo, e volevano arrestarlo. Quel che accadde nella Corte tra Re, Regina, Reuccio e Reginotta, immaginatelo voi. Il Reuccio raccontò del gran pericolo corso, e la morte dei due draghi. - E i due rimasti qui? Nessuno aveva voluto cimentarsi a governarli, ed erano morti di fame nella stalla. Si sentiva il puzzo delle loro carogne. Da allora in poi il Reuccio non tentò più di addomesticare animali feroci, convinto che presto o tardi l'istinto riappare. E poi - gli disse un giorno il padre - quando io non ci sarò più, avrai ben altro animale feroce da ammansire! E indicava la folla che sotto il palazzo reale gridava a squarciagola, battendo le mani: Viva il Reuccio! Viva la Reginotta! Fiaba detta, fiaba scritta, Ora va storta, ora va diritta.

SI CONTA E SI RACCONTA - Fiabe Minime

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Il ragazzo cominciò ad alzare e abbassare le braccia quasi avesse in mano il manico dell'arnese di cui portava il nome, e in men che non si dica il suolo di quella stanza fu sossopra. Il Re non sapeva dove riguardarsi i piedi. - E per farlo smettere? - domandò. - Lasciate andare la zappetta d'argento. Infatti, tutt'a un tratto, Zappa cessò di lavorare. Non occorse far la prova con Falce. Visto che quel contadino non era un matto, il Re gli disse: - Chiedi quel che vuoi; e ti sarà concesso. - Non chiedo niente. Me ne vado dal mio padrone. Si allungò, ondeggiò quasi fosse stato di fumo e dileguò dalla grata del finestrino del carcere. Il Re si convinse che il Mago era lui, il contadino. E tornato a palazzo reale fece un decreto: - Chi vuole Zappa, chi vuole Falce, faccia richiesta al Re: gli saranno concessi. Voleva che coloro che avevano campi da zappare e da falciare godessero di quel benefizio. Da principio la gente diffidò, quantunque vedesse coi propri occhi il portentoso lavoro di Zappa e di Falce. Poi uno, poi due, poi dieci, venti proprietari di campi si decisero; si contendevano Zappa, si contendevano Falce, secondo le stagioni. E i poveri zappatori, i poveri mietitori trovavano a stento da lavorare perché Zappa e Falce facevano meglio e più presto di loro. Nacquero dei tumulti. - Morte a Zappa! Morte a Falce! E una mattina, cerca e chiama: - Zappa, o Zappa! Falce, o Falce! - i due fratelli erano spariti, non si seppe mai come, né dove. Ma la fiaba dice: Zappa e Falce torneranno Zapperanno e falceranno; Falceranno, zapperanno Tutto l'anno!

LE ULTIME FIABE

661849
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Faceva il giro dell'orto, si posava su una pianta, sfiorava col volo i cesti di lattuga e dei cavoli, risaliva in su, quasi sdegnato di essersi potuto abbassare fino a quelle meschine verdure, e volteggiava in alto con ebbrezza, senza curarsi della bambina che gli correva dietro per afferrarlo e gli gridava: - Farfallino! Farfallino mio! Stanca, ansante dalla corsa, si era fermata per riprender fiato, ed ecco che Farfallino le gira attorno, si avvicina, si allontana, torna ad accostarsi e finalmente le si posa sul dorso di una mano, come per baciargliela. Ella cercò di avvicinare cautamente l'altra mano ed afferrarlo, ma Farfallino era già lontano, in fondo all'orto scapricciandosi a volare su e giù, andando a fermarsi su la pianta della rosa che l'aveva accolto da bruco. Allora la bambina gli tese la mano per rassicurarlo e invitarlo, e Farfallino, compiacente, andò a posarvisi di nuovo, aprendo e socchiudendo le belle ali screziate. Da quel momento in poi, la bambina e Farfallino furono indivisibili. Ella lo portava attorno posato sui capelli quasi fosse uno spillone, posato su una spalla come un uccellino ammaestrato; posato su l'indice della mano quasi fosse un anello da mettere in mostra. Poi, improvvisamente, Farfallino scappava via nell'orto, volteggiando da un punto all'altro, sparendo di là del muro di cinta, spingendosi in alto, in alto, sui tetti delle case vicine, e tornando giù precipitosamente, facendo mille scherzi di volo attorno alla bambina che lo sgridava: - Basta, Farfallino! Non farmi arrabbiare, Farfallino! Era sparito? Dov'era andato il cattivo? E correva a guardarsi nello specchio per convincersi se le si era posato sui capelli. Era là, proprio, tra la scriminatura rasente alla fronte; e lei sorrideva, inorgoglita, vedendogli aprire e chiudere le alucce ritte; sembrava dirle, ridendo: - Son qui! ... Sei contenta? Non erano però molto contenti i genitori. La bambina cresceva, sì, facendosi ogni giorno più bellina, più aggraziata. Non sembrava figlia di contadini, con quella fine carnagione del viso, con quelle manine bianche, piccole, affusolate che, con la scusa di Farfallino, non facevano più nessun lavoro manuale. Ma questo divertimento quanto doveva durare? E la grande fortuna annunciata dalla fattucchiera e dallo Stregone non accennava ad arrivare! - Come fare, marito mio? - Abbozziamo ancora, moglie mia! - Certamente quel che ci accade non è cosa ordinaria. - Ma ogni bel gioco dovrebbe durar poco. Finirà che con una manata accopperò Farfallino, un giorno o l'altro. Si udì di là una gran risata: Ah! Ah! Ah! Il contadino, indispettito, corse a vedere. Non c'era nessuno. Rimase male, ed ebbe paura. Ragionava di questo con la moglie, quando vide presentarsi un messo del Re. - Ordine di Sua Maestà! Dice che vostra figlia ha una farfalla meravigliosa, sconosciuta. - È vero. - La famiglia reale vuol vederla. Venite tutti con me. - Ma la farfalla è libera: va e viene capricciosamente. - Non voglio saper nulla. Ordine di Sua Maestà! La moglie disse al marito: - Sarà, forse, il principio della gran fortuna! Quando comunicarono alla figlia: Ordine di Sua Maestà, la ragazza si rivolse a Farfallino: Sai, Farfallino? Vuol vederti il Re. Farfallino, che le stava posato su l'indice, diè un balzo e volò lontano. - Avete visto? - disse il padre al messo. - Non voglio saper nulla. Ordine di Sua Maestà! Vò a chiamare le guardie per farvi legare. Non occorse. Farfallino era già tornato posandosi sui capelli della ragazza. - Grazie, Farfallino. Ora andiamo dal Re. La famiglia reale e i Ministri erano raccolti nel salone delle udienze, in attesa. - Oh, bella! Oh, bella! Tutti ammiravano la farfalla che apriva e chiudeva irrequietamente le ali su i capelli della contadinella. La Reginotta allungò la mano per prenderla, ma diè un grido: era rimasta col braccio teso, irrigidito. Allungò la mano anche il Reuccio, e diè un grido pure lui: era rimasto col braccio teso, irrigidito. Così il Re, così la Regina, che si provarono uno dietro all'altra. Alla vista delle quattro braccia tese a quel modo, la ragazza scoppiò in una matta risata, e Farfallino si diè a danzarle davanti allegramente; per poco non sembrava che facesse matte risate anche lui. Il Re disse: - Se fra cinque minuti tutto questo non sarà cessato, marito, moglie e figliuola avrete tagliata la testa! - Ah, Farfallino! Abbi pietà di noi! Alla preghiera della ragazza, Farfallino svolazzò, sfiorando le quattro braccia tese, irrigidite, ed esse si piegarono a poco a poco e tornarono allo stato naturale. Il Reuccio e la Reginotta però cominciarono a strillare, a battere i piedi: - Vogliamo la farfalla! Vogliamo la farfalla! Ma, che è, che non è, guarda qua, cerca là, Farfallino era sparito! E il Re, che si credeva burlato da quei contadini, ordinò: - Stiano in carcere a pane e acqua, finché la farfalla non torna. Marito e moglie, quasi al buio, in quella fetida cella, si lamentavano piangendo: - Ecco la gran fortuna che doveva toccarci! Non avevano finito di parlare, che la stanza s'illuminò. Pareti e pavimento di marmo finissimo, e nel centro una tavola apparecchiata, con vivande fumanti. In un canto la ragazza diceva, sottovoce, carezzevoli parole a Farfallino, che pareva stesse seriamente ad ascoltarla. Dopo che ebbero allegramente desinato, la luce disparve; pareti e pavimento tornarono allo stato di prima; ma il carceriere entrato con la lanterna in mano per l'ispezione, fu meravigliato non solamente di trovare intatti il pane e l'acqua che dovevano sostentare i prigionieri, ma di scoprire in un canto ossa di pollo, croste di pane bianchissimo, bucce di frutta e briciole di torta. - Come mai? E corse ad avvertire il Re. Il Re trovò marito, moglie e figliuola stesi per terra addormentati; se non che nella cella si sentiva un odore - di gelsomini? di rose? di garofani? non si distingueva bene - a confronto del quale l'aria delle stanze reali diventava nauseabonda. Tornò indietro, senza svegliarli, e disse alla Regina: - Maestà, ci troviamo davanti a un mistero. Se sentiste che odore c'è in quella cella rimarreste incantata. Ho paura di attirarmi addosso qualche malanno, tenendo ancora in carcere quei tre. - Sempre pauroso, Maestà. - Dite piuttosto: prudente. - Dovrà vincerla, dunque, quella contadinaccia? Pare impossibile! E il Reuccio e la Reginotta non dovranno neppur vedere la famosa farfalla? - Ce n'è tante pei prati! - Ma non sono ... "quella"! - Tentate voi, Maestà, per la farfalla. Se riuscite, tanto meglio. La ragazza venne condotta al cospetto della Regina. - Dov'è la farfalla? - È andata via pei fatti suoi, Maestà. - È ammaestrata? - Si è ammaestrata da sé, Maestà. - Te la cambierei con un bel marito: un sergente delle guardie. - Ho qualcosa di meglio in vista, Maestà. - O un capitano delle guardie, giovane e bello anch'esso ... - Ho qualcosa di meglio in vista, Maestà. La Regina, spazientita, disse: - O che vorresti per marito il Reuccio? - Ho qualcosa di meglio in vista, Maestà. La Regina non si contenne più e spinse la mano per darle un gran schiaffo. A mezza strada, la mano si staccava dal polso e andava a cadere in un angolo della stanza. La Regina, allibita, atterrita, vide la ragazza chinarsi, raccogliere la mano, ungerla, nel punto dell'attacco, con un po' di saliva e riunirla al polso come se niente fosse stato. - Ah! Ti darò anche ... il Reuccio! - esclamò in un impeto di gratitudine. - Grazie, Maestà! Ho qualcosa di meglio in vista, Maestà. La Regina, mortificata, non fiatò più, e disse al Re: - Si, è forse meglio scarcerare quei tre. La ragazza credeva di trovare a casa, o nell'orto, Farfallino che, da due giorni, non si faceva vedere. Ne passarono otto, ne passarono dieci, e di Farfallino nessuna notizia. La ragazza piangeva, rifiutava di prender cibo, andava a letto e non riusciva a chiuder occhio. Padre e madre se la vedevano dimagrire davanti, pallida, muta. Il padre minacciava: - Se lo trovo, con una manata lo accoppo! La madre soggiungeva, scusandolo: - Chi sa che gli è accaduto, poverino! E tornò a consultare la fattucchiera: - Ah, comare! Comare! Mi avete ingannata! La grande fortuna dov'è? - Spesso, quel che ci pare una disgrazia è una fortuna. Tenetelo a mente, comare!, Anche il marito tornò dal vecchio che passava per Stregone: - Ah, compare! Compare! Mi avete ingannato! La grande fortuna dov'è? - Quel che ci pare una disgrazia, spesso spesso è una fortuna. Che ne sappiamo, compare? La ragazza continuava a piangere, rifiutava di prender cibo, andava a letto e non riusciva a chiuder occhio. E una mattina fu trovata stesa supina nel lettuccio, bianca bianca, con le braccia conserte sul seno; pareva placidamente addormentata ... ed era morta! E sul suo corpicino irrigidito si vedeva straluccicare, da capo a piedi, un lieve strato delle impalpabili scaglie delle ali di Farfallino, quasi polvere di oro, di diamanti, di ametiste, di smeraldi, di rubini da lui venuta a spargere, invece di fiori, sul cadavere dell'amica diletta. Marito e moglie piangevano zitti zitti, confortandosi alquanto con le parole di quei due: - Spesso, quel che ci pare una disgrazia è una fortuna. Che ne sappiamo? Stretta la foglia, larga la via, Ogni disgrazia fortuna sia!

Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Ella si era arrestata un istante, meravigliata di vederlo rannuvolare in viso e di vedergli abbassare gli occhi quasi volesse evitare di guardarla o sfuggire di essere osservato; poi aveva ripetuto la domanda: «Ho fatto male?». «No. Certamente», proseguì il marchese con voce turbata, «non potrà riuscirmi piacevole l'avere sempre dinanzi chi mi ricorderà avvenimenti che mi hanno contristato assai ... » «Posso riparare, se ho sbagliato.» «La marchesa di Roccaverdina, quando ha dato la sua parola, deve mantenerla a ogni costo.» «Ma, infine, che tristi cose può rammentarvi quel ragazzetto? Se suo padre è morto in carcere, non ci ha colpa lui. Il male, se mai, l'ha fatto quello; dico così perché ha ammazzato, per gelosia. Non era un cattivo soggetto, non rubava; campava facendo il cacciatore. Tutti lo proclamano anzi un brav'uomo. Voleva troppo bene a sua moglie; la gelosia lo ha perduto. In certi momenti, quando la passione ci offusca il cervello, noi non sappiamo più quel che facciamo ... Io lo avrei assolto ... » «E ... l'ucciso?», disse il marchese ... Ma subito, quasi questa domanda gli fosse sfuggita suo malgrado, si affrettò a soggiungere: «Che bei discorsi a tavola! ... ». «Io non credevo di vedervi accigliare per un mio atto di carità ... », rispose Zòsima dolcemente. «Eppure la povera vedova non si stanca di benedirvi, gratissima di tutto quel che voi avete fatto per essa e pei suoi bambini, durante la mal'annata. Volevate essere solo nel beneficarla? Ah, da ora in poi le buone opere dobbiamo farle insieme!» Sorrideva, tentando di scancellare la cattiva impressione da lei involontariamente prodotta; e si meravigliava che restasse silenzioso, e non riprendesse a mangiare. «Non avrei mai creduto di farvi tanto dispiacere!», esclamò. «È una mia ubbia, scusate», egli rispose. «Forse m'inganno ... E poi ... Mi abituerò a vedere il ragazzo ... Parliamo d'altro.» Prese dalla fruttiera un bel grappolo di uva e lo porse in un piatto alla marchesa, dicendole: «È cosa vostra, di Poggiogrande». Vedendo che ella, assaggiatone soltanto pochi chicchi, riprendeva a picchiare distrattamente su la tavola con la punta della forchetta, il marchese, un po' impacciato, le domandò: «Non vi piace?». «È eccellente ... L'ucciso avete detto? ... » Il marchese la guardò negli occhi, stupito di sentirle riprendere il discorso di prima. «L'ucciso, capisco, era persona di casa vostra», ella continuò. «Lo chiamavano Rocco del marchese ! Gli volevate bene perché abile, fedele; non avete ancora trovato chi possa sostituirlo ... Ma ... giacché, per caso, siamo venuti a parlarne, voglio dirvi schiettamente la mia impressione.» «Dite.» «Se fosse vivo, quell'uomo mi farebbe ribrezzo.» «Ribrezzo?» «Sì. Uno che può sposare l'amante del padrone ... per interesse, non per altro ... Oh! La sua condotta lo prova. Se l'avesse sposata per passione, io ora lo compatirei ... Ma non l'amava, non si curava nemmeno di salvare le apparenze ... Insidiava le mogli degli altri. Voialtri uomini però giudicate a modo vostro ... La stessa sua moglie doveva forse disprezzarlo ... Vedete? In questo momento vi ricordo persone e fatti che vorrei dimenticati da voi; che voi mi avete detto più volte di ricordare appena, come fantasmi di un sogno lontano ... » «Non mi avete creduto?» «Se non vi avessi creduto, non ve ne parlerei; quantunque di tanto in tanto ... Ecco; ve ne parlo per questo. Avrei dovuto avere la franchezza, il coraggio di domandarvi ... E, invece, faccio come coloro che intraprendono un gran giro per arrivare a un punto dove temono di trovare una trista notizia, quasi il ritardare per via fosse un sollievo anticipato ... » «Che avete, Zòsima?», disse il marchese, levandosi da sedere, e avvicinandosi a lei premurosamente. «Che vi hanno detto? ... Che sospettate? Quella stupida di mamma Grazia, forse ... » «No, poveretta! ... Ho il cuore gonfio. Sappiatelo, Antonio. Non mi sento ... amata da voi!» E alcuni singhiozzi soffocarono queste ultime parole. «Perché? Perché?», balbettò il marchese. «Dovreste dirmelo voi perché!»

PROFUMO

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Capuana, Luigi 4 occorrenze

Egli le andava dietro per la stanza, accennandole con le mani di abbassare la voce, supplicandola, col gesto, di cal- marsi, di prestargli fede. Le andava dietro, atterrito dell'opera di sua madre, che gli distruggeva in un istante la pace, la felicità, come gli attestavano quei cupi sguardi di Eugenia, quelle labbra contratte da angoscia ineffabile, quelle mani nervosamente agitate che brancicavano il vuoto, quello strazio scoppiato nel grido: "Dimmelo! ... Dimmelo! ...". E aveva ragione. "L'hai vista poco fa, l'hai vista?" riprese Eugenia con voce tremante. "Perché dovrebbe odiarti?" la interruppe Patrizio. "Me lo domando anch'io: Perché? Ed è stato fin dal primo giorno!" Egli l'area fermata presso la finestra, prendendola per le braccia, accostandosela al petto, quasi volesse così impedir- le di proseguire. Ma Eugenia proseguiva, agitatissima: "Sin dal primo momento! Non ho mai potuto dimenticare, mai! quel suo glaciale: "Siate la benvenuta in casa no- stra!" e il bacio più glaciale ancora con cui ella rispose al mio, così rispettoso e affettuoso, il giorno in cui ci sposammo. Ma allora io dissi dentro di me: "Non mi conosce; mi ha vista appena due o tre volte, non può amarmi. Sono quasi u- n'intrusa in casa sua" lasciami dire, lasciami sfogare! "Spetta a me sapermi a poco a poco cattivare il suo cuore!" Non sono riuscita. Ho tentato tutti i mezzi. Non sono riuscita! Ogni volta che ti accennavo lo strano contegno di tua madre, tu mi rispondevi: "Carattere! Le sventure domestiche, la vita solitaria l'hanno irrigidita: non è espansiva nemmeno con me che sono suo figlio ... Non badarci!". Ma come non badare alla continua diffidenza con cui mi vedevo osserva- ta, al suo continuo inframmettersi tra te e me, quasi il mio contatto avesse qualcosa di nocivo per te e ch'ella voleva in- frenare o combattere? ... Tu mi ripetevi: "Non badarci!". Allora, vedendo che ti angustiavi e che ne soffrivi, non te ne dissi più niente; ma continuai a badarvi più di prima. Come no? Come no?" "Calmati, Eugenia, calmati! ..." "Lasciami sfogare. Ho taciuto tanto; non ne posso più!" "Abbassa almeno la voce!" egli pregava. "Perché tua madre non senta? Ma dovrà sentirmi, lo voglio; voglio che mi dica: "T'odio per questo!". E sarò conten- ta. Così non può durare." "Oh Dio! oh Dio!" smaniava Patrizio. "Sono stata paziente, troppo. Il vaso era colmo fino all'orlo; una goccia è bastata per farlo traboccare. Non è colpa mia. Volevo risparmiarti questo dolore. Ormai! ... Dimmelo dunque, dimmelo: Perché m'odia? Perché?" "La tua immaginazione ti fa travedere" diceva Patrizio. "Persuaditene. Te lo giuro! La mamma è buona, incapace d'odiare una persona come te, che non le hai fatto niente di male. Dovrei dire lo stesso per conto mio, se guardassi sol- tanto ai suoi modi; sarebbe assurdo. È stata inasprita dalle sventure, povera donna, e dalle malattie. Tu sai la vita che vive: cupa, silenziosa, tra il letto e una poltrona. L'ho vista sempre così; non ha mai sorriso, mai! Non ne ha mai avuto occasione, povera donna, dopo la morte del babbo e la rovina della nostra casa!" "E che c'entro io?" "È per spiegarti ..." "Non spieghi nulla. Lasciami, non mi stringere così!" Egli se la stringeva forte al petto" l'accarezzava per rabbonirla, per farle intendere che non si trattava d'odio, no. E, sentendola tremare tra le braccia, scossa da fremito convulso, addolciva ancora più l'accento, accostava la fronte a quel- la di lei con amoroso abbandono, come raramente soleva, mormorandole su la faccia: "E poi, che te n'importa? Non t'amo io? Che te n'importa?" "Ah!" ella esclamò, svincolandosi con vivacissimo sforzo. "Ecco perché me ne importa!" La sua voce era piena di singhiozzi e gli occhi di lagrime che le solcavano le gote, senza che ella badasse ad asciu- garle. "Ecco perché me n'importa! Sento qualcosa di duro, d'impenetrabile, che si è già frammesso tra noi due, contro di cui urto con la testa e non riesco a spezzarlo. Picchio e non mi senti. Chiamo e non mi rispondi. Il tuo cuore è invasato da sentimenti che non intendo. Oh! Tu hai paura di lei. Non negarlo. Hai paura!" "Paura di mia madre?" "Sì! Sì! Sì!" Patrizio rimase interdetto. Colei che si vedeva davanti, altera e bella nel disordine dei capelli, nel turbamento dell'aspetto e della voce, nella durezza insolita della parola, non gli pareva più la sua dolce, la sua sommessa, la sua quasi timida Eugenia. Quel non so che di fanciullesco, di spensierato, di allegro, di verginale che ne formava l'incanto era sparito. Tutti i lineamenti di lei parevano cambiati di punto in bianco, con quelle sopracciglia aggrottate, con quegli occhi dallo sguardo incerto, con quelle labbra aride e contratte, con quella persona che pareva ingrandita, tanto il busto si ergeva fiero in quell'istante, elevando la testa e il collo gonfio dallo spasimo. "Sì" continuava fissandolo "hai paura di lei! Ebbene, che pretende tua madre? Ora sei mio. Sei suo figlio, ma sei mio! Mio, perché ti voglio bene quanto lei, anzi più di lei. Ella ti ama come madre, io come moglie; ed è diverso. Ella ti ha dato il latte ... Io, il mio amore, l'anima mia, tutta me stessa! ... Ti appartengo, come tu mi appartieni." E l'afferrò tra le braccia furiosamente, quasi fosse là qualcuno che volesse rapirglielo. "Mi appartieni ... Sei mio! Non sei più suo! No! ... Non sei più suo! No! No! ..." E, al balbettio di queste ultime parole, Patrizio sentì irrigidire tutto il corpo di lei, che si stirava con le braccia tese in avanti e i pugni stretti. "Eugenia! Eugenia! ... Mamma! ..." La sollevò, l'adagiò sul letto, cercando di frenare il dibattito di tutte le membra nella convulsione crescente, e tornò a chiamare più forte: "Mamma! Mamma!" Eugenia si agitava, mugolando, svincolandosi a scatti. La signora Geltrude picchiò ripetutamente dietro l'uscio di comunicazione delle due camere. Era chiuso col paletto; Patrizio dovette abbandonare Eugenia un istante per correre ad aprirle: "Mamma! Ah, mamma!" Ella si fermò a pochi passi dall'uscio, severa più dell'ordinario, colpita dallo spettacolo di quel giovine corpo agitato dalla crisi nervosa. "Lo vedi? È un'isterica! E non volevi credermi!" disse senza scomporsi. "Mamma!" urlò Patrizio, vinto dallo sdegno. E si volse alla vecchia donna di servizio, accorsa al grido: "Dorata, presto, il dottor Mola! ... Presto!"

Intanto si rivedeva nel punto di arrampicarsi sul ciglione, sorretta dalla mano di lui; tornava a provare l'impaccio provato nella grotta al trovarsi sola con lui; sentiva di nuovo la mortificazione di aver dovuto abbassare gli occhi, poco dopo, come se non fosse stata tanto forte da poter sostenere gli sguardi di lui. E se n'era sentita turbata! In quello stesso momento non ne era pure turbata? Infatti le facevano male, le si conficcavano nel cuore come tante punte di spillo. Oh, non voleva pensarci! ... Non doveva pensarci più! ... No, anzi! Anzi! Prima, non era niente; ella non sapeva. Ma dopo che le si era fatta quella improvvisa luce nella coscienza, oh, doveva badarci! ... Badare a che cosa? ... Era assurda! Tentò di distrarsi, pensando a Giulia, alla zia Vita con le sue cento richieste di matrimonio, e sorrise. Si sentiva però lentamente penetrare da tristezza grande, da strane paure dell'avvenire, che la riempivano di scoraggiamento. Perché Pa- trizio non era accanto a lei? Come si sentiva sola, abbandonata da tutti in quel momento, nel silenzio di quella notte e- stiva, mentre ogni cosa dormiva, e dalla selva, dall'abitato, dalla lontana campagna non le arrivava nè una voce, nè un rumore, tranne il monotono zampillare della fontana, laggiù, tra gli alberi, quasi sommesso borbottio! Dall'orologio del convento cominciarono a squillare i rintocchi alternati della mezzanotte. Non si sentivano soltanto i colpi dei martelli su le campane e la ondulazione del suono, ma anche lo stridio delle ruote del congegno simile a di- grignare degli enormi denti di un mostro appollaiato sul campanile, l'ombra del quale, gigantesca, si allungava sugli al- beri, si sdraiava pei viali, si drizzava fin sul bianco muro di cinta e perdeva la cima nell'abisso sottostante. "Mezzanotte!" esclamò, meravigliata del tempo trascorso. E quantunque i rintocchi dell'orologio, che non finivano più, le facessero scorrere un brivido di freddo per le ossa, rimase ancora un istante alla finestra, con lo sguardo smarrito nello spazio, senza pensare, sentendo soltanto un indolen- zimento per tutta la persona, una pesantezza che le inchiodava le braccia sul davanzale e le impediva di rizzarsi. Chiusi i vetri e la imposta, cominciò a togliersi, davanti lo specchio, le forcine dai capelli. Si vedeva pallida, un po' dimagrita, con occhi straniti. Sì, Patrizio e il dottore avevano ragione: era malata tuttavia. Perché voleva nasconderlo? I suoi nervi fremevano. Pure - e si annusava ripetutamente le mani - nessuna traccia di odor di zagara! Ma non voleva dir nulla! Abbassò il lume, si spogliò frettolosamente, ed entrata nel letto, cacciò la testa sotto la coperta per addormentarsi più presto. Gli occhi le si sbarravano nel buio, mentre recitava le devozioni. E si distraeva, ripigliava una preghiera interrot- ta, tornava a distrarsi; sempre con quegli sguardi persecutori davanti a sè, e nell'orecchio il suono delle parole che li a- vevano accompagnati dentro la grotta, lungo l'orrido, nella campagna, davanti a la casa rustica, tra le risate ... Oh, Vergine benedetta! ... Perché vi si fissava? ... Perché non poteva scacciar via quell'ossessione? ... Si agitava nel letto, smaniando, spingendo la testa fuori delle coperte. Le pareva di soffocare. Però, udito nel corri- doio i passi di Patrizio, si rannicchiò e chiuse gli occhi per farsi credere addormentata. Lo sentiva andare e venire in punta di piedi, smovere con cautela una seggiola, posare il lume sul tavolino da notte; poi, per qualche istante, non sentì più nulla; forse si era fermato a osservarla. Il cuore le batteva violento nell'attesa. Ed ecco un fruscio lungo il muro del corsello; ecco due mani che tastavano delicatamente la coperta con cui ella s'era quasi avviluppata la testa, e che cercavano di scoprirla, o di praticare un adito all'aria libera della stanza. "Così soffochi" udì borbottare. Le rivolgeva la parola, quantunque la credesse addormentata. Ed ella, restando immobile e trattenendo il fiato, pro- vava un dolce senso di ristoro nel sentirsi protetta e sorvegliata in quel modo da suo marito, la cui sola presenza bastava in quel momento a tranquillizzarla, a fugarle dall'animo ogni visione turbatrice. "Il caffè lo prenderemo all'aria aperta, su la terrazza" propose il dottore. E tutti si alzarono da tavola. Il sindaco faceva caldi complimenti alla padrona di casa. "Pranzo squisito! Ha visto? Gli ho fatto proprio onore." L'ispettore invece, da buon piemontese, aveva fatto onore alle bottiglie di vino vecchio, regalate dal sindaco in quel- l'occasione all'Agente. Aveva gli occhi imbambolati, il viso rosso; e la lingua impastava male le poche frasi che gli riu- sciva di mettere insieme. Però si reggeva fermo su le gambe, e marciava pel corridoio con aria militaresca, mandando fuori i vortici di fumo del suo virginia, che infastidivano il dottore. Ruggero si era fermato davanti all'uscio per lasciar passare Eugenia, indugiata a dare degli ordini. "È in collera? Non mi ha rivolto neppure una parola!" le disse, scherzando. "Perché dovrei essere in collera?" ella rispose. "Neppure lei ha detto una parola." "Quando c'è papà, bisogna star zitti. Oggi è così arrabbiato con me! ..." "Avrà una ragione." "I padri ne trovano sempre qualcuna per sgridare i figliuoli. Come se non fossero stati giovani anche loro!" "Per ciò hanno un tesoro di esperienza." "Lo lascino acquistare anche a noi!" Pareva ch'ella avesse fretta di allontanarsi, così lestamente andò a raggiungere il cavaliere fermàtosi nel corridoio a discorrere con Patrizio. "Gioventù! Sì, lo capisco" diceva il cavaliere quasi sottovoce. E s'interruppe, visto che Eugenia si scostava, credendo che essi volessero ragionare di qualcosa in disparte. "Oh, signora mia! Niente di segreto. Dicevo: gioventù! a proposito di quel ragazzaccio. Che croce questi figliuoli! Quando ne avrà, me ne darà notizie. I maschi per un conto, le femmine per un altro. Auff! Seguitando il discorso, caro signor Agente, sono del suo parere. È prudenza chiudere un occhio su qualche marachella giovanile; ma tutti e due, no, no! E nel caso di cui le parlo, è bene tenerli aperti, molto aperti. C'è di mezzo il marito, omone più alto di me, che porta il berretto sull'orecchio, a mamma-santissima: mafioso, che scherza col crocifisso come lei con la penna ... Il crocifisso è tanto di coltello, lo sa. Chi potrebbe dargli torto? Tu mi togli l'onore, io ti tolgo la vita. Finora non ha ammazzato nemmeno una mosca. Il passato brigadiere ... lasciamolo stare. Era brigadiere, e il marito forse faceva l'allocco per forza, o perché gli tornava conto: bevevano, mangiavano insieme ... Forse non c'è nulla di ve- ro in quel che dicono le male lingue ... Non voglio entrarci. Infatti, a vederla, colei sembra la Madonna immacola- ta ... È venuta da un anno ad abitare nel vicolo di fronte a casa mia. Chi poteva immaginarlo? Lui dal balcone del- la sua camera, lei dalla finestra. Non lo vedevo più per le stanze, a mettere tutto sossopra come prima ... "Che fa Ruggero?" "È in camera; studia." Bello studio! Telegrafia! Intende? E poi il resto! Ma un angelo è venuto a dirmi all'o- recchio: "Cavaliere, badi! Così e così. Ho visto con questi occhi, ho inteso con questi orecchi". Non so chi m'abbia trat- tenuto dal prendere la canna d'India di mio padre e spezzarla sulle spalle del ragazzaccio! Lo ammonisca lei, caro signor Agente. Di lei ha soggezione; le vuol bene. Anche la signora dovrebbe ammonirlo. Quasi mi mancassero sopraccapi!" Erano usciti su la terrazza, e il Padreterno già portava il vassoio con le tazze del caffè. L'ispettore, rinfrescato dall'a- ria aperta, parlava un pochino più sciolto, questionando col dottore intorno ai beni delle corporazioni religiose soppres- se: "Roba della nazione, la nazione se la è ripresa." "E la volontà dei testatori? E la libertà individuale? E l'autorità della Chiesa?" Appena il Padreterno riportò via le tazze vuote, l'ispettore diventò allegro, e la discussione tra lui e il dottor Mola si riaccese. Il dottore, seduto su la panca di pietra che orlava i quattro lati della terrazza, con le gambe allungate e accaval- ciate, girando i pollici delle mani uno attorno all'altro, aveva dovuto cedere la parola al cavaliere, il quale dava un colpo al cerchio e uno alla botte, per non compromettersi davanti a un funzionario del governo. Il dottore ora approvava, ora scoteva la testa negando, secondo il suo modo di vedere, convinto che sarebbe stato inutile tentar di arrestare un mo- mento la foga della parola del cavaliere; ma l'ispettore, irritato da quella verbosità, stendeva le mani, lanciando di tratto in tratto: "Prego! Prego! Ma veda! Ma senta!" senza poter aggiungere altro, perché il cavaliere: "Capisco! ... Ho inteso! Si lasci servire!" e tirava via, alzando la voce, quasi urlando. "Lasciamoli accapigliare" disse Ruggero, accostandosi a Eugenia, che si era appoggiata al parapetto in un angolo della terrazza. Eugenia non si voltò, nè rispose. "Che cosa ha?" "Sto a sentire." "È di malumore." "Del solito umore." "Che cosa diceva papà all'Agente?" "Non lo so ..." "Parlava di me, l'ho capito." "Dunque perché domandarmelo?" Ruggero rimase alquanto imbarazzato dal tono delle risposte; poi soggiunse: "Per dirle che mio padre esagera." "Esageri, o dica la verità ..." "Non vorrei ch'ella si formasse una cattiva opinione di me." "Io? Che c'entro io?" "Ha ragione!" egli rispose dopo breve pausa. E si rizzò su la vita, guardandosi le ugne, lievemente arrossito in viso. Eugenia non si mosse. Scrostava con la punta dell'indice l'intonaco del parapetto, facendone cadere i bricioli giù nella selva sulla pianta di spigo accosto al muro. A- vrebbe voluto allontanarsi, ma il silenzio di Ruggero la tratteneva. La voce del cavaliere continuava a tuonare, in mezzo alla confusione delle altre voci, dal lato opposto della terrazza; ma ella non prestava attenzione a quel che dicevano. Aveva dentro l'orecchio soltanto il suono triste e rassegnato delle ultime parole di Ruggero: "Ha ragione!" e si sentiva rimescolata da un senso di pietà che le metteva sgomento. Dentro il suo cuore, in quella notte piena di sogni stravaganti e paurosi, era spuntato qualcosa, simile a una fioritura di erbe maligne, che cresceva e si espandeva, abbarbicandosi forte, invadendo ogni spazio, coprendo tutto con la sua ombra cupa, dandole tristezza ineffa- bile; qualcosa, di cui fino a un giorno addietro non aveva alcun sospetto, di cui non aveva pensato a guardarsi, e che di sorpresa l'aveva assalita e vinta ... Oh! ... Vinta no! Si era dibattuta tutta la giornata, non ostante le occupazioni e la compagnia; si dibatteva ancora per isfuggire alla violenza di quella forza, che cercava di assoggettarla; maravigliata che potesse esserle germogliato nel petto un senti- mento che offendeva tutto in lei, pudore, fede, ragione; e più maravigliata che la sua ragione, la sua fede, il suo pudore, la sua alterezza di donna onesta non lo avessero già annientato in un baleno, appena avutane coscienza. Perciò si indignava contro se stessa in quel momento, e serrava i denti per non lasciarsi scappar di bocca le parole che le fremevano su la punta della lingua; e con l'indice scrostava, scrostava l'intonaco del muro, quasi a sfogo, non po- tendo far male, per vendetta, a se stessa, nè ad altri. "Ha dato un gran dispiacere a suo padre" ella disse lentamente. Ruggero tornò ad appoggiarsi sul parapetto, accostandosi un po' più, tanto da toccarle il gomito col gomito. "Ho diciotto anni, ma sono già un uomo" rispose. "Se prometto, mantengo. Do la mia parola d'onore ... a lei. Assicuri a mio padre che non avrà più nessun motivo ..." Sentendolo parlare con voce sommessa e turbata, quasi le mormorasse qualche grave confidenza all'orecchio, Euge- nia s'era subito pentita d'aver provocato quella risposta; e staccando nervosamente col dito un ultimo pezzetto d'intona- co, lo interruppe: "Gliel'assicuri lei, sarà meglio. Sarà meglio" ripetè con accento più calmo, per dare alle sue parole il significato di un amichevole consiglio e nient'altro.

E lo fissava, e lo costringeva ad abbassare gli occhi. Un giorno però, tutt'a un colpo, Eugenia si era decisa a chiedere una franca dichiarazione al dottor Mola. Stata alla vedetta, all'arrivo di lui gli uscì incontro nel corridoio, e lo prese per una mano: "Venga, venga qui." Il gesto, l'espressione insolita della voce lo fecero mettere in guardia. Quella celletta dell'antica infermeria, col vano della finestra ingombro dai fitti rami d'una pianta di loto che dalla selva sottostante si elevava presso il muro della facciata a sormontare il tetto del convento, pareva fatta a posta per col- loqui misteriosi. La penombra, che i riflessi verdognoli delle foglie illuminate dal sole vi spandevano dentro, lasciava appena distin- guere i mucchi di mattoni rotti, i vecchi telai di imposte, i tavolini e i legni sporchi di gesso e di calcina che ingombra- vano gli angoli. Le due seggiole, poste una di fronte all'altra presso la finestra, indicavano chiaramente un interrogatorio premeditato. "Scusi se l'ho condotto in questa stanzaccia." "Ai vostri comandi, cara signora." "Dottore, mi dica la verità!" "Indovino senza che parliate" egli rispose sorridendo. "Nausea, eh? ... Languori, eh? ... Appetiti bizzarri, eh? ... In questo caso sarebbe stato più pratico consultare la suocera. Avreste evitato di arrossire ..." "No, no, s'inganna! ... Mi fa arrossire lei!" rispose Eugenia con voce turbata. "Questo maledetto profumo che non vuole andarsene via? ... Non capiscono, lei e Patrizio, che tacendo mi spaventano di più e mi fanno sospettare tante bruttissime cose?" Il dottore, con le mani aperte, le accennava di calmarsi, di calmarsi: "Avete ragione, signora mia. Noi medici siamo nell'obbligo di saper tutto; ma spesso (parlo di me e dei miei pari) sappiamo poco o niente. Non potendo confessarlo ai clienti - se no, addio professione! - in certi casi facciamo come i bastimenti quando c'è tempesta; prendiamo il largo. E se non siamo presuntuosi o senza coscienza, ci mettiamo a con- sultare i nostri autori ... Così, con l'aiuto di Dio, evitiamo, qualche volta, le corbellerie più madornali." Quantunque il dottor Mola, occorrendo, adoperasse facilmente coi malati le pietose bugie, pure allo scintillio di quegli occhi pieni di diffidenza e intenti a scrutare le parole che gli uscivano di bocca, aveva provato tale impaccio da sentir bisogno di una pausa. "Questo maledetto profumo che non vuole andarsene via!" riprese, imitando scherzevolmente l'intonazione di Euge- nia. "Si tranquilli. Già sappiamo che cosa è, e possiamo ridergli in faccia!" "Ah!" esclamò Eugenia, incredula. "Non avete mai inteso parlare di donne che, in uno stato simile al vostro, prendono in abborrenza gli alimenti ordi- nari, e divorano cenere, terra, segatura di legname, carbone, ne si nutrono d'altro? ... Noi chiamiamo pica questa malattia. Chi poteva sospettare che tra i sintomi della pica ci fosse anche la emissione di un profumo? ... Sissigno- ra, è così ... Avreste forse preferito mangiar cenere o carbone?" Ella lo guardava con tanto d'occhi, senza poter dire una sola parola; e il cuore le batteva così rapido, e un nodo le stringeva così fortemente la gola, che per un istante temette di essere sul punto di svenirsi ... "È ... proprio ... questo?" balbettò. "Ah, Signore! ..." E si levò da sedere, passandosi le mani sul viso, facendosi di mille colori, ripetendo soltanto: "Ah, Signore! ..." Il dottor Mola già sentiva rimorso di quella pietosa bugia, e osservava commosso la giovane che, affacciatasi alla fi- nestra, pareva provasse una deliziosa sensazione stropicciando la faccia tra le lunghe e fini foglie del loto, quasi calmas- se con tale espediente l'eccitazione cagionata dalla inattesa notizia. "Ora" egli disse "dovreste confessarvi con questo vecchio confessore che è qui. Che cosa vi sentite? Fatevi animo; non abbiate ritegno. Commettereste un sacrilegio tacendo, come nella confessione; non si tratta soltanto della vostra sa- lute, ma di quella di un'altra creatura di Dio. Parlate, parlate!" Ed ella parlò, abbandonatamente, chiedendo scusa, di tratto in tratto, del suo sciagurato silenzio: "Non tacevo io; c'era qualcuno che mi metteva una mano su la bocca, allorché volevo parlare ..." "Intendo. Via, rispondete alle mie domande; faremo più presto." Al dottore non pareva vero che la sua pietosa bugia avesse potuto produrre quell'effetto. "Donne! Donne!" pensava fra una domanda e l'altra ... "Vedete?" egli concluse all'ultimo. "Se aveste parlato prima, non avremmo perduto un tempo preziosissimo. Da og- gi in poi però, cara signora, sarete docile, ubbidiente, è vero? Dio vi ha consolata; dovreste eseguire tutte le prescrizioni del medico, anche per non essere ingrata verso Dio! ..." "Sì, sì" ella rispondeva, asciugandosi le lagrime. Si sentiva più leggera, quasi le fosse stata tolta una macina di sul petto. "È questo? ... Oh Vergine benedetta! ..." "Se i sintomi non ci ingannano" soggiunse il dottore. "Non lo sospettavo neppure! ... Niente che me n'avvertisse! Può mai darsi?" "Tutto può darsi, se vuole Iddio. Come siamo egoisti! Dimentichiamo una persona che non è in pensiero meno di noi." "Vada da Patrizio, vada, dottore!"

