Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

"Possiamo abbassarci subito e gettare le àncore, sacrificando un po' di gas?" "Ora? Sarebbe un'imprudenza, amico mio, perdere dell'idrogeno, mentre forse il vento ci spingerà attraverso l'Atlantico invece di portarci verso l'Africa. Voglio conservare tutte le forze del Washington per cercare in alto una nuova corrente." "Ma scendiamo al sud con grande rapidità, Mister Kelly." "Non importa: l'Africa l'abbiamo alla nostra sinistra e per lungo tempo non l'abbandoneremo. Che approdiamo qui o più al sud, sulle coste del Sahara o della Senegambia o della Sierra Leone, cosa importa, ora che l'Europa ci sfugge? Quando il Washington si abbasserà, getteremo le àncore e attenderemo la burrasca per innalzarci più che potremo." "E se quell'uragano ci spingesse invece all'ovest?" "Siamo nelle mani di Dio: accadrà ciò che Egli vorrà." "Ritenete che il Washington non possieda forze sufficienti per riattraversare l'Atlantico?" "Lo dubito, O'Donnell. È vero che i venti, durante gli uragani, acquistano delle rapidità incredibili e che sole 1500 miglia separano le coste della Sierra Leone e il capo brasiliano di San Rocco, ma i nostri mezzi sono ormai scarsi, e cadremmo in mezzo all'oceano, a meno che qualche nave non ci raccogliesse." "To'! E i nostri amici, li abbiamo dimenticati? Chissà che non ci cerchino a quest'ora, se i piccioni messaggeri sono giunti all'Isola Brettone. "Magra speranza, O'Donnell. L'Atlantico è immenso e i miei amici non possono sapere dove il vento ci ha spinto. Non dobbiamo contare che sulle nostre forze." "Ma mi sembra, Mister Kelly, che il nostro idrogeno si condensi molto lentamente questa sera. perché non abbiamo ancora cominciato la discesa." "Ci troviamo in una corrente d'aria assai calda, e il nostro Washington è stato rinvigorito poche ore fa, ma cadremo, O'Donnell, ve lo assicuro. Intanto annodiamo tutte le funi disponibili e prepariamoci a calare i nostri coni." Il Washington come aveva giustamente notato O'Donnell, non accennava a scendere, quantunque la temperatura si fosse abbassata di alcuni gradi. Si manteneva ancora a 2500 metri di altezza, filando verso il sud con una rapidità di ben sessantadue chilometri all'ora. Se quel vento non rallentava, il Washington doveva perdere l'intero vantaggio acquistato durante la giornata e ritrovarsi nei paraggi delle Canarie, che aveva lasciato verso le undici del mattino. Alle dieci però la discesa dell'aerostato cominciò, ma era assai lenta. Calava in ragione di trecento o trecentocinquanta metri all'ora, mentre invece la rapidità del vento aumentava. A mezzanotte l'ingegnere segnalò ai suoi compagni un punto luminoso, che si scorgeva verso l'est. "Una nave?" chiese O'Donnell. "No," rispose Mister Kelly, che aveva puntato un cannocchiale in quella direzione. "È un bagliore lampeggiante, sarà il faro di Teneriffa o dell'isola del Ferro." "Di già alle Canarie? E la corsa aumenta!" Alle tre del mattino l'aerostato si trovava a soli duecento metri dalla superficie dell'oceano. L'ingegnere fece gettare i due coni, che si riempirono subito d'acqua, immobilizzando il vascello aereo. "Riposiamo," disse poi. "Non corriamo alcun pericolo." I tre aeronauti, che avevano vegliato fino ad allora e che cadevano dal sonno, si coricarono sui loro materassi e si addormentarono profondamente, cullati dolcemente dalla grande corrente degli alisei.