La signora Geltrude, che non aveva mai smesso il lutto, raggrinzita in quel punto su la vecchia poltrona testimone di tutti i suoi dolori e di tutti i suoi pianti inconsolati, aveva appena voltato la testa e appena appena levato verso di lui gli occhi socchiusi, con mossa interrogativa, diffidente; e questo gli spense ogni sdegno, gli aggelò la parola nelle fauci, gli fece abbassare la fronte come a un colpevole. "Mamma!" egli disse, accostandosele a mani giunte. "Perdonami!" Ella brontolò a mezza voce parole inintelligibili, aprendo gli occhi per guardarlo in viso. Parve si attendesse qualcos'altro. Vedendo che suo figlio continuava a tacere, abbandonò di nuovo il capo su la spal- liera e tornò a socchiudere gli occhi. Patrizio era meravigliato e deluso di non sentirsi domandare: Come sta Eugenia? o tua moglie, colei, in qualunque modo ella avesse voluto chiamarla! "Non mi hai perdonato! Non vuoi perdonarmi!" scoppiò a dire. "Oh, mamma! E non ti accorgi che così mi fai patire pene d'inferno?" Ella si rizzò lentamente su la vita, appoggiò le mani alle ginocchia, inarcando le braccia, e, con labbra tremanti, ri- spose: "E le mie sono forse pene da nulla? Ti sei lasciato stregare! ... Sei tutto suo! Io non conto più niente per te!" "Come puoi immaginarlo, mamma?" "Non lo immagino, lo vedo. Avete dei segreti, ve li andate susurrando all'orecchio qua e là, evitando la mia presen- za, cogliendo ogni più lieve pretesto per evitarla. Sono di troppo - l'ho capito - non per te, no, per colei. Ma non posso andarmene via, per farle largo. Il Signore non mi vuole; mi lascia qui, in castigo de' miei peccati, forse; forse, pe' suoi disegni che non possiamo sapere. Dovrete sopportarmi ancora un po'. Poi sarete liberi; sarete pur liberati di questa in- cresciosa!" "Che mai dici, cara mamma!" "La verità, l'evangelo. E non me ne curerei, se si trattasse di me soltanto. Sono cosa inutile oramai, spazzatura da buttare in un canto!" "Che mai dici, mamma! Che mai dici!" replicava Patrizio, cacciandosi le mani tra i capelli, inorridito di sentirla par- lare a quel modo. "Ma penso a te! Penso a te!" ella continuava imperterrita, scrollando il capo. "Tu non ti guardi allo specchio, o ti guardi così di sfuggita da non poter accorgerti quanto sei mutato e invecchiato da sei mesi! Non potresti riconoscerti. Lei se lo beve il tuo sangue! Lei se l'assorbisce la tua carne, il midollo delle tue ossa, la tua vita! ... Io sono impo- tente a lottare con lei. È giovane, è bella, è amata. Ti ha stregato! Che posso più fare io? Ti avvertii in tempo; ti ho av- vertito dopo; ti ho sempre ripetuto: "Bada! Bada!". Non mi hai dato mai retta; hai fatto sempre a modo suo. Che preten- de, più di quel che ha ottenuto? Vorrebbe forse che io le dicessi: "Mi hai tolto il figliuolo; grazie! Mi divori il figliuolo; grazie! grazie!". Tu intanto, non che essermi grato, mi credi esaltata - l'hai detto una volta! - e prendi parte in favore del vampiro che ti succhia il sangue! E vieni qui ..." "Zitta! Zitta, mamma, per carità!" gridò Patrizio. "Mi sento impazzire." Si teneva strette le tempie tra le mani, quasi a impedire che gli scoppiassero. Aveva avuto in vita sua molte tremende giornate. Si era visto più volte l'abisso della miseria spalancato sotto i piedi, pronto a inghiottire sua madre, lui, la sua giovinezza, il suo avvenire, e quando più gli era parso che una buona speran- za, dopo mille sacrifizi e mille stenti, fosse sul punto di realizzarsi. Il dolore del disinganno e il terrore del presente gli avevano atterrata ogni forza vitale, quasi spezzata la intelligenza; e gliene sovveniva spesso il ricordo, dopo che la pro- tezione d'un vecchio amico del padre, fedele anche nella sventura, gli aveva inaspettatamente tesa quella tavola di sal- vezza del posto di Agente delle tasse, traendolo fuori della tempesta, fuori d'ogni angustia giornaliera. Ma cercava inva- no nei ricordi una terribile giornata come quella, uno scoppio così improvviso di circostanze da nulla, da cui veniva prodotta tale rovina, che egli si sentiva soccombere sotto le macerie, senza speranza di aiuto. E tornava a premersi le tempie, ripetendo: "Mi sento impazzire!" Stette così qualche istante, poi lasciò cadere le braccia, desolatamente; e buttandosi ginocchioni davanti a la mam- ma, le prese le mani e cominciò a baciargliele, dicendo con voce interrotta: "Abbiamo torto tutti e tre! Non c'intendiamo! Non ci siamo mai spiegati! Ne riparleremo più tardi. Intanto, lasciamo che gli animi si calmino. E allora tu, mamma, vecchierella mia, santa mia, ti avvedrai che non solo non hai quasi perdu- to il figlio, come ti figuri, ma ne possiedi due, che ti vogliono bene egualmente ... due, due! Te ne avvedrai! ..." Nè si voltò indietro, per non veder il crollar continuo di quella grigia testa, che gli rispondeva ostinatamente: No! Noi No! Eugenia riposava ancora. Dorata, la vecchia serva, era venuta a sedersi a piè del letto, con le mani incrociate sul seno, la testa moresca, coi ca- pelli arruffati, un po' abbandonata su la spalla, con le labbra aggrinzite ancora dallo stupore di quel che aveva visto e che non sapeva spiegarsi. Vedendo entrare il padrone non si mosse. Si era già abituata a non parlare senza essere interrogata; e al cenno di Pa- trizio si levò dalla seggiola e uscì nel corridoio. Patrizio, per non far rumore, prese il posto di lei, accavalciò una gamba su l'altra, stese un braccio lungo la sponda del letto, e stette ad attendere che Eugenia si destasse. Il terrore di quel risveglio gli faceva strizzare gli occhi di tanto in tanto. "Che cosa dirle? Come farle intendere la strana gelosia della mamma? ... Ah, mamma! Ah, mamma!" E poc'anzi gli era sembrato di essere tanto forte da poter ribellarsi a quel giogo che lo avea domato e lo riduceva un fanciullo. Si era rallegrato innanzi tempo. Un senso di compassione e d'intenerimento per lei già gli s'insinuava nel cuo- re. "Povera mamma! È vissuta tutta per me! Non sa rassegnarsi a spartire con un'altra l'affetto dell'unico figlio! ... Fissazione! Debolezza! Come fargliene una colpa?" E si accusava: "Sono stato egoista! Avrei dovuto sacrificarmi a lei, far tacere ogni mio sentimento; ubbidire a occhi chiusi. Avrei sofferto io soltanto. A quest'ora, probabilmente, non soffrirei più ... Signore Iddio! È così difficile la vita?" Cominciava a comprendere che l'isolamento, le sventure, fin gli studi, fuori d'ogni personale esperienza, eran serviti a falsargli la prospettiva della realtà, a renderlo impotente a qualsiasi lotta. La fragile creatura stesa là, prostrata dalla crisi nervosa, ne sapeva più di lui; vedeva chiaro, vedeva giusto; possedeva il senso pratico della vita, che a lui mancava affatto. E perciò s'era rivoltata, proclamando il suo diritto: "Ora sei mio! Ora sei mio!". Si ingannava però, rimprove- randogli: "Picchio, e non mi senti! Chiamo, e non mi rispondi!". Se la sentiva! Se gli affluivano pronte alle labbra le af- fettuose risposte a quegli appelli! Forse egli aveva preso troppo alla lettera le parole del medico, consultato avanti il ma- trimonio, intorno al temperamento di lei, allorché la mamma gli aveva detto: "Cieco! Cieco! Non t'accorgi ch'ella è un viluppo di nervi?". Il medico aveva sorriso, alzando le spalle: "Chi non è nervoso a questi lumi di luna? Le donne poi, caro signore, son diventate oggetti fragilissimi, da maneggiare con cautela, se non vogliamo vederceli rompere fra le dita!". Egli s'era contenuto e si conteneva per questo! Ed ecco le belle conseguenze! Ogni istante che passava accresceva il suo turbamento. I tocchi delle ore, che la soneria guasta dell'orologio del campanile ripeteva affrettatamente, due, tre volte di seguito, lo facevano sobbalzare, quasi gli martellassero dentro il cervello. "E se la crisi nervosa si rinnova? Se è segnale di terribile malattia! ... Se la mamma ha ragione? ... No: il male non avrebbe atteso sei mesi prima di manifestarsi." E si consolava osservando che il volto di Eugenia aveva ripreso l'aspetto ordinario. La respirazione era placidissima; il sonno le coloriva i pomelli delle guance con lieve tinta incarnatina; le labbra sembrava sorridessero a qualche dolce fantasia che le appariva in sogno. La mano posata sull'orlo del guanciale, presso la faccia, era un atto di carezza. "Buona creatura! Le devo tanto! Mi son sentito così felice nel legarmi a lei per tutta la vita! Bisognerà però affrettar- si a consultare il dottor Mola, e dirgli tutto, tutto! senza sciocchi ritegni." Eugenia aperse gli occhi. Pareva stupita di trovarsi mezza discinta sul letto; e, rizzàtasi sopra un gomito, guardava attorno confusa e vergo- gnosa, cercando di raccapezzarsi, di rammentare. "Che è stato? Mi è venuto male?" "Oh, cosa da niente!" s'affrettò a dire Patrizio. Le accarezzava il viso, le ravviava i capelli, domandandole: "Come ti senti?" "Fiaccata, con le ossa rotte! ... Apri gli scuri ... Ah!" Ricordava. Patrizio, tornando presso il letto, la trovò col viso nascosto fra le mani, singhiozzante. "Eugenia!" "Lasciami! ... Lasciami stare!" "Vuoi proprio ammalarti?" "Che cosa posso farci? Non so resistere!" ella rispose, asciugandosi gli occhi e ricacciando indietro le ciocche dei capelli in disordine. "Non pensarci, divagati!" cercava di persuaderla Patrizio. "Ne ragioneremo dopo, quando sarai tranquilla. Allora soltanto potrai comprendere ... Riderai di te stessa, come ne rido io, vedi? Ne rideremo insieme." "La mamma?" ella domandò, esitante, avendola cercata invano con lo sguardo. "È in camera sua. Non sta bene, al solito ... Manderò a chiamare il dottor Mola ... Sentendo che t'era ve- nuto male, ella accorse qui ... subito! ... Fu tutt'a un tratto. Non hai dovuto avvedertene. La commozione, l'agitazione ... E sei caduta fuori di sensi tra le mie braccia! ... Anche per debolezza, dice il dottore ... Che? ... Non ti sei neppure avveduta del dottore un'ora fa? Sai? ... Egli sospetta ... Fosse vero! ... Non alzarti da letto, riposati ancora un pochino. Dovresti prendere una buona tazza di brodo. È pronto. Ti farà bene. Più tardi? ... Quando tu vorrai." Parlava affrettatamente, per sviare il discorso e non darle tempo di scorgere l'imbarazzo prodottogli dalla sua con- traddizione a proposito del dottore. "Temo" egli continuava "che tu non soffra, sopra tutto, per la solitudine in cui viviamo." Eugenia fece un cenno negativo con la testa: "Ero abituata così a casa mia. Uscivamo raramente; la domenica soltanto, per la messa. Tu lo sai: visite poche, pas- seggiate pochissime, appena tre o quattro, d'estate, nelle sere più calde." "Avevi però le tue sorelle, così allegre e chiassone!" "Non mi divertivo a quel chiasso loro." "E qui sei sola affatto." "Se la mamma si mostrasse un po' più buona!" rispose Eugenia dopo breve pausa. "Non badare a lei, te ne prego! È buona a modo suo. Prendila com'è." "Questo volevo fare! È stato impossibile. Anche tu ..." Al gesto d'impazienza sfuggito a Patrizio, che alzò gli occhi alla volta reale della cella, Eugenia si levò rapidamente, si mise a sedere sul letto; e posate le mani su le spalle del marito, lo guardò fisso in faccia, con aria d'affettuoso rimpro- vero: "Ascoltami, non sdegnarti! ..." Ma egli la interruppe; e, presàla pei polsi, portò le care mani alle labbra: "Sono diacce!" "Ascoltami" ripetè Eugenia, senza tentare di ritrarle. "Quando tu, col viso di chi dà una cattiva notizia, venisti a dirmi: "Ufficio e alloggio sono in un convento!" te ne ricordi? io ne fui così contenta, che tu mi guardasti stupito. Non ti ho mai spiegato il perché di quella mia contentezza. Voglio dirtelo ora. Pensai subito: "In un convento saremo più liberi che non nella piccola casa di Castroreale, o in qualunque altra". E di mano in mano che tu me lo descrivevi, immagina- vo le nostre future scappate pei corridoi, per la selva, per la terrazza, senza la continua sorveglianza della mamma, che mi pareva inceppasse ogni tuo movimento e metteva in disagio anche me ... Nelle prime settimane fu proprio così. Avevo fin dimenticato le cattive impressioni di Castroreale. Ma la mamma non tardò molto a riprendere il suo primo contegno. Qui, in un edifizio così vasto, doveva apparirmi più chiara l'avversione di lei, perché qui si vedeva benissimo ch'ella faceva ogni cosa a posta, per farmi dispetto, per farmi capire ..." "No! No!" disse Patrizio, baciandole ripetutamente le mani. "Che guardi?" domandò Eugenia, vedendolo fermare all'improvviso. "È strano ..." egli rispose. "Si direbbe che tu te le sia stropicciate con la zagara ... Ma non è la stagione. Hai forse un profumo di fiori d'arancio?" "Lasciami sentire ..." Ella voltava e rivoltava le mani, odorandone la pelle come un fiore. "È vero: pare che io abbia toccato della zagara e che me ne sia rimasto l'odore ... Si avverte appena però ..." "Anzi, al contrario! Senti? ... Anche ai polsi ..." soggiunse Patrizio ... E tirò in su, curiosamente, una manica di lei fio al gomito. "Pure al braccio!" esclamò, meravigliato. "Senti, senti!" Eugenia si strinse nelle spalle: "Sarà stata la lavandaia, che avrà voluto profumarmi la biancheria ..." "Può darsi." "Dunque, come ti dicevo ..." ella cercò di riprendere. Patrizio portò rapidamente l'indice della mano destra alle labbra per significarle: Silenzio! "Animo tranquillo e buon brodo, ha raccomandato il dottore!" E affacciatosi all'uscio che dava sul corridoio, chiamò: "Dorata! Dorata!" Eugenia persisteva nella sua idea. Finito di sorbire la tazza di brodo recata dalla donna, messasi a sedere su la sponda del letto, ravviata la veste e pas- sàtesi le mani sul volto, attirò Patrizio tra le ginocchia, cingendogli le braccia attorno il collo. "Bada!" gli disse. "Io non cedo. Non ho ceduto ai miei, quando mi agitavano dinanzi a gli occhi lo spauracchio di una vita randagia, senza nessuna sicurezza per l'avvenire; non cederò, mettitelo in mente, nemmeno con tua madre!" "In che cosa dovresti cedere? ..." Egli affettava un tono di gentile canzonatura, per mascherare l'agitazione che le parole di lei gli producevano. "Intendo" riprese Eugenia seria seria "intendo: che voglio esser libera, con libertà santa e giusta, si capisce! Intendo che ti voglio sincero con me, come da un pezzo non sei più, sì, come da un pezzo non sei più! Mi credi tanto stupida da non capirlo?" E all'improvviso gli si abbandonò con la fronte sul petto, mormorandogli quasi in tono di preghiera: "Pensa che ora non ho altri che te! Pensa che tu sei tutto per questa povera creatura che ti vuol bene! Oh Patrizio! Il mio cuore è uno specchio così limpido che neppure il fiato l'appanna ... Puoi mirarviti quando tu vuoi! Sul tuo cuore, invece, c'è spesse volte un velo grigio, che m'impedisce di vedervi bene quando più avrei bisogno di vedervi be- ne. Non ce lo voglio! Strappalo! Che cosa chiedo infine? Se io ti sentissi sincero, non mi curerei di nient'altro! Hai forse qualche doloroso segreto? ... Mettimene a parte; voglio soffrire assieme a te!" "Vedi come ti ecciti? ... Come esageri? ..." E sollevandole la testa, soggiunse: "Dammi una prova del tuo amore, Eugenia; te ne scongiuro, non tornare su questo soggetto, almeno per ora! Ti fa male; fa male anche a me ..." "Non ne parlerò ... Ma ... sarai tu sincero da oggi in poi?" "Sì, sì, come sempre! ..." "Proprio sincero? ..." "Sì!" "Ebbene ... allora ..." ella riprese lentamente, fissandolo, "allora dimmi ... perché ... la mam- ma ... No, non voglio saperlo! Me lo dirai quando ti parrà!" E gli si avvinse di nuovo al collo, arrossendo di essersi così presto contraddetta, e ripetendo con voce soffocata: "Non voglio saperlo! Non voglio saperlo!"

Racconti 3

662757
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ma il giorno dopo e cosí tutti i giorni, per parecchi mesi, si ripeté la stessa scena, fino a che Delia quasi estenuata dallo sforzo inconsapevolmente fatto dall'organismo, non parlò piú, e si ridusse a fissarmi, a fissarmi a lungo, crollando dolorosamente la testa, sorridendo con tale tristezza che io ero forzato ad abbassare gli occhi, o a rivolgerli altrove avvilito da quella luminosità di cui ti ho parlato, che mi pareva scendesse a illuminare le piú riposte profondità del mio cuore ... Che terribili mesi di sofferenza, caro Blesio! Noi vivevamo isolati, per deliberato disegno, sin dai primi giorni del nostro matrimonio, entrambi orgogliosi di bastare a noi stessi. E la gente, che per maligna o benevola curiosità si occupava dei fatti nostri, ci giudicava felici! Tali avremmo potuto essere, certissimamente, se le mie stesse mani non avessero distrutto, con imperdonabile caparbietà, il magnifico immeritato dono benignamente concessomi dalla sorte. Giacché io era stato caparbio, stupidamente caparbio nel volermi accertare, a ogni costo, se il mio dubbio: «Mi ama davvero? Perché vuol darmi a intendere che m'ama?» corrispondesse o no alla realtà. Che terribili mesi, caro Blesio! Tu non potrai mai formartene neppure un'idea approssimativa. Invano cercavo un rifugio nel lavoro; invano la mia coscienza di artista mi confortava con attestarmi che la statua ormai quasi compiuta, sotto l'impulso di tante agitazioni, fosse riuscita piú bella di quanto io, incontentabile, non l'avevo sperata. Lavoravo febbrilmente, quasi la mia mano fosse stata mossa da un altro me stesso che conviveva dentro di me assieme con quello che si tormentava, e smaniava e delirava, sí, a volte delirava, intanto che la mano dell'altro dava gli ultimi tocchi alle estremità della figura con meticolosa accuratezza ... Fu allora ... Oh, non aveva badato alla nuova espressione degli sguardi con cui Delia osservava il mio lavoro, aggirandosi attorno al cavalletto, muta, intenta, in visibile ammirazione, mi pareva, di quella Giovinezza in parte sua geniale ispirazione. Ne ero lusingato, anche perché in quel punto non provavo l'impressione scrutatrice di quelle nere pupille luminosissime, che mi rivelavano quanto il mio cuore fosse mutato, vinto da grave stanchezza di amare per aver troppo amato -. Raimondo si arrestò quasi volesse riprendere forza. La sua voce infatti si era andata affievolendo; le ultime parole gli erano uscite dalle labbra seguite da un profondo sospiro. Blesio osservava con pena il rapido movimento delle palpebre e il tremito delle labbra che rendevano piú triste quella pausa. Raimondo alzò le mani, come per rimovere qualche ostacolo davanti a sé, e tratto un altro profondo sospiro, riprese: - Quella splendida mattina di maggio, lo studio era invaso da tale giocondità di luce, che i gessi dei miei precedenti lavori sembravano inattesamente scossi da misteriosi brividi di vita. La creta della dea, assai piú di essi, prendeva cosí mirabili chiaro scuri, riflessi cosí formicolanti da darmi l'illusione che sotto le carni del seno e delle braccia ignude si avverasse il miracolo della pulsazione del sangue. Delia, entrata con lievi passi, si era fermata dietro di me, senza che io me ne fossi accorto ... Tutt'a un tratto, mi sentii afferrare violentemente pel braccio; e prima che, spinto da lei vigorosamente da parte, potessi accorrere e impedire l'atto di quelle furibonde mani, Delia ... Oh! oh! «No, non è cosí! - balbettava con voce roca, che io non avrei saputo riconoscere se l'avessi udita senza veder lei. - No, non è cosí!» E le esili mani, tese come artigli, si affondavano nella creta, disformando braccia, seno, volto alla dea che mi era costata tanti mesi di lavoro! ... Ero rimasto impietrito davanti a quell'orrore. «No, non è cosí! ... Non è cosí!» E Delia brancicava la creta, quasi tentasse di rimodellarla, voltandosi verso di me con gli occhi sbarrati dall'improvviso scoppio di pazzia, le labbra sformate da un terribile sorriso, balbettando con voce aspra e roca: «Ecco! ... Ecco come dev'essere! ... Ecco! Tu non hai saputo ... Io, io sí!» E cadde riversa sul pavimento in violenta convulsione. Quando rinvenne, non mi riconosceva piú! La ho assistita, la ho vegliata per tre eterni mesi, giorno e notte, istupidito dal dolore, attanagliato dal rimorso di aver prodotto lo sfacelo di quella povera creatura con lo stolto esperimento che avrebbe dovuto disperdere il mio sospetto, e invece ... invece! «Mi amava davvero?» Ho ancora integra la mia ragione continuando a domandarmelo? E quel che è accaduto è stato colpa mia o inesorabile opera di quella fatalità che regge la nostra esistenza? ... Dimmelo tu! Rischiarami tu! - E Raimondo Palli, convulso, singhiozzava, torcendosi le mani tese supplichevoli verso l'amico. Blesio aveva anche lui le lacrime agli occhi e non riusciva a trovare una sola parola di conforto, incerto se Raimondo fosse già pazzo o sul punto di divenir tale.

Un vampiro

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Luigi Capuana 1 occorrenze

Ma il giorno dopo e così tutti i giorni, per parecchi mesi, si ripeté la stessa scena, fino a che Delia quasi estenuata dallo sforzo inconsapevolmente fatto dall'organismo, non parlò più, e si ridusse a fissarmi, a fissarmi a lungo, crollando dolorosamente la testa, sorridendo con tale tristezza che io ero forzato ad abbassare gli occhi, o a rivolgerli altrove avvilito da quella luminosità di cui ti ho parlato, che mi pareva scendesse a illuminare le più riposte profondità del mio cuore ... Che terribili mesi di sofferenza, caro Blesio! Noi vivevamo isolati, per deliberato disegno, sin dai primi giorni del nostro matrimonio, entrambi orgogliosi di bastare a noi stessi ... E la gente, che per maligna o benevola curiosità si occupava dei fatti nostri, ci giudicava felici! Tali avremmo potuto essere, certissimamente, se le mie stesse mani non avessero distrutto, con imperdonabile caparbietà, il magnifico immeritato dono benignamente concessomi dalla sorte. Giacché io ero stato caparbio, stupidamente caparbio nel volermi accertare, a ogni costo, se il mio dubbio: "Mi ama davvero? Perché vuol darmi a intendere che m'ama?", corrispondesse o no alla realtà. Che terribili mesi, caro Blesio! Tu non potrai mai formartene neppure un'idea approssimativa. Invano cercavo un rifugio nel lavoro; invano la mia coscienza di artista mi confortava con attestarmi che la statua ormai quasi compiuta, sotto l'impulso di tante agitazioni, fosse riuscita più bella di quanto io, incontentabile, non l'avevo sperata. Lavoravo febbrilmente, quasi la mia mano fosse stata mossa da un altro me stesso che conviveva dentro di me assieme con quello che si tormentava, e smaniava e delirava, sì, a volte delirava, intanto che la mano dell'altro dava gli ultimi tocchi alle estremità della figura con meticolosa accuratezza ... Fu allora ... Oh, non avevo badato alla nuova espressione degli sguardi con cui Delia osservava il mio lavoro, aggirandosi attorno al cavalletto, muta, intenta, in visibile ammirazione, mi pareva, di quella Giovinezza in parte sua geniale ispirazione. Ne ero lusingato, anche perché in quel punto non provavo l'impressione scrutatrice di quelle nere pupille luminosissime, che mi rivelavano quanto il mio cuore fosse mutato, vinto da grave stanchezza di amare per aver troppo amato". Raimondo si arrestò quasi volesse riprendere forza. La sua voce infatti si era andata affievolendo; le ultime parole gli erano uscite dalle labbra seguite da un profondo sospiro. Blesio osservava con pena il rapido movimento delle palpebre e il tremito delle labbra che rendevano più triste quella pausa. Raimondo alzò le mani, come per rimovere qualche ostacolo davanti a sé, e tratto un altro profondo sospiro, riprese: "Quella splendida mattina di maggio, lo studio era invaso da tale giocondità di luce, che i gessi dei miei precedenti lavori sembravano inattesamente scossi da misteriosi brividi di vita. La creta della Dea, assai più di essi, prendeva così mirabili chiaroscuri, riflessi così formicolanti da darmi l'illusione che sotto le carni del seno e delle braccia ignude si avverasse il miracolo della pulsazione del sangue. Delia, entrata con lievi passi, si era fermata dietro di me, senza che io me ne fossi accorto ... Tutt'a un tratto, mi sentii afferrare violentemente pel braccio; e prima che, spinto da lei vigorosamente da parte, potessi accorrere e impedire l'atto di quelle furibonde mani, Delia ... Oh! oh! "No, non è così!" balbettava con voce roca, che io non avrei saputo riconoscere se l'avessi udita senza veder lei. "No, non è così!". E le esili mani, tese come artigli, si affondavano nella creta, disformando braccia, seno, volto alla Dea che mi era costata tanti mesi di lavoro! ... Ero rimasto impietrito davanti a quell'orrore. "No, non è così! ... Non è così!". E Delia brancicava la creta, quasi tentasse di rimodellarla, voltandosi verso di me con gli occhi sbarrati dall'improvviso scoppio di pazzia, le labbra sformate da un terribile sorriso, balbettando con voce aspra e roca: "Ecco! ... Ecco come dev'essere! ... Ecco! Tu non hai saputo ... Io, io sì!". E cadde riversa sul pavimento in violenta convulsione. Quando rinvenne, non mi riconosceva più! La ho assistita, la ho vegliata per tre eterni mesi, giorno e notte, istupidito dal dolore, attanagliato dal rimorso di aver prodotto lo sfacelo di quella povera creatura con lo stolto esperimento che avrebbe dovuto disperdere il mio sospetto, e invece ... invece! "Mi amava davvero?". Ho ancora integra la mia ragione continuando a domandarmelo? E quel che è accaduto è stato colpa mia o inesorabile opera di quella fatalità che regge la nostra esistenza? ... Dimmelo tu! Rischiarami tu!". E Raimondo Palli, convulso, singhiozzava, torcendosi le mani tese supplichevoli verso l'amico. Blesio aveva anche lui le lacrime agli occhi e non riusciva a trovare una sola parola di conforto, incerto se Raimondo fosse già pazzo o sul punto di divenir tale.

STORIE ALLEGRE

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Collodi, Carlo 1 occorrenze

Non poteva più abbassare la testa: non poteva voltarsi né di qua né di là: pareva proprio un impiccato. Eppure quel giuccherello era contento, tanto contento, che sarebbe difficile figurarselo! La sua prima idea fu quella di chiedere alla mamma il solito permesso per andare dal solito cartolaro a comprare le solite penne: ma poi, tornandogli in mente la gran disgrazia toccata all'infelice cappello a tuba, pensò meglio di scendere giù nel giardino. Se non foss'altro, scansando il pericolo d'incontrare i monelli di strada, si sarebbe levato il gusto di farsi vedere dal giardiniere, dalla moglie del giardiniere e dal loro bambinetto. Appena arrivato sulla porta del giardino, il primo a venirgli incontro fu Melampo, un grosso cane da guardia, che cominciò subito a guardarlo male e a ringhiare, come se avesse voluto mangiarlo. "Che cos'ha Melampo?" gridò Gigino al figliuolo del giardiniere. "Che forse non mi conosce più? Non riconosce il suo padrone?" "Come vuol che faccia a riconoscerlo, con codesto golettone che gli fascia tutta la gola? ... Lo creda, sor Gigino, duro fatica a riconoscerlo anch'io ... Da ieri a oggi, l'è così imbruttito ... con rispetto parlando!" "Imbruttito? ... Sarebbe a dire? ... " "Lo creda, sor Gigino, la mi pare un galletto, quando gli hanno tirato il collo ... Che gli è venuto forse un tumore, Dio ci liberi tutti?" "È meglio che me ne vada, senza risponderti ... se no, te ne direi delle belle" masticò Gigino fra i denti: e si avviò verso il pergolato. Ma costretto a camminare a testa alta e non potendo vedere dove metteva i piedi, inciampò dopo pochi passi in un secchione pieno d'acqua lasciato per dimenticanza nel mezzo, e cadde lungo disteso sulla ghiaia del viale. E la sua caduta fu così divertente, che alcune galline, le quali stavano beccando lì dintorno, invece di fuggire spaventate, cominciarono a sbattere le ali e a fare coccodè coccodè , tale e quale come se ridessero di genio alla vista di quel ragazzo così buffo per il suo golettone insaldato. Basti dire che fra quelle galline, ve ne fu una che, nello sforzo del gran ridere, scodellò senza avvedersene un bellissimo ovo fresco. Gigino, come potete immaginarvelo, tornò a casa tutto mortificato, e c'è da compatirlo! Se col suo goletto avesse messo di buon umore solamente il ragazzo del giardiniere, pazienza! Ma far ridere anche le galline, è troppo! Veramente, è troppo!

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

E voleva dire: "Se vuole anche il mio sangue, se lo pigli ... " ma la vista quasi improvvisa di quella donna che lo guardava cogli occhi grandi, l'abbagliò: tornò ad abbassare il capo, si restrinse, si contorse nella sua scontrosa debolezza, e sentendosi quasi morire, mandò col cuore un'ardente invocazione a quel Signore che aveva ricevuto nel petto la mattina. Il colloquio fu interrotto da Arabella che entrò leggermente con una medicina. La fanciulla era pallida, sconvolta, e le sue mani tremavano come se avesse indosso la febbre. Dietro di lei entrò anche la signora Grissini; cosí, dopo qualche sconnessa parola di complimento, Demetrio prese congedo e uscí, graffiando l'uscio, promettendo che si sarebbe lasciato rivedere presto. Aveva bisogno di respirare l'aria libera. Fece le scale, trovò la solita strada di casa sua quasi per miracolo, come se camminasse in sogno, sollevato una spanna dal suolo. La testa girava come un arcolaio che gira al sole, proiettando ombre strane e sgangherate sul fondo della sua coscienza. "Che talento, sor Pianelli!" andava declamando una voce in fondo a quel testone enorme che gli pesava sulle spalle, "che bel talento! e che furberia, Meneghino! valeva la pena di scendere dall'abbaino a predicare la morale agli altri e di credersi quasi l'incarnazione del buon senso, per fare in fondo queste belle figure!" E i bei consigli del suo benamato superiore? qui il bello toccava il sublime. "Povero Pianelli, lei è troppo ingenuo" la voce carezzevole e insinuante del cavaliere gli rinasceva nelle orecchie e gli dava la baia; "lei ha troppo buon cuore e il cuore è buono per i merli. Io le parlo come padre, come superiore: non sta nemmeno della sua dignità ... ." "Ah, sí, proprio?" esclamava, fermandosi sui due piedi in mezzo alla gente. Per fortuna e per grazia di Dio il cavalier Balzalotti non era a Milano e forse in quel momento lí dava a sua eccellenza il Ministroi i suoi preziosi consigli: altrimenti egli sentiva che avrebbe fatto uno scempio, e poi finis mundi . Che gli importava adesso della sua vita? si poteva cadere piú basso di cosí, anche andando in prigione? "Non sta della mia dignità il patire la fame e la miseria coi disgraziati, ma è della dignità tua, o birbone, tendere la trappola a una povera donna, tirarla in casa colle belle, chiudere la chiave dell'uscio, far le moine del gattone, tentarla un po' colle dolci, un po' colle brusche, provarne la virtú coi regalucci? Ah birbonaccio!" Durante le ore che rimase all'ufficio, nei primi due giorni che tennero dietro al colloquio con Beatrice, non fece che ripetere quest'orazione, sogghignando dal suo posto alla poltrona vuota del cavaliere, la quale nella sua matronale tranquillità pareva rispondere: Io non c'entro. Lavorò poco, confusamente, evitò d'incontrarsi coi colleghi — birbonacci anche loro! "Vengano adesso a implorare la parolina! Venga il signor Bianconi, caro anche lui con quel fare di gattamorta! Non c'è piú da fidarsi in questo mondo, nemmeno dei piú vecchi amici." Una volta il Ramella, vedendolo passare, corse ad aprire la porta e a far le riverenze. "Stia comodo," gli disse Demetrio con un sorriso amaro e gonfio "adesso è finita l'entratura." "Cosa?" domandò il portinaio, che non aveva capito. "Uuh!" rispose con voce nasale Demetrio, rincagnando la faccia. "Non c'è piú da fidarsi di nessuno ... Cara anche quella signora Palmira co’ suoi buoni consigli, co’ suoi segreti protettori. Bel regalo che ha fatto all'amica del suo cuore! e adesso bisogna trovare subito cento lire da restituire al buon benefattore, e bisogna farlo subito, per telegrafo se occorre, perché certi denari bruciano le mani. Dove trovarle cento lire? non le avrebbe chieste certamente a Paolino questa volta ... A proposito. Non doveva egli consegnare una lettera di costui a Beatrice? L'aveva collocata sotto il calamaio ... anzi l'aveva presa una volta con sé, ma la lettera non c'era piú, né qui, né là, né in fondo alle tasche. Che l'avesse perduta? La sua testa aveva ora ben altro da pensare che alle scalmane del signor Paolino. E perché non veniva lui a proteggere l'onore della sua fiamma, ma stava comodamente alle Cascine ad aspettare la manna dal cielo? oltre al resto doveva toccare anche a lui la parte del mediatore, per farsi odiare forse anche dal cugino? perché questa è la regola: piú un uomo si strugge per fare del bene e piú diventa antipatico e odioso. È meglio nascere con un ramolaccio al posto del cuore, guardare a sé, pensare a sé, fare il proprio interesse, pigliarsi i propri comodi, soddisfare i propri appetiti. Egoisti, egoisti, viva la vostra faccia!" Per due o tre giorni non fece che predicare a sé stesso, dentro di sé a questo modo con una violenza morbosa, fuggendo la faccia degli uomini, finché una volta si domandò, stringendo la testa nelle mani, se aveva il cervello a posto. Naldo aveva voluto tornare dalla sua mamma. Rimasto ancor solo in cima alle scalette, nella morta solitudine dei tegoli, Demetrio aveva tutto il tempo di torturarsi da sé, vittima di una forza alla quale non sapeva resistere. Ma il dispetto furioso, a poco a poco vinto dalla stanchezza stessa dei nervi, cominciò a cedere il posto a un'altra riflessione se pure meritava questo nome un lembo di sereno, che usciva or sí or no in mezzo alla nuvolaglia di tante brutte cose. Quel lembo di sereno era Beatrice. In fondo all'aspra battaglia, nell'abisso della sua vergogna, il pover'uomo si sentiva avvicinato non uno ma cento passi a quella donna. Qualche cosa che non si sa definire, qualche cosa che ti piglia e ti stringe i sensi del cuore, dandoti in mezzo alle sofferenze dell'agonia una goccia di dolcezza, seguitava a invadere l'anima. Egli viveva di quella goccia. Capiva come si possa accettare anche di morire per inebriarsi una volta di quella dolcezza e come si possa morire volentieri una volta gustata. Essa lo aveva chiamato una volta caro Demetrio; aveva steso verso di lui le braccia, supplicando ancora la sua protezione. Aveva con due parole perdonate tutte le amarezze sofferte da lui e le offese a cui l'aveva esposta la sua grossolana ignoranza. Beatrice nella sua bontà semplice e mite era passata in mezzo alle calunnie, come uno spirito che le cose del mondo non possono toccare. Non era una donna sublime, né per ingegno, né per arte di stare al mondo, né per tante altre cose che dànno poi il frutto che s'è visto: era una buona creatura, onesta per indole, affezionata alla sua gente, che chiedeva soltanto un po' di pace e un sorriso; ed egli aveva visto questa donna, coi capelli scomposti, cogli occhi lucenti verso di lui, nel suo gran letto bianco, mentre cercava di intenerirlo, con una voce supplichevole da rompere in due pezzi un ciottolo del selciato ... Ah no! non si potevan covar idee d'odio e di vendetta con quella voce nel cuore ... Questa voce lo svegliava nel pieno della notte. Si metteva a sedere sul letto, nel buio, cogli occhi fissi alle stelle e procurava di ricrearsi davanti il bianco e stupendo fantasma. Finí col non poter dormire piú. Il mattino lo sorprese piú d'una volta pallido, intirizzito sulla sponda del letto. O se la eccessiva prostrazione gli faceva posare un momento il capo sul cuscino e gli velava la pupilla, quanti fantasmi lividi e lucenti assalivano il suo spirito! Visioni morbide e morbose avviluppavano il suo pensiero, gli toglievano la forza di raccapezzarsi. "O Signore Iddio, abbiate misericordia di un povero uomo!…" esclamava in mezzo ai sogni nell'ombra. Da quelle visioni cadde in un letargo febbrile, che divenne ben presto una febbre bella e buona, poi un febbrone bruciante, che gl'impiombò le palpebre e lo tenne inchiodato in letto quasi una settimana.

Giacomo l'idealista

663170
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Giacomo si alzò, s'inchinò alla signorina, che nel frattempo aveva dato un colpo di pettine alla chioma selvaggia, e accettò il caffè, ch'essa gli versò lentamente da un cuccumino tignoso, stando in piedi come un gendarme davanti a lui, carezzandolo cogli occhi neri e morbidi come il velluto, fino al punto di costringere il bravo giovinotto ad abbassare i suoi sul piattello. - Questo è il mio gioiello, dirò anch'io come la madre dei Gracchi - esclamò l'orgoglioso padre, stringendo con affettuosa dimestichezza nelle dita la gota rubiconda della ragazza - e, siccome non ho che lei al mondo, posso dire che questaè la mia vita. Essa è nata in America da madre spagnuola. Non è forse un bel pezzo d'andalusa? Avrebbe voluto studiare il canto anche lei come sua madre, che è morta, poverina, di febbre gialla: ma io, che conosco il mestieraccio, glielo proibisco. Quando si hanno duecentomila lire di dote, si può fare qualche cosa di meglio che non andare a scopare i palcoscenici colle gonnelle. - Sposerò un principe russo - uscí a dire la bella creatura con tono lieto e scioccherello. - Che principe d'Egitto! sposerai l'uomo che ti piacerà, e mi darai dei nipotini, ai quali voglio lasciare qualche cosa, perché tuo padre non ha ancora eseguiti tutti i pezzi del suo programma. Si parlò di molte altre cose alla ventura, fin che Giacomo, sentendosi avviluppato in quell'aria come da invisibili ragnatele, con un atto d'energia, che sapeva trovare nei momenti decisivi, alzandosi repentinamente, tagliò corto col dire: - Bisogna che io veda subito il ragioniere Riboni e lo mandi qui a definire la faccenda di queste cambiali. La signora contessa desidera che il conte non ne sappia nulla . - So rispettare tutte le delicatezze - disse il padrone di casa con un fare umile umile. - Io spero che il signor Giacomo vorrà favorirmi qualche altra volta. Abbiamo di là una piccola raccolta di monete antiche, che forse potranno interessarla. Norma sa distinguere benissimo un Nerone da un Diocleziano. Sento dire che anche il conte Magnenzio è un mezzo antiquario. Lo incoraggi, e me lo conduca qualche volta. Troverà prezzi, dirò cosí, di fallimento. Norma, accompagna il signor professore . E dopo avere stretta la mano di Giacomo nelle sue di scheletro vivente, s'inchinò per l'ultima volta, chiuse l'uscio, lasciando che la ragazza accompagnasse il giovane a vedere la raccolta delle medaglie antiche. Ma Giacomo, che possedeva la sua psicologia e sapeva servirsene, mostrò di avere una grande premura, promise che sarebbe tornato con piú comodo e, rinnovati i suoi rispetti alla signorina, si avviò verso il portone seguito dai botoli, che mostrarono colle loro giravolte e con certi mugolii di tenerezza di saper anch'essi apprezzare la filosofia. Quando Giacomo fu di fuori, corse a un tratto per la bella strada al sole, colla contentezza del topolino che fugge da una trappola troppo grande per il suo piccolo corpo. Che il signor Ignazio volesse bene a sua figlia e lavorasse per accrescerle la dote, che Norma, la figlia della spagnuola, avesse due magnifici occhi e un fare procace di baiadera, eran cose naturali, che stavan bene al loro posto; il punto difficile cominciava nel voler trovare quel tal uomo rispettabile, che servisse di errata corrige alle cattive speculazioni del suocero e che, insieme a una bella ragazza spettinata, si rassegnasse a sposare una ricchezza racimolata nei due emisferi a furia di baratti e di usura. Sollevando lo sguardo alla finestra della sua Celestina, l'ultima sopra le serre, che splendeva nella luce del sole, gli parve di guardare in un angolo del paradiso.

La Colonia felice: utopia lirica (terza edizione)

663216
Dossi, Carlo 1 occorrenze
  • 1879
  • Stab. Tip. Italiano DIRETTO A L. PERELLI - Ditta Libraria di NATALE BATTEZZATI
  • prosa letteraria
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- ribattè a mezza voce, ma insieme dovette abbassare lo sguardo, punto da un interno rimpròvero. - Non te l'ho chiesta, io, a tè? ... io, il più forte? - insistè Gualdo. Oppòsegli Aronne: - Allèati meco. - Con tè, sì; contro di loro, no. Ti voglio èssere amico, non còmplice. - Continuava la silente sorpresa di Aronne. Quantunque la persuasione gli permeasse già in cuore, le labbra di lui riluttàvano di confessarla. E, infatti, gli ànimi non generosi stìmano vile piegarsi alla ragione degli altri, senza pensare che la verità è una sola, vèngaci essa da qualsisìa paese, e che chi cede a questa ragione non sua, cede infine a se stesso, di cui si è già fatta. Senonchè, gli sguardi incalzanti di Gualdo non gli lasciàvano tregua, gli penetràvano nella pupilla, invano difesa dalla palpèbra, lo raggiungèvano nella coscienza, difesa invano dal pregiudizio; tanto che Aronne fu astretto a rialzare la testa e a dire: - Ebbene ... sia! ... Pace con tutti. - Gualdo balzò dalla gioja: - Giuriàmolo - esclamò: Distese l'altro la mano, incominciando: giuro ... Ma Gualdo gliela rattenne, facendo: aspetta. - Tolse di terra un fumaccio, segnò con esso un crocione su di una pietra, e: giuriàmolo quì - disse, scoprèndosi il capo. Giuràrono. - Era la prima volta, che Gualdo si ricordasse di un Dio, per non bestemmiarlo; era la prima, che Aronne non l'invocasse per meglio ingannare.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675846
Garibaldi, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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ho voluto abbassare quei superbi sibariti, che vivono nel vizio e nella lussuria a spese dell’umanità sofferente, come ora coll’aiuto vostro e di Dio, vecchio come sono, io non dispero di vedere la mia patria libera da quei mostri». «Sì, - rispose l’antiquario affettuosamente - io fui trattato con gentile cortesia dalla vostra donna e da voi e lo ricorderò tutta la vita con gratitudine». Poi rivolto ai compagni, proseguì: «Scosso dalla fatica del viaggio, forse dalle commozioni dell’incontro, rimasi due giorni febbricitante in quel sotterraneo e in tutto quel tempo ebbi cordiali affettuosissime cure da quell’amabile Alba, la quale non solo di ogni cosa necessaria mi provvide ma assiduamente mi visitava al mio capezzale. Dopo due giorni, rinvigorito, appena ne feci richiesta, fui condotto per una nuova via che mi parve lieve alla luce del sole che io aveva creduto sulle prime di non più rivedere. La nuova uscita delle catacombe si trovava nella foresta. Data la mia parola d’onore di mantenere il segreto sulla mia involontaria scoperta, uno della banda mi scortò sulla via di Roma».

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676005
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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Il signore si levò in piedi, e girò intorno una occhiata che fece abbassare tutte le ciglia. Il medico e i domestici accorsero a lui, come infermieri al primo delirio di un malato. Regnava nella sala un silenzio solenne. - Abrakadabra! Abrakadabra! Abrakadabra! tuonò la voce del signore. E portò la mano alla fronte, rimanendo nella attitudine dell'abbarbagliato che invoca dalle tenebre una luce più veritiera. Ma quella sera l'Abrakadabra non doveva essere l'ultima parola del signore. Trascorsi pochi minuti, egli ritrasse la mano dalla fronte, e volgendosi ai tre antagonisti in sembiante più calmo: «Grazie! mille grazie a voi tutti! - esclamò - se la vostra polemica, non mi ha dato l'ultimo verbo della idea, ha però versato molta luce sul caos. Io sento che le acque si separano dalla terra, che l'aria ed il fuoco prendono il loro posto. Fra poco raccoglierò i miei pensieri per ordinarli sotto questo raggio di luce, e forse domani potrò gridare eureka!» Ciò detto, il signore fece un gesto di congedo, al quale tutti obbedirono. Il medico e i domestici, che parevano esitare, dovettero uscire dalla sala fulminati da un'occhiata inesorabile. Poichè tutti furono usciti, il signore sedette, appoggiò i gomiti alla tavola, e, raccolta la testa fra le mani, si fece a passare in rassegna le proprie idee, adunandole per ordinarle o respingerle, come farebbe un generale con un esercito di sconfitti. «- Ragione? forse che tutti non hanno ragione? ... e non sarebbe più logico il dire che tutti hanno torto? ... Il triangolo è necessario, perfetto. Ciascun lato presenta la medesima superficie. Leggete per diritto, leggete per rovescio, capovolgete - le cifre non si mutano, la figura non si scompone - Abrakadabra! - Perchè adunque tanto strepito di polemiche? ... Acquietamoci una volta! Conveniamo che il moto non viene da noi, che l'uomo è uno strumento, un meccanismo subordinato all'intelligenza mondiale. La regola è stabilita, nè può mutarsi. Tutto ciò che pensiamo, tutto ciò che tentiamo è perfettamente logico, perchè necessario. Ciò che si chiama errore, contraddizione, inganno, è una necessità sapientissima nell'ordine, nell'armonia universale. «Perchè si dice progresso? ... Moto è la parola. Se l'umanità progredisse nel meglio; quanto sarebbero da compiangere i nostri antenati, che vissero seimila anni prima di noi! Pure anch'essi lavoravano per la medesima illusione ... e si affannavano in questo moto d'idee e di tentativi che non dà requie allo spirito umano. - Seimila anni di corsa; e dove siamo arrivati? ... - Al punto di partenza. Valeva la pena di mettersi in cammino? ... «Eppure, tutti i giorni si parte, e si corre ... Non vi è dunque una meta? ... Il farmacista, nel limite delle sue idee politiche, vi dirà che la sua meta è la repubblica universale. Il sindaco non vuol andare così lontano - egli si arresterebbe alla unificazione completa dell'Italia, con un voto di simpatia per le nazionalità oppresse. Tutto ciò può avverarsi. Ma quando il sindaco e il farmacista saranno arrivati? ... Da capo, signori! L'umanità non può arrestarsi - bisogna riprendere la corsa, lasciarsi rimorchiare ... o farsi stritolare, che è peggio! «Chi rallenta, chi si fa rimorchiare è moderato - chi si ferma e pretende arrestare, è reazionario. - Convenzioni! Moda! - Quest'ultima parola mi chiarisce l'idea. «La moda è prepotente; o tosto o tardi, tutti dobbiamo uniformarci al figurino dell'epoca. Gli ultimi che adottarono la coda, appendice delle teste rivoluzionarie di un'epoca liberalissima, furono gli ultimi a tagliarsela. Per averla portata fuori di tempo, il mondo li chiamò reazionarii, e il codinismo passò in proverbio. «I primi che mettono fuori il figurino di una idea son chiamati liberali. La moda viene accettata, si propaga, si allarga - a lungo andare, tutti debbono svestire l'abito vecchio, per adottare la nuova foggia. Ma dopo alcuni anni comparisce un altro figurino, un figurino che alla sua volta si chiama progresso, civiltà, democrazia, socialismo, ciò che meglio vi piace. Gli iniziatori della moda precedente, i liberali di un'altra epoca, vorrebbero resistere e persistere. Essi gridano il non possumus del curato, e in rapporto ai nuovi tempi divengono reazionarii. «Abrakadabra! ibis! redibis! Ciò che ieri era il bene, oggi rappresenta il male; ciò che pei nostri predecessori era la meta, per noi diviene il punto di partenza. Sarebbero dunque, anche il bene ed il male, una illusione del convenzionalismo? Il principio delle nazionalità, che rappresenta il non plus ultra del liberalismo contemporaneo, come dovrà apparire meschino e puerile fra un secolo, quando nel pensiero della comunanza di origine e della fratellanza naturale, l'uomo si dirà cosmopolita; quando le frontiere delle Alpi, dei fiumi e dei mari, scompariranno, insieme ai pregiudizii di razza; e l'umanità, che oggi pone il suo vanto nel suddividersi in cento frazioni nemiche, si riunirà tutta per formare una sola famiglia! «Bene, male! ... per disingannarci di codeste distinzioni che non hanno senso, rimontiamo alla origine delle cose, a Dio. «Dio non è una parola - è una idea innata, congenita all'uomo, trasfusa in tutto il creato. Dio è l'essere, la luce, il moto del pensiero. Dio è la perfezione - tutto che emana da lui è perfetto. «Orbene, a che discutere il torto e la ragione, il bene ed il male? - parole! Poichè l'universo riflette la perfezione di Dio, le leggi che lo governano e gli atomi che lo compongono debbono considerarsi irriprovevoli. Potete voi concepire la perfezione del tutto, escludendo la perfezione delle parti? «L'uomo, nella sua vanità provvidenziale, facendosi centro della creazione, credette che quest'opera gigantesca e inconcepibile non avesse altro scopo che il di lui individuale vantaggio. Tale è il nostro peccato di origine, la superbia incarnata, da cui si genera il dolore, l'impotente desiderio del meglio. «Tutto per noi! ecco la strana illusione! - Cerca, prova, rimescola, agita, va, torna, edifica, dissolvi; tutto questo moto, questa operosità incessante dell'uomo non può migliorare di un solo grado la di lui condizione. L'illuso egoista non vuol persuadersi che il suo moto intelligente e appassionato è diretto ad uno scopo più universale, cui è interessata tutta la creazione. «Se l'umanità potesse raggiungere il meglio a cui tende, allora la sua esistenza diverrebbe un assurdo, il moto cesserebbe, e il mondo intero sarebbe disorganizzato. «Il vos non vobis è la legge di tutti gli elementi mondiali. - Forse che il sole percorre ogni anno il suo giro indeclinabile a benefizio della propria individualità? Il moto è una legge di sacrifizio per lui come per gli altri pianeti, parimenti subordinati a reciproci rapporti, ad inevitabili dipendenze. Tutto per il cosmos, nulla per noi; ecco la legge di tutte le intelligenze organizzate che si agitano nel creato. «E l'atomo vanitoso che si classifica ragionevole presumerebbe emanciparsi dalla legge universale! Non deridiamo, non insultiamo! Questa pretesa dell'istinto umano costituisce appunto il motore della sua efficienza. Illuso, inconsapevole, l'uomo segue il suo corso di rotazione. Cercando il meglio nell'esclusivo interesse della propria individualità, il suo moto, la sua azione diviene, come quella delle altre intelligenze mondiali, un perpetuo sacrifizio al bene dell'universo. «Misterioso, imponente, pieno di sublime poesia è questo sacrifizio di tutti per il tutto. Il sole, questa grande intelligenza luminosa, che non può uscire dalle sue rotaie inesorabili, che non può arrestarsi, che non può svestirsi della sua immensa luce, nè temperare gli ardori della sua combustione perenne - la terra che si affatica nel rapido movimento di ogni giorno, roteante fra i nembi e le folgori, sospinta e ribalzata da più potenti pianeti - la belva che ruggisce per fame, il montone che dev'essere divorato, l'augello che canta per dolore, l'uomo che ride per impotenza, la pianta che piange e geme negli sforzi della vegetazione, la materia e l'intelligenza che si accoppiano per dissolversi nella corruzione - tutto ciò che vediamo o immaginiamo, tutto ciò che si nasconde ai nostri sensi, ma si rivela al nostro spirito - tutto rappresenta l'individualità che si sacrifica all'ordine dell'universo. «Una volta riconosciuta questa legge, una volta stabilita questa fede, che risulta lucidissima ai sensi, tanto che la mente più pregiudicata non oserebbe rinegarla; è egli più possibile di prender sul serio queste miserabili questioni di parole e di formole, le quali non sono che il risultato di un errore vanitoso, per cui l'uomo vorrebbe disconoscere, adempiendola, la propria missione? «Non fanno pietà queste gare mal definite tra il passato e il presente? queste lotte di principii ugualmente erronei? queste verità dell'oggi che domani si trasmuteranno in menzogne? queste riforme che scaturiscono dall'antico e sono da uomini antichi respinte come nuove? queste sillabe accozzate che vorrebbero dar corpo ad una larva? queste larve che si decompongono e svaniscono il giorno in cui prendono corpo? queste scoperte della scienza che accusano la stoltezza dei nostri predecessori e fra un secolo accuseranno la nostra? questi trovati dell'arte e dell'industria che forniscono un diletto creando mille bisogni? queste rivoluzioni che massacrano le moltitudini per istabilire una idea? queste idee che aspettano di essere accettate e tradotte nell'azione pratica per divenire intollerabili ed esecrate? «E quanto ardore nelle polemiche! quanto entusiasmo negli assurdi! ... qual cecità nelle contraddizioni! - Un dabben farmacista crede di aver inventato il liberalismo perchè osa dire: ammazziamo chi vorrebbe soperchiarci! Questa politica era già nella mente solitaria di Caino, il figliuolo primogenito dell'uomo. Ma la storia è troppo antica - non è meraviglia che il farmacista l'abbia dimenticata. «E il curato, che pretende egli col suo non possumus Arrestare il movimento? Uccidere l'idea? - Non ha egli appreso dalla istoria che una idea, antica o nuova non importa, purchè lusinghi questo istintivo desiderio del meglio che è il principio motore della umanità, deve fare il suo cammino, svolgersi e completarsi nella esperienza fino a quando l'esperienza non la riprovi? Non si avvede egli, il buon curato, che il suo non possumus sta al moto delle idee come la zavorra alle navi - invece di sommergere, equilibra ed assicura? «E il sindaco, ignora egli che le violenze e le stragi sono del pari una necessità del movimento? che, per dar passo alla locomotiva, il ferro e la polvere debbono prepararle il cammino, distruggendo la vegetazione, appianando la montagna, divergendo il torrente? «Non è questa la istoria inevitabile del movimento umano? ... Ma chi bada alla storia? Chi la comprende? L'uomo è sempre nuovo sulla terra. L'esperienza de' suoi predecessori non è lezione per lui se non in quanto lo ammonisca che essi nulla hanno fatto di bene, che tutto bisogna rifare. «Oh! se l'uomo potesse leggere l'avvenire! Forse riconoscerebbe la sua vera missione, l'inanità de' suoi sforzi per migliorare la condizione propria, e la sua divina efficacia nel cooperare all'equilibrio ed allo sviluppo del cosmos! Ove ciò avvenisse, un nobile orgoglio potrebbe egli sostituire alla vanità disillusa dell'io, e dire con più soda convinzione: io sono una leva della intelligenza di Dio - agisco per lui e con lui - tutto che produco è perfetto - e forse, l'atomo perduto nell'universo, compiuto il sacrificio del dolore operoso, si riunirà, si identificherà in quell'Essere Uno, che è la Causa e l'Effetto dei mondi. «Scriviamo la storia dell'avvenire. Dessa troverà fede più che la storia del passato. Per essa la vanità e la follia si acquieteranno in un concetto filosofico e morale ... ! «Per scrivere questa storia, non è mestieri di profonda dottrina, nè di penose investigazioni, nè di lunghi e meditati raffronti. La logica naturale può dettarla. Raccogliamo le idee dei nostri tempi, i principii innovatori che oggi si presentano in germe; seguiamo il loro movimento, il loro sviluppo - completiamo tutte le aspirazioni dell'epoca nostra traducendole in fatti; l'avvenire non avrà più segreti per noi. La nostra istoria potrà ingannarsi nelle date. - Cosa sono le date? - Una divisione convenzionale del tempo indivisibile. Che importa se gli avvenimenti non sieno numerizzati e disposti a rubriche come le cartelle del notaio? Non basta il saperli veri, necessariamente esatti come il prodotto di una addizione, come la logica di un calcolo algebrico? «Osiamo dunque! ... Poichè la definizione mi sfugge; poichè il verbo si rifiuta ad esprimere l'idea - sforziamoci di tradurla in una serie di fatti! «Che è mai l'Abrakadabra se non il programma, lo scheletro di tutta la istoria umana? Completiamolo - riempiamo le lacune, vestiamolo di muscoli e di nervi! Ch'egli si muova, si agiti, precorra gli spazii dell'avvenire! ... Tutti lo riconosceranno, lo comprenderanno, e l'umanità dovrà arrendersi all'evidenza del suo concetto ... »

L'ANNO 3000

677783
Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Nessun bisogno nell'aerotaco di macchinisti o di servi, perchè ognuno impara fin dalle prime scuole a maneggiarlo, a innalzare o ad abbassare secondo il bisogno e a dirigerlo dove volete andare. In un quadrante si leggono i chilometri percorsi, la temperatura dell'ambiente e la direzione dei venti. Paolo e Maria avevano portato seco pochi libri e fra questi L'anno 3000, scritto da un medico, che dieci secoli prima con bizzarra fantasia aveva tentato di indovinare come sarebbe il mondo umano dieci secoli dopo. Paolo aveva detto a Maria: - Nel nostro lungo viaggio ti farò passar la noia, traducendoti dall'italiano le strane fantasie di questo antichissimo scrittore. Son curioso davvero fin dove questo profeta abbia indovinato il futuro. Ne leggeremo certamente delle belle e ne rideremo di cuore. È bene a sapersi che nell'anno 3000 da più di cinque secoli non si parla nel mondo che la lingua cosmica. Tutte le lingue europee son morte e per non parlare che dell'Italia, in ordine di tempo l'osco, l'etrusco, il celtico, il latino e per ultimo l'italiano. Il viaggio, che stanno per intraprendere Paolo e Maria, è lunghissimo. Partiti da Roma vogliono recarsi ad Andropoli, capitale degli Stati Uniti Planetarii, dove vogliono celebrare il loro matrimonio fecondo, essendo già uniti da cinque anni col matrimonio d'amore. Essi devono presentarsi al Senato biologico di Andropoli, perchè sia giudicato da quel supremo Consesso delle scienze, se abbiano o no il diritto di trasmettere la vita ad altri uomini. Prima però di attraversare l'Europa e l'Asia per recarsi alla capitale del mondo, posta ai piedi dell'Imalaia, dove un tempo era Darjeeling, Paolo voleva che la sua fidanzata vedesse la grande Necropoli di Spezia, dove gli Italiani dell'anno 3000 hanno come in un Museo raccolte tutte le memorie del passato. Maria fino allora aveva viaggiato pochissimo. Non conosceva che Roma e Napoli e il pensiero dell'ignoto la inebbriava. Non aveva che vent'anni, avendo data la mano d'amore a Paolo da cinque anni. Il volo da Roma a Spezia fu di poche ore e senza accidenti. Vi giunsero verso sera, e dopo una breve sosta in uno dei migliori alberghi della città, cavarono fuori dall'aerotaco una specie di mantello di caucciù, che si chiama idrotaco e che gonfiato da uno stantuffo in pochi momenti si converte in un barchetto comodo e sicuro. Anche qui nessun bisogno di barcaiuolo e di servi. Una macchinetta elettrica, non più grande di un orologio da caminetto, muove l'idrotaco sulle onde, colla velocità che si desidera. Il Golfo di Spezia era in quella sera divino. La luna dall'alto, nella pace serena della sua luce, spargeva su tutte le cose come un fiato soave di malinconia. Monti, monumenti, isole parevano di bronzo; immoti come chi è morto da secoli. La scena sarebbe stata troppo triste, se le onde chiacchierine, che parevano cinguettare e ridere fra la rete infinita d'argento, che le inserrava come migliaia di pesciolini presi nella rete dal pescatore, non avessero dato al golfo un palpito di vita. I due fidanzati si tenevano per mano e si guardavan negli occhi. Si vedevano anch'essi come velati in quella luce crepuscolare, che toglie la durezza degli oggetti; facendo giganti le anime delle cose. - Vedi, Maria, - disse Paolo a lei, quando potè parlare: - qui intorno a noi dormono nel silenzio più di ventimila anni di storia umana. Quanto sangue si è sparso, quante lagrime si son versate prima di giungere alla pace e alla giustizia, che oggi godiamo e che pure sono ancora tanto lontane dai nostri ideali. E sì, che fortunatamente per noi, dei primi secoli dell'infanzia umana, non ci son rimaste che poche armi di pietra e confuse memorie. Dico fortunatamente, perchè più andiamo addietro nella storia e più l'uomo era feroce e cattivo. E mentre egli parlava, si andavano avvicinando alla Palmaria, convertita allora in un grande museo preistorico. - Vedi, Maria, qui vissero in una grotta dieci o venti secoli or sono uomini, che non conoscevano metalli e si vestivano colle pelli delle fiere. Sulla fine del secolo XIX un antropologo di Parma, certo Regalia, illustrò questa grotta, che era detta dei Colombi, descrivendone gli avanzi umani e animali, ch'egli vi aveva trovati. In quel tempo però, cioè sulla fine del secolo XIX, tutta l'isola era coperta di cannoni, ed una batteria grande, un vero miracolo di arte omicida, difendeva il golfo dagli assalti del nemico. Tutto il golfo del resto era un trabocchetto gigantesco per uccidere gli uomini. Sui monti, cannoni; sulle sponde, cannoni; sulle navi, cannoni e mitragliatrici: tutto un inferno di distruzione e di orrore. Ma già qualche secolo prima questo golfo portava memorie di sangue. Lì ad oriente sopra Lerici tu vedi un antichissimo castello, dove fu prigioniero un re di Francia, Francesco I, dopochè ebbe perduta la battaglia di Pavia. Noi non vediamo più l'ecatombe di ossa, che devono trovarsi sul fondo del mare, perchè sul principio del secolo XX ebbe luogo una terribile battaglia navale, a cui presero parte tutte le flotte d'Europa; mentre per fatale coincidenza in Francia si combatteva un'altra grande battaglia. Si battevano per la pace e per la guerra, e l'Europa era divisa in due campi. Chi voleva la guerra e chi voleva la pace; ma per volere la pace si battevano, e un gran mare di sangue imporporò le onde del Mediterraneo e allagò la terra. In un solo giorno nella battaglia di Spezia e in quella di Parigi morì un milione di uomini. Qui dove noi siamo ora, godendo le delizie di questa bellissima sera, saltarono in aria in un'ora venti corazzate, uccidendo migliaia di giovani belli e forti; che avevano quasi tutti una madre, che li attendeva; tutti una donna che li adorava. La strage fu così grande e crudele, che l'Europa finalmente inorridì ed ebbe paura di sè stessa. La guerra aveva uccisa la guerra e da quel giorno si mise la prima pietra degli Stati Uniti d'Europa. Quei giganti neri, che vedi galleggiare nel Golfo sono le antiche corazzate, che rimasero incolumi in quel giorno terribile. Ogni nazione d'allora vi è rappresentata: ve n'ha di italiane, di francesi, d'inglesi, di tedesche. Oggi si visitano come curiosità da museo e domattina ne vedremo qualcuna. Vedrai come in quel tempo di barbari, ingegno e scienza riunivano tutti i loro sforzi per uccidere gli uomini e distruggere le città. E figurati, che uccidere in grande era allora creduta gloria grandissima e i generali e gli ammiragli vincitori erano premiati e portati in trionfo. - Poveri tempi, povera umanità! Però, anche dopo aver abolita la guerra, l'umana famiglia non ebbe pace ancora. Vi erano troppi affamati e troppi infelici; e la pietà del dolore, non la ragione, portò l'Europa al socialismo. Fu sotto l'ultimo papa (credo si chiamasse Leone XX ), che un re d'Italia scese spontaneo dal trono, dicendo che voleva per il primo tentare il grande esperimento del socialismo. Morì fra le benedizioni di tutto un popolo e i trionfi della gloria. I suoi colleghi caddero protestando e bestemmiando. Fu una gran guerra, ma di parole e di inchiostro; fra repubblicani, conservatori e socialisti; ma questi la vinsero. L'esperimento generoso, ma folle, durò quattro generazioni, cioè un secolo; ma gli uomini si accorsero di aver sbagliato strada. Avevano soppresso l'individuo e la libertà era morta per la mano di chi l'aveva voluta santificare. Alla tirannia del re e del parlamento si era sostituita una tirannia ben più molesta e schiacciante, quella d'un meccanismo artificiale, che per proteggere e difendere un collettivismo anonimo soffocava e spegneva i germi delle iniziative individuali e la santa lotta del primato. Sopprimendo l'eredità, la famiglia era divenuta una fabbrica meccanica di figliuoli e di noie sterili e tristi. Un gran consesso di sociologi e di biologi seppellì il socialismo e fondò gli Stati Uniti del mondo, governato dai migliori e dai più onesti per doppia elezione. Al governo delle maggioranze stupide subentrò quello delle minoranze sapienti e oneste. L'aristocrazia della natura fu copiata dagli uomini, che ne fecero la base dell'umana società. Ma pur troppo non siamo ancora che a metà del cammino. L'arte di scegliere gli ottimi non è ancora trovata; e pensatori e pensatrici, i sacerdoti del pensiero e le sacerdotesse del sentimento, travagliano ancora per trovare il modo migliore, perchè ogni figlio di donna abbia il posto legittimo, che la natura gli ha accordato nascendo. Si sono soppressi i soldati, il dazio consumo, le dogane, tutti gli strumenti della barbarie antica. Si è soppresso il dolore fisico, si è allungata la vita media, portandola a 60 anni; ma esiste ancora la malattia, nascono ancora dei gobbi, dei pazzi e dei delinquenti, e il sogno di veder morire tutti gli uomini di vecchiaia e senza dolore è ancora lontano. Maria taceva, ascoltando, e Paolo tacque anch'egli, come oppresso da una grande malinconia. I ventimila anni di storia gli parevano troppo lungo tempo per così piccolo cammino percorso sulla via del progresso. Maria volle rompere quel silenzio e dissipare quella malinconia; e coll'agilità mobile e intelligente che hanno tutte le donne, volle far fare al pensiero del suo compagno un gran salto. - Dimmi, Paolo, perchè fra le tante lingue morte tu hai studiato con particolare amore l'italiano? È una curiosità che ho da un pezzo e che tu non mi hai mai soddisfatto. Non sarà di certo per poter leggere nell'originale L'anno 3000? - No, mia cara, è perchè la letteratura italiana ci ha lasciato la Divina Commedia e Giovanin Bongè, Dante e Carlo Porta, i due poeti massimi del sublime e del comico. Li leggeremo insieme questi due grandi poeti e tu vedrai che ho cento ragioni di voler studiare l'italiano prima d'ogni altra lingua morta. Nessuno ha saputo toccare tutte le corde del cuore umano come l'Allighieri e nessuno ci ha fatto ridere più umanamente del Porta. Per capire però il Porta non basta saper l'italiano, ma si deve studiare il milanese, un dialetto molto celtico, che si parlava dieci secoli or sono in gran parte della Lombardia, quando l'Italia aveva più di venti dialetti diversi. E poi, anche senza Dante o senza il Porta, io avrei studiato l'italiano prima d'ogni altra lingua morta, perchè essa era la figlia prediletta e primogenita del greco e del latino e in sè concentrava i succhi di due fra le massime civiltà del mondo, e ad esse se n'aggiunse una terza di suo, non meno gloriosa delle altre. Parlando italiano si ripensa Socrate e Fidia, Aristotile e Apelle; si ripensa Cesare e Tacito; Augusto e Orazio; Michelangelo e Galileo; Leonardo e Raffaello. Mai nessuna altra lingua ebbe una genealogia più nobile e più grande. Ecco anche perchè, quando si fondarono gli Stati Uniti d'Europa, per facile consenso di tutti, Roma fu scelta a capitale. - Paolo mio, tu mi fai troppo superba di essere romana! E di nuovo i due fidanzati tacquero, mentre il loro idrotaco scorreva sulle onde del golfo, rompendo ad ogni suo movimento le maglie della rete d'argento, distesa sul pelo dell'acqua. Intanto si avvicinavano all'antico Arsenale di Spezia e un suono monotono e lugubre giungeva al loro orecchio; ora confuso e appena percettibile, ora chiaro e distinto; secondo le vicende della brezza notturna. Gli occhi di Paolo e di Maria si volgevano là donde quel suono veniva e pareva che sorgesse dall'onda, dove un corpo rotondo galleggiava sull'acqua, come un'immensa testuggine marina. Verso quel punto diressero la loro navicella e il suono si andava facendo più forte e più triste. A pochi passi da quel corpo galleggiante fermarono l'idrotaco. - Che cos'è questo corpo? - È un'antica boa, a cui i barbari del secolo XIX attaccavano le loro corazzate maggiori. È rimasta qui dopo tanti secoli arrugginita e obbliata per memoria di un tempo, che per fortuna degli uomini non ritornerà più. Intanto il suono triste e monotono, che usciva dalla boa, era divenuto chiarissimo. Era un suono doppio e straziante, fatto di due note; un lamento e un tonfo. Prima era un ihhh stridente e prolungatissimo, e poi, dopo una pausa breve, un bumhh cupo e profondo, e una nuova pausa, e un ripetersi incessante del lamento e del tonfo. Anche il cuore umano misura il breve giro del quadrante della vita con due suoni alterni, un tic e un tac; ma son suoni allegri, quasi festosi. Quell'ihhh e quel bumhh invece sembravano i palpiti di un cuore gigantesco e straziato, che battesse il tempo del nostro pianeta. - Dio mio, dimmi, Paolo, perchè quella boa si lamenta? Par che soffra e pianga. - Pazzarella, - rispose egli, sorridendo forzato. - Il lamento è lo stridere dell'anello arrugginito della boa e il tonfo è il batter dell'onda sulla cassa vuota. Paolo però, dando la spiegazione fisica di quel suono alterno, era preoccupato da altri pensieri, che spaziavano in un mondo più alto e più lontano. E i due tacquero ancora e lungamente. - Andiamo via, torniamo a terra, questa boa mi fa terrore, mi fa piangere. - Hai ragione, andiamo via. Questo lamento rattrista anche me. Mi par di veder qui l'immagine dolorosa di tutta la storia umana. Un lamento, che sorge dalle viscere dei bambini appena nati, dei giovani straziati dall'amore, dei vecchi che hanno paura della morte; di tutti i malcontenti, di tutti gli affamati di pane o di gloria, di ricchezza o di amore. Un lamento, che si innalza da tutto il pianeta, che piange e domanda al cielo il perchè della vita, il perchè del dolore. E a quel lamento di tutto il pianeta risponde il destino, il fato con quel tonfo cupo e profondo: Così è, così deve essere, così sarà sempre. - No, Paolo, non è così, non sarà sempre così! Pensa alle corazzate omicide che non ci son più, pensa alla guerra che più non esiste; pensa al progresso che mai non posa. Anche questa boa, che sembra ripeterci coi suoi palpiti l'eterno lamento dell'umanità, e la crudele risposta del fato, tacerà un giorno, disciolta dalle acque del mare ... - E così sia, - disse Paolo, accelerando il moto della navicella, per fuggire all'incubo di quel suono lamentevole e straziante. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Al mattino seguente il sole più fulgido brillava nel cielo di Spezia invece della luna. La vita operosa del lavoro teneva dietro alla malinconia della notte; e i due fidanzati, dopo aver visitato alcune carcasse delle vecchie corazzate, rimontando nell'aerotaco, spiccarono il volo verso Oriente, donde sempre è venuta agli uomini colla luce del giorno la speranza, che mai non muore.

Teresa

678727
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Era presso a Teresina che si affrettò ad abbassare le maniche. - E però, forse, la pioggia non è lontana. Guardarono per aria tutti e due. Teresa aveva appoggiato l'innaffiatoio sulla ghiaia del sentiero e se ne stava ritta, colle braccia cadenti, con una espressione stanca che le affilava il volto. Dalle aiuole bagnate incominciava a salire l'odore di terra fresca, acuto, sensuale, rompendo la siccità dell'atmosfera; e tutto ciò che era nella terra, bruchi, vermiciattoli, esalavano la loro vitalità rianimata da quelle poche stille d'acqua. L'aria bruciava tuttavia, ma un vapore molle l'attraversava, tratto tratto, come una carezza. - Che buon odore, non è vero? Ella disse di sì, distratta, sentendo penetrarle in tutti i pori un bisogno irresistibile di vivere. La sua atonia non era che apparente. Guardava la terra che si imbeveva a poco a poco e i fiori che si allargavano, freschi, sorgendo dalle zolle. Il dottore parlava, con quella voce maschia, che faceva fremere Teresina. Il suo pensiero era lontano, ma la solita corrente magnetica, di un magnetismo puramente fisico, la faceva stare attenta alle parole del giovane. Tenendo gli occhi abbassati, vedeva, di sghembo, i suoi lunghi baffi castagni che si agitavano lievemente, gettando un'ombra sulla bianchezza soda del mento. Pensava: Se fosse qui lui Univa l'anima dell'assente alle sensazioni materiali di quel momento. Il dottore provava forse qualche cosa di simile; presente col corpo, aveva l'immaginazione lontana. Fissava lo sguardo come chi ha davanti una visione, e tracciava colla sua canna delle lettere incomprensibili sull'arena. Senza sapere in qual modo avesse incominciato, si trovò a parlar d'amore. - Nei drammi e nei romanzi di una volta incontriamo spesso questa situazione: una donna cade nell'acqua, un uomo la salva, si amano. Ma come? Che ne sanno essi? Hanno provato a intendersi nei lunghi silenzi dove parla il cuore? Hanno pianto, hanno riso insieme? Sanno solamente come mangiano, come dormono? in qual modo il loro spirito si esilara e fino a qual punto vibrano i loro nervi? Difficilmente la bellezza che colpisce è quella che trattiene. L'amore, il vero, nasce da un complesso di circostanze, di affinità intime e continue. È un certo modo di guardare, di sentire, di esporre le idee; è una piega del labbro, la voce, il gesto, la forma della mano, l'odore della pelle. È l'attrazione prolungata dei corpi, per cui piú si sta vicini e piú si starebbe; è lo scambio rapido e completo dei pensieri; è l'afferrare insieme la stessa sensazione, il fondersi, il completarsi l'un l'altro in un assorbimento progressivo dell'anima e dei sensi ... - È vero, è vero. Cogli occhi chiusi, appoggiata al tronco di un alberello, Teresa mormorò ancora: - È vero! - Si sentiva cullata da quella voce, quasi addormentata nel suo eterno sogno d'amore; mentre la terra intorno a lei le mandava forti e selvaggie esalazioni e i fiori si rizzavano, opulenti; e l'erba, le foglie, ogni stelo ogni cespuglio odorava nella frescura umida della sera, imperlato dalle recenti goccioline. - ... L'amore è lo sguardo che vola ratto come il dardo, è la parola che il labbro balbetta appena, è il desiderio che l'emozione paralizza ... - È vero, è vero. Ella si sentiva morire in un rapimento di voluttà, nella delicata eccitazione di quella voce d'uomo che parlava d'amore. Bruscamente, il giovane tacque. La notte era scesa, fresca, dolcissima, piena di carezze. Raggiavano in cielo le prime stelle; il geranio notturno olezzava col suo profumo intenso, quasi carnale, protendendo i rami verso la luce argentea; e in quel silenzio cadevano le goccie lambendo le corolle, strisciando sui gambi, toccando terra con un piccolo rumore secco, che turbava i moscherini nel loro primo sonno, e faceva fuggire, spaurite, le lucciole di fiore in fiore. Quando il giovane tornò a parlare, la sua voce era cambiata, disse: - Buona sera - in fretta, afferrando un pensiero che gli era venuto nella dolcezza tentante di quella notte. Salutò, senza nemmeno guardare e sparve nelle ombre del portico. Teresa si scosse, strinse i denti, chiuse gli occhi e sospirando e sollevando le braccia al di sopra del capo, le stirò, con un abbandono al quale risposero tutte le sue fibre, gemendo. Nel salotto terreno, nell'umido e buio gineceo, il signor Caccia terminava i suoi giorni, confinato sul divanuccio dove la signora Soave aveva trascorsa tanta parte della vita, lagnandosi dolcemente cogli occhi volti al cielo. Egli finiva, battuto, vinto nelle sue forze maggiori; ridotto così gramo da dover implorare l'altrui compassione, spoglio d'ogni potere, in balia dell'unica figlia che gli era rimasta accanto. E quella figlia non era la prediletta; l'aveva anzi disconosciuta spesso, rendendola vittima del suo assolutismo. Si trovavano di fronte, soli, con tutto un passato che li divideva, coll'amarezza indistruttibile dei dolori sofferti. Tacevano, ma nel silenzio della figlia c'era forse un rimprovero; in quello del padre un rimorso - e piú che un rimorso, per quel carattere superbo, l'umiliazione di dovere a lei un prolungamento d'esistenza. La osservava, qualche volta, con un'ira sorda, qualche altra con un improvviso impeto di tenerezza. Teresa era calma. Non esagerava le dimostrazioni d'affetto; era attenta, docile. Compieva i suoi obblighi senza entusiasmo e senza fiacchezza, seria. Ma tutta la sua gioventù sfiorita sembrava rimasta nella casa, intorno a lei, in quelle pareti che l'avevano vista fanciulla, dove era caduto ogni giorno, ogni ora, come da una clepsidra, un raggio della sua bellezza; dove ella aveva assistito al succedersi degli anni, alle lente evoluzioni della famiglia e di se stessa. Guardava il suo passato nello stesso modo che avrebbe guardata un'altra persona, evocando la Teresina di quindici anni, così lieta, il giorno in cui era partita per Marcaria, su quello stradone lungo, tutto soleggiato, che non finiva mai, dove il sediolo di Orlandi correva in mezzo a un nuvolo di polvere. Ripensandoci, le pareva una profezia; egli le era passato accanto, fuggendo. Ah! come avrebbe voluto ricominciare la vita ora che la conosceva meglio. Quando era assalita da questo rammarico, si struggeva, con una melanconia acuta, con un livore che la rimescolava tutta, fino nei rimpianti lontani, fino nei desideri piú gelosamente custoditi che ella credeva domati per sempre. Le lunghe, le penosissime ore che trascorsero così, padre e figlia! - sempre uniti, dignitosi, sopportando fieramente il peso del loro dovere, trascinando l'odiosa catena delle consuetudini, degli affetti imposti. Una lettera di Carlino venne a portare l'ultimo colpo ai due che rappresentavano ancora l'unione della famiglia Caccia. Il giovane annunciava, brevemente, il suo matrimonio colla figlia di un oste, che egli aveva sedotta. Non una parola di scusa, non un atto di deferenza all'autorità paterna. Nulla. Era la volontà brutale di un uomo libero, che non ha bisogno di nessuno. Il signor Caccia ne fu scosso in modo da far pietà. Il medico, accorso per un peggioramento nello stato dell'infermo, disse subito che non si sarebbe riavuto da quel colpo. Infatti continuò a peggiorare, e sul principio d'autunno, avendo già perdute le facoltà della parola e della memoria, attaccato da paralisi al cuore morì. Tutti in paese credettero che Teresina andrebbe a stare colle sorelle; ma Teresina non si mosse. Assistí il padre fino all'ultimo sospiro, lo collocò nella bara, lo vegliò morto. Nel momento che lo portavano via, pianse. Poi riprese le abitudini tranquille, vagolando, come un'ombra nella casa deserta. Invano qualcuno, il dottore, la pretora, le vicine Ridolfi tentarono di farla uscire, di procurarle delle distrazioni. Ella rifiutò tutte le proposte, così calma, così fredda, che finirono col giudicarla insensibile. "Poveretta!" pensava la pretora "ha sofferto tanto che il cuore le si è indurito, non sente piú nulla". Pure, come risorsa estrema, valendosi dell'antica amicizia, la tentò un giorno dal lato dell'amor proprio, e le disse: - Ho paura che rassomigli davvero alla Calliope; non esci mai, tieni la casa sbarrata ... mettiti un po' a farmi gli sberleffi, vediamo se riesci. Ma anche da questa parte Teresina si mostrò invulnerabile. Un sorriso serio, profondamente malinconico, era la sua risposta a tutto ed a tutti. Passarono due mesi. Negli ultimi giorni dell'anno ricevette una lettera di Egidio. Egli era ammalato, povero, senza aiuto alcuno. Le scriveva come un figlio scriverebbe alla madre, con una fede illimitata. Teresa fece molte riflessioni su quella lettera, molte meditazioni, e per tutta la notte non dormì; e il giorno dopo tornò a riflettere e a meditare. La pretora, non vedendola, venne a prendere sue nuove. La trovò in camera, circondata da abiti, da oggetti di biancheria gettati alla rinfusa su per i mobili, con una valigia in terra, aperta. - Che cosa vedo? Ti decidi finalmente ad andare dai Luminelli? Teresa non rispose subito. Era molto preoccupata; ma dopo un momento, prese le mani dell'amica e parlando piano, con una gravità pensierosa: - Egli mi ha scritto. La pretora non comprese subito. Da sei o sette mesi non era stato pronunciato, fra loro, il nome di Orlandi. Non nascose quindi la sua meraviglia, al contrario l'accentuò: - Ti ha scritto ancora? Che vuole? - Nulla. La pretora crollò il capo. Teresina soggiunse: - È ammalato. - Ah! - Solo. La pretora questa volta non pronunciò sillaba. Successe un silenzio, breve, penoso. Teresa piegava un abito sul letto, dando le spalle all'amica. Rapidamente, come si strappa un dente, disse: - Vado via domattina. E si voltò, coll'abito sul braccia. Gli sguardi delle due donne si incrociarono. La pretora aveva compreso. Tacque un momento, intanto che Teresa assettava la valigia. Quand'ebbe finito, per impulso simultaneo si appoggiarono tutte e due al letto, serie e commosse: - Hai riflettuto? - Sì. - E sei decisa? - Decisa. La pretora tentò la via del sarcasmo, dicendo con un sorriso freddo: - Vai a fare l'infermiera! - Quel che Dio vuole - rispose Teresa. Allora l'altra riprese: - Che cosa penseranno le tue sorelle, tuo fratello? Si strinse nelle spalle. - La gente? - Oh! la gente poi ... E sorrise col suo sorriso malinconico, al quale si aggiunse una punta di ironia. - Tuttavia ... se mi facessero delle osservazioni, a me, tua amica? - Ebbene dirai ai zelanti che ho pagato con tutta la mia vita questo momento di libertà. È abbastanza caro nevvero? Tornò a sorridere e si lisciò colle mani - due piccole manine di cera gialla - i capelli che incominciavano a perdere i riflessi bruni. La pretora restò con lei quasi tutto il giorno. All'indomani mattina, tutta vestita di nero per il lutto, con un velo che le nascondeva mezza la faccia, Teresa chiudeva la porta della sua casa. L'amica, fedele fino all'ultimo, le era vicina. - A rivederci, a rivederci, sai? - Speriamo - rispose Teresa, con accento profondo, già impressionata dei misteri del futuro. Don Giovanni Boccabadati, tutto ravvolto in una pelliccia, mise il capo alla finestra. Teresa si ricordò il giorno in cui egli pure era partito, partito col sole e colle rondini, in un mattino di primavera. - Hai una brutta giornata - disse la pretora. Ella guardò in alto, con indifferenza, e s'avviò coll'amica verso la stazione. Prima di entrare nella sala d'aspetto, si fermarono ancora qualche istante per salutarsi, per rinnovare la raccomandazione di scriversi. Nel momento che Teresa varcava la soglia, avendo già consegnato il biglietto, l'amica le si slanciò contro, abbracciandola. Voleva dirle qualche cosa ancora, ma ammutolì nell'amplesso. Si guardarono intensamente, senza profferire una sola parola. - Partenza! partenza! La pretora corse al cancello che chiudeva la via ferrata. Fu in tempo a vederla un'ultima volta. Si salutarono colla mano e cogli occhi, finché fu possibile. Poi il velo nero di Teresa cessò di fluttuare allo sportello del carrozzone; il treno si mosse. Nevicava. 101