Fortunatamente l'idrogeno è condensato, e non ne perderemo molto per abbassarci di cinque o di seicento metri." Impugnò le due funicelle che pendevano dai due fusi e con uno strappo aprì le due valvole di sfogo. Tosto in alto udirono dei leggeri scoppiettii e si sparse intorno alla navicella un acuto odore d'idrogeno. "Spegnete la candela," disse l'ingegnere. O'Donnell obbedì, poi calò le due àncore a cono per rallentare la discesa e frenare il pallone. Il Washington si abbassava con un largo dondolio, descrivendo di quando in quando dei giri concentrici. "Basta," disse l'ingegnere, lasciando andare le due funicelle. Le due valvole si chiusero, ma l'aerostato continuò ad abbassarsi con notevole rapidità. I due coni e la guide-rope sommersero e tosto rallentarono la sua marcia discendente, mantenendolo a sessanta metri dalla superfìcie dell'oceano. "Vedete nulla?" chiese O'Donnell all'ingegnere che aveva puntato un canocchiale da notte. "Sì, mi pare di scorgere una piccola striscia nera scivolare sull'oceano." "È lontana?" "Tre o quattro chilometri." "Allora fra poco il naufrago sarà qui. Come mai un ragazzo si trova perduto in mezzo all'Atlantico e solo?" "Lo sapremo più tardi. Udite lo sbattere dei remi?" "Mi pare di udire un lontano rumore. Ci vedrà quel mozzo ?" "Accendete una torcia: gli servirà da faro." La sottile striscia nera avanzava sempre verso il pallone e si distingueva ormai senza bisogno di cannocchiale e si udiva anche nettamente lo sbattere dei remi. In capo a mezz'ora era lontana poche centinaia di metri, su di essa si scorgeva una forma umana di piccole dimensioni, la quale manovrava i remi con grande energia. "Coraggio, giovanotto!" gridò Mister Kelly. "Grazie signore," rispose il naufrago. In pochi minuti superò la distanza, abbandonò il canotto, si fermò alcuni istanti sul primo nodo della guide-rope per riposarsi, poi si arrampicò con l'agilità di un gatto e raggiunse la navicella. O'Donnell lo afferrò per le braccia e lo depose nella scialuppa. "Grazie," ripeté il naufrago. Poi, dopo aver girato lo sguardo ardente sulle casse e sui barili che ingombravano la scialuppa, mormorò: "Da bere! ... Da bere, signori! ... Muoio di sete!"

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Se potessimo abbassarci, l'irbis sarebbe ben contento d'andarsene - disse Fedoro. - Mi pare che sia più spaventato di noi. - Bisognerebbe avvicinarsi alla macchina - rispose il capitano. - Chi oserebbe farlo? - Volete che provi io? - chiese Rokoff. - No, sarebbe troppo pericolosa una tale mossa. - Volete continuare il viaggio con un simile compagno? Non oserei chiudere gli occhi. - Come abbassarci? - chiese Fedoro. - Non v'è alcun mezzo, capitano? - Nessuno se non rallentiamo la battuta delle ali - rispose il comandante. - Ah! Pare che si decida a sgombrare! Se si provasse a saltare! - Un capitombolo di quattrocento metri! Non lo tenterò di certo - disse Rokoff. L'irbis, dopo essere rimasto qualche minuto immobile presso il boccaporto, rannicchiato su se stesso, aveva fatto un passo indietro, senza staccare gli occhi dai quattro aeronauti. Non pareva troppo contento di quel viaggio intrapreso involontariamente. Brontolava sordamente, arricciava il pelo e agitava nervosamente la lunga coda inanellata. Di quando in quando un brivido lo faceva sussultare e girava la testa a diritta e a manca come se cercasse di scorgere qualche albero su cui slanciarsi. Aveva cominciato a indietreggiare lentamente allungando, con precauzione, prima una zampa e poi le altre, senza abbandonare tuttavia la sua posa d'assalto. Vedendo Rokoff fare un passo innanzi coll'arpione teso, arrestò la sua marcia retrograda e si raccolse su se stesso come fanno i gatti quando si preparano a slanciarsi sul topo. Aprì le formidabili mascelle, mostrando due file di denti, bianchi come l'avorio e aguzzi come triangoli, mandando un rauco brontolio che finì in un soffio poderoso. - No, Rokoff! - disse Fedoro. - Si prepara ad assalirci. - Fermatevi - comandò il capitano, il quale si era impadronito d'una pesante cassa per scaraventarla contro la belva, nel caso si fosse slanciata innanzi. - Lasciatela indietreggiare. - Finiamola - disse il cosacco. - Siamo in quattro. - E tre sono inermi - disse Fedoro. - Vuoi farci sbranare? - Lasciate che si allontani dalla macchina - rispose il capitano. - Poi scenderemo. L'irbis stette qualche po' immobile, continuando a brontolare, poi con un balzo di fianco si avventò verso la balaustrata, aggrappandosi ai ferri e guardando abbasso. Per un momento i quattro aeronauti credettero che si slanciasse nel vuoto; la loro speranza però ebbe la durata di pochi secondi. La fiera, spaventata dall'abisso che le si apriva dinanzi, si era lasciata