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Oro Incenso e Mirra

678758
Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Poi vi sono i libri rilegati a colori vistosi, colle costole luccicanti e dorate come le tombe azzimate di marmi e di fiori; le sale proseguono una dentro l'altra come nelle certose, si sente nell'aria un raccoglimento solenne, un silenzio di meditazione, che vi fa abbassare la voce e sospendere lo scricchiolìo delle scarpe. Quante tombe ignorate! Quanti libri, che non si leggono più! Ma vi sono le tombe illustri, davanti alle quali centinaia di generazioni si son già fermate palpitando, e che altri grandi della vita vennero ad interrogare incollandovi gli orecchi per udirne le risposte profonde; ma vi sono i libri illustri, che centinaia di generazioni hanno già imparato e altre centinaia impareranno, che discendono ogni giorno dagli scaffali, come i morti escono forse ogni notte dal sepolcro, per dare una data antica alle nostre scoperte di ogni giorno e una autorità millenaria ai nostri sogni di una notte. Una biblioteca è un cimitero - ripetè l'illustre critico abbassando la voce. La bella duchessa lo scrutò con occhio benevolo e soggiunse sorridendo: - Mi avete detto altre volte che dobbiamo ai frati le prime biblioteche: la prima delle ultime si è aperta ieri, la - Vittorio Emanuele". Non vi è mai sembrato che le vecchie biblioteche sentano fin troppo il convento? Ne ho visitate poche, ma ne ho sempre ricevuto la stessa impressione: che scaffali poveri e gelidi, che panche da chiesa o da refettorio! In fondo a tutte un tavolone con una lucerna sepolcrale pendente dal soffitto. Generalmente erano costrutte a navata. Gli uomini, che vi studiavano, dovevano essere penitenti, i libri di autori morti, tutte le opere un testamento. D'estate vi si sentiva un freddo d'inverno, d'inverno vi si sarà gelato addirittura. Una volta, sola con un domenicano, calvo e terribile, udendo il pavimento echeggiare sotto il mio passo leggero di donna gli domandai se v'erano sotto le prigioni. - E vi rispose? - Sorridendo che v'era la cantina. Ebbene abbiamo ragione noi moderni di volere allegri i cimiteri e le biblioteche. - Forse! ma saranno senza monumenti. - Accettereste per caso la formula di Victor Hugo, il libro ha ucciso il monumento mentre - ella aggiunse con sardonico sorriso - i nostri municipi non fanno che smentirla tutti i giorni? Oramai mancano le piazze per le statue. - La formula di Victor Hugo è terribile quanto giusta, ma sciaguratamente ce n'è un'altra più terribile, che egli forse non ha presentito: se il libro ha ucciso il monumento, il monumento è morto anche nel libro. Non si scrivono più capolavori. - Perchè? - Le ragioni sono troppe, dirne una sola, che le riassuma tutte, non è forse meno difficile di un capolavoro. Perchè non siamo noi più belli? Uno scienziato vi risponderà: perchè nella nostra educazione coltiviamo lo spirito trascurando il corpo, e così crederà di avere risposto. Ma questo è un effetto non una causa. Prima che il culto del corpo venisse trascurato, nello spirito sarà stata mortalmente ferita l'idea della bellezza. Perchè? Perchè non abbiamo noi più fede? Se la fede è una visione, l'arte è un processo fotografico che la fissa. Quale è dunque il nostro concetto della vita? Quale il nostro concetto della morte? Come ogni visione è un fatto individuale, così i sensi del corpo e le facoltà dello spirito in ogni individuo hanno una potenza forse indeterminabile ma predeterminata. La prima condizione per fare un capolavoro è dunque che esso esista nella zona, che la vita di un individuo può abbracciare. Ora la nostra vita individuale ha confini ben tracciati, abbastanza difesi, dai quali nessuna invasione di fatti o di idee possa irrompere devastando le pianure o affumicando gli orizzonti, entro cui deve formarsi la visione del capolavoro? Oggi che tutte le barriere sono abbattute fra popolo e popolo, e si fanno le ferrovie sotto il letto dell'oceano, e si sventrano le montagne, che cosa è la patria? Pei popoli, che dicono di averla, è il sentimento di un fatto già trascorso; pei popoli, che non l'hanno ancora, il sentimento di un fatto futuro. I popoli liberi dichiarandosi uguali vogliono uniformare leggi e costumanze, conciliare tutti gli interessi per annullare tutte le differenze; i popoli schiavi aspirano alla patria per smarrirla all'indomani nella fratellanza universale. La patria è il mondo, non vi è dunque più patria. Quale è la nostra religione? - La mia? - esclamò la duchessa con un sorriso - aspetto che me lo diciate. - La vostra risposta invece di essere spiritosa è profonda. Noi non abbiamo più religione: il sentimento religioso è rimasto perchè immortale, ma delle sue molte costruzioni nessuna è ancora dritta in fondo alle coscienze. Rovine dunque! Al principio del nostro secolo la poesia le ha cantate, adesso anche il canto è cessato perchè furono distrutte anche le rovine. La critica arrivò d'ogni lato con un'orda di scienziati, che si divisero ringhiosamente i rottami vantandosi con essi di ripetere l'edificio. Qualche volta son arrivati a ridisegnarne la pianta, e urlarono al miracolo, come se la pianta del Campidoglio rifatta dal Canina, quand'anche vera, potesse valere, non dirò nella coscienza di un popolo, ma nella immaginazione di un artista lo spettacolo del Campidoglio quale l'anima di Roma l'aveva profeticamente intuito, dieci secoli di storia composto, e l'anima di Roma morente l'aveva veduto per l'ultima volta fra le fiamme e la bufera dei barbari trionfanti. Che cosa è oggi la famiglia? La sovranità del padre, l'autorità del cognome, la catena della tradizione, tutto è spezzato. Una volta ogni famiglia era una dinastia, adesso è una democrazia, che sta per diventare demagogia: il padre si vanta amico del figlio, la madre sorella delle figlie. Rovine dunque! Anticamente la famiglia fu una torre nello stato che era una fortezza, nella patria che era un mondo contro il mondo; poi nel medioevo la torre diventò un palazzo, il palazzo una casa, oggi i ricchi hanno un appartamento e i poveri una camera. Ecco la famiglia: il gruppo è rimasto perchè insolubile, ma l'edificio, che s'innalzava sopra di esso come sopra tre cariatidi, padre, madre e figlio, è crollato. - Voi mi spaventate - disse la duchessa, diventando seria suo malgrado. - Perchè? Lo sapete pure che la vita dell'individuo nell'umanità è una rovina, che passa, in una rovina, che resta. Le rovine vi spaventano? Ma non siamo noi stessi un risultato di rovine, non siamo noi composti coi ruderi di venti civiltà, che si frantumarono compenetrandosi? Ieri Renan, il vostro scrittore prediletto, inseguito dal dubbio attraverso la propria nobile ed immensa erudizione, si domandava in un ammirabile opuscolo: che cosa è una nazione? Renan, che nell'estrema sensibilità della propria fibra ha sentito tutte le malattie del nostro secolo, vicino forse a morire s'accorge che la nazione sta morendo. La vita antica aveva due termini, individuo e stato; la vita moderna ne la ancora tre, individuo, stato e umanità; la vita futura tornerà ad averne due, individuo e umanità. Che cosa è la nazione? L'orda. La patria? L'accampamento. Così la storia si mise in cammino, ha scritto con frase immortale il Quinet. Quando la tenda diventò di sasso e il terrapieno una muraglia, l'accampamento si trasformò in città: allora l'orda si mutò in popolo, e la patria arrivava fin dove gli ultimi armati dell'orda potevano accampare lungi dalla città. Lì era il confine della patria, l'orbita tracciata a quel popolo dalla sua doppia forza di attrazione e di ripulsione nel sistema storico del mondo. Adesso le città non hanno più mura e i doganieri passeggiano su tutti i confini invitando i viaggiatori a varcarli: non vi è più patria, non vi sarà dunque più nazione. - Ed è per questo che non si scrivono più capolavori? - Chi sa? Il capolavoro è un quadro: vi sono dunque condizioni di luce e necessità di prospettiva, che lo dominano: poi un quadro dev'essere composto in modo che esprima più di quello che fa vedere. Ogni angolo di campagna non è quindi un paesaggio, nè ogni crocchio un gruppo. Un capolavoro - seguitò l'illustre critico correggendosi con atto nervoso - è anzitutto una visione, che ha bisogno di formarsi nel popolo prima di tradursi nell'opera dell'artista. Laonde occorre che nello spirito del popolo, dal quale deve sorgere, istinto, sentimento e idea, queste tre forme della vita, non si siano offese collo svolgersi; che la sua filosofia non sia troppo alta nè la sua religione troppo bassa, che la sua scienza sappia analizzare ma non ancora decomporre, che la sua civiltà sia arrivata a quel grado e la sua storia a quel punto, nel quale l'una tocca l'apogeo e l'altra trova la coscienza; bisogna finalmente che la stessa perfezione necessaria all'artista per estrarlo si sia prima verificata nel popolo per produrlo. A venti o a settanta anni non si scrive un capolavoro, non si fonda una religione, non si costituisce un impero: le reggi della vita sono identiche nell'individuo e nel popolo. Ci vuole dunque una unità fisica di razza, una unità morale di sentimento, una unità ideale di pensiero; se il popolo non sarà uno come razza, non arriverà alla necessaria intensità di sensazione: se non sarà uno moralmente, mancherà l'unità di composizione; se non sarà uno idealmente, quella di significato alla sua opera. Orbene siamo noi uni come razza, per esempio, noi italiani? Oggi una statistica sta contando il colore dei capelli e degli occhi per apprendere la proporzione fra le razze, che ci compongono; sono molte, troppe anzi. Tutti i barbari attraversarono l'Italia per andare a Roma e nel partirsene ci lasciarono dei bambini per compenso dei tesori rubati o distrutti. Prima del cristianesimo Roma era diventata l'emporio di tutte le religioni: il cristianesimo le divorò, ma esse gli rifiorirono in pustule sulla pelle. Il vapore e il telegrafo hanno reso costante quello che era momentaneo, cioè il passaggio di un popolo attraverso un altro; il commercio ci offre i prodotti, la scienza, le ragioni, l'arte gli spettacoli di tutti i popoli. Noi soccombiamo sotto il peso delle nostre conquiste: lo stato non difende più la nostra personalità storica, l'umanità non ci ha ancora dato la propria. Il cielo non è più per noi che un deserto popolato di mondi, la terra un laboratorio gremito di viventi; la critica ha distrutto la leggenda senza creare la storia, la religione ha perduto Dio conservando i santi, la scienza non ha sorpreso il fenomeno che per disperare di rinvenire la legge. Tutti i medici sostengono oggi che l'ingegno è una nevrosi, e infatti basta guardare la fisonomia d'un uomo d'ingegno per vedere quella di un malato: negli uomini moderni la testa è più grossa e il petto più angusto che nelle statue antiche. L'ultima filosofia, la massima, l'hegeliana, risolve l'universo in una idea: l'ultima scienza, il darwinismo, conclude nell'uomo all'animale; l'ultima affermazione cattolica è stata la necessità del potere temporale, l'ultimo grido della poesia una bestemmia, l'ultima parola dello stato una parola di abdicazione: libertà! - Lo so che non siete liberale: e allora? Egli si fermò. Evidentemente il lungo discorso lo aveva affaticato: la sua bella faccia di pensatore colla fronte alta sotto i lunghi capelli grigi perdette lo splendore della ispirazione, i suoi occhi si appannarono, un'ombra gli si distese sulla bocca e vi spense il sorriso. Quindi reclinando la testa sul petto parve seguire giù nell'oscurità di un baratro lo sprofondarsi di una visione, ma improvvisamente si raddrizzò, e con quella voce lenta e dolce, che ammaliava subito il pubblico dall'alto della cattedra, riprese: - Sainte-Beuve pel primo ha trovato l'immagine paragonando Renè a una torre e le altre opere di Chateaubriand ad un gruppo di case agglomerate sulla sua base. Oggi che il libro ha ucciso il monumento e il monumento è morto nel libro, giacchè non si scrivono più capolavori, l'immagine trovata da Sainte-Beuve per Chateaubriand vale per tutti, e chi fabbrica una capanna, chi una casa, un palazzo, una villa, una città. Guardate Balzac, che Sainte-Beuve, il primo critico del secolo, ha negato: Balzac, il primo genio del secolo, che si dibatte trent'anni per scrivere un capolavoro senza riuscirvi, e invece di alzare un monumento fonda una città. I suoi quaranta volumi sono tanti rioni, nei quali si muove una popolazione identica e diversa siccome in tutte le città: non manca una bottega, una industria, un istituto, una scuola. Dalla pescivendola alla principessa del sangue o dell'avventura la città possiede tutte le categorie e le varietà femminili; vi saranno trenta pittori, cento giornalisti, poeti e scienziati, preti e demagoghi, assassini e gendarmi, burocratici e soldati, parlamento e prigioni, ospedali e teatri, genio e follia, misticismo ed usura: plebe venuta dalla campagna, o germogliata fra il selciato, o nata dal fermento delle immondizie accumulate negli angiporti. Vi sono i martiri oscuri e gli eroi decorati, veri o falsi: Napoleone I vi passa parecchie volte nelle sue varie campagne, i Borboni vi soggiornano molti anni, Svedenborg vi arriva dalla Scandinavia. Vi è il passeggio pubblico costantemente pieno di carrozze, il corso rumoroso di folla; nei quartieri aristocratici la ricchezza moltiplica il frastuono e la luce, si profonde in capolavori e in aborti, ripete tutte le sue eterne grandezze e i suoi eterni obbrobrii. Nei quartieri bassi la miseria prosegue la propria vita di stenti aiutandosi di crimini e di eroismi, ingegnandosi con gioie minuscole e con piaceri bestiali, bestemmiando Dio e credendo nei signori. Ma le stagioni passano, e il clima varia dal gelo alla canicola, mentre migliaia di persone vivono in quella città, e la loro vita vi produce centinaia di drammi, migliaia di sentimenti e di idee. Balzac ha fondato da solo questa città, nella quale tutti verranno poi a costruire. - Ah! - esclamò la duchessa - comprendo. - Badate al primo, Flaubert. Un altro, il quale ha sognato il capolavoro, e penetrato della sua unità decise che ogni artista non può scriverne più di uno, giacchè bisogna attendere per esso il momento armonico di tutte le facoltà dello spirito con tutte le circostanze esterne. Flaubert verrà a fabbricare nella città di Balzac. Vedete quella casa? È la casa di Madame Bovary, forse la più bella della città. Critici ed artisti non si stancano di lodarne la disposizione interna, l'eccellenza dei materiali, l'armonia della facciata e dei fianchi: sciaguratamente critici ed artisti oggi non sono più buoni giudici, e però se molte case di Balzac, per esempio quelle di Eugenie Grandet o di Cousine Bette, mi paiono migliori, la casa di Madame Bovary resterà un eterno modello delle case borghesi al nostro secolo. Vedete dietro di essa quel magnifico mostruoso edifizio? Sono i palazzi di Salambò, ancora un'opera di Flaubert: Madame Bovary doveva essere il capolavoro, Salambò il monumento: il capolavoro è forse più bello del monumento, ma vorrei aver fatto piuttosto Salambò che Madame Bovary. Siete stanca? - No. - Allora, passeggiamo. Guardate, via Alessandro Dumas figlio: le due case all'imboccatura sono di Margherita Gauthier e di Clemenceau, lo scultore, più innanzi in quel vasto palazzo c'è il salone del Demi-monde. Via Emilio Augier: questa è più larga, di stile più solido e moderno. Vedete le finestre al secondo piano della terza casa a sinistra? Là stanno Les Lionnes pauvres, l'altra di facciata appartiene a Maitre Guerin, poi vi è quella del Gendre Poiret e subito dopo il palazzo degli Effrontès. Quest'altra strada, che ha un solo palazzotto elegante, ma pretenzioso, verniciato, leggete: via Octave Feuillet questo è il palazzotto di Camors. Via Champfleury: oggi è poco frequentata, in fondo vi è lo studio di Courbet il pittore. Vicolo Edmondo Duranty; è corto, senza sfondo. Oramai arriviamo alla grarnde piazza De Gonconrt. La vedete? È formata di grandi fabbricati irregolari, palazzi del settecento, prima della rivoluzione, durante la rivoluzione, dopo la rivoluzione. Voltatevi, quella Certosa è di Stendhal, osservate la sua statua, alta in atteggiamento rigido dal profilo tagliente, che domina sul largo piedestallo Rouge et Noir. Egli solo aiutò Balzac nella fondazione della città: adesso avete dinanzi due strade, via De Goncourt, l'altra più recente via Alfonso Daudet. Per quale volete mettervi? - Per la più grande, via Goncourt. - Gettiamo nullameno uno sguardo nell'altra, ne vale la pena. Quel palazzo sontuoso e barocco è del Nabab, negli altri dappresso e che paiono alberghi stanno a pensione gli ex Re in esilio: quella è la piccola casa di Jacque il macchinista, nell'ultima in fondo abitò Numa Roumestan il ministro. Adesso entriamo in via De Goncourt: è una bella strada. Ecco lo studio di Manette Salomon, l'ospedale di Soeur Filomene, la casa della Faustin, in quella casipola nacque la povera Elisa, in quell'altra abitarono i fratelli Zenganno, più in là Renata Mauperin. Quella palazzina, a due passi, con una piccola facciata da museo, è la Maison de l'Artiste, una specie di bazar pieno di mobili, di quadri e di cianfrusaglie. Un momento: osservate quella casa, che si avanza stranamente sulla strada: è di aspetto povero sotto la decenza, è la casa di Germinie Lacerteux. Svoltando si entra nel quartiere di Zola, il più vasto dei quartieri recenti, quantunque sia ancora in costruzione. L'enorme fabbricato che si prolunga dalla casa di Germinie Lacerteux, ripetendone il disegno, dall'insegna della grande liquoreria presso la porta si chiama L'Assomoir: è quello che ha fatto il nome all'ingegnere, no all'architetto, perchè questa volta l'ingegnere è un grande artista. Esaminate come Zola ha riprodotto minuziosamente il cattivo stile parigino moderno nel palazzotto dicontro; questa volta l'esattezza arriva al capolavoro, è il palazzotto della Curèe. Più in là sorge la casa dell'altro Rougon Son Exellence, in fondo alla strada l'immenso, prodigioso mercato, il vero Ventre de Paris. - È bello? - Un mercato difficilmente può esserlo, ma è immenso, prodigioso. Avete ancora notata quella altana? Là abitava Elena Mouret colla figlia, la povera piccina nervosa. - Quell'altana è un capolavoro. - Di costruzione non direi, ma vi si respira un'aria più pura, e sulla conca di questo mercato è di un effetto eccellente. Vogliamo salirvi? - Perchè no? - rispose finalmente la duchessa - forse dalla sua altezza si scorge il grande giardino del Paradou. - Spero che non vi piacerà. Giammai artificio violentò maggiormente la natura: è la farragine del mercato dentro il giardino. - Forse avete ragione, ma il giardiniere è stato nullameno un grande poeta. - E lo sarebbe parso doppiamente, se avesse saputo un po' meno la nomenclatura. La duchessa si arrese. - Ritorniamo - disse poi. - Non vi sembra che il quartiere sia bello e soprattutto grande? - Senza dubbio, ma vi sento due brutti difetti, la monotonia dello stile e una suprema volgarità nelle massime come nelle minime cose. - È moderno. - La città di Balzac lo è del pari e non mi fa pesare sulla coscienza la volgarità di questo quartiere. Poi non tutto vi è compiuto: si capisce che vi abita soltanto la nuova borghesia e il popolino, nessuna famiglia illustre, nessun grand'uomo è ancora venuto a stabilirvisi. Da solo questo quartiere non potrebbe vivere e nemmeno diventare una città. - Infatti tutto vi è come provvisorio, la vita non vi ha conservato nulla. - Vi manca persino una chiesa. - No, girate quell'angolo: ecco la chiesa, forse meglio la cappella di Lourdes: nella volta egri ha dipinto i quattro evangeli. - Povero Zola! il terzo non potè finirlo. - Non ve ne lagnate: Zola della religione non sentiva che l'idolatria e in lui l'artista era finito assai prima che l'uomo morisse. La sua opera conclude al dottor Pascal, l'eroe della scienza, che vorrebbe da questa trarre una morale, una religione nuova, e invece sprofonda nel l'animalità di un incesto. Zola era un pessimista inguaribile: onesto, dolorosamente ammalato della propria onestà, vide e disegnò come nessuno prima di lui l'abbiezione del popolo sino alle classi più alte, ma non vide altro. Tutto quanto la vita ha di nobile, di eroico, di veramente tragico gli sfuggì, eppure la vita dura nella storia soltanto per questa eccellenza di pochi, che vi funzionano come un sale antiputrido: eroismo di pensiero, eroismo di cuore. Ma vinto nel giorno tardo del suo trionfo Zola ebbe paura, e si rifugiò in un sogno ancora più anarchico che socialista: allora non vide più. Le sue ultime figure furono di cartone dipinto, la sua musica rimase un frastuono, il suo colore una macchia, il suo pensiero si oscurò, il suo cuore rimbambì. - Siete violento nelle verità. - La verità lo è sempre finchè combatte: nessun artista ha potuto salvarsi entrando nel socialismo: guardate Zola, Tolstoi, oggi tocca ad Anatole France. Il socialismo è dunque ancora falso, vuoto forse, se i poeti, che hanno sempre l'istinto e la nostalgia del nuovo, non estrarne una novità e vi perdono il senso dell'arte. La duchessa sorrise. - Torniamo nella città di Balzac. - Temereste smarrirvi altrimenti. - Impossibile! ho sempre tenuto d'occhio il grande campanile della chiesta di Svedenborg, il campanile di Seraphitus. E talmente alto che nulla può nasconderlo. - Forse talvolta le nuvole. - Ah! - proruppe quasi stizzosamente la duchessa - non avrete dunque mai un momento di entusiasmo, sarete sempre un critico? Quindi illuminandosi in viso: - Giacchè volevate salire meco sull'altana di Zola, accompagnatemi sul campanile di Seraphitus: là saremo più in alto, in un'aria, in una luce più pura. - E vedremo tutta la città e il suo bel territorio, i villaggi vicini, la grande rocca di Hugo, indefinibile e portentosa agglomerazione di castelli, le ville eleganti di George Sand, il capriccioso villino di Musset, il vecchio Maniero di Lamartine... - seguitò con accento quasi ironico. - Seraphitus! - mormorò la duchessa. - Voi vi chinerete dall'alto del suo campanile come egli dalla cima del Fiord, ed altrettanto impassibIrE. - No. - Non vorrete dunque guardare? - Sì, ma in alto. L'illustre critico non rispose.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Franco si sentiva dominato da quello sguardo imperioso, sotto il quale doveva abbassare gli occhi e balbettò: - Tu mi tenevi senza un soldo! Per non sentire i tuoi rimproveri ho preferito non pagare altri che ricorrere a te. - Che ne hai fatto del vaglia bancario che rappresentava il piccolo patrimonio di una famiglia? - Non credo necessario di darti conto di quel che ne ho fatto; non potevo pagare. - A quanto ascende il tuo debito? Chi è il tuo creditore? - Il debito ascende a tre mila lire; il creditore è l'Orlando. - Ah! sciagurato! - esclamò Roberto. - Tu non sai forse quanto mi hai fatto soffrire! - E per non mostrare a quel pervertito, privo di senso morale, di delicatezza, tutto il disprezzo che gl'ispirava, traversò il quartiere e scese rapidamente le scale. Giù nello stabilimento era giorno di grande lavoro. Una tartana e un vapore attendevano il carico, le barche. andavano e venivano per prendere i fusti, gli operai li rotolavano sul piazzale, gl'impiegati di amministrazione riempivano bollette, la mercé usciva abbondante e i denari rientravano in gran copia. L'industria non aveva fruttato mai quanto negli ultimi mesi, le fatiche di Roberto non erano state mai cosi largamente ricompensate. - Che cosa fanno gli operai? - domandò il padrone al Varvaro. - Lavorano o discutono il vostro programma; molti, che erano divenuti propensi per l'Orlando, ora ritornano sotto la vostra bandiera. - Badate, Varvaro, non fate loro nessuna pressione! - Padrone, mi conoscete; io ho un alto ideale del rappresentante della nazione. Altri può farsi eleggere con i raggiri e con il danaro; voi dovete essere eletto per quello che valete, e valete molto. Il vostro programma è il frutto di una mente profonda e obbiettiva, di un cuore che impone silenzio ai proprj sentimenti, per accogliere i lamenti che il dolore strappa al cuore dell'umanità. Padrone, io sono altero di starvi a fianco. - Amico, vi è un'altra difficile missione da compiere. Dopo la scena di ieri sera, diviene anche delicata. Bisogna che andiate subito in città, e ricuperiate l'obbligazione di Franco all'Orlando. Ne siete informato? - Il Lo Carmine mi ha narrato tutto. Oh! quel signor Franco! Roberto stava per allontanarsi quando richiamò il Varvaro. - Sentite, - gli disse, - bisogna preveder tutto; è probabile che il losco avvocato si sia fatto fare la dichiarazione per una somma maggiore di quella di cui Franco gli è realmente debitore; cercate di saperlo da mio fratello, io non voglio interrogarlo. Inoltre è possibile che l'Orlando ci voglia fare un ricatto e non restituisca la carta altro che sborsando noi una somma ingente. In questo caso non vi curate di ritirarla. Gli affari di mio fratello sono ben divisi dai miei e chi ha per più milioni di vino nei magazzini e possiede terre senza ipoteche, può ridere di una inezia come quella. Poi con un tono d'amarezza soggiunse: - Sapete, amico, quando tornai da Roma ero tutto lieto di poter consegnare a mio fratello qualche migliaio di lire che avevo salvate a stento dalla rovina. Vedete quel che ne ha fatto? Sono tutte passate nelle mani dei nemici, ed è in grazia di quel debito di Franco che l'Orlando mi scatena a dosso tutti i diavoli e tutte le versiere. - Oh! quel signor Franco, scusate veh! non ha ne testa ne cuore; io lo credo un infelice, ma non mi fa compassione. Questo fu tutto ciò che il Varvaro si permise di dire rispetto al duca; ma se avesse lasciato parlare il cuore oh! quanto di più avrebbe aggiunto. Roberto, per andare nel magazzino del cognac, di cui sorvegliava specialmente la fabbricazione, perché voleva mettere sul mercato, dopo alcuni anni, un prodotto perfetto, passò per l'officina dei fusti, che era sempre il focolare di tutti gli scioperi. Alcuni operai, amici di Giovanni, per far dimenticare al padrone i fatti recenti, lo salutarono; altri gli chiesero il suo parere sui lavori da farsi; si vedeva in tutti una specie di pentimento, un desiderio di farsi perdonare, che consolava quel cuore amareggiato da tanta ingratitudine. Mentre dava alcune disposizioni, un guardiano andò ad avvertirlo che vi erano due carabinieri insieme con un uomo, che volevano parlargli. Quell'annunzio non lo turbò punto, poiché dopo l'uccisione di Federigo quelle visite erano frequenti e andò a riceverli nel suo studio. I carabinieri rimasero sul piazzale, l'uomo soltanto entrò. Era mal vestito, grosso, con una faccia accesa senza baffi, e i capelli rasi. Benché potesse avere appena quarant'anni, pure le sue guance erano flosce e cadenti e la mancanza di baffi e di capelli gli dava l'aspetto di un frate. - Che cosa volete? - gli domandò Roberto cui quella faccia ispirava una istintiva repulsione. - Sono l'avvocato Mario Crespi. Ella, tiene in casa sua mia moglie, Velleda Crespi, nata Bianchi, e io le ingiungo, in forza di una ordinane del presidente del tribunale di Castelvetrano, di restituirmela. Nel caso di rifiuto, mi farei assistere dalla forza. Roberto non tremò e non impallidì. - Ah! siete Mario Crespi, condannato a tre anni di reclusione! Credevo che non aveste ancora scontata la pena. Gli occhi dell'ex forzato si abbassarono sotto lo sguardo di Roberto. - Ho avuto la grazia sovrana, - rispose, - e voglio tornare a viver insieme con mia moglie, alla quale sono pronto a perdonare. - Voi non avete nulla da perdonarle, - disse Roberto, - rammentatevi bene di questo. E io credo che ella serbi un documento che vi toglie su di lei ogni diritto e di cui voi conoscete bene il contenuto. L'ex forzato non andava in collera. - Si vede che il signore è bene informato degli affari di mia moglie, - disse in tono ironico. - Ma fino a che non mi mostrerà quel documento, io ho diritto di far valere il mio, - aggiungeva, spiegando l'ordinanza del presidente. Aspettatemi, - disse Roberto indicandogli il piazzale, sul quale i carabinieri passeggiavano. Anche questa! - esclamò uscendo dalla parte verso il mare. - Ma chi è che mi perseguita così, chi è? e quello spettro misterioso dalle cento braccia malvagie che andava anche a togliere un forzato dal bagno, gli si presentò alla fantasia più spaventoso che mai. Giunse alla villa pallido e agitato, e non incontrando nessuno dovette bussare alla camera di Velleda. Maria, esci, - disse Roberto alla bambina, cui Velleda faceva ripetere una lezione. Che cosa succede? - domandò la signora leggendo in faccia a Roberto una agitazione insolita. Non si turbi per carità. Se avessi potuto nasconderle questa nuova infamia, risparmiarle questo nuovo dolore, avrei dato tutto ciò che possiedo, ma non posso. Mi dica, serba l'atto della separazione legale da suo marito? Sono carte che non si abbandonano; è li, - disse Velleda accennando un mobile. - Ma a che può servire? Il forzato è stato liberato da Nisida e reclama sua moglie, Dov'è? - domandò Velleda. - Voglio parlargli io, voglio sapere chi lo manda. Per carità, pensi alla recente malattia. Sono forte, - rispose ella, - e la vista di quel miserabile non mi può commuovere. Lo faccia chiamare. Velleda! No, voglio vederlo, - e scese per dar ordine a Saverio di chiamare l'individuo che attendeva allo stabilimento; poi risali in fretta; prese alcune carte e andò ad attendere nella biblioteca. Roberto le aveva rivolto un'ultima supplica, affinchè evitasse quell'incontro. No, mio buon signore, ho bisogno di sapere, di strappargli di bocca un nome; mi lasci con lui. Roberto entrava in una piccola stanza attigua, di cui lasciava socchiusa la porta, per accorrere in aiuto di Velleda; pochi istanti dopo, marito e moglie si trovavano di fronte. Che cosa volete? - domandò lei in tono imperioso. Ricondurti a Firenze e riprendere la vita comune. Sono libera, lo sapete; l'atto di separazione mi da facoltà di vivere dove voglio. Finché non lo produrrai, ha valore l'ordinanza del tribunale ed io la farò eseguire. Vieni con le buone, se no ti costringerò a seguirmi in mezzo ai carabinieri. L'atto è nelle mie mani, - rispose Velleda, e io lo mostrerò ai carabinieri, non a voi che sareste capace di lacerarlo. E possiedo altri documenti preziosi, con i quali posso farvi tornare in galera. Quali? - domandò egli turbato. Le cambiali false. Non sono più la donna ignara, la poetessa, la romanziera, come mi chiamavate, di cui s'inganna la buona fede, che si spoglia, cui si ruba la figlia per farla morire. Contro i delinquenti ci si premunisce. Le cambiali che faceste a mio nome, falsificando la firma, non sono state da me pagate alla cieca; sono passate per le mani dei giudici, si è fatta una perizia ed è stato riconosciuto che il falsificatore siete voi. Oggi, domani, potrei intentare l'azione penale; vedete che sono armata di tutto punto. L'ex-forzato taceva. Ma le lacererò in presenza vostra, se mi rivelerete il nome del vostro liberatore; di colui che vi manda qui. Il Re mi ha liberato, - rispose egli evasivamente. Il Re firma le grazie, ma qualcuno deve avere intercesso per voi, deve avervi detto che ero qui, nascosta, vergognandomi di un nome che avevate infamato. Chi vi manda, parlate! Ma le cambiali? Le straccerò appena avrete pronunziato quel nome; ma voglio quel nome, ditelo! Una luce sinistra le balenava negli occhi che in quel momento erano orribilmente stravolti. Ti rammenti del deputato Cesti, per il quale sostenni e vinsi un processo? - rispose l'ex forzato. Ebbene, nell' inverno gli scrissi perché impetrasse la mia grazia. Per più mesi non ebbi risposta. Quindici giorni fa ricevei una lettera in cui mi diceva che il decreto era stato spedito a Monza per sottoporlo alla firma sovrana e tre giorni fa giunse la grazia e una seconda lettera del Cesti con un sussidio. Egli mi diceva che se volevo l'indirizzo di mia moglie, partissi subito per Castelvetrano e mi dirigessi all'onorevole Orlando. Egli mi ha ottenuto l'ordinanza dei tribunale e ieri sera ... . Ieri sera ... . - ripetè Velleda ansiosa. Dovevano presentarmi a un banchetto elettorale, ma nacque un tafferuglio ... . Oh, la politica! - esclamò Velleda. - E voi, voi avreste detto chi sa quali -infamieNon ti curare di quello che avrei detto; dammi le cambiali. Ella se le cavò di tasca e gliele gittò in faccia insieme con un pacchetto di biglietti di banca, dicendogli: Questa è la mia elemosina, malfattore! - e gl'indico la porta. Nell'ingresso, seduti sopra una panca, i carabinieri attendevano. Velleda pose loro sotto gli occhi l'atto di separazione. Vedete che io posso vivere dove voglio, - disse loro quando ebbero letto. Poi accostandosi al marito gli susurrò nell'orecchio: Andate lontano e non turbate la mia esistenza, perché se le mie cambiali false sono distrutte, rimangono quelle di mia madre. Ah! Velleda, come ti avrei amata se tu fossi stata sempre così! - esclamò il Crespi avvolgendola con uno sguardo cupido. Ella gli volse sdegnosamente le spalle e corse da Roberto, che incontrò nella biblioteca. Quanto, quanto fango! - esclamò afferrandogli la mano e scoppiando in lagrime. Quando si fu un poco calmata volle narrargli la scena. Ho udito tutto, - disse Roberto, - e non credo l'Orlando abbastanza potente per mettere in moto un sottosegretario di Stato ... . Lei, mia povera amica, ha rinunziato ad armi potenti; ma noi siamo sempre dinanzi a quel mistero che nulla serve a svelare, e ogni giorno ci sentiamo colpiti da qualche lato. Velleda rialzò la testa e mostro gli occhi ancora umidi di pianto, ma sorridenti. Sono lieta, vede, perché godo di aver riveduto mio marito in quello stato e di avergli gettato in faccia la mia elemosina. Sono cattiva davvero! Roberto non credeva in quel mutamento di carattere e attribuiva tutto alla malattia recente, all'eccitamento nervoso che perdurava, e ognuna di quelle manifestazioni di risentimento e d'odio lo facevano tremare per la salute della sua cara. Sì, sono perfida con tutti, meno che con lei, con tè, gli disse accostandogli la bocca al viso e sollevando su di lui uno sguardo pieno d'amore. Roberto la baciò sulle labbra e le loro bocche rimasero un momento unite. - Sai; - diss'ella senza scostare il volto, - il mondo non merita che noi c'imponiamo sacrifizj, e quel vile, cui hanno certo detto che ti amo, non merita nulla. Roberto, io voglio esser tua, voglio darti la gioia, voglio; capisci! Il passo di Maria nell'anticamera li fece sussultare. Quando la bambina entrò erano già distanti, ma tremavano come due colpevoli. Vede. Velleda, - disse Roberto, - che v'e qualcosa superiore al mondo e alla condiscendenza di un vile, qualcosa che deve imporci l'antico riserbo? Babbo, che vuoi dire? - domandò la bambina. Velleda l'attirò a sé dicendole : Tuo padre intende dire che l'affetto per te deve essere superiore a tutto. Un giorno forse capirai che cosa significano queste parole che ti sembrano oscure.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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La belva e l'uomo stettero così un pezzo con gli occhi fissi, e fu il leone che dovette abbassare lo sguardo dinanzi a Valfredo. Allora questi liberò le zampe dalla stretta; ma appena il terribile avversario si sentì padrone dei suoi potenti mezzi di offesa, con la bocca spalancata si avventò alle gambe del giovine, il quale, prima che le zanne gli lacerassero le calze, afferrò per le ganasce l'animale e lo costrinse a rimanere a bocca aperta senza poterlo mordere, senza poter fare nessun movimento. Dapprima, il terribile abitatore del deserto, fremette; ma poi, a poco a poco, si ammansì, e piegate le ginocchia rimase in atteggiamento umile dinanzi al suo soggiogatore. Le mani ferree si staccarono dalle ganasce del mostro, il quale non si mosse e con la lingua incominciò a leccare le palme di Valfredo. - San Marco, vi ringrazio di avermi fatto il miracolo! - esclamò il cavalier di Romena. - Ora sono salvo. E senza timore alcuno spalancò la gabbia e andò nel giardino. Il leone lo seguiva scodinzolando, ma i giardinieri, vedendolo, fuggivano spaventati, cosicché la notizia che Valfredo aveva domato il leone, giunse a palazzo prima che egli vi conducesse la fiera. Le guardie però non vollero lasciarlo entrare con quella compagnia, e il giovine cavaliere dovette attendere un ordine del Sultano. Intanto egli si era seduto sopra uno scalino di marmo e il leone gli stava accucciato ai piedi come un mansueto cagnolino. Poco dopo giunse l'ordine del Sultano, e allora Valfredo fu introdotto nella sala del trono alla presenza del temuto signore. - Cristiano, compi ciò che ti ho imposto, - ordinò. Valfredo non rispose, ma inginocchiatosi a fianco dell'animale incominciò a contargli i peli della criniera. Il conto riusciva lungo, perché la criniera del re del deserto era foltissima; ma il leone non si moveva e si lasciava toccare senza dar segno alcuno di tedio o di ribellione. Il Sultano non fiatava, ma le guardie, con la scimitarra sguainata, stavano pronte per difenderlo. Quando Valfredo ebbe terminato di contare, disse: - Vedi, potente signore, che io ho compiuto in un giorno un miracolo. Avevi una fiera e io l'ho ridotta più mansueta di un agnello. Questo leone potrai tenerlo ai piedi del tuo trono, ed esso darà maggior idea della tua possanza e sarai paragonato agli antichi imperatori di Roma e di Bisanzio. Non ti pare che in cambio di questo servizio io meriti qualche ricompensa? - E l'avrai, infatti, cane d'infedele! - rispose il Sultano. - Guardie, legatelo, e fra un'ora voglio che il suo cadavere penzoli dalla forca. Fremé Valfredo a tanta ingratitudine, e quando vide le guardie che si avanzavano per legarlo, urlò: - A me, leone di san Marco! A quel grido la fiera si scosse, ruggì, e, gettandosi addosso alle guardie, le sbranò; poi, saliti i gradini del trono, piantò gli artigli nel petto al Sultano e lo ridusse in pochi istanti boccheggiante cadavere. Le altre guardie fuggirono spaventate a rinchiudersi nelle cantine del palazzo. Ovunque era lo scompiglio. Si udiva il rumore di porte sbatacchiate, di catenacci scorrenti nei ferrei anelli. Valfredo era rimasto solo col leone, in presenza del cadavere del Sultano. Allora, animato da insolito ardimento, si slanciò nei giardini, preceduto dalla fiera, gridando: - A me, cristiani, per il leone di san Marco, noi siamo liberi! A un tratto una folla di prigionieri di tutte le nazioni, circondò il cavaliere di Romena. Accorrevano dal ponte, dalle galere, dai giardini, da ogni banda, carichi di ceppi, ma sorridenti a quel grido che prometteva loro la libertà. Invano i soldati turchi cercavano di sbandarli; il leone ne disperdeva le schiere, e la falange dei prigionieri avanzava sempre verso la rada del palazzo, nella quale si cullavano le dorate galere su cui sventolava l'orifiamma. I prigionieri se ne impossessarono mercè il leone, che fece strage dei mori che le costudivano, e poco dopo essi spiegavano le vele al vento e navigavano alla volta dell'Adriatico, verso la terra della libertà! Allorché le sentinelle della torre di Malamocco videro giungere le dorate galere sormontate dall'orifiamma, dettero l'allarme. Ma Valfredo scese in una imbarcazione, chiese di parlamentare e fu condotto dal Doge, al quale narrò dell'uccisione miracolosa del grande nemico della Repubblica e della liberazione di tanti cristiani, trattenuti lungo tempo in dure catene. Vennero fatti solenni rendimenti di grazia al protettore di Venezia per quel fatto, e quando Valfredo espresse il suo desiderio di porre il suo braccio e la sua spada al servizio della Serenissima, il Doge e il Consiglio lo investirono del comando delle navi prese ai Turchi. E su quelle Valfredo corse vittorioso i mari, sempre accompagnato dal leone, che era docile con i cristiani e ferocissimo con gli infedeli, sbranandone quanti più poteva. Il cavalier di Romena salì ai più alti onori e acquistò grandi ricchezze. Già inoltrato negli anni, tornò a Romena. Il padre suo era morto, morta la buona madre che lo aveva pianto così amaramente per lunghi anni, e i suoi fratelli eran tutti vecchi. Essi, che avevano contribuito a farlo scacciare dal padre, ora, sapendolo ricco, lo accarezzavano e lo circondavano di attenzioni, apparentemente affettuose, ma dalle quali egli non si lasciava ingannare. Valfredo si trattenne alcuni mesi nel castello di Romena, e in quel tempo, chiamati da Firenze architetti, scultori e pittori, fece costruire una ricca cappella in onore di san Marco, nella quale ordinò che fosse trasportato il cadavere della buona madre sua, di colei che lo aveva protetto nell'esilio. Vi potete figurare se il leone, che era il compagno inseparabile di Valfredo, destasse la curiosità degli abitanti del Casentino! Essi scendevano dai monti più alti per vederlo, e il leone, che era docile e buono con quelli che amavano il padrone, riprendeva i suoi istinti bestiali appena si accorgeva che qualcuno tentava di far male a Valfredo. Infatti sbranò un cugino del suo padrone perché lo diffamava, e staccò con una zannata la mano destra di un perfido suo nipote, il quale, non contento dei molti doni avuti da lui, gli aveva rubato una grossa somma in tanti fiorini d'oro della Serenissima Repubblica di Venezia. Quella belva pareva guidata da una intelligenza soprannaturale e si sarebbe detto che l'anima del santo protettore della città del mare si fosse trasfusa in lui. Valfredo visse molti anni e morì a Venezia carico d'onori. Il giorno stesso della sua morte fu trovato stecchito anche il leone, la cui pelle servì di lenzuolo funebre al cavalier di Romena. - La vostra novella, - disse Vezzosa quando si accòrse che la Regina aveva terminato di narrare, - ha prodotto il solito benefico effetto sopra di noi. Vedete, mamma, i volti nostri non esprimono più l'ansietà; voi ci avete divagati e noi siamo più calmi, più fiduciosi e più forti. Però, nonostante l'assicurazione che Vezzosa aveva data alla Regina, la conversazione languì. Nessuno osava parlare vedendo Maso col capo chino e gli occhi fissi in terra, come nei giorni della morte di un manzo o dello sperpero della raccolta; e quel silenzio e quell'abbattimento del capoccia si rifletteva su tutta la famiglia. Questo silenzio si sarebbe prolungato chi sa quanto, se un incidente non fosse venuto a interromperlo. - Una lettera! - gridò dalla viottola un frate converso di Camaldoli che tornava da Poppi. - Presto, datemi un mulo prima che faccia notte. Mentre i ragazzi correvano nella stalla a prendere il trapelo, Vezzosa aveva preso la lettera a lei diretta e la leggeva alla luce dell'ultimo chiarore crepuscolare. Non appena ebbe terminato di leggerla, esclamò: - Le nostre speranze non sono deluse, le nostre fatiche non sono state sprecate. Sentite: la moglie del nuovo ispettore, la buona signora Durini, mi dice che sua madre e suo padre prendono tre stanze da noi per quattro mesi e ci dànno cento lire al mese e il servizio a parte. Sperano che li provvederemo di vino, d'olio, di farina, di legna, di tutto, insomma. Dobbiamo rispondere subito, se siamo, o no, contenti della somma che ci offrono, perché essi cercano una villeggiatura. Il padre della signora Durini è stato ammalato ed ha bisogno di rimettersi. - Sia ringraziato il Cielo che ha esaudite le mie preghiere! - esclamò la buona Regina con le lacrime agli occhi. - E quando giungerebbero? - domandò la Carola. - Martedì, che è il primo luglio. Maso era il più attaccato all'interesse di tutti i Marcucci. Prima di dare una risposta egli si consultò coi fratelli e domandò loro se non credevano che dall'affitto di una parte della casa potessero ricavare un utile maggiore. Aveva sentito dire che il segretario comunale di Poppi aveva affittato quattro stanze e la cucina per centottanta lire al mese, e che l'Amorosi, il locandiere di Bibbiena, prendeva da ogni camera quarantacinque lire. Non potevano essi pretendere di più? Eppoi, due vecchi soli, che cosa avrebbero consumato? Non credevano i fratelli che se la famiglia fosse stata più numerosa, avrebbero guadagnato di più vendendo il vino, l'olio, i polli e il resto? I fratelli gli fecero però osservare che questo era un affare fatto, e se aspettavano una offerta più lucrosa, rischiavano di perdere il mese di luglio e forse l'intiera stagione. - Maso, non vi riconosco; - disse la Vezzosa, - lasciare il certo per l'incerto, scusate, mi sembra una bella pazzia. Inoltre, una famiglia molto numerosa, con bambini, per esempio, sperpererebbe le frutta e l'uva. Non vi lasciate tentare da un guadagno maggiore, e accettate questo di cento lire, che ci piovono dal Cielo. Chi sa che non doveste pentirvi di aver dato un calcio alla fortuna! Scusate se io, ultima venuta in casa, m'ingerisco di queste cose; ma darei metà del sangue mio per levarvi dalle angustie. - Ti devo proprio dare ascolto? - disse il capoccia a Vezzosa. - Vi prego, per quanto ho di più caro a questo mondo, che è il mio Cecco, accettate. - Vada dunque per cento lire! - disse il capoccia. - Vezzosa, tu che sai mettere in carta tanto benino, scrivi alla signora Durini che i suoi genitori possono pure venire quando vogliono e da noi troveranno un piatto di buon cuore, che è tutto ciò che i poveri possono offrire. Quella sera i Marcucci cenarono con grande appetito e la notte dormirono tranquillamente, sicuri ormai che una buona sommetta sarebbe entrata nella cassa della famiglia. E la mattina dopo, donne e uomini erano di nuovo tutti in faccende per lustrare ancora e pulire tutta la casa, Pareva che aspettassero l'acqua benedetta, tanto si davano da fare. Vezzosa mandò i ragazzi nei boschi in cerca di rami di quercia, e alle bimbe dette incarico di portare quanti fiori avessero potuto trovare. Essi tornarono carichi, e Vezzosa disponeva i rami sulle porte a guisa di festoni, e i fiori nei rozzi vasi di vetro e anche nei bicchieri. - Fanno allegria! Fanno festa! - ella diceva a mano a mano che coi fiori adornava le stanze. - I signori debbono ricevere una buona impressione della nostra casa e debbono conservarla ... Bambini miei, - aggiunse poi rivolta ai nipotini, - a voi spetta di esser molto cortesi con i villeggianti, per tre ragioni: sono gente anziana, sono signori e sono nostri ospiti, avete capito? I bambini avevan capito benissimo e si proponevano di rendere lieto il soggiorno di Farneta ai genitori della signora Durini.

Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

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Perodi, Emma 1 occorrenze

A un tratto s'accorse che il cavaliere col serpente sull'elmo non le levava gli occhi da dosso, anzi, quando anche non voleva, era costretta da quello sguardo ad accostarsi a lui e ad abbassare gli occhi. Un po' per la minaccia del padre e il timore d'essere rinchiusa per tutta la vita nella torre, un po' per quello sguardo affascinante che pareva le comandasse : " Devi scegliere me! Devi scegliere me! " Mariuccia lo scelse davvero, e terminato il banchetto andò dal padre. - Li hai guardati bene, hai scelto ? - le chiese il Principe. - Sì, signor padre, ho scelto il cavaliere col serpente sull'elmo. - Il padre storse la bocca. - Fra tanti principi, baroni e conti, che tutti conoscono e hanno feudi a bizzeffe, sei proprio andata a scegliere quello che non si sa chi sia, nè di dove venga ! - Eppure è il solo che sposerò fra tutti. - II Principe aveva promesso di contentarla, e quella sera stessa dichiarò a tutti i pretendenti che il prescelto era il cavaliere col serpente sull'elmo. Questi si fece avanti, chinò un ginocchio in terra e disse al Principe che era altamente onorato della scelta della Principessina e lo pregava di farla chiamare per scambiar subito con lei promessa di matrimonio e offrirle i doni che aveva recati. Il Principe, naturalmente fece chiamare la figlia, che comparve magnificamente vestita, ma quando si vide davanti lo sposo, tremò tutta, perché le parve che la guardasse più come un serpe che come un cristiano. Ma aveva promesso e si lasciò complimentare da lui e offrire monili bellissimi di zaffiri e smeraldi, di carbonchi e diamanti; ma appena il cavaliere se ne fu andato, Mariuccia incominciò a piangere dicendo : - Povera me, che scelta ho fatta ! Povera me, che scelta ho fatta ! Quello m'inghiottirà in un boccone come inghiottisce i polli ; quello non è un cristiano, ma un animale ! - Mentre piangeva così, si rammentò del cavallino sauro al quale tutti i giorni portava una bella razione di biada e che in quel giorno aveva trascurato. Scese nella scuderia, prese l'orzo e glielo porse. Ma il cavallino contrariamente al solito lo rifiutò. - Che hai, cavallino bello? - gli chiese la ragazza, prendendogli il muso fra le mani - hai sete ? - E gli porse da bere. Ma il cavallino rifiutò la limpida acqua che Mariuccia gli offriva, come aveva rifiutato l'orzo. Allora ella gli alzò la testa per guardarlo bene e s'accorse che il cavallino piangeva. - Ma che hai che piangi ? - Piango per te, - rispose il cavallino sauro. - Piango perché hai scelto per isposo chi non dovevi scegliere. - E perché non lo dovevo scegliere ? - Perché il cavaliere al quale hai dato promessa è un certo tale che per sette anni è uomo e per sette anni è serpente. - Ah, povera me ! - esclamò Mariuccia. - Per questo inghiottisce i polli intieri e ha negli occhi quello sguardo di serpe ! - Sicuro, e io piango perché ti voglio bene e non posso vederti infelice. - Liberami da lui, cavallino bello, e ti farò una mangiatoia tutta d'argento e ti terrò come terrei l'amica più cara. - II cavallino sospirò e rispose : - Ora non posso liberarti. Bisogna che stanotte io parli col Mago della grotta. Vieni qui domattina e forse ti potrò aiutare. - Com’era disperata Mariuccia! E dire che quella sera doveva assistere a un gran ricevimento e presentare a tutti il cavaliere come sposo! Invece di farsi vestire dalle cameriere, Mariuccia si rinchiuse in camera sua e versò tante lacrime quante non ne aveva versate da quando era al mondo. - Bum ! Bum ! - sentì fare alla porta. - Chi è ? - Sono il maggiordomo. Il signor Principe mi manda ad avvertire la Principessina che la sala è già piena d'invitati. - Vengo ! - rispose Mariuccia. Ma invece di chiamare le cameriere e farsi vestire, si mise a gridare : - Povera me ! Povera me ! Dopo tanto aspettare dovevo proprio scegliere colui che sette anni è animale e sette anni è uomo. - Di lì a un poco sentì fare di nuovo alla porta: - Bum ! Bum ! - Chi è ? - Sono il notaro e avverto la Principessina che si aspetta lei sola per firmare il contratto nuziale. - Vengo ! - rispose Mariuccia, ma aveva appena pronunziate queste parole che cadde svenuta, e quando, dopo pochi minuti, entrò in camera sua il padre, tutto infuriato e senza neppure bussare, la trovò lunga distesa per terra più bianca di un panno lavato, più fredda di una statua di marmo. Figuriamoci che scompiglio ! Furono chiamate le cameriere, i medici ; il Principe licenziò il notaro, disse agli invitati che la figlia era più morta che viva, e allo sposo, che insisteva per vederla, fece una spallata e lo consigliò d'andarsene, perché bisogna sapere che il Principe adorava la figlia, non l' aveva mai veduta malata e credeva che quel cavaliere misterioso col serpente sull'elmo fosse un iettato perché appena comparso lui capitavano tanti guai alla sua Mariuccia. A forza di rimedi, alla fine la Principessina si riebbe, fu messa a letto, ma non faceva che piangere e singhiozzare e strapparsi i capelli, e le sole parole che le uscissero di bocca erano : - Povera me ! Povera me ! - Il Principe lasciò due donne a vegliarla, trattenne due medici al palazzo e pareva ammattito dal dolore. Le due donne che dovevano vegliare Mariuccia. benché avessero promesso di non chiudere occhio, li chiusero tutti e due prima che il Principe avesse accompagnato i medici nelle rispettive camere per interrogarli sul malore preso alla figlia, e di lì a poco russavano, facendo rumore quanto due tromboni sonati con tutta forza. Uno dei medici sentenziò che la troppa gioia aveva sconvolto i nervi della Principessa; ma l'altro, più prudente, rispose che prima di pronunziarsi doveva aspettare il giorno dopo per vedere se lo.svenimento si ripetesse o no. Insomma nessuno di loro dette al Principe una risposta concludente. Frattanto Mariuccia, nel suo dolore, aveva la consolazione di sentir russare come ghiri le due donne, con le teste ciondoloni, una a destra e l’ altra a sinistra del suo letto, e sperava che facessero tutto un sonno fino a giorno chiaro per aver prima agio di conoscere dal cavallino la risposta del Mago della grotta. Appena incominciò ad albeggiare e gli uccellini del cortile si destarono, cinguettando sommessamente, Mariuccia pian piano scese dal letto, si vestì in fretta e in furia, e giù per i corridoi, per le scale segrete, per i passaggi reconditi per non esser vista, fino alla stalla del cavallino sauro. Quando il cavallino la sentì avvicinare, si mise a nitrire, e Mariuccia nel sentirlo si consolò. - Cavallino bello, l'hai visto il Mago della grotta ? - L'ho visto. - E che t'ha detto? - M'ha detto che tu non ti disperi e m'ha consegnato due bellissime arance, una rossa e una gialla ; quella rossa la dai a mangiare allo sposo e poi ti vesti da uomo e scendi giù. - Ah, se mi liberi da lui, cavallino bello, ti ho promesso la mangiatoia d'argento e te la faccio! - Sbrigati, - rispose il cavallino - a queste cose penseremo poi. - Mariuccia risale quatta quatta in camera sua e ritrova le donne che dovevano vegliarla, le quali russavano ancora come ghiri. Si mette a letto e finge di dormire anche lei. Di lì a un poco ecco che sente fare alla porta : - Bum ! Bum ! Bum ! - Le donne si svegliano, corrono ad aprire ed al Principe, che entra seguito dai medici, assicurano : - La Principessina non s'è mai risentita in tutta la notte. Un sonno più tranquillo non si poteva sperare. - E i medici la guardano, le tastano il polso, mentre Mariuccia finge ancora di dormire, e sentenziano che il pericolo è passato, che il deliquio non si ripeterà. In quel mentre Mariuccia apre gli occhi, sorride al padre e dice di sentirsi bene, che anzi vuoi alzarsi per ricevere lo sposo, il quale, poveretto, deve essere in grande angoscia. - Sì ; è già in sala da un pezzo che aspetta tue notizie, - risponde il padre. Mariuccia si fa vestire dalle cameriere, e col viso sorridente va un momento in giardino, dove finge di cogliere le due arance, e poi raggiunge lo sposo in sala e gli regala un' arancia rossa. - A quando le nozze ? - domanda il cavaliere col serpente sull'elmo. .- A domani, se non c'è nulla in contrario; - risponde Mariuccia e si scusa di lasciarlo subito perchè ha da preparare tante cose. Invece va nella guardaroba del padre, prende un vestiario completo da uomo, poi si chiude in camera, e zaffete ! con una forbiciata si taglia le trecce, si traveste e via dal cavallino sauro, che nitrisce sentendola avvicinare. - Eccomi pronta, - gli dice. - Che cosa debbo fare ? - Salimi in groppa e dove ti porto vieni ! - Mariuccia lo inforca, e il cavallino trotta e galoppa e la conduce in una città e si ferma davanti al palazzo del Re. - Sali su dal Re, - le dice - e domandagli se ha bisogno d'un cameriere. Se ti domanda come ti chiami, devi rispondergli che ti chiami don Peppino e che sei stato in casa del Principe tuo padre. - Mariuccia aveva piena fede nel cavalluccio : quanto esso ordinava ella lo faceva senza discutere. Salì dunque dal Re, fece passare ambasciata e si offrì per cameriere. Al Re piacque e la prese. Bisogna sapere che questo Re aveva un figlio, il quale, appena vide il nuovo cameriere disse al padre : .- Io son sicuro che quel cameriere è una donna. - Sarà. Se vuoi sincerartene domani fa' venire l'orefice di Corte con molti oggetti e dì al cameriere di scegliere. Da quel che sceglie t'accorgi se è maschio o femmina. - La sera don Peppino andò a governare il cavallino sauro e il cavallino gli disse : - Bada che domani il figlio del Re ti sottoporrà ad una prova : farà portare dall'orefice di Corte diversi oggetti d'oro e ti dirà di sceglierne uno. Tu devi scegliere un anello da uomo. - Non dubitare che non mi tradirò, - rispose don Peppino. Il giorno dopo, mentre il cameriere spolverava lo studio del Re, eccoti l'orefice col Reuccio. Sulla tavola espone tanti oggetti diversi, perché il Re voleva scegliere doni per la Corte. Allora il Reuccio dice a don Peppino : - Ti voglio fare un regalo ; scegli quello che vuoi. - E don Peppino, senza esitare, sceglie un anello da uomo con una pietra. - Te lo dicevo che era un uomo ! - osservò il Re al figlio quando furono soli. - No, padre ; forse ha capito che lo sottomettevamo a una prova, ma sono sicuro che don Peppino è donna. Non vedete che viso bello e delicato che ha ? Non vedete che personale snello, che vitina sottile ? . - È così perché è giovane, - rispose il Re. - No, padre ; giurerei che è donna : Manuccia lunga, mano gentile, Faccia di donna che mi fa morire. - E si mise a piangere. Il padre gli disse : - Domani lo conduci nella distilleria del palazzo dove estraggono l'essenza di bergamotto ; se perde i sensi per il forte odore, è donna. - Il domani il Reuccio condusse il cameriere nella distilleria col pretesto di prendere una boccetta d'essenza di cedro. Don Peppino, sentendo già da lungi il forte profumo, cercò un pretesto per non entrarvi, ma il Reuccio disse voglio, e il cameriere dovette obbedire. Però non v'era appena entrato che cadde lungo disteso in terra. Il Reuccio mandò a chiamare le donne della Regina e fece trasportare il finto don Peppino nelle stanze della madre. Qui Mariuccia si riebbe, confessò tutto, disse di chi era figlia, e il Reuccio, appena lo seppe, dichiarò che la voleva sposare. - O lei o nessuna ! - La Regina storse la bocca perchè gli aveva destinato una sua nipote e non poteva soffrire quella intrusa. Ma il Re, interrogato, dette il consenso, e la Regina, volere o volare, dovette chinar la testa. Di lì a pochi giorni si fecero le nozze con gran pompa, e la Reginuzza non solo si fece amare dal marito e dal suocero, ma anche da tutto il popolo. Soltanto la Regina l'odiava a morte, e tanto più prese a odiarla quando il maggiordomo annunziò a tutti che di lì a poco la Reginuzza avrebbe dato alla luce un figlio. Ma ecco che il Re di un paese vicino muove guerra al suocero di Mariuccia. Il suocero era vecchio e alla guerra dovette andare il Reuccio. Compera disperato di lasciar la moglie, e quanto la raccomandò alla Regina ! - Madre mia, - badava a ripeterle - dovete volerle bene come a me, e non appena nasce il piccino dovete mandarmi un corriere per dirmi come sta Mariuccia e se il nascituro è maschio o femmina. - La madre glielo promise, benché non potesse digerir la nuora, e il Reuccio partì. A suo tempo la Reginuzza dette alla luce un bellissimo maschio e la Regina subito scrisse una lettera al figlio, la consegnò a un corriere fidato e gli disse di portarla al Reuccio al campo. Il corriere parte a spron battuto e corre corre per portare più presto la notizia al Reuccio, ma quando ha viaggiato alcune ore, ecco che il cavallo gli cade e si tronca una gamba. Che fare ? Proseguì la via a piedi guardando di qua, guardando di là se vedeva una casa dove potesse avere un'altra cavalcatura. Finalmente, all'uscire da un bosco, vide un bellissimo palazzo, con tutte le finestre chiuse, il portone chiuso che pareva disabitato. Nonostante il corriere ne salì la gradinata di marmo e si mise a bussare, e giù, bussa che ti busso! Dopo un pezzo che bussava, dal bosco uscì un serpente che gli s'avvicinò strisciando e gli disse: - Che fate a quest' ora qui ? - Sono il corriere del Re e mi ha spedito la Regina per andare dal Reuccio a portargli la notizia che la Reginuzza ha fatto un bel maschio. Però, poco distante di qui m'è caduto il cavallo e s'è rotto una gamba. Volevo domandare alla gente di questo palazzo se era possibile avere un'altra cavalcatura. - In questo palazzo ci sto io solo, - disse il serpente - ma posso benissimo darvi ospitalità per la notte e domani fornirvi un cavallo. Entrate ! - II serpente si rizzò fino a giungere ad aprir la porta, introdusse il corriere nel palazzo, gli cucinò la, cena, e gli fece ogni sorta di gentilezze. Però, non appena il corriere fa addormentato, gli frugò in tasca, prese la lettera scritta dalla Regina, la lesse, poi la risigillò e gliela rimise in tasca. La mattina dopo il corriere si alza, il serpente gli fa trovar pronta la colazione e il cavallo, gli fa mille complimenti e gli dice : - Al ritorno dovete assolutamente passar di qua; voglio che me lo promettiate. Il corriere glielo promise e partì. Al ritorno il serpente gli dette da cena, da dormire, gli prese la lettera dalla tasca e gli ce ne mise un'altra scritta da lui, in cui diceva al Re di scacciar Mariuccia e il piccino e di farla bruciare viva. Il Re, quando lesse quella lettera, credette che il figlio fosse ammattito e se n'andò dalla Regina: - Ma perché, - domandò - nostro figlio è così arrabbiato con la moglie ? Ma come mai ha perso per lei tutto l'affetto ? Chi l'ha così cambiato ? Io non capisco nulla, - e si grattava la testa, ma, per quanto si grattasse, capiva meno di prima. - Badiamo bene però di non dir nulla a Mariuccia, poveretta! - soggiunse poi. Però Mariuccia aspettava con ansia la lettera del marito, sperava che contenesse mille tenerezze, e ogni giorno chiedeva al Re e alla Regina : - È venuta la lettera dal campo? - La Regina, che continuava a odiarla, per farle dispiacere, trasgredì l' ordine del marito, le disse che la lettera era giunta e gliela fece anche leggere. La sfortunata Reginuzza ne ebbe un colpo tremendo. - Dal momento che mi vuole scacciare, me ne andrò da me, - disse. La suocera si sentì allargare il cuore, ma non fiatò. La notte Mariuccia prende il bimbo, monta sul cavallino sauro e se ne va, senza dir nulla a nessuno. Dopo lungo viaggiare giunge in un bosco, e quando ne esce vede il palazzo del serpente. Allora smonta da cavallo per lasciar pascere l' animale, e col suo bimbo fra le braccia siede sulla gradinata e sospira. H serpente la vede, la riconosce, e schizzando fuoco dagli occhi, le si avvicina e le dice: - Vieni qua, amica, fra noi dobbiamo fare certi conti. - Anche Mariuccia lo riconobbe subito e si mise a tremare. - Fammi tutto quello che vuoi, basta che tu non tocchi questo innocente, - disse stringendo a sè il piccino. Il serpente le ordinò di salire la gradinata, di entrare nel palazzo, e sempre sibilando, sempre fissandola con gli occhi che schizzavano fuoco, la cacciò nell'ultima stanza del palazzo, ce la chiuse a chiave e disse : - Tu mi avevi promesso la mano di sposa ; invece mi dasti con inganno l'arancia rossa e per colpa tua perdetti l'effigie d'uomo e divenni serpente. Dunque me la pagherai. Ti condanno a veder morire di fame tuo figlio ed a fare la stessa morte di lui. - Figuriamoci la disperazione di Mariuccia! Si mise alla finestra a gridare : - Cavallino mio, aiutami ! La mangiatoia d'argento te l'avevo fatta quand'ero Reginuzza. Se mi liberi dal serpente e se riacquisto l'affetto del Reuccio mio sposo, te la farò d'oro e non ci sarà cavallo meglio trattato di te ! Sai che mantengo quello che prometto e che alla Corte non passava giorno che non ti governassi io ! - La finestra accanto a quella dov'era Mariuccia ripetè le parole di lei, poi le ripetè la finestra seguente, e le ripeterono tutte finché non le ripetè quella che era sopra al prato dove pasceva il cavallino sauro. In quel momento il serpente strisciando usciva dalla porta del palazzo e la chiudeva con sette chiavi enormi. Il cavallino non disse nè ài nè bài. Intanto che il serpente infilava la prima delle sette chiavi nella prima delle sette serrature per rinchiudere Mariuccia i palazzo e farla assistere alla morte del figliolino e farvela morire di fame anche lei, fece una corsa, un lancio sulla gradinata, lo afferrò coi denti fra capo e collo, e stringi che ti stringo. Il serpente battè con furia la coda, mise fuori la lingua, gli occhi gli schizzarono dalla testa, s' arrotolò come un fascio di corda e cadde morto. - Mariuccia, sei salva ! - gridò il cavallino. - Il serpente è morto. Cerca di sfondare l' uscio ; il portone è aperto. - Mariuccia prese subito un'asse del letto, e con quella si mise a battere contro l' uscio. Batti batti, l'uscio cedette e la Reginuzza entrò in sala dove ci erano tante sedie tutte con ornati di bisce dorate aggrovigliolate insieme. Si rammentò allora d' aver serbato l' arancia gialla che le aveva data il cavallino nel palazzo del Principe suo padre quando fuggì, e la cavò di tasca. Aveva la buccia secca secca, ma tagliandola in mezzo, vide che conteneva ancora un po' di succo. Con quel succo bagnò la testa delle bisce dorate e, come per incanto, ritornarono tutte donne giovani e belle e le raccontarono che il serpente le aveva tutte convertite in bisce perché non l' avevano voluto sposare. Anche Mariuccia narrò i casi suoi, ed esse, sentendo che era figlia di Principe e moglie di un Reuccio le dissero : - Giacché non hai dame nè cameriste, noi saremo le tue dame, le tue cameriste e le aie di tuo figlio, - e da quel momento Mariuccia fece una vita tranquilla in mezzo a tutte quelle donne che la servivano con amore. Gli anni passarono, il figlio di Mariuccia si fece un bellissimo giovinetto ed era sempre in groppa al cavallino o accanto alla sua mamma, circondato dalle sue aie che gl'insegnavano chi una cosa e chi un'altra così che era istruito, gentile e cortese come si conviene al figlio di un Reuccio. Lasciamo Mariuccia al palazzo sul limitare del bosco e torniamo al Reuccio. Terminata la guerra, che era durata tre anni, con lo sterminio del nemico, il Reuccio coperto di gloria se ne tornò alla Corte del Re suo padre, tutto bramoso di rivedere la sposa e di abbracciare il figlio che ancora non conosceva. Il popolo gli mosse incontro acclamandolo, la Regina e il Re gli andarono incontro fino alle porte della città. Appena li scorse, non vedendo ne Mariuccia ne il figlio accanto a loro, si turbò tutto e corse a chiedere dove fossero. Il Re e la Regina si guardarono maravigliati. - Ma non scrivesti tu che dovevano essere scacciati ? - domandò il Re. - Io ?! Ma io scrissi che li teneste di conto più che la pupilla degli occhi vostri. Ma la lettera l'abbiamo serbata, - disse la Regina. Basta. Tutta la gioia del Reuccio svanì. Vide la lettera e sentenziò : - Questa non l'ho scritta io. Qui c'è inganno, ma chi è stato il traditore? Ah, se l'avessi qui! - II povero Reuccio non faceva che disperarsi e far cercare la moglie e il figlio. Egli se ne stava sempre rinchiuso nella sua camera e non parlava se non coi messi che tornavano dall'aver cercato la Reginuzza e il bambino. Così passarono molti anni senza che il suo dolore si calmasse, e spesso la madre gli diceva : - Vedi, ormai non c'è più speranza di ritrovarli; dovresti pensare a prendere un'altra moglie per assicurare la successione al trono. - Ma egli rispondeva : - Non sposerò mai altra donna ; se Mariuccia e il figlio mio sono morti, io vivrò di dolore, ma nessuna Principessa prenderà il posto della mia sposa. - Un giorno alcuni signori della Corte stabilirono d'andare a caccia in un bosco lontano lontano, e tanto dissero e tanto fecero che indussero il Reuccio ad unirsi a loro. Partono a cavallo, battono il cinghiale, ma sul più bello si scatena una tempesta. I fulmini abbattevano gli alberi, il vento schiantava i rami, la pioggia e la grandine venivano giù come Dio le mandava. I cacciatori spronarono i cavalli per uscire dal bosco e schivare il pericolo d'esser fulminati. Appena all’aperto scorsero un bellissimo palazzo, bussarono e furono accolti gentilmente da tante cameriere, che li fecero entrare in una gran sala, dove in un vasto camino ardeva il fuoco. Da quella sala passò Mariuccia col figlio per andare nelle sue stanze, e tutti i cacciatori s’alzarono, credendola la padrona del palazzo, e l'ossequiarono. Ella, non appena ebbe fissato il Reuccio, lo riconobbe e impallidì, ma non disse nulla sul momento e si ritirò insieme col figlio. Però di lì a poco disse al giovinetto : - Hai veduto quel cacciatore più alto di tutti e col portamento così nobile, benché pallido e come affranto dal dolore ? Ebbene, quel cacciatore è il Reuccio tuo padre. Va’ da lui e baciagli la mano. - II fanciullo tornò nella sala, s'accostò al cacciatore che la madre gli aveva indicato, mise un ginocchio in terra e baciandogli la mano, gli disse : Padre mio, beneditemi ! - Figuriamoci quel che provasse il Reuccio in quel momento! Rialzò il fanciullo, se lo strinse al petto e pianse di gioia su quel capo che aveva tanto bramato di baciare. Poi si fece condurre dalla madre, e qui nuovi abbracciamenti e nuove lacrime. Mariuccia gli raccontò tutto quello che aveva .offerto e quanto l' aveva aiutata il cavalluccio e la promessa che gli aveva fatta di dargli una mangiatoia d’oro. Naturalmente il Reuccio insieme con la moglie, il figlio e il seguito andarono subito alla Corte. Il cavallino fa montato dal fanciullo e in città si fecero grandi feste a tutti, e anche al cavallino, che ebbe la sua mangiatoia d'oro e una stalla tutta di marmo e e visse tanti anni, grasso bracato, e vide il Reuccio divenir Re, la Reginuzza divenir Regina e poi regnare anche il figlio di Mariuccia. Finalmente un giorno anche il cavallino sauro morì, e il Re gli fece erigere una statua.

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Lilit

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Levi, Primo 1 occorrenze

Sante, senza voltarsi e tutto tranquillo, gli disse che aveva fatto due prigionieri, e che non avessero paura perché li aveva già disarmati; a Ettore disse che portasse un po' più lontano i due zaini e gli desse un' occhiata dentro; e ai due, che a vedere il padre si erano alzati in piedi e messi sull' attenti, ma sempre con le mani levate, disse che ormai era finita, che avevano solo da non attentarsi a fare delle sciocchezze, ma che se volevano finire il pane e formaggio facessero pure, a quel punto potevano anche abbassare le mani. Ettore si mise a frugare, ma intanto guardava gli stivali dei tedeschi come un bambino guarderebbe lo zucchero filato. In fondo a uno degli zaini, in mezzo alla biancheria pulita e sporca, Ettore trovò una bella scatola di compassi. Sante l' aprì e riconobbe che erano di marca italiana: che Ettore se li tenesse pure, a scuola gli sarebbero venuti buoni, fra qualche mese si sarebbero pure riaperte le scuole, ma il padre si fece avanti scalzo in mezzo alla cucina e disse che niente affatto. Sante cercò timidamente di insistere: che era roba rubata lì in paese, lui forse sapeva perfino quando e a chi, e del resto che altro avevano fatto i tedeschi se non rubare, all' ingrosso e al dettaglio, tutto, le bestie, il grano, il tabacco, perfino la legna del bosco: Ma il padre non volle sentire ragione: _ Gli altri possono fare quello che vogliono, ma qui siamo a casa mia e voi non toccate niente: se gli altri sono ladri, noi siamo gente per bene. Hanno mangiato sotto questo tetto: sono nostri ospiti, anche se sono prigionieri; io ho fatto la grande guerra, e come si trattano i prigionieri lo so meglio di voi. Gli prendete i parabelli, gli rendete gli zaini e li portate al vostro comando; ma prima gli date ancora un po' di pane e quel salame che c' è sotto il camino, perché la strada è lunga. I tedeschi non avevano capito e tremavano. Sante, sempre tenendoli sotto tiro, disse al padre che andava bene, che stesse tranquillo, e che lui ed Ettore potevano tornare a letto; ma che prima Ettore facesse un salto a cercare Angelo. Ettore aveva solo diciassette anni, e per un servizio come quello era meglio avere un compagno più pratico. Il comando era a due ore di cammino e durante il percorso Sante ebbe tempo di pentirsi della sua scelta: Angelo era un tipo spiccio, e Sante dovette sudare quattro camicie per tenerlo buono. Altre quattro camicie, o forse di più, le dovette poi sudare al comando stesso, perché tutti quanti, a partire dal comandante, avevano parecchi conti in sospeso coi tedeschi, e una gran voglia di chiuderli subito. Insomma Sante dovette fare questione, e fortuna che al comando lo rispettavano, e avevano magari anche un poco di paura di lui per via di certe sue imprese solitarie sull' altipiano; e forse in buona misura la loro pelle se la guadagnarono i due tedeschi stessi, perché durante tutte le trattative se n' erano stati piantati sull' attenti, con una tale aria da poveri cani che non sembravano neppure tedeschi. In definitiva si misero d' accordo di fargli spaccare legna per qualche giorno, senza fargli del male, finché non fosse possibile consegnarli agli alleati. Sante se ne tornò a casa soddisfatto: non è che li considerasse suoi amici, ma prima cosa non gli sembrava una faccenda pulita sparare a gente con le mani alzate, anche se loro lo avevano fatto, perdinci se l' avevano fatto! E seconda cosa, li aveva presi lui, da solo, erano selvaggina sua, roba sua, e non era giusto che fossero degli altri a decidere il loro destino. Otto giorni dopo la guerra era finita, e Sante, Ettore, e diversi altri paesani stavano tutti nudi a nuotare in una pozza del Brenta, quando videro passare sulla strada un drappello di partigiani che scortavano verso Asiago cinque o sei prigionieri. Uno era un fascista, aveva le manette e la faccia gonfia e livida; dietro a lui c' erano i due tedeschi, a mani sciolte e con l' aria di star bene. Sante saltò a riva nudo com' era, e i tedeschi lo riconobbero, lo salutarono e lo ringraziarono. Sante tornò a tuffarsi nell' acqua limpida e gelata, e si sentì contento di avere finito la sua guerra in quel modo.

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Il maggiordomo fece portare altri cuscini, poi abbassare sul dinanzi della tenda un gran drappo pure di seta, onde potessero riposare più tranquilli. Anche gli scikari ed i conduttori dei cani, approfittando della grande calma che regnava sotto le piante, e del nessun pericolo che li minacciava, si erano addormentati. Vegliavano invece gli elefanti, occupati a dar fondo ad un ammasso di foglie e di rami di pipal, di cui sono ghiottissimi, non avendo forse trovata sufficiente la razione fornita loro dai mahuts, quantunque composta di venticinque libbre di farina impastata con acqua, di una libbra di burro chiarificato e di mezza libbra di sale per ciascuno. Alle quattro, con una precisione cronometrica, tutta la carovana era pronta a riprendere le mosse. La tenda in un baleno era stata levata e gli elefanti, che erano appena allora stati spalmati di grasso alla testa, agli orecchi ed ai piedi, si mostravano di buon umore, scherzando coi loro mahuts. - Avanti! - aveva gridato Yanez che aveva ripreso il suo posto con Sandokan ed il bengalese. La carovana si mosse di buon passo, sempre coll'ordine primiero. Gli scikari, non essendo ancora giunti sul luogo della caccia, si tenevano ultimi insieme ai conduttori dei cani ed ai servi. Il paese accennava a cambiare. I grandi alberi scomparivano per dar luogo a immense distese di erbe palustri, grosse e diritte come lame di sciabola che i botanici chiamano thypha elephantina, perché assai amate dagli elefanti che ne fanno delle scorpacciate, ed a gruppi di bambù spinosi, alti solo pochi metri, ma invece molto grossi. Era il principio della jungla umida, il regno dell'acto bâgh beursah (la tigre signora) come l'hanno chiamata i poeti indiani. Della selvaggina piccola e grossa, spaventata dall'avvicinarsi di quei tre colossi accompagnati da tanta gente armata, balzava di quando in quando fuori da quei bambù, allontanandosi a corsa precipitosa. Ora erano dei samber, specie di cervi, più grossi di quelli europei, dal pelame bruno violetto sul dorso e bianco argenteo sotto il ventre e la testa armata di corna robuste, che spiccavano dei salti meravigliosi, scomparendo in pochi istanti agli occhi dei cacciatori; ora invece erano dei nilgò, le antilopi indiane, grosse quasi quanto un bue di media statura, di forme però eleganti e fini ed il pelame grigiastro; ora delle bande di cani selvaggi, grossi quanto gli sciacalli ai quali rassomigliano molto nella forma della testa e che sono famosi cacciatori di daini, dei quali ne distruggono un gran numero. Anche qualche bufalo delle jungle, strappato al suo riposo dal barrire degli elefanti, si scagliava, con impeto furibondo, fuori dalle macchie di bambù, mostrando la sua testaccia corta e quadra, armata di corna ovali e fortemente appiattite, curvantisi all'indietro. Si arrestava qualche momento, ben piantato sulle poderose zampe, guatando cogli occhi iniettati di sangue la carovana, smanioso forse di lanciarsi ad una carica disperata e di far strage di scikari e di valletti, poi s'allontanava a piccolo galoppo, volgendosi di quando in quando indietro e anche soffermandosi come per dire: un bhainsa della jungla non ha paura. Il sole era prossimo al tramonto e gli elefanti cominciavano a dar segno di stanchezza in causa della pessima natura del suolo che cedeva facilmente sotto i loro larghi piedi, quando Yanez, dall'alto della cassa, al di là d'una piccola jungla formata esclusivamente di piante spinose, vide scintillare una distesa d'acqua. - Ecco lo stagno della tigre nera, - disse. Quasi nell'istesso momento una viva agitazione si manifestò fra i cani. Tiravano i guinzagli e latravano furiosamente formando un baccano assordante. - Che cosa c'è dunque? - chiese il portoghese al mahut. - I cani hanno fiutata la pista della kala-bâgh, - rispose l'indiano. - Che sia passata per di qua? - Certo, sahib. I cani non latrerebbero così. - E quando passata? Di recente? - Solo i cani potrebbero saperlo. - Il tuo elefante non dà alcun segno d'agitazione? - Nessuno finora. - Avanzati verso lo stagno. Ne faremo il giro per vedere quale contegno terranno i cani. - Sì, sahib, - rispose il mahut alzando la sua corta picca armata lateralmente d'un uncino molto acuto. L'elefante che si era arrestato un momento, riprese il cammino scostando colla sua formidabile tromba i bambù. Era ancora tranquillo, tuttavia doveva essersi accorto anche lui che s'avanzava nel dominio della tigre perché non aveva più il passo lesto come prima. I cani, sotto una tempesta di frustate, non urlavano più, però di quando in quando tentavano di rompere le funicelle per slanciarsi attraverso le typha. - Che l'abbiano proprio fiutata la belva? - chiese Yanez, che sembrava inquieto, rivolgendosi verso Tremal-Naik. - Credo che il mahut non si sia ingannato, - rispose il bengalese. - Per precauzione faremo bene a preparare le carabine. Si è dato qualche volta che le tigri solitarie invece di fuggire si siano gettate improvvisamente addosso ai cacciatori. - Approntiamoci, Sandokan. - La Tigre della Malesia vuotò il suo cibuc e presa la sua carabina a due colpi, montò i grilletti mettendosela poi fra le ginocchia. Yanez e Tremal-Naik lo avevano imitato, poi avevano appoggiato contro l'orlo della cassa tre picche di corta misura che avevano però delle lame piuttosto larghe e coi margini affilatissimi. - Tu Sandokan, veglia sul mahut, io guardo a destra e tu Tremal-Naik a sinistra, - disse Yanez quando quei preparativi furono terminati. - Conto più su di noi tre che su tutta questa gente. - E su Kammamuri e sui nostri malesi, - aggiunse la Tigre della Malesia. - Non sono uomini da volgere le spalle nel momento del pericolo. - Quantunque tutto indicasse che quelle jungle fossero state percorse dalla terribile belva, gli elefanti giunsero senza cattivi incontri sulle rive dello stagno e ne fecero il giro levando solamente alcune coppie di pavoni ed una mezza dozzina di oche selvatiche, grosse quanto quelle europee, col collo invece più lungo, le ali orlate di nero, la testa adorna d'un ciuffo. Quello stagno non aveva che una circonferenza di cinque o seicento metri e serviva da serbatoio ad alcuni minuscoli torrenti che si perdevano nelle vicine jungle. Le piante acquatiche, le jhil, che somigliano al loto comune e che producono un grosso tubero assai apprezzato dagli indiani, lo avevano invaso per buona parte. - Accampiamoci qui, - disse Yanez al mahut. Gettò la scala e scese coi suoi compagni. Il maggiordomo lo aveva subito raggiunto per attendere i suoi ordini. - Fa' alzare la tenda e preparare l'accampamento. - Sì, mylord. - Una domanda prima. - Parla. - Vi sono altri stagni nei dintorni? - Nessuno. Non vi è che il fiume, ma è molto lontano ancora. - Sicché i nilgò ed i bufali sono costretti a venire qui a dissetarsi. - Ai villaggi non s'avvicinano mai e poi quelle fontane sono troppo frequentate dagli uomini e dalle donne. - Non mi occorre ora che una buona cena. - Gli scikari, i valletti ed i servi, aiutati anche dal malesi che erano sotto la direzione di Kammamuri, in meno d'un quarto d'ora prepararono l'accampamento intorno ad un magnifico pipal nim, dal tronco enorme e dal fogliame cupo e fitto, che coi suoi immensi rami lo copriva quasi tutto. Trattandosi di fermarsi in quel luogo forse parecchi giorni, gli scikari per premunirsi dalle sorprese della terribile kala-bâgh, con dei bambù incrociati avevano formata come una barriera tutta all'intorno, legandoli strettamente. La tenda, quantunque non fosse proprio necessaria, era stata rizzata contro un albero, ossia quasi nel centro del campo. Il pranzo, molto abbondante, poiché il babourchi aveva caricato alla lettera di provviste il terzo elefante destinato più al servigi della carovana che ad affrontare la pericolosa bestia, fu subito preparato e anche lestamente divorato dai cacciatori. - Mylord, - disse il maggiordomo entrando sotto la tenda, dopo che Yanez ed i suoi compagni ebbero finito di mangiare. - Devo far accendere dei fuochi intorno all'accampamento? - Guardati bene dal farlo, - rispose il portoghese. - Spaventeresti la tigre e allora dove andremo a cercarla? Noi siamo venuti qui per cacciarla e non già per tenerla lontana. - Può piombare sul campo, mylord. - E noi saremo pronti a riceverla. Fa' collocare delle sentinelle dietro la cinta e non preoccuparti d'altro. Hai del grasso tu? - Del ghi(burro chiarificato) che potrà servire ugualmente. - E delle scatole di latta? - Sì, quelle della carne conservata per te e pei tuoi compagni. - Riempiene tre o quattro di burro, mettici dentro un pezzo di tela od una funicella, falle accendere e collocale intorno all'accampamento, alla distanza di tre o quattrocento passi. - Io farò quello che vorrai. - Che cosa vuoi fare con quelle scatole Yanez? - chiese la Tigre della Malesia quando il maggiordomo si fu allontanato. - Attiriamo la bâgh, - dissero Tremal-Naik ed il portoghese. - Ah i furbi! - L'odore del grasso o del burro si espande a grandi distanze e giungerà alle nari della tigre, - continuò Tremal-Naik. - Facevo così quand'ero il cacciatore della jungla nera e le belve giungevano sempre ed anche in buon numero. - Amici, prendiamo le nostre armi ed andiamo a imboscarci fuori del campo, - disse Yanez. - Io sono certo che quella bestiaccia cadrà questa notte sotto i nostri colpi. - Sono pronto, - disse la Tigre della Malesia. Presero le loro carabine e le munizioni, si passarono nella cintura i kriss che sapevano, i due pirati specialmente, maneggiare meglio di qualunque altro e lasciarono la tenda. - Tu occupati dell'accampamento e fidati più dei miei uomini che dei tuoi scikari, - disse Yanez al maggiordomo che era ritornato. - E tu, mylord, dove vai? - chiese l'indiano con stupore. - Noi andiamo a scovare la kala-bâgh. - Di notte! - Non abbiamo paura, noi. Addio: presto udrai le nostre carabine. - Avvertirono anche Kammamuri di vegliare attentamente, poi i tre valorosi uscirono dal campo, tranquilli come se andassero a cacciare dei beccaccini. Era una di quelle splendide notti delle quali se ne vedono solamente nell'India. Le stelle fiorivano nel cielo purissimo, sgombro di qualsiasi nube e la luna s'alzava al di sopra delle cupe foreste che s'estendevano al di là del Brahmaputra, proiettando i suoi raggi azzurrini sulla jungla che circondava lo stagno. Yanez ed i suoi due compagni, oltrepassate le scatole piene di burro chiarificato che bruciavano crepitando e lanciando di quando in quando sprazzi di luce vivissima, s'addentrarono fra i canneti ed i cespugli della jungla finché ebbero trovato un piccolo spazio scoperto, una minuscola radura dove non crescevano che pochi mindi. - Ecco un magnifico posto, - disse il portoghese, deponendo la carabina. - Di qui possiamo sorvegliare l'accampamento e anche la jungla. Si direbbe che le piante non lo hanno invaso per far piacere a noi. - È vero, - rispose Sandokan. - Taci! - disse in quell'istante Tremal-Naik. - Che cosa hai udito? - La risposta non la diede il bengalese. Fu un hu-ab terribile, formidabile, che rintronò nella notte tranquilla come un colpo di tuono e che scosse perfino le salde fibre della Tigre della Malesia. La risposta l'aveva data la kala-bâgh!

I cinque minuti non erano ancora trascorsi, che gli elefanti si trovavano pronti a ripartire, quantunque dimostrassero il loro mal umore per quella inaspettata marcia, con sordi barriti e con un alzare e abbassare d'orecchi. Dayachi, malesi e prigionieri erano tutti al loro posto, chi entro le casse, chi sui larghi dorsi dei pachidermi, tenendosi ben stretti alle corde. Sandokan ed i suoi compagni, dopo aver fatta una breve punta senza nulla vedere di sospetto, si erano affrettati, a loro volta, a raggiungere l'elefante-pilota, il solo che si mantenesse tranquillo. - Siamo pronti? - chiese Sandokan quando si fu accomodato nella cassa a fianco di Surama. - Tutti! - risposero ad una voce malesi e dayachi. - Via! - Gli elefanti, quasi avessero compreso che un grave pericolo minacciava i loro conduttori, avevano cessato di barrire ed avevano preso un vero galoppo, e così rapido, che difficilmente un buon cavallo avrebbe potuto tenere dietro a loro. A vedere quelle masse enormi, che hanno qualche cosa di antidiluviano, si giudicherebbe che essi fossero eccessivamente tardivi, mentre invece posseggono un'agilità straordinaria ed una forza di resistenza incredibile, che permette a loro di gareggiare, e senza svantaggio, coi mahari, i famosi corridori del deserto di Sahara. Avevano appena preso lo slancio, quando un grido di rabbia ed insieme d'angoscia, sfuggì da tutte le bocche. A destra ed a sinistra, dalla via presa dai pachidermi, come per un segnale convenuto, i bambù e le erbe secche della jungla, arse dal sole, avevano preso fuoco su diversi punti! ... - Me l'aspettavo questo brutto giuoco! - esclamò Sandokan. - Cornac! Spingete la corsa, o morremo tutti arrostiti! - I conduttori, senza attendere quel comando, vedendo il fuoco propagarsi con rapidità incredibile, avevano già afferrati i loro corti arpioni, lasciandoli cadere violentemente sui crani dei pachidermi, lanciando contemporaneamente fischi stridenti. Vampe immense s'alzavano di già minacciando di rinchiudere i fuggiaschi in un cerchio di fuoco. I malesi ed i dayachi avevano aperto il fuoco, sparando all'impazzata in tutte le direzioni, mentre gli elefanti, atterriti, raddoppiavano lo slancio, barrendo spaventosamente e sfondando, come mostruose catapulte, le folte macchie che si paravano a loro dinanzi. Quella fuga rapidissima aveva qualche cosa di spaventoso ed insieme di fantastico. Cominciando a cadere le scintille addosso agli elefanti e anche sulle persone che stavano nelle casse, Sandokan sciolse rapidamente una coperta e la gettò addosso a Surama, avvolgendola completamente, mentre Tremal-Naik gridava agli altri: - Sciogliete le tende ed i materassini! Copritevi e riparate le groppe degli elefanti! - L'ordine fu subito eseguito ed appena in tempo, poiché le due linee di fuoco, ormai diventate giganti, stavano per raggiungersi e chiudere completamente la ritirata. - Poggia verso il fiume, cornac! - comandò Sandokan che conservava, anche in quel terribile momento, tutta la sua calma di grande capitano. - Là sta la nostra salvezza! Getta questa coperta sulla testa dell'elefante e bendagli gli occhi! Fate altrettanto voialtri! Su, forza, attraverso al fuoco! - I pachidermi, spaventati di vedersi dinanzi quelle cortine fiammeggianti, pareva che esitassero a proseguire la corsa. Quando però si sentirono avvolgere la testa dalle coperte e dalle tende, presi da un maggior spavento, si slanciarono innanzi all'impazzata, mandando clamori orribili. Le due cortine di fuoco non distavano che pochi metri l'una dall'altra. Ancora un mezzo minuto di ritardo e si sarebbero raggiunte. Scintille, cenere ardente, foglie accese, cadevano da tutte le parti e l'aria minacciava di diventare, da un istante all'altro, irrespirabile. I cinque elefanti giunsero, come un uragano, là dove le due linee fiammeggianti stavano per operare la loro congiunzione, e attraversarono il passo coll'impeto dei proiettili, raddoppiando i loro spaventevoli clamori. Quattro o cinque colpi di carabina li salutarono al passaggio, sparati però a una così notevole distanza, che le palle non produssero alcun effetto contro il grosso cuoio che rivestiva quei colossi. I cornac s'affrettarono a togliere le coperte che avvolgevano le teste degli animali, mentre i malesi ed i dayachi gettarono via materassini e tende, che avevano già preso fuoco. - Non credevo di avere tanta fortuna, - disse Sandokan che appariva di buon umore. - Se gli elefanti continueranno questa corsa indiavolata per tre o quattro ore, non avremo più nulla da temere da parte degli assamesi. Che cosa ne dici, Tremal-Naik? - Dico, - rispose il bengalese, - che da questo momento noi potremo proseguire tranquillamente il nostro viaggio verso Sadhja, senza essere più disturbati. È vero, Bindar? - Sì, sahib - rispose il fedele giovanotto. - Tra due giorni noi saremo fra le montagne dove regnava il padre della principessa, il valoroso Mahur. - Come rivedrò volentieri il mio paese natio! - esclamò la futura regina dell'Assam, con un sospiro. - Purché si ricordino ancora del capo dei kotteri. - Non ci sono io forse? - disse Bindar. - Mio padre era uno dei più fedeli servitori del tuo e, lassù, fra le montagne, ho molti parenti. Basterà che io ti presenti a Khampur. - Chi è costui? - Il nuovo capo dei kotteri. Era un amico intimo di tuo padre e sarà ben lieto di rivederti e di mettere a tua disposizione tutti i suoi guerrieri. Egli odia Sindhia e non si rifiuterà di prestarti man forte. - Speriamolo, - rispose Surama. - A me basta di liberare il sahib bianco, che tanto amo. - Lo rivedrai più presto di quello che credi, - disse Sandokan. - Non lascerò l'Assam, checché debba accadere, senza aver prima strappato il mio fratellino bianco dalle zampe di quell'ubriacone di Sindhia e senza aver saldato i conti con quel cane di greco, causa principale di tutte le nostre disgrazie. Fra quindici giorni, e fors'anche prima, tutto sarà finito e andrò a respirare una boccata d'aria marina, della quale sento un bisogno grandissimo. - Come! Non ti fermerai alla mia corte, ammesso che io possa diventare la rhani dell'Assam? - Sì, per un paio di settimane, ma poi tornerò laggiù, al Borneo, - disse Sandokan che era diventato improvvisamente cupo. - Anche nelle mie vene scorre sangue di rajah ed un giorno mio padre fu potente, e dominava una regione forse più vasta dell'Assam. Pensiamo a dare ora un trono a te ed a Yanez: poi penserò a posare anche sul mio capo una corona. Sono vent'anni che medito una vendetta e sono vent'anni che un miserabile straniero siede sul trono dei miei avi, dopo d'aver spazzato mio padre, mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle! Quel giorno che comparirò sulle rive del lago di Kini Ballù sarà un giorno di sangue e di fuoco. - Sandokan! - esclamarono Tremal-Naik e Surama. Il terribile pirata si era alzato cogli occhi accesi, il viso alterato da un furore spaventevole, agitando la destra come se brandisse una scimitarra assetata di sangue e di stragi, ma dopo qualche istante tornò a sedersi, calmo come prima, dicendo con voce rauca: - Aspettiamo quel giorno! - Caricò rabbiosamente la pipa, l'accese e si mise a fumare con furia, guardando la jungla che fiammeggiava sempre dietro gli elefanti. Tremal-Naik gli batté su una spalla. - Quel giorno, - gli disse, - spero che mi avrai per compagno. - Ti accetto fin d'ora, - rispose la Tigre della Malesia. - Ed io, - disse Surama, - metterò a tua disposizione tutti i tesori dell'Assam e tutti i seikki. - Grazie fanciulla, ma a tuttociò, preferisco Yanez, il mio buon genio. Il principe consorte potrà assentarsi per un paio di mesi. - Anche per dodici se lo vorrai. - Gli elefanti, ancora spaventati dai bagliori dell'incendio, continuavano intanto la loro rapidissima corsa, ansando fortemente ed imprimendo alle casse tali scosse, che le persone che le montavano, di quando in quando, cadevano le une nelle braccia delle altre. La jungla continuava ad estendersi lungo la riva destra del Brahmaputra, però a poco a poco tendeva a cambiare. I bambù sparivano per lasciare il posto alle alte graminacee, ai folti cespugli, alle mangifere che formavano dei superbi gruppi, ai tara ed ai latania. Era però sempre una regione senza villaggi, senza capanne, non amando gli indiani abitare là dove imperano le tigri, i rinoceronti, le pantere ed i serpenti dal morso mortale. Quella corsa velocissima durò fino alle dieci del mattino, poi Sandokan, vedendo che gli elefanti rallentavano, diede il segnale della fermata. Ormai gli assamesi non erano più da temersi. Anche se avessero avuto dei cavalli di buona razza, non avrebbero potuto tenere dietro a quei colossi, che avevano mantenuto per cinque o sei ore una velocità assolutamente straordinaria. Quella fermata si prolungò fino alle quattro del pomeriggio, poi gli elefanti ripresero, di buon umore, la loro corsa, senza aver bisogno di essere aizzati dai loro conduttori, avendo trovato, durante quel riposo, un'abbondante provvista di typha e di rami di bâr (ficus indica), il cibo che preferiscono sopra tutti gli altri, quando non trovano delle foglie di pipal (ficus religiosa). A mezzanotte marciavano ancora, avanzandosi verso le non lontane catene di montagne, abitate dai sudditi del defunto Mahur, il padre di Surama. Le jungle erano a poco a poco scomparse, per lasciare il campo a pianure ondulate e coperte da fitti gruppi di alberi, all'ombra dei quali, cominciavano a succedersi piccoli villaggi, circondati da risaie. Un'altra fermata fu fatta che si prolungò fino alle sette del mattino: poi gli instancabili elefanti ripresero la corsa rimontando verso il nord-est, dove già si delineavano alcune catene di altissime montagne, coperte da foreste immense. Altre due tappe, poi i pachidermi, sempre agili e sempre rapidi, salivano il giorno dopo i primi scaglioni di quelle boscose catene, innalzandosi gradatamente. Il paese cominciava a popolarsi. Minuscoli villaggi di quando in quando apparivano sui declivi, in mezzo a folte macchie di mangifere e di tamarindi stupendi. - Ecco i sudditi di mio padre! - diceva Surama con un sospiro. - Quando sapranno che la figlia del vecchio capo dei kotteri, dopo tanti anni, è ritornata, non le rifiuteranno il loro appoggio. - Lo spero, - rispose Sandokan. Quella sera l'accampamento fu piantato in mezzo alle foltissime foreste e mai notte fu più calma di quella, non abbondando sulle montagne né cani selvaggi, né sciacalli, ed essendo anche piuttosto rare le tigri, le quali preferiscono il clima umido e caldo delle jungle. La sveglia fu suonata da Bindar, che possedeva un ramsinga di rame, alle quattro del mattino, desiderando tutti di riposarsi alla sera a Sadhja, l'antica residenza del capo dei kotteri. Gli elefanti, ben riposati e anche ben pasciuti, avendo trovato dei banian da saccheggiare, avevano subito ripresa allegramente la marcia, costeggiando una enorme spaccatura, in fondo alla quale rumoreggiava il Brahmaputra, che forse dopo migliaia e migliaia d'anni, si era aperto un varco fra quelle montagne, per raggiungere il sacro Gange e riversare le sue acque nel golfo del Bengala. Quantunque le chine fossero faticosissime, gli elefanti procedettero sempre con grande rapidità; dimostrando ancora una volta la loro incredibile resistenza e la loro agilità assolutamente straordinaria. Verso il tramonto la carovana, dopo aver superate altre altissime montagne, sempre ricche di boscaglie, poiché la vegetazione dell'India non cessa che là dove cominciano le nevi ed i ghiacciai, entrava finalmente in Sadhja, la capitale del piccolo stato, quasi indipendente, ossia dei kotteri, dei montanari guerrieri, i più valorosi dell'Assam. Bindar guidò i suoi padroni verso una vasta capanna, circondata da un giardino, dimora di un suo parente, la quale si trovava un po' fuori dal bastioni della cittadella, desiderando non suscitare, almeno pel momento, la curiosità della popolazione. Essendo già prossima la notte, quasi nessuno aveva fatto attenzione all'arrivo della carovana, trovandosi la maggior parte di quei montanari nelle loro casette a cenare. Due vecchi indiani, parenti del giovane, accolsero cortesemente gli ospiti raccomandati dal nipote, mettendo a loro disposizione tutte le provviste che possedevano. - Cenate senza preoccuparvi di me, - disse Bindar, - e consideratevi come in casa vostra. Io vado ad avvertire Khampur del vostro arrivo. - Come accoglierà la notizia? - chiese Sandokan che appariva un po' pensieroso. - Khampur era l'amico devoto di Mahur, il grande capo dei kotteri guerrieri, e sarà ben felice di rivedere la figlia del forte montanaro. E poi so che odia mortalmente Sindhia e che non gli ha mai perdonato d'aver venduta, come una miserabile schiava, l'ultima principessa di Sadhja. - Ciò detto il bravo giovanotto, dopo aver presa per precauzione, forse eccessiva, la sua carabina, uscì entrando in città. Sandokan si rivolse al capo dei seikki che gli sedeva di fronte e gli chiese: - Posso sempre contare sulla fedeltà dei tuoi uomini? - Sempre, sahib - rispose il demjadar. - Quando tu lo vorrai, spiegheranno la tua bandiera, se ne hai una, e apriranno il fuoco contro il palazzo reale. - Ho la mia bandiera fra i miei bagagli, - rispose Sandokan, con uno strano sorriso. - È tutta rossa con tre teste di tigre. Sanno gli inglesi quanto vale. - Dammela ed i miei seikki la faranno sventolare dinanzi al rajah. - Sì, domani, quando ridiscenderemo il Brahmaputra, - rispose Sandokan. - Sarà la nuova bandiera dell'Assam, è vero Surama? - E che io conserverò religiosamente se diventerò veramente la rhani - disse la giovane principessa. - Così mi ricorderò sempre di dover la mia corona alle Tigri di Mompracem. - Avevano appena terminata la cena, quando Bindar entrò seguìto da un bel tipo d'indiano sulla quarantina, vestito come un ricco kaltano, ossia con un costume mezzo orientale, con una larga fascia di seta rossa piena di pistoloni e di armi da taglio. Era un uomo di statura imponente, vigoroso come uno jungli-kudgia, barbuto come un brigante della montagna, con due occhi nerissimi e sfolgoranti ed i lineamenti energici. Solo a vederlo si capiva che doveva essere un gran capo e soprattutto un uomo d'azione. Prima ancora che Sandokan ed i suoi compagni si fossero alzati, mosse diritto verso Surama e le si inginocchiò dinanzi, dicendole con voce alterata da una profonda commozione: - Salute alla figlia del valoroso Mahur! Tu non puoi essere che quella. - La giovane principessa con un rapido gesto l'aveva rialzato. - Il mio primo ministro non deve rimanere ai miei piedi, se io un giorno riuscirò ad atterrare Sindhia, - disse. - Io ... tuo primo ministro, rhani! - esclamò il montanaro, meravigliato. - Se, coll'aiuto di queste persone che mi circondano, che per valore valgono mille uomini ciascuno, otterrò la corona che mi spetta. - Khampur gettò uno sguardo sui malesi e sui dayachi, fermandolo sulla Tigre della Malesia. - È quello il capo, è vero, Surama? - chiese. - Un uomo invincibile. - Lo si vede, - rispose l'assamese. - Me ne intendo di uomini. Quello ha la folgore negli occhi. - E anche la mano lesta, - disse Sandokan sorridendo e avanzandosi verso il montanaro, che pareva aspettasse una vigorosa stretta di mano. - Tu sahib, sei un valoroso, - disse il montanaro, - e ti ringrazio di aver raccolta e protetta la figlia del mio amico, il prode Mahur. Bindar tutto mi ha raccontato: che cosa posso fare? Che cosa vuoi tu? Parla: Khampur è pronto a dare la sua vita, se fosse necessario, per la felicità di Surama. - Io non desidero da te che mille uomini della montagna, risoluti a qualunque sbaraglio e le barche necessarie per condurli a Goalpara, - rispose Sandokan. - Puoi tu fornirmeli? - Anche duemila se ne vuoi, - rispose il montanaro. - Quando i miei sudditi domani sapranno che la figlia di Mahur è ritornata, affileranno subito le loro armi e staccheranno dalle pareti i loro scudi di pelle di bufalo. - A noi basta la metà purché siano scelti e valorosi, - disse Sandokan. - Noi possiamo contare sulla guardia del rajah, che è formata tutta di seikki provati al fuoco, è vero demjadar? - Quando tu lo vorrai, sahib, saranno pronti, - rispose il capo dei mercenari. - Non avrò da dire a loro che una parola. - Khampur guardò attentamente il seikko, poi disse con una certa soddisfazione: - Ecco un vero guerriero: conosco il valore di questi montanari. - Quando potranno essere pronte le barche? - chiese Sandokan. - Domani dopo mezzodì i miei uomini saranno pronti a discendere il Brahmaputra. - Di quanti legni puoi disporre? - Ho una ventina di piccoli legni fra poluar e bangle e potremo caricare su ognuno una cinquantina d'uomini, - rispose Khampur. - Quanto credi che impiegheremo a giungere a Gauhati? - Non più di due giorni, se non troveremo degli ostacoli. So che il rajah tiene una flottiglia sul fiume. - Hai delle bocche da fuoco? - Una cinquantina di falconetti. - S'incaricheranno i miei uomini di provarli sulle barche del rajah, se cercheranno di sbarrarci il passo, - disse Sandokan. - D'altronde non ci avanzeremo che con estrema prudenza e cercheremo di non destare sospetti. È necessario piombare improvvisamente sulla capitale e prenderla d'assalto con un colpo di mano. - Tu farai, sahib, quello che meglio crederai, - disse Khampur. - I miei uomini ti seguiranno dovunque. Vado a far battere il tumburà, onde domani siano qui tutti i guerrieri della montagna. - S'inginocchiò dinanzi a Surama e le baciò replicatamente l'orlo della veste, omaggio che si rende solo ai sovrani e alle principesse del sangue; e dopo d'ager augurato a tutti la buona notte, uscì rapidamente rientrando nella cittadella.

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

"E non ci si può abbassare di più?" "Sì, ma dovremmo sacrificare una parte del nostro gas, e capirete che per noi è troppo prezioso per lasciarlo fuggire." "A quale distanza ci troviamo dal banco di Terranova" "A centosettanta miglia." "E ritorniamo?" "Con una velocità di sessanta miglia all'ora. Continuando in questa nuova direzione, avvisteremo il Labrador fra quattro o cinque ore." "Dannato vento! Speriamo che cambi. Mister Kelly, quantunque non mi dispiaccia di andare al polo invece che in Europa. Sarebbe una magnifica scoperta." "Che per il momento lascio ad altri, O'Donnell, non avendo portato con me vesti adatte a quei terribili freddi, né una cucina portatile per farci qualche bevanda calda. Se il vento ci spinge in quella direzione, scenderemo alla prima terra e riprenderemo il tentativo più tardi, su un'altra costa." "Mi spiacerebbe assai." "E anche a me. Speriamo però che la corrente si ristabilisca col levar del sole." "Che la vostra corrente si mantenga a 3500 metri?" "Può essere che al di sotto di quell'altezza ne esista un'altra, quella che ora ci porta al nord-ovest." "Gettiamo zavorra e innalziamoci." "Sarebbe una grande imprudenza, O'Donnell: ci priveremmo di un peso che più tardi potrebbe esserci di estrema necessità, e quando il sole dilaterà il nostro idrogeno, noi saliremmo a tale altezza da non poter resistere. A 8000 metri la rarefazione dell'aria è mortale, o poco meno; a 9000 nessuno di noi resisterebbe." "Lasciamo dunque che il vento ci porti al nord-ovest, e domani vedremo." "Continuiamo a scendere?" "Sì," rispose l'ingegnere. "E da questa discesa spero assai di fermare l'aerostato. Eccoci già a 2500 metri, e non ci arrestiamo ancora: l'idrogeno si raffredda rapidamente: tanto meglio!" Infatti il pallone, o meglio i due palloni, a causa dell'umidità della notte, che li rendeva più pesanti, e del freddo acuto che restringeva l'idrogeno, calava a vista d'occhio, facendo dei bruschi salti. Si arrestava un momento, poi scendeva, come se le sue forze venissero improvvisamente meno e l'idrogeno perdesse la sua potenza ascensionale, poi tornava a fermarsi per riprendere, qualche minuto dopo, le sue ricadute. O'Donnell, quantunque avesse grande fiducia in quel vascello aereo e nel suo inventore, cominciava a diventare inquieto. In quanto a quel poltrone di Simone, ad ogni ricaduta mandava sordi gemiti e guardava con occhi smarriti la cupa superficie dell'oceano, che si avvicinava rapidamente. Quel povero diavolo si riteneva ormai perduto ed aspettava, con inesprimibile angoscia, il momento in cui l'aerostato sarebbe stato inghiottito. L'ingegnere invece era tranquillo, anzi benediceva in cuor suo quell'umidità e quel freddo, che gli permettevano di gettare le sue ancore e arrestare quella marcia verso regioni affatto opposte a quelle che sperava di raggiungere. Alle 9 di sera l'aerostato non era che a mille metri dall'oceano. Si udivano distintamente i sordi muggiti delle cupe ondate, e si distingueva nettamente la spuma che le copriva. Alle 10 era a 500 e alle 11 e un quarto a 300. La discesa si arrestò: l'equilibrio si era ristabilito. "Giù le ancore" disse l'ingegnere. "Avremo funi sufficienti?" chiese O'Donnell, respirando liberamente. "Unendo le tre funi delle guide-ropes e tutte le altre, ne avremo a esuberanza." "Non scenderà più l'aerostato?" "Non credo: anzi lo alleggeriremo d'un peso notevole e lo costringeremo, per di più, a fermarsi. Aiutatemi, O'Donnell." I due grandi coni d'alluminio, della capacità totale di quattrocentosessanta litri, vennero trasportati uno a prua e l'altro a poppa e legati alle lunghe corde, che erano state rapidamente annodate. L'ingegnere e l'irlandese, aiutati da Simone che si era finalmente deciso a muoversi, calarono nell'oceano i due grandi coni, i quali tosto si capovolsero, riempiendosi d'acqua. L'aerostato scaricato di quel peso, tese subito le due corde e interruppe bruscamente la sua fuga verso il nord-ovest. I due immensi fusi virarono di bordo e si piegarono verso la direzione del vento; ma i due coni tennero fermo, opponendo una resistenza incredibile. Per alcuni istanti il vascello aereo rimase perfettamente immobile; poi il vento, che urtava con violenza le sue immense superfici, si diede a trascinarlo nella direzione primitiva. Ma la velocità della marcia era minima: l'ingegnere constatò che l'aerostato percorreva a mala pena tre miglia all'ora. "Questo risultato sorpassa le mie previsioni" disse. "In una sola ora di buon vento possiamo riguadagnare ciò che perdiamo in otto o dieci ore di marcia contraria. Volete ora un consiglio, O'Donnell?" "Parlate, Mister Kelly." "Avvolgetevi in una grossa coperta di lana e dormite, finché Simone veglia. Non corriamo alcun pericolo e possiamo chiudere gli occhi in attesa del nostro quarto di guardia." "Mi terrete compagnia?" "Fino alla mezzanotte. Alle quattro del mattino voi mi sostituirete." "Non domando di più. Buona notte, Mister Kelly, e se vi occorre qualche cosa, tiratemi le gambe senza riguardo, o fatemele tirare da Simone." I due aeronauti si avvolsero nelle loro coperte per ripararsi dall'umidità e dal freddo della notte e s'addormentarono profondamente, mentre il Washington filava lentamente verso nord-ovest, trascinando le due ancore, che fendevano le onde con sordi fragori. A mezzanotte Simone, che a poco a poco riprendeva coraggio e che non aveva osato chiudere gli occhi per tema di svegliarsi in fondo all'oceano, chiamò l'ingegnere. "Nulla di nuovo?"chiese questi al negro. "Nulla, massa" rispose l'interrogato. "Andiamo sempre verso il nord-ovest?" "Sì." "Va a dormire, e non fare brutti sogni." Si sedette a poppa del battello, accese una sigaretta e gettò uno sguardo sull'oceano, che brontolava a meno di 250 metri di distanza, mentre il raffreddamento dell'idrogeno continuava con l'abbassarsi della temperatura notturna. Nessun lume si scorgeva sulla nera superficie dell'Atlantico. Solo all'orizzonte le acque riflettevano il primo quarto della luna, tingendosi di una luce biancastra, e la luce rossastra od azzurrognola delle stelle prossime al tramonto. Il silenzio era solamente rotto dal fragore prodotto dalle ancore, che cercavano di opporre resistenza al vento, il quale spingeva l'aerostato e dai brontolii sordi delle onde. Alzò il capo e vide i due immensi fusi dondolarsi lentamente con le punte volte verso il nord-ovest. Il vento produceva dello pieghe sulla loro superficie, ingolfandosi nella seta; ma era debole e non poteva produrre alcun guasto. L'ingegnere avrebbe potuto eliminarle, gonfiando i due palloncini con la piccola pompa premente, ma non essendovi alcun pericolo, sarebbe stata una fatica vana. Più tardi, il calore solare si sarebbe incaricato di rendere lisce quelle superfici. L'ingegnere continuò a fumare tranquillamente, dolcemente cullato dalla navicella, che il vento faceva oscillare, in attesa di venire sostituito dall'irlandese, il quale russava sonoramente sotto un banco, strettamente avvolto nella sua coperta di lana. Già verso l'oriente una luce incerta cominciava ad apparire, tingendo il cielo di riflessi madreperlacei e facendo impallidire gli astri, quando l'ingegnere fu bruscamente strappato dalle sue meditazioni da un lontano muggito, che pareva si avvicinasse rapidamente. Si alzò e guardò sotto di sé; ma nulla scorse sulla nera superficie dell'oceano. Girò intorno lo sguardo e vide, verso l'ovest, tre punti luminosi solcare l'orizzonte con fantastica celerità. "Uno steamer," mormorò "una nave che va in Europa, o che si dirige verso gli stabilimenti della baia di Hudson." Ad un tratto mandò un grido. Una fiamma rossa era balenata fra quei tre punti luminosi, seguita poco dopo da una detonazione, e un proiettile era passato, fischiando, fra i due aerostati, ricadendo in mare con un sordo tonfo.

I naufraghi, lungi dal calmarsi a quella minaccia, inferocirono maggiormente: si precipitarono sulle funi e diedero una tale strappata, da abbassare l'aerostato di parecchi metri. "Tagliate, O'Donnell!" gridò l'ingegnere. L'irlandese con due colpi di scure assestati sui bordi della navicella, sui quali poggiavano le due funi, liberò l'aerostato, il quale fece un balzo in aria. Vedendo fuggire e precipitare le funi, i naufraghi emisero urla feroci. I due uomini armati alzarono le armi e fecero fuoco. Una palla passò fischiando rasente il bordo poppiero della navicella e si perdette altrove; l'altra non fu udita. O'Donnell, furibondo, armò una carabina, e la puntò contro la zattera, ma l'ingegnere lo trattenne. "È inutile" disse. "Lasciateli: la fame e la sete non ragionano." "Sono canaglie, Mister Kelly, che non conoscono la riconoscenza. Avrei cacciato ben volentieri una palla nel corpo a quel brutale Mac-Canthy." "È lui che voleva mangiarmi" disse il mozzo. "Ma spero che sarà lui il mangiato, Walter" disse O'Donnell. Il Washington intanto s'innalzava rapidamente, alleggerito com'era di quei duecento e più metri di funi e di coni. I naufraghi nondimeno continuavano le loro minacce e tiravano coi loro fucili, quantunque l'aerostato fosse ormai fuori portata. La loro rabbia parve che non avesse più limiti, dopo che si erano accorti della presenza di Walter, e si udiva la rauca voce di Mac-Canthy che urlava: "Scendi, cane di un mozzo!" Vedendo il Washington dirigersi verso il sud, quegli uomini, che parevano diventati pazzi, si precipitarono sulla vela, che in un istante fu bracciata sul filo del vento, poi s'armarono di tavole e di pennoni, mettendosi ad arrancare con furore: però dovettero ben presto convincersi dell'inutilità dei loro sforzi. La distanza cresceva rapidamente, di secondo in secondo: le loro grida divennero fioche, poi non si udirono più; la zattera rimpicciolì a poco a poco e finalmente fu perduta di vista. "Che l'oceano v'inghiotta, canaglie!" esclamò O'Donnell che era ancora esasperato. "Bel modo di ricompensarci dei viveri che abbiamo loro gettato." "Le privazioni li hanno resi feroci, O'Donnell disse l'ingegnere. "Nel loro caso noi, forse, ci saremmo condotti egualmente." "Che il diavolo se li porti! Ecco delle àncore perdute, che forse rimpiangeremo." "Questo é vero, O'Donnell, poiché ormai noi non possiamo più fermarci. Siamo in balìa dei venti." "Perdita grave e ... " Si era arrestato col viso in aria, fiutando l'atmosfera. Ad un tratto impallidì ed emise una sorda imprecazione. "Mister Kelly" disse con voce alterata "sentite odore di gas." "Sì, sì" disse l'ingegnere. "Che una valvola si sia aperta o che ... ?" "Una valvola? ... È impossibile. O'Donnell. Qualcuno ha guastato i nostri palloni." "Una palla di quelle canaglie, forse?" Kelly, che non era meno agitato dell'irlandese, salì sull'asta che sosteneva la scialuppa, e ascoltò con profondo raccoglimento. In alto, udì dei leggeri scoppiettii. "Infami!" esclamò. "E io li ho soccorsi!" Ridiscese in preda ad una sorda collera: se la zattera si fosse trovata ancora sotto il pallone, non avrebbe forse più trattenuto O'Donnell, che voleva rispondere alle palle di quei miserabili con la grossa carabina. "Ebbene?" chiese l'irlandese con ansietà. "L'idrogeno fugge" rispose l'ingegnere. "Ci hanno traversato un pallone quei naufraghi?" "Sì e forse tutti e due." "Sono ferite gravi?" "Sì, O'Donnell, perché fra poco quei fori s'ingrandiranno, e noi cadremo sull'oceano." "Se provassimo a turarli? Non v'è qualche mezzo?" "Sì, cucirli, ma chi salirà fino ai fusi?" "Io, Mister Kelly." "No, Mister O'Donnell" disse il giovane Walter, "è affar mio." "Non avrai paura delle vertigini, ragazzo mio?" chiese l'ingegnere . "Sono un mozzo, Mister Kelly." "Ma ci troviamo ad una spaventevole altezza, Walter: a 3300 metri." "Non avrò paura" rispose il ragazzo con voce ferma. "Ma può scivolarti una mano o un piede e tu potresti piombare nell'oceano" disse O'Donnell. "Lascia che vada io." "Voi siete troppo pesante, O'Donnell" disse l'ingegnere "e potete squilibrare il fuso. Preferisco che salga Walter, che non pesa molto." "Grazie, Mister Kelly" rispose il ragazzo. L'ingegnere frugò in una delle casse ed estrasse del filo di seta, degli aghi e una scatoletta contenente una vernice assai densa e molto attaccaticcia, che mandava un acuto odore di resina. Consegnò quei diversi oggetti al mozzo, dicendogli: "Non perdete tempo, mio bravo ragazzo. Ogni minuto che passa è un metro cubo di gas che sfugge." Walter intascò gli oggetti, si levò le scarpe per non guastare la seta dei palloni e per essere più sicuro dei piedi, poi si aggrappò alle funi e s'arrampicò coraggiosamente sull'asta sostenente la scialuppa. "Hai paura?" gli chiesero O'Donnell e l'ingegnere. "Se ti coglie un principio di vertigine, scendi." "Il vuoto non mi spaventa" rispose il ragazzo con voce ferma. S'aggrappò alla rete e s'innalzò sopra quello spaventevole abisso aperto sotto i suoi piedi. Di maglia in maglia raggiunse il margine inferiore del fuso di tribordo e si issò sul suo fianco, cercando i buchi aperti dalla palla. Il fuso, sotto quel peso aggrappato al suo fianco, si spostò, inclinandosi verso l'esterno, ma essendo solidamente legato all'altro non si rovesciò. "Ci sei?" chiese l'ingegnere, che non scorgeva più il mozzo. "Sì, Mister Kelly" rispose Walter. "È un buco o uno strappo?" "E uno strappo lungo sei centimetri; e ne vedo uno più lungo sull'altro fuso." "Puoi turare le ferite?" "Lo spero, Mister Kelly." Il mozzo si mise subito all'opera. Le palle, invece di aver attraversato i fusi aprendo due fori, come dapprima l'ingegnere aveva sospettato, li aveva sfiorati di fianco, producendo però due strappi considerevoli, attraverso i quali il gas fuggiva con grande impeto, scoppiettando. Si potevano turare ma, prima che l'operazione fosse terminata, una parte considerevole di idrogeno doveva fuggire, compromettendo grandemente la stabilità del Washington il quale cominciava ad abbassarsi rapidamente, inclinandosi sul tribordo. Walter, legatesi un fazzoletto sulla bocca e sul naso per non venire asfissiato dal gas che irrompeva attraverso l'apertura, si mise rapidamente al lavoro, mentre l'ingegnere e O'Donnell preparavano i cilindri contenenti l'idrogeno compresso per iniettarlo nelle manichette dei fusi. Malgrado il mozzo cucisse rapidamente, il Washington si piegava sempre più e s'abbassava rapidamente, anzi precipitava. In cinque minuti era calato di 1500 metri e non si arrestava ancora. L'ingegnere che vedeva avvicinarsi l'oceano con grande rapidità, aprì il primo cilindro e lanciò nel fuso riparato i primi quaranta litri di idrogeno. Il Washington si raddrizzò e la sua discesa si arrestò, anzi si mise a salire, dapprima lentamente, poi con una certa rapidità, finché raggiunse i 3200 metri. Il mozzo aveva terminato la cucitura. La coprì con parecchie pennellate di vernice, si assicurò che non vi fossero altre aperture, poi ridiscese, passò altro fuso e ripeté l'operazione sulla seconda ferita, che era più grave dell'altra. Pareva fosse stata fatta con un proiettile tagliente. "Hai finito?" gli chiese l'ingegnere. "Sì, Mister Kelly." "Grazie, mio bravo ragazzo. Rinforziamo anche il secondo fuso." "Resisteranno le cuciture?" cinese O'Donnell. "Non ho la pretesa che non lascino sfuggire il gas" disse l'ingegnere, "ma infine la perdita sarà minore e, forse, potremo sostenerci in aria qualche giorno ancora. "E poi? ... il vento ci spinge sempre al sud, Mister Kelly e la costa è lontana." L'ingegnere non rispose, ma emise un profondo sospiro.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682219
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il conte di quando in quando fissava il bucaniere e questi, quasi temesse che egli indovinasse la causa della sua profonda emozione, si affrettava ad abbassare lo sguardo o a volgere altrove il viso, con la scusa di dare al suo arruolato qualche ordine. Quando il pranzo fu terminato, Buttafuoco offrí ai suoi ospiti dei grossissimi sigari da lui stesso fatti con tabacco probabilmente rubato nelle piantagioni spagnuole; poi disse a Cortal, che aveva mangiato fuori della capanna accanto al fuoco: - La fiasca d'onore: vi è un conte fra noi, amico. L'arruolato frugò sotto un banano e ne trasse un'enorme zucca, parecchi bicchieri di corno di bufalo e portò l'una e gli altri nella catapecchia. - Signor conte, - disse il bucaniere con una certa amarezza - io non posso offrirvi né dello champagne, né del Borgogna, né del Medoc, perché non siamo in Francia. Qui non abbiamo che meschina aguardiente o del megeol, perché l'isola non ci dà niente di meglio. È la mia provvista che talvolta cerco a prezzo della mia vita che se ne va ... quella provvista che certe notti mi è necessaria per dimenticare il passato, per non piangere ... Signor conte, accettate. - Voi siete commosso, Buttafuoco! - gli disse il signor di Ventimiglia. - Si può esser forti, signor conte, - rispose il bucaniere - si può aver varcata la linea equatoriale; si può aver giurato di aver dimenticato il proprio paese ... la mia Normandia ... il mio castello ... una sorella amata e che per me è ormai morta per sempre ... il padre gentiluomo che riposa laggiú accanto a mia madre sotto le zolle dell'abbazia ... Morte dell'inferno! Bevete, signor conte ... berrò anch'io! Afferrò rabbiosamente la tazza di corno e la vuotò d'un fiato, gridando poi: - Ancora, Cortal, ancora! Bisogna che affoghi i ricordi lontani! Ah, la triste sorte che mi ha colpito! Il viso del fiero bucaniere si era spaventosamente alterato. Non piangevano i suoi occhi, eppure s'indovinava che faceva degli sforzi supremi per trattenere le lacrime, vergognoso forse di tradire il segreto delle sue pene. - Bevete, signor conte, - riprese dopo qualche istante, vuotando un'altra tazza. - Non avrei mai creduto di dover ospitare sotto questa miserabile capanna un gentiluomo della lontana Europa. L'avevo sperato un giorno, era una follia certamente ... un uomo che fosse venuto qui a trovare me per caso o per combinazione. - Continuate, Buttafuoco, - disse il conte - siete fra amici. Il bucaniere vuotò il terzo bicchiere di aguardiente, poi, facendo un gesto di ira terribile, riprese con voce strozzata: - Parigi maledetta! Sirena infame che mi hai stretto fra le tue spire! Meglio sarebbe stato che io non ti avessi mai veduta! Le tue mille e mille seduzioni hanno fatto di me un miserabile bucaniere, un macellaio delle foreste di San Domingo! ... Maledetto giuoco! Sei stato la mia rovina! - Ma chi siete voi? - chiese il conte, profondamente commosso dall'intenso dolore che traspariva sul viso del bucaniere. - Lo vedete, - rispose Buttafuoco, ridendo nervosamente - un cacciatore di buoi ... un miserabile avventuriero. Da quando ho passata la linea, io non ho piú patria, non ho piú famiglia, non ho piú nobiltà, piú nulla fuorché il mio archibugio che tutti i giorni uccide per non uccidere il mio cuore. Per la quarta volta vuotò la tazza che l'arruolato gli aveva riempita. - Gli anni sono passati, - riprese il disgraziato, serrando la fronte fra le mani, come se cercasse di comprimere i pensieri che lo tormentavano - Eppure vedo ancora il mio castello, là, sulle rive dello stagno, ergersi superbo con i suoi pinnacoli e le sue torri; vedo ancora in certe notti passeggiare sulle terrazze quella dolce fanciulla che era mia sorella e per la quale avrei dato la vita pur di vederla felice ... Un barone della Bretagna la fece sua sposa ... Sia felice, ed ignori per sempre la sorte del suo disgraziato fratello ... Cortal, dammi ancora da bere. Ho sete, una terribile sete! Rimase alcuni istanti silenzioso, fissando il bicchiere colmo con gli occhi dilatati, cupo, fremente, poi disse: - Eh, la vita talvolta è cosí, se si è preda d'un genio maligno. Eppure quanto è stata terribile la discesa! Meglio sarebbe stato che sui vent'anni un colpo di spada m'avesse finito fra i pometi della Normandia! Cosí non avrei veduta mai Parigi, almeno non sarei disceso, di gradino in gradino, fino nel fango d'una prigione ... non avrei macchiato il blasone dei miei avi ... non avrei dimenticata la mia Francia ... non avrei cambiato nome ... non sarei diventato un avventuriero ... non sa rei fuggito come un ladro ... e non avrei fatto piangere mia sorella, povera creatura! - Buttafuoco! - gridò il conte. Il bucaniere si era alzato di scatto, con gli occhi dilatati, il viso bagnato di sudore. Staccò da un palo della capanna il suo archibugio, poi uscí rapidamente, scomparendo fra gli alberi. - È sempre cosí il tuo padrone? - chiese il conte all'arruolato che stava fermo sulla soglia della capanna. - Io non l'ho mai veduto sorridere - rispose Cortal. - È sempre triste - E non sarà il solo - disse il guascone. - Quanti uomini, che un giorno furono ricchi e stimati, si trovano fra questi bucanieri! - E quanti gentiluomini ha rovesciato l'Europa in America! - rispose il corsaro. - È vero, signor conte - rispose il guascone con un sospiro. Io peraltro ho dimenticato presto Pau e il mio castelluccio semidistrutto. Io non ho veduto Parigi, né ho provato le sue seduzioni fatali. - Rovina di tanta gente dabbene! - disse il conte. - Vale meglio la Provenza! A sua volta si era alzato ed era uscito dalla capanna, cercando il bucaniere. Il cacciatore era scomparso, ma udí parecchi colpi di fucile tra le macchie. Aveva appena terminato il sigaro e stava per rientrare nella capanna, quando vide giungere Buttafuoco piú tetro che mai. Osservandolo attentamente, s'accorse che il fiero cacciatore aveva gli occhi rossi; come se avesse lungamente pianto. - È passata la tempesta? - gli chiese il signor di Ventimiglia con voce dolce. - Gli uragani durano poco a San Domingo - rispose il bucaniere con un triste sorriso. - Bah, tutto è passato, tutto è stato dimenticato! Ho ucciso due maiali selvatici, laggiú sul margine delle paludi ... è il mio mestiere. Il conte gli porse la destra: - Stringetela! - disse. - No, signor conte, io non sono piú degno di porgere la mano ad un onesto gentiluomo. Qui non siamo in Normandia. - Stringetela, vi dico. - Sí, non ora però. Quando noi ci lasceremo per sempre e vi dirò chi sono stato io un giorno ... forse allora ... Signor conte, fra quattro ore il sole tramonterà e la villa della marchesa di Montelimar è lontana. Volete che ci mettiamo in cammino? Non giungeremo a San Josè prima dell'alba, ed in questo paese è meglio marciare di notte. Le cinquantine di quando in quando perlustrano queste foreste e se non sono pericolose le loro alabarde, sono terribili i cagnacci che le accompagnano. - Sono pronto a seguirvi e ad obbedirvi - rispose il corsaro. - Siete ben sicuro che la marchesa non vi tradirà? Io conosco quella bella signora, avendola qualche volta incontrata nei dintorni della sua fattoria. - È una perfetta gentildonna che mi ha già salvato una volta. - Allora basta - rispose il bucaniere. - Chiamate i vostri compagni, signor conte, e dite che si prendano degli archibugi. Ne ho sempre tre o quattro di riserva e tutti di buon calibro, con palle di un'oncia. Mendoza ed il guascone, udendo il comando del conte, erano accorsi, seguiti dall'arruolato, il quale, come se avesse indovinato il pensiero del suo padrone, portava dei fucili e delle munizioni. - In marcia, amici - disse il signore di Ventimiglia. - Buttafuoco ci servirà da guida. Il bucaniere s'accostò all'arruolato, il quale lo interrogava con lo sguardo. - Tu rimarrai qui - gli disse con ruvida bonarietà - e aspetterai il mio ritorno. Che io stia lontano una settimana od un mese, non ti dar pensiero di me. Se gli spagnuoli ti minacciano, rifugiati nella colonia del capo Tiburon e là ci ritroveremo. Guardati dalle cinquantine, e abbi cura dei miei cani. Addio! Chiamò con un fischio stridente il suo bracco favorito e si mise in cammino a fianco del conte e seguito dal guascone e da Mendoza, calandosi il cappellaccio sulla fronte per meglio ripararsi dagli ardentissimi raggi del sole. Attraversò la macchia che serviva a nascondere la sua capanna e dopo essersi orientato con l'astro diurno, si cacciò risolutamente tra le immense boscaglie che si prolungavano verso occidente. Il bracco lo procedeva, fiutando di quando in quando il terreno, e volgendo la testa come per chiedere se era sulla buona via. - Avete la vostra nave, signor conte? - chiese il bucaniere, dopo aver percorso qualche miglio. - Deve attendermi al capo Tiburon - rispose il corsaro. - La villa della marchesa di Montelimar non si trova che a breve distanza dalla rada. La potrete scorgere dalle finestre della fattoria. - Non verranno a cercarci colà, le cinquantine? - Chi lo sa? Battono l'isola in lungo ed in largo, e non si sa mai dove si fermano. La marchesa però è troppo potente a San Domingo per non proteggervi. - Ne ho avuto la prova. - Allora potrete attendere tranquillamente la vostra nave, senza correre il pericolo di farvi prendere - rispose il bucaniere, sorridendo. - So quanto vale quella signora. - La conoscete? - L'ho veduta una sola volta, mentre attraversava a cavallo una foresta e le ho reso, anzi, in quell'occasione, un piccolo servigio. Se non mi fossi trovato sulla sua strada e non le avessi ammazzato il cavallo con un buon colpo di archibugio, non so se la signora di Montemilar sarebbe ancora viva, e se ... Il bucaniere si era interrotto, mentre il suo bracco scuoteva gli orecchi e puntava. - Che cosa c'è? - chiese il corsaro. - Nulla per ora - rispose Buttafuoco la cui fronte si era leggermente aggrottata. - Mi sembrate inquieto. - Posso essermi ingannato - Anche il vostro cane? Il Bucaniere stette un momento silenzioso, osservando attentamente il suo bracco il quale si era fermato e non cessava di alzare e di abbassare le orecchie. - Mi è sembrato d'aver udito un lontano latrato. - Che qualche cinquantina ci dia la caccia? - Può darsi, signor conte. Lasciamo i terreni scoperti e gettiamoci nella foresta. Là saremo piú sicuri.

IL RE DEL MARE

682268
Salgari, Emilio 4 occorrenze

. - Fate abbassare la bandiera di combattimento. Il comandante comprenderà che voi avete accettato la sua proposta e vi manderà subito i prigionieri. Sandokan fece un segno a Sambigliong e pochi istanti dopo il nastro rosso veniva fatto scendere in coperta. Quasi nel medesimo istante una seconda scialuppa si staccava dal fianco del piccolo incrociatore: vi erano sopra Darma e Yanez. - sir Moreland, - disse Sandokan, - dove vi ha raccolti quella nave? - A Mangalum, - rispose l'anglo-indiano, senza levare gli occhi dalla scialuppa che s'accostava rapidissima. - Vi eravate salvati sullo scoglio? - Sì, - rispose il capitano, che pareva avesse perduta la sua abituale cordialità e che fosse in preda a delle profonde preoccupazioni. La seconda scialuppa era giunta. Yanez e Darma avevano salito precipitosamente la scala, cadendo l'uno nelle braccia di Sandokan e la seconda in quelle di suo padre. Sir Moreland, pallidissimo, guardava con occhio triste quella scena. Quando si furono separati, si volse verso Sandokan, chiedendogli: - Ed ora mi tratterrete ancora prigioniero? La Tigre della Malesia stava per rispondere, quando Yanez lo prevenne. - No, sir Moreland, voi siete libero. Tornate a bordo dell'incrociatore. Sandokan non aveva nascosto un gesto di stupore. Probabilmente non era quella la risposta che intendeva dare all'anglo-indiano, nondimeno non replicò. - Signori, - disse allora l'anglo-indiano con voce grave, fissando bene in viso Sandokan e Yanez, - spero di rivedervi presto, ma allora saremo terribili nemici. - Vi aspettiamo, - rispose freddamente Sandokan. S'accostò a Darma e le tese la mano, dicendole con accento triste: - Che Brahma, Siva e Visnù vi proteggano, miss. La fanciulla che appariva profondamente commossa, strinse la mano senza parlare. Pareva che avesse un nodo alla gola. L'anglo-indiano finse di non vedere le mani che Yanez, Sandokan e Tremal-Naik gli porgevano, salutò militarmente e scese rapidamente la scala senza volgersi indietro. Quando però la scialuppa che lo conduceva verso il piccolo incrociatore passò dinanzi la prora del Re del Mare alzò la testa e vedendo Darma e Surama sul castello, le salutò col fazzoletto. - Yanez, - disse Sandokan, traendo da parte il portoghese. - Perchè lo hai lasciato andare? Egli poteva diventare un ostaggio prezioso. - Ed un pericolo per Darma, - rispose Yanez. - Essi si amano. - Me n'ero accorto. È un bel giovane e valoroso, ha sangue anglo-indiano nelle vene al pari di Darma ... chissà? Dopo la campagna. Stette un momento come immerso in un profondo pensiero, poi riprese: - Cominciamo le ostilità: gettiamoci sulle vie di navigazione e cerchiamo, finchè le squadre ci cercano nelle acque di Sarawak, di fare il maggior male possibile ai nostri avversari.

Yanez aveva fatto abbassare la scala. Dieci minuti dopo l'imbarcazione abbordava la grossa nave e i due americani salivano frettolosamente. - Dunque? - chiesero ad una voce Yanez ed il comandante, con ansietà. - Siamo riusciti al di là delle nostre speranze, signori, - rispose uno dei due. - Sbrigati a spiegarti, Tom, - disse lo yankee. - Sai dove sono state condotte quelle persone? - Sì, capitano. L'ho saputo da un nostro compatriotta che montava quella scialuppa a vapore di cui vi ha parlato il signore, - disse, accennando a Yanez. - Si è fermata a Labuan quella scialuppa? - chiese il portoghese. - Solo pochi minuti per rinnovare la provvista di carbone e per sbarcare quel nostro compatriotta a cui una palla aveva spezzato un braccio, - rispose il marinaio. - Mi disse quell'uomo che a bordo vi era un indiano, una fanciulla e cinque malesi. - E dove li hanno condotti? - A Redjang, nel fortino di Sambulu. - Nel sultanato di Sarawak! - esclamò Sandokan. - Allora è stato quel rajah che li ha fatti rapire? - No, signore. Il nostro compatriotta ci ha detto che è stato un uomo che si fa chiamare il Re del Mare ma che pare abbia l'appoggio, più o meno velato, del governatore di Labuan e del rajah. - Non sa chi è costui? - chiese Yanez. - Lui stesso lo ignora, non avendolo mai veduto. Ma tuttavia ha assicurato che quell'uomo è potente e che è amico del rajah - disse il marinaio. Si volse verso il comandante americano: - Volete sbarcare qui? - gli chiese. - Preferirei piuttosto qui che su di un'altra costa. - Non avrete dei fastidi da parte degli inglesi, dopo quello che avete fatto? - Nessuno mi conosce, signore, e poi sono suddito americano e gli inglesi non oseranno molestarmi. D'altronde inventerò una storiella qualunque per spiegare la mia presenza sulle coste di Labuan: un naufragio per esempio avvenuto molto al largo, la presa della mia nave da parte dei pirati bornesi o qualcos'altro. Non inquietatevi per me. - V'incarichereste di affidare una lettera all'ufficio postale di Victoria pel governatore di Labuan? - Figuratevi se vi negherei un tal favore, signore. - Vi avverto che si tratta d'una dichiarazione di guerra. - Me l'ero immaginato, - rispose l'americano. - Mi guarderò dall'avvertire il governatore di averla impostata io. - Yanez, - disse Sandokan, volgendosi all'amico, - preleva dalla mia cassa, che si trova nella mia cabina della Marianna, mille sterline che regalerai all'equipaggio americano e fa' preparare le scialuppe onde sbarchi. Scendo un momento nel quadro a scrivere la lettera pel governatore. Quando tornò sul ponte, l'equipaggio americano che doveva lasciare la nave, escluso il personale di macchina ed i due quartiermastri cannonieri che avevano già firmato l'arruolamento, lo salutò con un formidabile: - Hurrà alla Tigre della Malesia! Hurrà! Hipp! Hipp! Hipp! Sandokan reclamò con un gesto un breve silenzio, poi fatti salire a bordo della nave i comandanti dei prahos e la maggior parte dei suoi Tigrotti, lesse ad alta voce: Noi Sandokan, soprannominato Tigre della Malesia, ex principe di Kini-Ballon e Yanez de Gemerà legittimi proprietarii dell'isola di Mompracem, notifichiamo al signor governatore di Labuan che da oggi dichiariamo la guerra all'Inghilterra, al rajah di Sarawak ed all'uomo che è da loro protetto. Da bordo del Re del Mare: 24 maggio 1868. SANDOKAN E YANEZ DE GOMERA Un urlo terribile, selvaggio, si scatenò come un uragano dai petti delle terribili tigri di Mompracem. - Viva la guerra! Morte ed esterminio alle giacche rosse! - Signore, - disse il comandante americano, tendendo a Sandokan la destra, - vi auguro di dare a quel prepotente di John Bull una dura lezione. Della potenza della nave che v'ho venduto, ne rispondo pienamente e nessun'altra che si trovi in questi mari potrà tenervi testa. Prima però di lasciarvi vi voglio fare una domanda e darvi un consiglio. - Parlate, - disse Sandokan. - La nave non possiede che cinquecento tonnellate di carbone, provvista che, anche economizzata, non potrà durarvi più d'un mese. Servitevi più che potete delle vele, perchè dopo la vostra dichiarazione di guerra, avrete chiusi i porti olandesi e del sultanato di Bruni che si manterranno indubbiamente neutrali e che si rifiuteranno di provvedervi. - Avevo già pensato a questo, - rispose Sandokan. - Mandate, quindi, prima che la guerra scoppi, la vostra Marianna a caricare carbone a Bruni e datele un appuntamento in qualche punto della baia di Sarawak onde la vostra nave non rimanga senza combustibile in sul più bello della guerra. Il carbone per voi non sarà meno prezioso della polvere, ricordatevelo. - In caso disperato andrò a saccheggiare i depositi che gli inglesi hanno su certe isole pel rifornimento delle loro squadre, - rispose Sandokan. - Ed ora, signori, buona fortuna, - disse l'americano, stringendo energicamente le mani ai due antichi pirati di Mompracem. Mise la lettera nel portafoglio e scese la scala. Il suo equipaggio aveva già preso posto nelle imbarcazioni che erano guidate da numerosi pirati. La squadriglia prese subito il largo, dopo un altro fragoroso urrah. Mezz'ora dopo, le imbarcazioni, sbarcato l'equipaggio americano sulla spiaggia di Labuan, fecero ritorno. La Marianna ed i prahos avevano sciolte le vele, pronti a salpare pel nord e raggiungere il porto amico di Ambong, con equipaggi ridotti, essendo la maggior parte dei loro marinai passati sull'incrociatore. - Ed ora, - disse Sandokan, quando ebbe dato gli ultimi ordini ai comandanti dei legni e che questi si misero in marcia, - andiamo a liberare Tremal-Naik ed abbattere la potenza del rajah di Sarawak, suoi alleati e protetti. Un momento dopo, il Re del Mare, come era stata battezzata la poderosa nave americana, si slanciava a tutto vapore verso il sud, per raggiungere la baia di Sarawak.

Giunte le scialuppe a trenta passi, Yanez diede imperiosamente l'ordine ai marinai inglesi di abbassare la scala, minacciando in caso contrario di far fuoco. A bordo vi fu un po' di esitazione e di confusione. Alcuni marinai erano comparsi sulle murate armate di fucili, come se avessero avuto l'intenzione di opporre resistenza, poi le grida furiose dei passeggeri, i quali non volevano esporsi al pericolo di venire colati a fondo dalle formidabili artiglierie del corsaro, li avevano subito costretti a ritirarsi e la scala era stata calata d'un colpo solo. Yanez, seguito da Tremal-Naik, da Kammamuri e da dodici uomini, si slanciò sulla piattaforma sguainando la sciabola. Il comandante del piroscafo lo aspettava, circondato dai suoi ufficiali, mentre i passeggeri, una cinquantina di persone per lo meno, si affollavano dietro, muti e terrorizzati. Era un bell'uomo, di statura superiore alla media, dal volto energico ed abbronzato dal sole dei tropici, con capelli bruni e barba arricciata, un bel tipo di marinaio, insomma. Vedendo comparire Yanez, colla sciabola sguainata, impallidì, poi corrugò la fronte. - A quale onore devo la vostra visita? - chiese con voce fremente. - Avete veduto i colori della nostra bandiera? - chiese invece il portoghese, salutando ironicamente. - So che i pirati di Mompracem avevano un vessillo rosso con una testa di tigre, un tempo. - Allora permettetemi di avvisarvi che i pirati hanno dichiarata la guerra alla vostra nazione ed al rajah di Sarawak. - Mi avevano assicurato che non corseggiavano più. - Ed era vero, signor mio. Il vostro governo ha provocato le tigri di Mompracem e quelle hanno riprese le armi. - In conclusione, che cosa volete voi? - Accordarvi venti minuti per imbarcarvi sulle scialuppe e colare a fondo la vostra nave. - È una pirateria questa! - Chiamatela come meglio vi piace, ciò non m'interessa, - rispose Yanez. - O obbedire o affondare: scegliete! - Accordatemi qualche minuto onde interroghi i miei ufficiali. - Ve ne ho concessi venti, dopo noi ci ritireremo e l'incrociatore aprirà il fuoco, ci siate o non ci siate a bordo. Sbrigatevi, perchè abbiamo fretta. Il capitano che si frenava a stento, chiamò a consiglio i suoi ufficiali, poi dette l'ordine di mettere in mare le scialuppe e di farvi scendere innanzi a tutto i passeggeri. - Cedo alla forza, non potendo resistervi, - disse poi a Yanez. - Appena però noi avremo approdato a Natuna o a Banguram informerò telegraficamente il governatore di Singapore. - Nessuno ve lo impedirà, - rispose Yanez. - Vi faccio intanto osservare che sono trascorsi dieci minuti e che permetto ai passeggeri e al vostro equipaggio di portare con loro ciò che posseggono. - E la cassa di bordo? - Non sappiamo che cosa farne: se vi dispiace di perderla, prendetevela. I marinai nel frattempo avevano messo in acqua tutte le lance, dopo d'averle fornite di viveri per parecchi giorni, di remi e di vele. Ad un ordine del loro capitano, l'imbarco cominciò, facendo prima scendere le donne, poi i passeggeri. Ultimi furono gli ufficiali che portavano le carte di bordo e la cassa. - L'Inghilterra vendicherà questo atto di pirateria, - disse il capitano del piroscafo che appariva vivamente commosso. Yanez salutò senza rispondere. Quando la nave fu sgombrata, i malesi delle scialuppe salirono a bordo, mentre la scialuppa a vapore del Re del Mare s'accostava rapidamente. Le carboniere furono aperte e lo scarico del combustibile, molto scarso però, dovendo il piroscafo far scalo e rinnovare le provviste a Saigon, cominciò alacremente. Due ore dopo i malesi lasciavano la nave. Le scialuppe montate dall'equipaggio inglese erano ancora in vista. - Due cannonate alla linea d'acqua, - aveva comandato Sandokan. Poco dopo due granate sfondavano le lamiere di babordo del piroscafo, aprendo due squarci immensi, attraverso i quali si precipitò tosto il liquido elemento. Quattro minuti dopo il piroscafo scompariva negli abissi del mar della Sonda, con un frastuono orrendo, essendo le sue macchine scoppiate, ed il Re del Mare riprendeva la crociera, allontanandosi verso il sud-ovest. L'indomani un veliero inglese, subiva l'egual sorte, dopo d'averlo privato d'una parte del suo carico consistente in pesce secco destinato ai porti d'Hainau, e parecchie altre navi, a vela ed a vapore, andarono a tenergli compagnia nei profondi baratri. L'incrociatore batteva indisturbato le linee di navigazione, corseggiando dalle coste del Borneo fino in vista delle isole Anaba, tagliando la via alle navi provenienti dallo stretto di Malacca e dirette nei mari della Cina e del Giappone. Già oltre trenta navi erano state colate a fondo a colpi di cannone o incendiate causando danni enormi alle compagnie di navigazione, quando un giorno un praho bornese che era stato accostato, informò quei formidabili distruttori che una squadra composta di parecchie navi da guerra era stata veduta nelle acque di Natuna. Doveva certo essere quella di Singapore, inviata a cannoneggiare la nave corsara. Lo stesso giorno Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e l'ingegnere Horward tennero consiglio e deliberarono di interrompere la crociera e di muovere senza indugio su Sarawak, a cercare la Marianna che doveva attenderli alla foce del Sedang. Forse i dayaki, i loro antichi alleati, avevano cominciato ad invadere il sultanato; era quindi quello il momento buono di assalire il rajah dal lato del mare e fargli pagare cara la sua cooperazione nella conquista di Mompracem. Il Re del Mare quindi, che aveva le carboniere piene e anche parte della stiva ingombra di combustibile, fece rotta verso il sud-est, desiderando Sandokan fare prima una punta verso la sua isola, per accertarsi se gli inglesi la tenevano ancora. Aveva dato ordine di procedere colla massima velocità, sicchè l'incrociatore divorava miglia e miglia. Per quarant'otto ore navigò verso le coste bornesi, senza far cattivi incontri, quantunque tutti fossero persuasi che una grossa squadra battesse quei mari per sorprenderli. Verso il tramonto del secondo giorno, il Re del Mare giungeva in vista di Mompracem, l'antico rifugio delle tigri della Malesia. Fu con una profonda commozione che Sandokan e Yanez rividero la loro isola, da dove per tanti anni avevano fatto tremare, coi loro prahos, il possente leopardo inglese. Quando raggiunsero il capo orientale, entro cui aprivasi la piccola rada, la notte era già scesa da qualche ora, ma una luna splendida permetteva di discernere l'alta rupe su cui un giorno sventolava orgogliosa la temuta bandiera della Tigre della Malesia. La casa che aveva servito d'asilo ai due capi della pirateria, non si vedeva più. In suo luogo era stato eretto un fortino, probabilmente poderosamente armato per impedire alle ultime tigri erranti sul mare di riconquistare il loro covo. Anche in fondo alla rada si scorgevano confusamente delle opere di difesa, dei bastioni e delle cinte altissime. Sandokan, appoggiato al coronamento di poppa, collo sguardo torbido e la fronte abbuiata, guardava la sua rupe senza parlare; dall'espressione del suo viso si capiva però facilmente che il suo cuore doveva in quel momento sanguinare. Yanez che gli stava presso, gli mise una mano sulla spalla, dicendogli: - Un giorno noi la riconquisteremo, è vero Sandokan? - Sì, - rispose il pirata, tendendo minacciosamente il pugno verso l'isola. - Sì, quel giorno li cacceremo tutti in mare senza misericordia. Volse lo sguardo verso il mare che scintillava superbamente sotto i raggi della luna. - Mi riprende una voglia furiosa di tutto distruggere, - disse poi. - Rivedo sangue dinanzi ai miei occhi. Quasi nel medesimo istante, si udirono verso la prora delle grida: - Là! Là! Guardate! Sandokan e Yanez si erano precipitati verso la murata di babordo vedendo gli uomini di guardia slanciarsi attraverso la tolda: - Dei fanali! - aveva esclamato il portoghese. - Il sangue che cercavo! - gridò Sandokan, nel cui cuore pareva che d'un tratto si fossero risvegliati gli antichi istinti di ferocia. Verso levante, in direzione delle isole Romades, le cui cime si delineavano di già, sei punti luminosi, verdi e rossi, quasi a fior d'acqua e due bianchi in alto, apparivano distintamente. - Sono due navi a vapore, - disse Yanez, - e scommetterei che vengono da Labuan. - Tanto peggio per loro, - disse Sandokan, tendendo i pugni verso quei punti luminosi. - Pagheranno per Mompracem! Da' ordine di alimentare i fuochi. - Che cosa vuoi fare, Sandokan? - chiese il portoghese impressionato dal lampo sinistro che brillava negli occhi del formidabile uomo. - Colarli con tutti quelli che li montano. - Sandokan, non dimenticare che noi siamo corsari e non più pirati. E poi non sappiamo ancora se quelle sono navi da guerra o mercantili e se battono bandiera inglese. Invece di rispondere, la Tigre della Malesia comandò di spegnere i fanali, di far suonare il "tutti in coperta" e dirigere l'incrociatore verso le due navi. Alle undici di sera il Re del Mare virava di bordo a soli cinquecento metri dai due piroscafi, i quali ignari del tremendo pericolo che li minacciava, navigavano a breve distanza l'uno dall'altro, a piccolo vapore. - Sembrano due trasporti, - disse Yanez. - Ascolta, Sandokan. Dai frapponti illuminati, s'alzavano rulli di tamburi, squilli di trombe e dei canti. Pareva che dei soldati si divertissero, approfittando della splendida serata e della tranquillità del mare. Il vento che soffiava da settentrione portava quei clamori fino sul ponte del Re del Mare. - Sono soldati inglesi di Labuan che tornano in patria, - disse Yanez. - Odi, Sandokan? Noi abbiamo udito ancora queste canzoni negli accampamenti inglesi dell'India, durante l'assedio di Delhi. - Sì, sono soldati, - rispose la Tigre della Malesia con strano accento. - Ridono e salutano la patria lontana e la morte invece sta per piombare su di loro. - Non parlare così, amico. - E non pensi tu, Yanez, che quegli uomini m'hanno cacciato dall'isola, dopo d'aver fatto strage dei miei prodi? Si era rizzato in tutta la sua altezza, col viso animato da una collera terribile, gli occhi fiammeggianti. L'antico pirata, la formidabile Tigre della Malesia che per tanti anni aveva bagnato di sangue quei mari, si risvegliava. - Sì, ridete, cantate, intrecciate danze: sono danze funebri! Domani, ai primi albori, le vostre risa vi si geleranno sulle labbra. Troppo presto avete dimenticato il mio piccolo popolo, soppresso e sgozzato sulle spiagge della mia isola. Il vendicatore è qui e vi spia! Il Re del Mare, virato di bordo, si era messo a seguire silenziosamente le due navi, tenendosi ad una distanza di un miglio. Ormai non potevano più sfuggire, non potendo gareggiare con un camminatore di quella forza. Avrebbero potuto bensì poggiare verso le Romades, che erano allora vicinissime e tentare di gettarsi verso la costa, ma anche in tale caso non sarebbero riuscite a salvarsi. Sandokan, curvo sulla murata, non staccava gli sguardi da loro. Pareva calmo, eppure terribili pensieri di vendetta, di stragi, di sangue, dovevano tormentare ancora il suo cervello. - Chi m'impedirebbe, - disse ad un tratto, - di piombare come un avvoltoio su di esse e mandarle fracassate a fondo, a colpi di sperone? E non sarei nel mio diritto? Il mare custodisce bene i segreti che gli si affidano e più nessuno saprebbe nulla! - Non lo farai, per umanità, Sandokan, - disse Yanez. - Umanità! Parola vuota di senso in guerra. Forse che gli inglesi se ne sono ricordati, quando decretavano a sangue freddo la conquista della nostra isola e l'esterminio del nostro piccolo popolo? Che cosa rimangono oggi delle Tigri di Mompracem? Di quelle Tigri che resero a questi inglesi un così grande servigio, liberandoli dalla infame setta dei thugs? Per riconoscenza quegli avidi cenciaiuoli degli oceani ci hanno carpito a tradimento la nostra isola, assalendoci di notte, dieci volte superiori, come se noi fossimo belve feroci, e tu Yanez, parli d'umanità! Credi tu che se domani una squadra inglese piombasse su di noi o sui nostri prahos, ci risparmierebbe? No, ci colerebbe a fondo e ci manderebbe a dormire il sonno eterno negli abissi del mare della Malesia. - Noi potremmo difenderci, Sandokan, disputare la vittoria, mentre quelle due navi nulla potrebbero opporre alle nostre formidabili artiglierie ed al nostro sperone. - È vero, signor Yanez, - disse una voce dietro di loro. Sandokan si era voltato impetuosamente e si trovò dinanzi a Darma. - Tu l'approvi, perchè ... Non compì la frase, che doveva alludere all'amore della giovane coll'anglo- indiano. - Che provino a difendersi anche essi, Darma, - disse poi, cambiando tono. - Non lo potrebbero, signor Sandokan, - ribattè la giovane. - Forse vi sono su quelle due navi cinque o seicento poveri giovani che sospirano il momento di rivedere la loro patria e di abbracciare i loro vecchi genitori. Non fate piangere tante madri, voi che siete sempre stato generoso. - Anche i miei uomini, le vecchie Tigri di Mompracem hanno pianto la notte che venivano cacciati dalla loro isola, - disse Sandokan, con ira repressa. - Piangano dunque le loro donne dell'Inghilterra. Sandokan si era staccato dalla murata volgendosi verso le due torri di poppa dalle cui feritoie uscivano le estremità dei due grossi pezzi da caccia, minacciami l'orizzonte. Stava per aprire la bocca e far scatenare quei due mostri di bronzo, quando Darma posò la sua mano sulla bocca del formidabile pirata: - Che cosa state per comandare, mio generoso protettore? - chiese l'anglo- indiana. - Il segnale della strage. Io voglio mutare quei canti giocondi in un immenso urlo d'angoscia e di morte. Il mare apra i suoi baratri e inghiotta i conquistatori della mia isola. - Non lo farete, signor Sandokan, - rispose Darma, con voce ferma. - Pensate che un giorno potreste venire assalito da forze superiori e vinto. Chi di noi risparmierebbero i vincitori? - Mentre tu non devi dimenticarti, Sandokan, - aggiunse Yanez con voce grave, - che noi a bordo abbiamo due fanciulle, Surama, la prima donna che io abbia amata e questa fanciulla che per salvarla noi abbiamo intrapresa una guerra contro ai thugs e compiuti mille prodigi. Nemmeno esse sfuggirebbero alla rabbia dei vincitori. Vorresti tu, con questo atto inumano, renderle nostre complici? - La Tigre della Malesia aveva incrociate le braccia, guardando ora Darma ed ora Surama, che s'avanzava lentamente in quel momento, scendendo dal ponte di comando. Il lampo terribile che poco prima gli balenava negli occhi, a poco a poco si spegneva. Ad un tratto tese la mano a Yanez, senza parlare, scosse due o tre volte il capo, poi si mise a passeggiare, fermandosi di quando in quando a guardare le navi che continuavano la loro rotta, passando al largo delle Romades. Il Re del Mare le seguiva sempre, mantenendo la distanza. La notte trascorse senza che Sandokan avesse preso un momento di riposo. Aveva continuato a passeggiare in coperta, fra le torri, senza mai aprire bocca. Quando però i primi albori cominciarono a diffondersi pel cielo, fece accelerare la marcia dell'incrociatore, comandando agli artiglieri di prendere i loro posti di combattimento. Con una rapida manovra si portò a poche gomene dalle due navi e fece issare la sua bandiera, appoggiandola con un colpo in bianco. Urla acutissime si erano alzate dai due trasporti, i cui ponti si erano gremiti di soldati, pallidi di terrore. - Mettetevi in panna e arrendetevi a discrezione o vi affondo, - aveva fatto segnalare Sandokan. Nel medesimo tempo aveva fatto puntare le artiglierie sulle due navi, pronto a far eseguire alla lettera la minaccia.

I CORSARI DELLE BERMUDE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Testa di Pietra lo trasse rapidamente da una parte, e mentre gli raccoglieva sulla nuca i suoi lunghi capelli biondi trattenendoli con una specie di cappuccio, che poi il boia avrebbe dovuto abbassare fino al mento, gli disse rapidamente: - Ricordatevi di quanto vi ho detto. Appena la corda si spezza fingete di cadere. - Io! Un corsaro! Un uomo di mare! - Si tratta della pelle, comandante. E poi gli americani fra un'ora saranno sotto il forte e monteranno all'assalto. Vi assicuro che si battono splendidamente. - Allora andiamo a farci impiccare - rispose il Corsaro. Il boia nel frattempo aveva levato da un pacco il famoso laccio e l'aveva esaminato rapidamente. Piccolo Flocco s'intratteneva col cappellano della guarnigione. - Occorre che gli leghi le braccia dietro il dorso? - chiese Testa di Pietra. - È necessario - rispose il boia, porgendogli una cordicella. Poi curvandosi rapidamente su di lui aggiunse: - Fate uno di quei nodi che al più piccolo sforzo cedono. - Me ne intendo di nodi, e potete essere sicuro che appena il capitano cadrà, le sue braccia saranno libere. - Va bene. In quel momento entrò il sottufficiale, che disse in tono burbero: - La forca è stata rizzata, ma è costata la vita a quattro bravi soldati! - Lo avevo detto al colonnello che era pericoloso quel cortile! rispose Testa di Pietra. - Doveva aspettare che gli americani se ne fossero andati. - Andati? Ci stringono sempre più da tutte le parti, e fra poco monteranno all'assalto. Non li ho mai visti battersi con tanta rabbia come oggi. - Avranno freddo, e vorranno riscaldarsi al fuoco delle artiglierie. - Siete sempre così allegri? - Sì; e soprattutto quando si tratta di mandare all'altro mondo qualche personaggio importante - rispose il bretone. Il cappellano della guarnigione si era avvicinato intanto al baronetto, e tenendo in mano il crocefisso gli diceva: - Coraggio, figliuolo. Presto o tardi la morte arriva per tutti. - Un uomo di mare ha sempre coraggio - rispose il baronetto. il quale conservava un sangue freddo meraviglioso. - La morte non ha mai fatto paura a chi è abituato a sfidare i furori degli oceani. Signor carnefice, è pronto il laccio? - Sì, signore. - Allora andiamo. Fra qualche minuto tutto sarà finito. Il sottufficiale si mise dinanzi, tenendo in una mano una pistola carica; seguivano il Corsaro col cappellano, poi i tre carnefici. Al di fuori la battaglia infuriava terribilmente; tre grosse batterie americane ed i pezzi della corvetta diroccavano rapidamente gli spalti, sventravano i bastioni e sfondavano i tetti delle caserme. Anche la fucileria si faceva udire e molto vicina. Molte palle cadevano anche nel cortile, dove il comandante del forte aveva appena potuto radunare sette od otto soldati. Il Corsaro guardò tranquillamente il lugubre attrezzo innalzato alla meglio e sotto il quale avevano collocato una sedia, per toglierla poi di sotto i piedi al momento opportuno. Il comandante del forte gli era andato incontro dicendogli con voce aspra: - Signore, sono stati uccisi per colpa vostra quattro soldati. - Mi terranno buona compagnia spero, nel gran viaggio per l'altro mondo - rispose il baronetto. - Basta con le chiacchiere: boia, impiccatelo! L'ex-galeotto si arrampicò sulla forca e legò il laccio, sotto l'infuriare della mitraglia. - Sbrigatevi! - gridò il colonnello. - Adagio, signore - rispose Testa di Pietra, che faceva sforzi supremi per reprimersi. - Per un gentiluomo ci vogliono certi riguardi. - Come sapete che questo condannato è un gentiluomo? - chiese il comandante. - Vivaddio! È il fratello del marchese d'Halifax! - Avete detto? - Il fratello del marchese d'Halifax - rispose il bretone. Il colonnello non rispose. Il boia di Boston aveva intanto assicurato il laccio alla traversa della forca ed era frettolosamente disceso, dicendo: - Sono pronto. - Impiccatelo subito - disse il comandante. - Purché una bomba non cada e non ci porti via tutti - rispose il boia - Fate presto. - Salite sulla sedia ordinò il boia al Corsaro. Il baronetto obbedì docilmente, dopo d'aver baciato il crocefisso che il cappellano della guarnigione gli porgeva; si lasciò mettere al collo il laccio e calare il cappuccio nero fino al mento. Il boia di Boston si assicurò che tutto fosse pronto, poi levò di sotto i piedi del Corsaro la sedia. Proprio in quel momento i cannoni da caccia della corvetta lanciavano attraverso il cortile una bordata. Il Corsaro, abbandonato a se stesso, penzolò un momento all'estremità del laccio, poi cadde di colpo, stendendosi sul terreno. Il boia gli si era subito precipitato sopra, allargandogli innanzi tutto il laccio. - Che cosa fate? - gridò il comandante del forte, impugnando una pistola. - Il mio dovere, signore, - rispose freddamente il boia. - Quale? - Quest'uomo, secondo le leggi inglesi, per quarantotto ore non verrà più appeso. - A chi lo dite? - A voi. Non siete mai stato il rappresentante della giustizia: quindi di queste cose non potete intendervi. - Come mai la corda si è spezzata? - Chi lo sa? Forse una palla l'ha tagliata. - Ne siete ben sicuro? - Lo suppongo, perché la mia corda aveva impiccati tredici uomini. - Il numero di Giuda! - brontolò Testa di Pietra. - E non potreste riannodarla ed impiccarlo nuovamente? - Le leggi inglesi vi si oppongono, signore. - Allora lo farò fucilare. - No, colonnello. Quest'uomo è stato affidato a me, e non morrà che per mia mano. Sono il boia di tutte le colonie americane e, non obbedisco che al governo. Il colonnello lanciò tre o quattro bestemmie; congedò i soldati e anche il sottufficiale, e disse ai tre carnefici: - Riportatelo nella cappella. Testa di Pietra prese fra le sue robustissime braccia il baronetto e scappò via, seguito dal boia, da Piccolo Flocco e dal colonnello. Il cappellano, spaventato forse dalle bombe che continuavano a cadere, era sparito, per rifugiarsi probabilmente in qualche casamatta. In un lampo il bretone entrò prima nel magazzino, poi nella cappella, sulle cui tavole ardevano ancora due candele, e le depose su di una branda. Il comandante del forte si volse verso il boia e gli disse: - Dunque vi rifiutate di riappiccarlo. - La legge non lo permette prima di quarantotto ore. - Allora lo ucciderò lo. Aveva levata dalla cintura una magnifica pistola inglese a due colpi colle canne arabescate, e l'aveva puntata sul Corsaro, il quale conservava sempre un'immobilità assoluta. Testa di Pietra, fortunatamente, vigilava. Il suo pugno di ferro piombò su quello del colonnello, ritorse la pistola contro quel giustiziere di nuovo genere e fece scattare i due grilletti. Due detonazioni rimbombarono perdendosi tra il fragore delle cannonate. Il colonnello, colpito in pieno petto, era caduto senza mandare un grido. - Che cosa hai fatto, Testa di Pietra? - chiese Piccolo Flocco spaventato. - Come vedi, l'ho ammazzato! - rispose il bretone. Il Corsaro era balzato in piedi udendo così vicini quei due spari. - Morto? - chiese. - Lo avrebbero ucciso gli americani - rispose Testa di Pietra. - Sono già sotto le trincee e montano all'assalto. - Udite? Hurrà formidabili echeggiavano al di fuori. Gli scorridori avevano piantato le scale, approfittando del tiro delle loro artiglierie e montavano furiosamente all'assalto. Testa di Pietra afferrò il colonnello e lo gettò sotto una branda, gridando: - Fuori! Fuori! Facciamo qualche cosa anche noi. Aveva levato al colonnello la sciabola ed un'altra pistola a due colpi. Il Corsaro aveva afferrato una sbarra di ferro, che aveva servito poco prima a schiodare la porta. I quattro uomini si precipitarono nel cortile che in quel momento era deserto. I pezzi inglesi, ridotti ormai al silenzio, non rispondevano più né ai tiri della corvetta, né a quelli della grossa batteria americana. La guarnigione ormai era sgominata, ed invano cercava il comandante, che solamente Testa di Pietra sapeva dove si trovasse.. Gli americani, protetti dalla loro formidabile batteria, correvano all'assalto come una torma di lupi, sostenendosi di quando in quando con nutrite scariche di moschetteria, le quali spazzavano gli ultimi artiglieri che cercavano di resistere. Testa di Pietra, udendo le palle grandinare fittissime, spinse il baronetto ed i suoi compagni dentro una casamatta, dicendo: - Aspettiamo che il combattimento sia finito. Noi soli ben poco potremo fare; è vero, comandante? - Ti approvo sempre - rispose sir William col suo solito pallido sorriso. - Quando gli americani saranno qui, ci faremo riconoscere e spero che non ci pianteranno nel petto le loro baionette. Ma voi, comandante, siete armato d'una magnifica sbarra di ferro che deve pesare non meno di quaranta chilogrammi. Se i primi arrivati non vorranno intendere ragione, li metterò a posto con quel bastoncino. Intanto l'assalto si approssimava. Spezzati i bastioni, i ridotti e le lunette da furiose scariche di mitraglia, gli artiglieri, i quali avevano ormai la maggior parte dei loro pezzi fuori servizio, cedevano rapidamente. Gli scorridori, o stracorridori, come li chiamavano allora, erano già scesi nei fossati e avevano piantato le scale, incoraggiandosi con hurrà strepitosi. La fanteria leggera stava dietro di loro, pronta a montare all'assalto, mentre quella pesante continuava a scaricare i suoi moschetti e le sue carabine. - Eccoli! - gridò ad un tratto Testa di Pietra, il quale osservava da una feritoia Gli scorridori montavano infatti intrepidamente all'assalto, bruciando sulle scale le loro ultime cariche. In un momento superarono i bastioni, lavorando ferocemente colle baionette ed inchiodando non pochi artiglieri inglesi sui loro pezzi. La guarnigione del forte fuggiva in tutte le direzioni, cercando di barricarsi in caserma, ma gli scorridori, in un attimo occuparono il cortile, nel cui centro sorgeva la forca, e intimarono la resa, minacciando uno sterminio generale. Nello stesso momento quattro soldati, guidati da un ufficiale, si precipitarono a baionetta spianata dentro la caserma occupata dal comandante della corvetta, dai due marinai della Tuonante e dal carnefice, urlando ferocemente: - Arrendetevi, o vi accoppiamo tutti! Testa di Pietra, che per precauzione aveva impugnata la sbarra di ferro, alla quale faceva descrivere un terribile mulinello, scoppiò in una risata. - E che? - gridò - Vorreste ammazzare il comandante e i marinai della Tuonante? Giù le armi, corpo di un pescecane! L'ufficiale guarda con stupore i quattro uomini, abbassando la spada, ed esclama: - Il comandante della Tuonante, avete detto? - Ecco qui, signor mio, il baronetto sir William Mac Lellan, - rispose il mastro indicandogli il comandante. - È per questo valoroso che vi siete battuti: me l'aveva promesso il colonnello Moultrie. - Voi, signore! - gridò l'ufficiale, muovendo rapidamente incontro al baronetto. - Sì, son io - rispose il comandante della Tuonante. - Possibile? Non vi hanno dunque impiccato? - No: mercè l'astuzia e la generosità di questo brav'uomo che chiamano il boia di Boston. Se sono ancora vivo, lo devo a lui. Si era avvicinato all'ex-galeotto, il quale era diventato d'un pallore tale, da far temere che da un momento all'altro cadesse svenuto. - Qua la vostra mano, carnefice! - gli disse. - Vi devo la vita. Il boia retrocesse smarrito, lasciando penzolare le braccia. - Qua la mano, vi ho detto! - ripeté il Corsaro. - Senza di voi a quest'ora sarei morto. Due grosse lacrime spuntarono negli occhi del boia, poi la sua mano si tese per stringere energicamente quella che il gentiluomo gli porgeva. - To'! ... Un carnefice che piange! - borbottò Testa di Pietra. - Si è mai veduta una cosa simile? - Sir, - disse l'ufficiale. - sgombriamo subito. Fra poco il forte Johnson sarà completamente distrutto. L'avevamo giurato, e manterremo la nostra promessa. Era veramente la fine di quella imponente fortezza. La guarnigione, decimata dalle artiglierie della corvetta e dalla cannonate americane, dopo un tentativo di resistenza dentro le caserme, si era finalmente arresa ai due colonnelli americani. Il fuoco era stato sospeso; ma un altro fuoco ben più terribile aveva preso il posto delle artiglierie. Magazzini, caserme, casematte, ridotti ardevano spaventosamente. - Orsù! - disse Testa di Pietra. - È il nostro momento di andarcene, prima di essere arsi vivi. Nell'acqua ci sto: nel fuoco niente affatto. Questo è solamente buono ad accendere la pipa: ma la vecchia reliquia, non so per quale guasto, non tira più. A notte fatta, del forte non rimanevano che poche rovine, ed il Corsaro insieme col colonnello Moultrie, coi suoi due marinai e col boia di Boston, il quale ormai aveva rinunciato al suo infame mestiere per tornar marinaio, si trovavano radunati sulla Tuonante.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Nondimeno tutti erano inquieti, compreso il capitano, il quale temeva di dover cedere o di doversi abbassare in mezzo al turbine di neve. E poi vi era anche un altro pericolo gravissimo, quello di trovarsi improvvisamente dinanzi a qualche picco che la nebbia, che diventava sempre più fitta, alzandosi verso lo "Sparviero", non permetteva di distinguere a tempo. - Come finirà questa corsa? - chiese Rokoff al capitano. - Potremo noi continuarla senza riportare qualche grave avaria? Pensate che una delle ali è stata spezzata sull'Hoang-ho. - Lo so - rispose il comandante, la cui fronte si abbuiava. - E dove scendere? L'altipiano non si scorge più e potremmo cadere in qualche abisso. - Se ci alzassimo ancora? - Nelle alte regioni il vento sarà più impetuoso. Guardate le nuvole come vengono scompigliate e lacerate dalle raffiche. - Sapete dove ci troviamo? - So che corriamo verso i Crevaux. - Saranno ancora lontani? - Lo suppongo. - Non ci fracasseremo contro quei picchi? - Non sono molto alti, signor Rokoff; uno solo, il Ruysbruk mi dà molto da pensare, ignorando le sue dimensioni. - Speriamo che il vento non ci spinga da quella parte. Dove si trova quella montagna? - All'ovest. - E il vento soffia sempre dall'est, signore - disse il cosacco. - E non poter vedere più nulla! La nebbia avvolge tutto l'altipiano e aumenta sempre, salendo verso di noi. - E l'ala ferita scricchiola - disse il capitano, le cui preoccupazioni aumentavano. - Finiremo per vederla ripiegarsi. - E cadremo? - Ci sono i piani orizzontali, signor Rokoff, e ci sosterranno benissimo. Una discesa, anche con questo vento, non mi spaventa. La situazione dello "Sparviero" si aggravava di momento in momento. Le raffiche, sempre più violente, lo gettavano a ogni istante fuori di rotta, travolgendolo nonostante le battute poderose delle ali e pareva che anche il timone non servisse quasi più. Il fuso cadeva, si rialzava, volteggiava in mezzo al turbine, poi tornava ad abbassarsi: non aveva più alcuna direzione. E intanto la nebbia saliva avvolgendolo e la neve, spazzata dai venti, investiva gli uomini, impedendo loro di tenere quasi aperti gli occhi. D'un tratto lo "Sparviero" si rovesciò violentemente su un fianco. Rokoff aveva mandato un grido: - L'ala ha ceduto! Cadiamo! Era vero. L'ala, già guastata dalla palla dei cinesi e poi raccomodata dal macchinista, si era nuovamente spezzata a metà piegandosi in due. Il capitano, vedendola cadere sul fuso, era diventato pallido, però aveva subito riacquistato il suo sangue freddo. - Arrestate la macchina! - gridò. - Si rovescerà lo "Sparviero"? - chiesero a una voce Rokoff e Fedoro. - No, non c'è pericolo - rispose il capitano. - Lasciamoci portare dal vento. - Dove cadremo? - chiese Rokoff. - Non lo so, vedremo poi. Lo "Sparviero" cadeva, ma lentamente, essendo sempre sorretto dai piani orizzontali e dalle eliche, le quali funzionavano ancora. Il vento lo spingeva verso ponente, facendogli descrivere degli zig-zag che impressionavano il russo e il cosacco, i quali temevano sempre che venisse trascinato contro qualche picco e fracassato. Il capitano, curvo sulla balaustrata di prora, cercava di discernere la terra che la nebbia e la neve turbinante gli nascondevano. Dove cadeva lo "Sparviero"? Sull'altipiano, sulla cima di qualche rupe o in fondo a qualche spaventevole abisso? - Non vedete nulla? - chiese Rokoff, che si teneva da un lato onde il fuso non si squilibrasse. - Nulla, ma la terra non deve essere lontana. - Il vento ci porta e minaccia di travolgerci. Toccheremo rudemente. - Tenetevi saldi; possiamo venire rovesciati. - Maledetta nebbia! - Macchinista! - Signore! - Ferma anche le eliche. - Capitano! - esclamò a un tratto Fedoro. - Il vento è improvvisamente cessato. - Me ne sono accorto. - Dove siamo dunque noi? - Suppongo che scendiamo in un abisso. Non udite dell'acqua scrosciare? Pare che qualche cascata ci sia vicina. - Sì, l'odo anch'io - disse Rokoff. - E a me pare d'aver veduto un'enorme muraglia fra uno squarcio della nebbia - disse Fedoro. - Dobbiamo scendere in qualche abisso - rispose il capitano. - Diversamente il vento continuerebbe a soffiare. Preparatevi a saltare a terra appena toccheremo. Lo "Sparviero" continuava la sua discesa, lentamente, senza scosse, come un aquilone che viene tirato al suolo. Il vento non ruggiva più attorno ad esso, anzi regnava una certa calma. Doveva aver già raggiunto l'orlo dell'altipiano spazzato dalla bufera; la nebbia però non permetteva agli audaci aeronauti di vedere dove calavano. Lo scrosciare della cascata si udiva sempre verso destra e diventava anzi più assordante. Qualche enorme colonna d'acqua, proveniente da qualche ghiacciaio, doveva precipitarsi attraverso quella spaccatura, o burrone, o abisso che fosse. Il capitano cercava d'indovinare dove scendevano e non gli riusciva di discernere le pareti del vallone che la nebbia ostinatamente teneva celate. Era già trascorsa quasi una mezz'ora dalla rottura dell'ala, quando il fuso subì una scossa, piegandosi per un momento sul fianco destro. - Capitano! - gridò Rokoff, aggrappandosi fortemente alla balaustrata. - Abbiamo toccato. Il comandante si era spinto fuori dal bordo per riconoscere l'ostacolo e vide confusamente una punta aguzza che si piegava sotto il peso del fuso. - È la cima d'un abete o d'un pino - disse. - Pare che vi sia una foresta sotto di noi. - Potremo scendere? Invece di rispondere il capitano si slanciò verso la macchina mettendo in movimento l'elica anteriore. Cercava di spingere innanzi lo "Sparviero", temendo che dovesse cadere in mezzo a qualche foresta, ciò che avrebbe prodotto qualche catastrofe o per lo meno dei gravi danni. E infatti il fuso, non trovando spazio sufficiente, poteva rovesciarsi e piombare in mezzo alle piante fracassando i piani orizzontali e lacerandosi le ali. Sembrava però poco credibile al capitano che sotto di lui si estendesse una vera foresta, essendo gli altipiani del Tibet settentrionale quasi privi di piante d'alto fusto. Qualche abete o qualche pino, trovato il terreno favorevole, poteva essere cresciuto, ma non di più. Fortunatamente lo "Sparviero", rimorchiato dall'elica, a poco a poco si spostava, cadendo molto lontano da quell'ostacolo che aveva sfiorato l'estremità inferiore del fuso. Il capitano, che non aveva abbandonato il suo posto a prora, non ne aveva scorto altri. La nebbia però era sempre foltissima, anzi più che sull'altipiano. D'improvviso il fuso tornò a toccare. Si udì un urto, seguito poco dopo da uno scricchiolare di tavole o di rami, accompagnato da grida acute. - Mille milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Schiacciamo della gente noi? - Mi pare che siamo caduti su un'abitazione - disse il capitano. Urla di terrore risuonavano fra la nebbia, mentre il fuso s'inclinava verso poppa, trattenuto da un impedimento che non gli permetteva di adagiarsi orizzontalmente. A un tratto però l'ostacolo cedette sotto il peso e si sfasciò con mille scricchiolii. L'abitazione doveva essersi spezzata, perché lo "Sparviero" riprese il suo appiombo, rimanendo immobile. - Le armi! Le armi! - gridò il capitano. Attraverso la nebbia aveva scorto delle ombre umane agitarsi. Il macchinista e il suo muto compagno avevano portato in coperta degli Snider e dei Remington. Il capitano era balzato a terra assieme a Fedoro e a Rokoff, gridando in lingua mongola. - Pace! Pace! Non temete! Siamo amici! Degli uomini coperti di pellicce che li facevano rassomigliare ad orsi, si erano accostati. - Chi siete! - chiese una voce imperiosa. - Amici - rispose il capitano. - Da dove siete caduti? Avete schiacciato la mia capanna. - Siamo pronti a indennizzarvi dei danni che vi abbiamo recato. - Siete mongoli? - Europei che non vi faranno alcun male. - Che cosa sono questi europei? - Degli uomini bianchi - rispose il capitano. - Chi comanda qui? Conduceteci dal vostro capo. Quindici o venti uomini si erano radunati attorno al capitano e ai suoi compagni, mentre altri s'aggiravano presso lo "Sparviero", cercando di distinguere che cosa fosse quella massa enorme che cadeva dall'alto schiacciando le case. Un uomo, grosso come una botte, che aveva un enorme berretto di pelo e una casacca di grosso feltro, si era avvicinato al capitano, dicendo: - Se cercate il capo del villaggio, sono io. Che cosa volete? Da qual parte siete scesi in questa valle senza chiedermi il permesso e mettendo in pericolo i miei sudditi? Per poco non avete schiacciato una intera famiglia. - È l'uragano che ci ha fatto cadere qui. Se il vento non ci avesse spinti, non saremmo discesi. - E che cos'è quella bestia? Sarà poi una bestia? - È la nostra casa. - Gettata giù dal vento? E non vi siete uccisi? Siete uomini o demoni? - Vi ho già detto che siamo degli uomini bianchi. - Venite nella mia capanna; voglio vedere se somigliate a quelli che sono passati per di qui molti anni or sono. - Vi consiglio di far ritirare tutti i vostri uomini e di non toccare la nostra casa. Potrebbe scoppiare e farvi saltare tutti in aria. - Allora la vostra casa è una bestia cattiva! - esclamò il tibetano, retrocedendo vivamente. - Non toccatela e non farà male ad alcuno. Se ci accordate ospitalità, noi vi faremo dei regali. - So che gli uomini bianchi sono generosi. Anche gli altri mi hanno fatto dei regali. - A quali europei allude? - chiese Rokoff, cui il capitano traduceva le risposte del tibetano. - A quelli della missione Bonvalot - rispose il comandante. - Questo selvaggio probabilmente ha veduto il principe Enrico d'Orléans, il figlio del duca di Chartres e cugino del pretendente al trono di Francia. Giacché acconsente a offrirci ospitalità, andiamo subito nella sua capanna. Qui fa un freddo cane e non si vede a due passi di distanza. - E il macchinista e il vostro amico? - chiese Fedoro. - Rimarranno a guardia dello "Sparviero". - Che corrano qualche pericolo? - Ho detto loro di montare la piccola mitragliatrice e con un simile arnese possono tenersi sicuri. D'altronde non mi pare che questi montanari abbiano intenzioni ostili. Andiamo nella casa di questo capo. I tibetani, dopo aver ronzato un po' attorno allo "Sparviero", senza poter indovinare che cosa fosse, in causa della foltissima nebbia che lo avvolgeva, a poco a poco si erano dileguati. Era rimasto solamente il capo, il quale continuava a infagottarsi nelle sue pelli. - Vi seguiamo - disse il capitano, dopo essersi fatto dare dal macchinista dei viveri, alcune bottiglie e delle bazzecole che contava di regalare al montanaro. Tenendosi per mano onde non smarrirsi, si lasciarono condurre. A destra e a manca scorgevano confusamente delle masse oscure che dovevano essere o tende o capanne e che erano avvolte fra un denso fumo che il nebbione impediva di disperdersi. Dopo trenta o quaranta passi il tibetano aprì una porta e li introdusse nella sua abitazione formata da una sola stanza ingombra di pelli, di caldaie di rame, di quarti di jacks quasi gelati e ammassi di vecchi tappeti di feltro che dovevano servire da letto. Nel mezzo, su quattro sassi, bruciava dell'argol, il quale non è altro che dello sterco di toro indurito, l'unico combustibile usato sull'altipiano e che produce fumo in abbondanza. Un'apertura però, fatta nel tetto, permetteva che bene o male uscisse; ve ne rimaneva tuttavia tanto dentro, che gli aeronauti credettero per un momento di morire asfissiati. - All'inferno i palazzi tibetani! - esclamò Rokoff, che tossiva fragorosamente. Questa è una tana da volpi! - Ci abitueremo presto a questo fumo - rispose il capitano. Il capo si era intanto sbarazzata del suo immenso mantello, formato da una intera pelle di jack, che portava col pelo all'infuori, e del suo berrettone di pelle d'orso, che gli nascondeva mezzo volto. Era il vero tipo del montanaro tibetano, basso di statura, secco, con occhi piccoli, un po' obliqui come quelli della razza mongola, senza un pelo sul volto e invece con una capigliatura lunga e abbondante, molto ruvida e che portava raccolta in trecce cadenti sulla fronte bassa e depressa e sulle spalle. Aveva gli zigomi molto più pronunciati dei cinesi, il naso grosso, la bocca larga fornita di denti lunghi e acuti come quelli delle belve, male disposti e sporgenti in modo che gli uscivano dalle labbra. La sua pelle poi scompariva sotto un vero strato di sporcizia. Probabilmente quell'uomo non si era mai lavato dal giorno che era venuto al mondo. Prima d'accostarsi agli aeronauti, fece un goffo inchino alzando poi i pollici delle mani fino all'altezza della fronte e cacciò fuori dalle labbra una lingua lunga quasi mezza piede, che lasciò penzolare per alcuni istanti. - Per le steppe del Don! - esclamò Rokoff, guardandolo con stupore e con disgusto. - Sta appiccandosi costui? - Ci saluta - rispose il capitano. - Con quella lingua! Da dove l'ha cacciata fuori! - Tutti i tibetani l'hanno così lunga. - Dite mostruosa. È ributtante! Sembra quella d'un orso formichiere. - Se saremo costretti a fermarci qui ne vedrete ben altre più enormi. - Mille storioni! Il tibetano, dopo quel saluto, con una mimica molto espressiva, aveva invitato i suoi ospiti a sedersi attorno al fuoco, dove già si trovavano dei grossolani tappeti di feltro. Tutti i montanari di quei desolati altipiani, per lo più non si esprimono che con moti, come se incontrino qualche difficoltà nel parlare. Dipende forse dalle mostruose dimensioni della loro lingua e anche dalla pessima disposizione dei loro denti? Il fatto sta che fra di loro non parlano quasi mai. Si esprimono e si comprendono benissimo con moti della bocca e della lingua, agitando le labbra in vari sensi, aiutandosi anche coi pollici delle mani per meglio far comprendere i loro desideri. Anche quando vogliono salutare, invece di dare un cordiale "buon giorno" o la "buona sera", si limitano a sporgere più che possono la lingua. Il capo andò a prendere un coltellaccio e da un quarto di jack che era sospeso alla parete, staccò alcuni enormi pezzi che depose dinanzi agli ospiti invitandoli a mangiare. - Mille milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Questo scimmiotto ci prende per tigri o per lupi per darci della carne cruda. - Non usano cucinarla - disse il capitano. Questi montanari vivono nel modo più primitivo che si possa immaginare e non si nutrono che di farina d'orzo e di carne cruda. Immaginatevi che non conoscono nemmeno il tè! - Io non farò onore a questo pasto da cannibali - disse Fedoro. Abbiamo le nostre provviste e vedrete che il capo non si farà pregare per assaggiarle. Aveva portato delle scatole di carne conservata, un pudding gelato, dei biscotti, dello zucchero per prepararsi il tè e due bottiglie di ginepro. Depose ogni cosa intorno al fuoco e invitò il capo a prendere parte al pasto. Il montanaro, vedendo gli ospiti lasciare intatta la carne cruda era rimasto un po' confuso, però aveva subito accettata la parte che il capitano gli offriva, gettandosi avidamente sul pezzo di pudding e sulle gallette e guardando cogli occhi accesi i pezzetti di zucchero. - Io conosco quei pezzi di pietra - disse. - Gli uomini bianchi che sono passati per di qua molti anni or sono, me ne hanno fatto assaggiare. - To'! Li chiama pezzi di pietra! - esclamò Rokoff, dopo aver udita la traduzione. - A te, mio caro selvaggio, addolcisciti la bocca; poi te la riscalderai col ginepro. Terminato il pasto il capo, che era diventato molto loquace dopo parecchi bicchieri della forte bevanda, spiegò al capitano che erano caduti in una profonda vallata racchiusa fra montagne tagliate a picco, che aveva una sola uscita verso il Ruysbruck, il più alto ed imponente picco dei Crevaux e che il suo villaggio si componeva di sessanta famiglie di pastori. Si dimostrava però sempre curioso di sapere in qual modo erano caduti da una così spaventevole altezza senza fracassarsi le ossa e di sapere che cosa era quella massa enorme che aveva schiacciata una capanna. La spiegazione fu laboriosa ma senza successo, non avendo quel tibetano mai udito parlare né di palloni, né di macchine volanti e tanto meno di uomini che viaggiavano fra le nubi. - Se è vero quello che tu mi racconti - concluse il montanaro - tu devi essere l'uomo più potente della terra. Finché però non ti vedrò volare come le aquile, non ti crederò mai, perché solo Buddha, potrebbe tentare una simile cosa. Volle in seguito vedere i fucili degli aeronauti senza poter comprendere come facessero fuoco non avendo la miccia. Gli sguardi d'ardente cupidigia che lanciava su quelle armi erano tali da impressionare il capitano. - Finirà per chiedercele - disse a Rokoff ed a Fedoro. - Noi però non gliele daremo. Si accontenti del suo moschettone a miccia. Dopo un paio d'ore lasciarono la capanna, non fidandosi di dormire in compagnia del capo. Il nebbione non si era ancora alzato e la neve cadeva abbondante anche nel vallone. Il macchinista e lo sconosciuto per riparare il ponte del fuso, avevano in quel frattempo tesa una immensa tenda di tela cerata e messa in batteria una piccola mitragliatrice a sette canne disposte a ventaglio, arma sufficiente per tenere in rispetto i tibetani, nel caso che avessero tentato di saccheggiare o di guastare lo "Sparviero". - È venuto nessuno ad importunarvi durante la nostra assenza? - chiese il capitano. - Abbiamo veduto, a più riprese, aggirarsi fra la nebbia alcune ombre che si sono subito dileguate al mio grido d'allarme - rispose il macchinista. - Si direbbe che voi non siete tranquillo - disse Fedoro, un po' sorpreso. - I tibetani non vedono volentieri gli stranieri - rispose il capitano. - E poi qui, in queste gole, non vivono che dei briganti, non essendovi pascoli fra questi orridi dirupi. E poi sapete che cosa m'inquieta? - Dite, signore. - L'assenza completa delle donne; ne avete vedute voi? - Io no. Dunque non credete che le capanne e le tende siano abitate da famiglie. - Solamente da uomini. - Che ci diano delle noie? - chiese Rokoff. - Non mi sorprenderei. Durante la buona stagione, all'epoca dei pellegrinaggi, tutte le vie che attraversano gli altipiani sono infestate da banditi. Chi mi assicura che non lo siano anche questi? Vegliamo amici e non lasciamoci sorprendere. - Brutto affare, collo "Sparviero" immobilizzato. - Aiuteremo il macchinista ad accomodare l'ala. I pezzi di ricambio sono già pronti. - Sarà lunga la riparazione? - Non avrò terminato prima di domani a mezzodì - disse il macchinista. - Il vento ha spezzato più di mezze verghe. - Al lavoro - disse il capitano. - Intanto uno di noi veglierà passeggiando intorno al fuso, onde i Tibetani non ci guastino i piani orizzontali. Se sventrano la seta, per noi sarebbe finita e l'idea di un viaggio a piedi attraverso il Tibet, specialmente in questa stagione così fredda, vi assicuro che non mi sorride affatto. - M'incarico io del primo quarto di guardia - disse Rokoff. Si gettò sulle spalle un ampio gabbano di tela impermeabile, si calcò in testa il suo berretto di pelo simile a quello che portano i tartari della steppa e armatosi dello Snider balzò a terra, scomparendo nella nebbia.

Il capitano fece abbassare lo "Sparviero" dinanzi al piazzale, strappò la coperta di tela cerata che riparava la mitragliatrice e scaricò tutte le canne. Le detonazioni si ripercossero rumorosamente fra i fabbricati, ma nessun monaco comparve. - Se ve ne fosse qualcuno, si sarebbe mostrato - disse il capitano. - Come spieghi questa fuga? - chiese lo sconosciuto. - Che ci abbiano veduto giungere e che temendo che noi volessimo rapire i due prigionieri si siano rifugiati in qualche luogo? - Col mio cannocchiale li avrei veduti. - Ho scorto un villaggio entro terra. - L'ho osservato anch'io. - Andiamo a domandare a quegli abitanti dove sono andati i monaci. - Sì, ed a spiegare questa inesplicabile scomparsa di tanta gente - rispose il capitano. A un suo cenno il macchinista fece dopo aver descritto un altro giro intorno una roccia enorme, sulla quale sorgeva un piccolo gruppo di capannucce pietra e di fango seccato. In dieci minuti lo "Sparviero" raggiunse il villaggio, ma anche quello sembrava disabitato. Nessun montanaro si vedeva aggirarsi attorno alle capanne, né nei campicelli dissodati chissà con quali fatiche, su quell'altura. - Ciò è inesplicabile! - esclamò il capitano, nel momento in cui lo "Sparviero" toccava il suolo. - Che qui sia scoppiata la guerra o che delle bande di briganti devastino le rive del lago, fugando tutti gli abitanti? - Signore ... là ... un uomo che fugge! - esclamò in quel momento il macchinista. Il capitano, con una rapida mossa, aveva afferrato un fucile e si era slanciato fra le capanne, seguito dallo sconosciuto. Un uomo vestito di pelli, cercava di celarsi in mezzo ad alcune betulle, che crescevano dietro al villaggio. Il capitano in pochi salti lo raggiunse, afferrandolo pel collo. Il montanaro, un vecchio che zoppicava, non aveva osato opporre resistenza, anzi si era lasciato cadere in ginocchio, tendendo le mani con gesto supplichevole e balbettando alcune parole incomprensibili. - Conosci la lingua cinese? - chiese il capitano con voce minacciosa. - Sì, signore, la comprendo - rispose lo zoppo. - Non fatemi mangiare dalla vostra aquila; sono un vecchio che non ha mai fatto male ad alcuno. - Se ti è cara la vita, rispondimi. - Parlate - disse il vecchio, con voce tremante. - Perché sono fuggiti i monaci di Dorkia? - Non sono fuggiti, signore. - Dove sono andati? - Il vecchio additò un'alta montagna che giganteggiava verso il sud-ovest. - Lassù - disse. - A cosa fare? - Non so ... vi erano due uomini bianchi come voi ... che si dicevano figli di Buddha ... - Avanti. - Ignoro che cosa sia successo ... so però che dopo essere stati adorati, sono stati condannati ... - A morte? - chiese il capitano, impallidendo. - A essere mangiati vivi dalle aquile. - Dove? - Sulla cima di quella montagna. - Quando sono stati condotti lassù? - Stamane. - Dai monaci? - E da migliaia di pellegrini - rispose il tibetano. - Ah! Canaglie! Me la pagheranno! - gridò il capitano. - Che siano già giunti sulla cima? - La via è lunga ... lo ignoro. - Giurami che hai detto la verità. - Sul grande Buddha. - Partiamo senza perdere un istante - disse il capitano. - Forse giungeremo in tempo per salvarli. Si era lanciato verso lo "Sparviero", seguito dallo sconosciuto. Un momento dopo la macchina s'innalzava volando verso la montagna segnata dal tibetano, la quale sorgeva a circa mezza dozzina di miglia verso l'ovest. Era una piramide enorme, che doveva toccare i tremila metri e che sorgeva isolata fra un gruppo di monti minori. Tutti i suoi fianchi erano coperti di neve; solamente alla base si vedeva un po' di vegetazione, dei gruppi di pini e di abeti. Lo "Sparviero" si elevava rapidamente, battendo poderosamente e precipitosamente le ali per raggiungere quell'altezza considerevole. Anche le eliche orizzontali turbinavano vertiginosamente, imprimendo al fuso un fremito sonoro. L'aria diventava di momento in momento più rarefatta, rendendo la respirazione degli aeronauti assai penosa. Si trattava di raggiungere i settemilanovecento e forse gli ottomila metri d'elevazione, trovandosi già il lago a quattromilaseicentotrenta sul livello del mare. Solamente i tibetani, abituati a quell'atmosfera, potevano resistere senza provare alcun disturbo. Perfino il capitano si sentiva ronzare gli orecchi e girare il capo come se fosse ubriaco. Lo sconosciuto poi si era lasciato cadere su una cassa tenendosi la testa stretta fra le mani e respirando affannosamente. Raggiunti i settemila metri, lo "Sparviero" prese la corsa verso l'enorme montagna, provocando una fortissima corrente d'aria. Ora il freddo era così intenso a quell'altezza, che le balaustrate di metallo si erano coperte quasi istantaneamente di ghiaccioli e che l'alito degli aeronauti, appena uscito dalle loro labbra, si convertiva in nevischio. Il capitano, dopo essersi avvolto in coperte di lana di molto spessore, si era messo in osservazione a prora, tenendo il cannocchiale puntato sulla vetta della piramide. Quantunque la distanza fosse ancora notevole, gli pareva d'aver veduto due punti oscuri ergersi sulla cima, fra il candidissimo strato nevoso. - Che siano Rokoff e Fedoro? - si era chiesto. - Se giungessimo troppo tardi? Macchinista, aumenta ancora, fino a far scoppiare la macchina! I due punti neri diventavano più distinti. Sembravano due esseri umani appesi a un palo o a una croce sormontata da alcuni stracci svolazzanti al vento. Dei punti più piccoli, che non si potevano ancora discernere, volteggiavano intorno, ora alzandosi e ora abbassandosi. Che cos'erano? Aquile forse, pronte a precipitarsi sulla preda a loro offerta dal miserabile Bogdo-Lama di Dorkia? Il capitano lo supponeva. - I fucili da caccia! - gridò. - Preparate i fucili da caccia e innalziamoci ancora! ... Rokoff e Fedoro sono lassù! Lo sconosciuto, strappato dal suo torpore da quei comandi, con uno sforzo supremo si era alzato, barcollando come un ebbro. - Perché i fucili?- chiese. - E le bombe? - Le aquile! Le aquile! Stanno per dilaniarli! - gridò il capitano. - Guardate! Ah! I miserabili! Lo "Sparviero"" aveva raggiunto la piramide, ma si trovava ancora troppo basso per raggiungere il vertice. Interruppe bruscamente la sua marcia orizzontale e ricominciò ad elevarsi, inclinandosi verso poppa per avere maggior slancio. Sulla cima della piramide, proprio sulla vetta, si vedevano Fedoro e Rokoff a dibattersi disperatamente e si udivano a urlare colla speranza di spaventare le aquile che giravano intorno a loro, pronte a dilaniarli coi robusti rostri e coi poderosi artigli. I due disgraziati, che indossavano ancora le tonache dei monaci, erano legati a una specie di croce, l'uno accanto all'altro, sormontati da una bandiera di feltro bianco, su cui si vedevano dipinte delle lettere. Quindici o venti aquile volteggiavano ora sopra e ora intorno a loro mandando acute grida, sfiorandoli colle loro poderose ali per stordirli prima di cominciare a farli a pezzi vivi. Entrambi si dibattevano disperatamente, cercando di far cadere la croce, ma erano legati così solidamente da non poter liberare né le mani né i piedi. Già un'aquila, più ardita delle altre, si era posata sulla cima della croce, pronta a spaccare il cranio del cosacco, che si trovava più vicino, quando comparve lo "Sparviero", il quale aveva finalmente superato l'orlo della piramide tronca. Contemporaneamente rimbombarono due spari e il vorace volatile, colpito in pieno, capitombolava al suolo. Due grida era sfuggite ai disgraziati, che già credevano di sentirsi dilaniare, due grida di gioia suprema: - Lo "Sparviero"! Il capitano! Poi seguirono una serie di detonazioni: era la mitragliatrice che tempestava le altre aquile, fracassando le loro ali o fulminandole sul colpo. Lo "Sparviero" si era adagiato sulla cima della montagna e il capitano e lo sconosciuto, quantunque storditi, si erano slanciati a terra. - Rokoff! Fedoro! - gridò il comandante, mentre il macchinista continuava a far tuonare la mitragliatrice per fugare i volatili sopravvissuti alla prima scarica e che non volevano decidersi ad abbandonare le prede. - Per le steppe del Don e anche dell'inferno! - urlò Rokoff. - Liberateci, signore! Le canaglie! I miserabili! Andiamo a sterminarli tutti! Urrà per lo "Sparviero"! Il capitano, che aveva portato un coltello, s'arrampicò sulla croce e liberò entrambi dalle corde che li avvincevano. Fedoro, assiderato, istupidito, mezzo asfissiato, si era subito abbandonato fra le braccia dello sconosciuto, borbottando con voce appena intelligibile: - Grazie ... Aveva il sangue al naso e anche agli orecchi in causa dell'estrema rarefazione dell'aria. Lo si dovette portare sullo "Sparviero", perché non si reggeva più. Rokoff invece, appena liberato, si era messo a correre verso l'estremità opposta del piccolo altipiano, coi pugni chiusi, gli occhi scintillanti d'ira. - Signor Rokoff! - gridò il capitano. - Dove correte? Siete impazzito? Il cosacco pareva che non lo udisse nemmeno e che non provasse lo stordimento che s'impadroniva sempre più dei suoi compagni. Quando giunse sul margine estremo, un urlo selvaggio gli sfuggì. - Eccoli! Cane d'un lama, avrò la tua pelle! Il capitano lo aveva raggiunto. - Venite ... lo "Sparviero" ci attende ... è pericoloso fermarci quassù ... la rarefazione ... - Guardateli! - gridò Rokoff, furioso. - Scendono la montagna. - Ma chi? - I buddisti ... i monaci ... gli assassini ... Il capitano guardò abbasso. Sotto di lui, sei o settecento metri più giù, una lunga fila di persone, composta di monaci e di montanari, scendeva i fianchi della montagna, fermandosi di quando in quando per guardare verso la cima. Erano almeno tre o quattromila persone e buona parte di esse armate di moschettoni e di lance. - Eccoli quelli che volevano fare delle nostre ossa delle pillole da dare da mangiare ai cani - disse Rokoff. - Lasciate che vadano ad appiccarsi altrove - rispose il capitano. - Promettetemi di passarvi sopra. - Sì, ma fuori di portata dei loro fucili. - Andiamo allo "Sparviero". Ripresero la corsa e raggiunsero il fuso, dove il macchinista stava facendo sorseggiare a Fedoro un bicchiere di vecchio ginepro, per rimetterlo un po' dalle emozioni provate e per riscaldarlo. - Partiamo! - disse il capitano. - Non è prudente fermarsi troppo a simili altezze. Si erano imbarcati tutti. Lo "Sparviero" attraversò il piccolo altipiano e scese il versante opposto, dirigendosi là dove i pellegrini e i monaci calavano. Questi si erano subito accorti della presenza di quel mostruoso uccello che piombava dalle cime del nevoso colosso con rapidità fulminea, come se volesse schiacciarli. Un immenso urlo di terrore si era alzato fra quelle centinaia e centinaia d'uomini, ripercuotendosi lungamente nelle vallate, poi era subentrato un profondo silenzio. Pareva che tutti, monaci e pellegrini, fossero impietriti dallo spavento. Alcuni si erano lasciati cadere al suolo, nascondendosi il viso fra le cappe villose dei loro mantelloni. Rokoff si era curvato sulla prora del fuso, per farsi meglio vedere e agitava le braccia come se scagliasse sui suoi assassini delle maledizioni. D'un tratto si slanciò verso la macchina, afferrò una cassa di zinco ripiena d'acqua e la precipitò in mezzo alla folla terrorizzata, urlando: - Prendete! Ecco il saluto dei Buddha viventi! Quante persone avesse accoppate o storpiate, non lo poté sapere perché già lo "Sparviero" era lontano, volando in direzione del Tengri-Nor.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

682360
Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Non Saranguy, ma Tremal-Naik, il cacciatore di serpenti della jungla nera, - rispose l'indiano senza abbassare l'arma. Bhârata lo guardò, ma più sorpreso che spaventato. - Ma come sei tu qui? - chiese. - È il mio segreto. Non si imprigiona un thug. - Non m'ero adunque ingannato io? - Pare di no. - E cosa vieni a fare qui? - A ucciderti. Bhârata, quantunque fosse coraggioso, ebbe paura. - Ah! - esclamò coi denti stretti. - Tu vieni per assassinarmi.. - Forse. - Posso salvare la vita? - Sì. - Parla. - Siedi e discorriamo. Bhârata ubbidì. Tremal-Naik s'impadronì di tutte le armi, chiuse a chiave la porta e si sedette di fronte al sergente, dicendogli: - Ti avverto che il primo grido che getti, ti costa la vita. Ho sei colpi per mandarti a trovare Brahma o Visnù. - Parla, - ripeté il sergente, che andava riacquistando il suo sangue freddo. - Ho da compiere una missione terribile. - Non ti capisco. - Io ho giurato ai thugs di uccidere il capitano Macpherson. Tremal-Naik guardò Bhârata per vedere quale impressione fa su di lui quelle parole, ma il volto dell'indiano rimase impassibile. - Hai compreso, Bhârata? - gli domandò. - Perfettamente. - Ebbene? - Tira innanzi. - Bisogna che io abbia in mia mano la testa del capitano Macpherson. Il sergente ruppe in uno scoppio di risa. - Pazzo, non sai che il capitano non è più qui? - Tremal-Naik s'alzò. - Il capitano non è più qui! - esclamò con disperazione. - Dov'è andato? - Non te lo dirò. - Ma non sai adunque, che io ho giurato di portare ai thugs la sua testa? - Ne faranno a meno. - No, Bhârata, no! ... Bisogna che compia la mia missione! Dov'è il capitano? ... Voglio saperlo, dovessi rovistare tutta l'India dall'Himalaya al capo Comorin. - Non sarò certamente io che dirò dove egli sia. - Ah! ... - esclamò Tremal-Naik. - Tu lo sai? - Lo so. Tremal-Naik alzò la rivoltella mirando l'indiano in fronte. - Bhârata, - gli disse con voce furente. - Parla! - Puoi ammazzarmi, ma dalla mia bocca non uscirà sillaba. Sono un sipai! - Bada, Bhârata, che non si ritorna più, una volta scesi nella tomba. - Uccidimi se vuoi. - È la tua ultima parola? - L'ultima. Tremal-Naik aveva steso il braccio armato. Già la canna s'era fermata a pochi passi dalla fronte del sergente, già stava per far partire il colpo, quando al di fuori echeggiò un fischio che si ripeté tre volte. - Nagor! - esclamò Tremal-Naik, che aveva riconosciuto il segnale dei thugs. Rimise nella cintura la rivoltella, afferrò Bhârata turandogli con una mano la bocca, e lo gettò al suolo. - Non fare un gesto, - gli disse, - o ti uccido davvero. Lo legò solidamente con una corda, lo imbavagliò, poi corse ad una finestra, alzò la persiana e rispose al segnale con tre fischi differenti. Dietro ad un cespuglio s'alzò una forma umana, la quale strisciò svelta svelta in direzione del bengalow. Si arrestò proprio sotto la finestra, alzando la testa. - Nagor! - bisbigliò Tremal-Naik. - Chi sei? - chiese il thug, dopo qualche istante di esitazione. - Tremal-Naik. - Devo salire? Tremal-Naik guardò a destra e a manca con attenzione e tese l'orecchio. - Sali, - disse poi. Il thug gettò il laccio che si fermò ad un gancio della finestra, ed in un baleno giunse sul davanzale. Era un uomo assai giovane, poco più che ventenne, alto, magro, dotato di una agilità straordinaria e, a quanto pareva, di un coraggio a tutta prova. Era quasi nudo, unto di recente d'olio di cocco, tatuato come gli altri settari e armato di pugnale. - Sei libero? - chiese egli. - Lo vedi, - rispose Tremal-Naik. - I sipai? - Dormono. - Il capitano? - Quell'indiano mi ha detto che non è più qui. - Che abbia sospettato qualche cosa? - chiese il thug, coi denti stretti. - Non lo credo. - Bisogna sapere dove è andato. Il figlio delle sacre acque del Gange vuole la sua testa. - Ma il sergente non parla. - Parlerà, lo vedrai. - Or che ci penso, questi uomini m'hanno fatto trangugiare una bevanda che mi ubbriacò e mi fece parlare. - Qualche limonata di certo, - disse il thug sorridendo. - Sì, è una limonata. - La faremo bere al sergente. Balzò nella stanza, gettò uno sguardo su Bhârata che attendeva tranquillamente la sua sorte, prese un bicchiere ripieno d'acqua e preparò la stessa limonata che il capitano Macpherson aveva fatto bere a Tremal-Naik. - Trangugia questa bevanda, - diss'egli al sergente, dopo di avergli tolto il bavaglio. - Mai! - rispose Bhârata, che aveva già indovinato di che cosa si trattava. Il thug gli prese il naso fra le dita e lo strinse forte. Il sergente, per non morire asfissiato, fu costretto ad aprire le labbra. Bastò quel momento, perché la limonata gli fosse versata in bocca. - Ora saprai ogni cosa, - disse Nagor a Tremal-Naik. - Hai paura dei sipai? - gli chiese il cacciatore di serpenti. - Io! - esclamò il thug, ridendo. - Mettiti dinanzi alla porta e fa' fuoco sul primo uomo che tenta salire la scala. - Conta su di me, Tremal-Naik. Nessuno verrà ad interrompere il tuo interrogatorio. Il thug prese un paio di pistole, guardò se erano cariche e uscì mettendosi in sentinella dinanzi alla porta. Il sergente cominciava allora a ridere ed a parlare senza arrestarsi un sol istante. Tremal-Naik, sorpreso, ascoltava quel torrente di parole, e raccolse a volo il nome del capitano Macpherson. - Bravo sergente, - diss'egli. - Dov'è il capitano? - Bhârata nell'udire quella voce, si era arrestato. Guardò Tremal-Naik con due occhi che scintillavano e chiese: - Chi mi parla? ... Mi pareva di aver udito la voce di un thug ... ah! ... ah! ... Non vi saranno più thugs fra breve. Il capitano lo ha detto ... e il capitano è un uomo di parola ... un grand'uomo che non ha paura. Li assalirà nei loro covi ... Li distruggerà colle bombe ... Sarà bello vederli scappare coll'acqua alle calcagna ... ah! ... ah! ... ah! ... - E andrai anche tu a vederli? - chiese Tremal-Naik, che non perdeva parola. - Si che ci andrò e verrai anche tu! ... Ah! ... ah! ... sarà uno spettacolo bellissimo. - E sai tu dov'è il loro covo? - Sì che lo so. L'ha detto Saranguy. - Ah! ... miserabili! ... - esclamò Tremal-Naik. - Ma anch'io saprò qualche cosa da te. - Egli aveva bevuto la limonata, - ripigliò il sergente, - e narrò tutto. - E c'era il capitano, quando Saranguy parlò! - chiese Tremal-Naik, fremendo. - Ma sì, e partì subito per sorprenderli nel covo. - Per Raimangal forse? - No, no! - esclamò vivamente il sergente. - I thugs sono forti e occorrono molti uomini per ischiacciarli. - È andato a Calcutta? - Sì, a Calcutta, al forte William! ... E armerà un bastimento ... e imbarcherà tanta gente ... e tanti cannoni ... ah! ... ah! ... che spettacolo bellissimo. Il sergente tacque. I suoi occhi si chiudevano, si aprivano, ma tornavano a chiudersi per quanto facesse per tenerli aperti. Tremal-Naik capì che l'oppio a poco a poco faceva il suo effetto. - So quanto volevo sapere, - mormorò. - Ed ora, a Raimangal!

I PIRATI DELLA MALESIA

682407
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Passeggiò così per alcuni minuti, poi si sdraiò sull'amaca, pregò la sentinella di abbassare la fiamma della lampada e chiuse gli occhi. Quantunque prigioniero e con molti pensieri pel capo, il portoghese dormì tranquillo come se fosse stato a bordo della Perla di Labuan o nella capanna della Tigre della Malesia. Quando si svegliò, un raggio di sole penetrava attraverso le foglie di nipa che servivano da persiane. Guardò verso la porta, ma la sentinella non c'era più. Vedendolo dormire e fors'anche udendo russare, se n'era andata, certa che un prigioniero di quel genere non sarebbe saltato dalle finestre. - Benissimo - disse il portoghese. - Approfittiamone. Balzò giù dall'amaca, fece un po' di toilette, alzò la stuoia e si affacciò alla finestra, respirando a pieni polmoni l'aria fresca del mattino. Sarawak presentava un bel colpo d'occhio con le sue palazzine di legno circondate da verdeggianti boschetti, col suo grande fiume ombreggiato da superbi alberi e solcato da piccoli prahos, da svelte piroghe, da leggeri e lunghi canotti, con le bizzarre casette dal tetto arcuato e dipinte a smaglianti colori, del quartiere cinese, con le capanne di foglie di nipa, piantate su pali di rispettabile altezza, del quartiere dayaco e le viuzze affollate di cinesi, di dayachi, di bughisi e di macassaresi. Il portoghese percorse, con un rapido sguardo, la città e arrestò gli sguardi sulle colline. Come si disse, v'erano eleganti palazzine di legno abitate dagli europei. Più oltre, però, si vedeva una graziosa chiesetta e, a non grande distanza, un forte solidamente costruito e con molte feritoie. Il portoghese lo guardò con attenzione profonda. - È la che vi è Tremal-Naik - mormorò. - Come liberarlo? In quello stesso istante una voce dietro di lui diceva: - Il rajah vi attende. Yanez si volse e si trovò dinanzi il bengalese. - Ah! siete voi, amico? - disse sorridendo. - Come sta rajah Brooke? - Vi attende, sir. - Andiamo a stringergli la mano. Uscirono, salirono un'altra scala ed entrarono in un salotto, le cui pareti scomparivano sotto un vero strato d'armi di tutte le grandezze e di tutte le forme. - Entrate in quel gabinetto - disse il bengalese. - Che cosa racconterò? - mormorò il portoghese. - Coraggio, Yanez. hai una vecchia volpe dinanzi. Spinse la porta ed entrò risolutamente nello studio in mezzo al quale davanti ad una tavola ingombra di carte geografiche, stavasene seduto il rajah di Sarawak.

I PREDONI DEL SAHARA

682446
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Rocco ed Esther, la quale aveva fatto abbassare la tenda per essere più libera, stavano alla retroguardia, coi fucili in mano. "Cerchiamo di mantenere la distanza," disse il marchese, rallentando la corsa del cavallo. I predoni si erano nuovamente riuniti, vista l'impossibilità di sorprendere la carovana, ed eccitavano i loro mehari per guadagnare via. Quattro o cinque, meglio montati, in pochi minuti si trovarono a soli quattrocento passi dai fuggiaschi. "Ben," disse il marchese. "Arrestiamoli.". "Gli uomini od i mehari?" Si fermarono dietro una duna e incominciarono il fuoco. Bastarono dieci secondi a quei valenti bersaglieri per smontare tre uomini. I tre mehari, gravemente feriti, erano caduti a poca distanza l'uno dall'altro. Il marchese stava per ricominciare il fuoco, quando il suo cavallo s'impennò bruscamente mandando un nitrito di dolore, poi cadde sulle ginocchia posteriori, sbalzando di sella il cavaliere. "Marchese!" esclamò Ben, spaventato. "Un semplice capitombolo," rispose il corso, risollevandosi prontamente. "Hanno colpito solamente il cavallo." Gettò uno sguardo furioso sui Tuareg. Il predone che gli aveva mandato quella palla stava ritto sul suo mehari, col fucile fumante ancora teso. "Me la pagherai, briccone!" gridò il corso. Le parole furono seguite da uno sparo, ma non fu l'animale che cadde, bensì il cavaliere. Poi il corso guardò il suo cavallo. Il povero animale, colpito fra le zampe anteriori da un grosso proiettile, rantolava disteso sulla sabbia. "È perduto!" esclamò egli con rammarico. "Salite dietro di me e raggiungiamo la carovana," disse Ben. "Presto, i Tuareg arrivano al galoppo!" Il corso si slanciò sul cavallo, s'aggrappò a Ben ed entrambi partirono a corsa sfrenata, mentre i predoni, furiosi di vedersi sfuggire ancora una volta la preda, si sfogavano con imprecazioni e minacce senza fine.