ricadere sul ponte. Tremava, come se avesse la febbre e gettava all'intorno sguardi smarriti, nei quali però balenava sempre un lampo di ferocia. Ricominciò a retrocedere verso la prora, guatando cupamente gli aeronauti che non osavano ancora muoversi e si rannicchiò dietro una cassa, manifestando la sua rabbia con frequenti brontolii e con un incessante agitare della coda. - La macchina è libera - disse Rokoff. - Approfittiamone. - Lasciate fare a me - rispose il capitano. - Voi non muovetevi. - Non vi assalirà? - Può darsi. - Allora signore vi domando il permesso di affrontare io il pericolo. Voi siete il capitano e dovete essere l'ultimo a esporre la vostra vita. - Ma anch'io reclamo l'onore di farmi divorare per salvare voi - disse Fedoro. - Né l'uno né l'altro - rispose il comandante. - D'altronde voi non sapete maneggiare la macchina. Vedendo poi che il russo ed il cosacco aprivano le labbra per replicare, aggiunse con voce quasi dura: - Basta, signori. Mi rincresce ricordarvi che il capitano sono io e che perciò voi mi dovete obbedienza assoluta. Poi con un sangue freddo ed un'audacia ammirabile, s'avanzò verso la macchina, dardeggiando sulla fiera uno sguardo che pareva di sfida. L'irbis non si era mosso; solamente le sue poderose unghie si erano infisse profondamente sulla cassa, sgretolando il legno. Il capitano fece agire la leva, poi retrocesse tranquillamente, senza staccare i suoi occhi dal feroce avversario. - Ecco fatto - disse con una voce perfettamente tranquilla. - Fra cinque minuti saremo a terra. Lo "Sparviero" cominciava infatti a discendere. Il movimento delle eliche era stato arrestato e le ali non battevano più che leggermente. - Dove cadremo? - chiese Rokoff. Il capitano si curvò sulla balaustrata. La collina era stata attraversata e l'aerotreno scendeva sul deserto che in quel luogo era coperto da un lieve strato di neve già indurita dal gelido vento del settentrione. - Tutto va bene - disse. - Tenetevi pronti ad afferrare le carabine, appena il leopardo ci lascerà. Lo "Sparviero", sorretto solamente dai piani inclinati, continuava ad abbassarsi dolcemente. L'irbis sempre più spaventato dalle ondulazioni che subiva il fuso, continuava a brontolare e a dare segni d'inquietudine. S'alzava sulle zampe posteriori fiutando rumorosamente l'aria e girava continuamente la testa in tutti i sensi. A un tratto avvenne un urto: lo "Sparviero" aveva toccato terra. - Attenzione! - gridò il capitano. Il leopardo con un salto immenso aveva varcata la balaustrata precipitandosi sulla neve. Stette un momento immobile, stupito forse di trovarsi a terra, poi spiccò tre o quattro salti dirigendosi verso un gruppetto di betulle nane. Il capitano, Rokoff e Fedoro si erano precipitati sulle carabine. - Fuoco! ... Tre spari rimbombarono formando quasi una sola detonazione. Il leopardo che si trovava a solo cento passi dal fuso, si rizzò di colpo mandando un urlo prolungato, girò due volte su se stesso, poi cadde in mezzo alla neve, agitando pazzamente le zampe. Quasi nel medesimo istante si udirono dei clamori selvaggi, poi degli spari. - Mille folgori! - esclamò Rokoff. - Che cosa succede ancora? - I mongoli! - gridò il capitano. - Su, alziamoci! - E il leopardo? - Lo lasceremo a quei banditi; ci manca il tempo di raccoglierlo. Presto: grandina e s'avanzano al galoppo. Un istante dopo lo "Sparviero" s'alzava maestosamente, salutato da una scarica di fucili.

. - A simili altezze l'aria è quasi irrespirabile, però le vostre nausee cesseranno subito appena avremo varcato quella catena di monti e torneremo ad abbassarci. - Soffrono anche gli animali portati a simile elevazione? - Più degli uomini, signor Rokoff, e infatti su questi altipiani non vedete né cammelli, né montoni e nemmeno jacks. Si gonfiano, perdono le forze, la loro respirazione diventa affannosa e bruciante e sovente cadono al suolo fulminati. - Ci innalzeremo ancora? - No, non sarebbe prudente; l'asfissia potrebbe manifestarsi, o per lo meno avvenire delle emorragie al naso e agli orecchi, che è meglio evitare. - Avete mai superato queste altezze? - chiese Fedoro. - Ho potuto raggiungere i diecimila metri, facendo uso di serbatoi d'ossigeno, eppure non ritenterei la prova. Volevo provare ad attraversare tutto lo strato d'aria che circonda il nostro globo. - Per giungere alla luna? - chiese Rokoff, ridendo. - No, per vedere il sole violetto. - Violetto! ... Che dite mai, signore? - E che, anche voi credete che il sole sia giallo come noi lo vediamo ora? - Io non l'ho mai veduto cambiare colore, capitano. - Nemmeno io, eppure non è giallo e se non esistesse intorno al nostro globo la massa d'aria, tutto il mondo diventerebbe, almeno di giorno, violetto. - Questa è grossa! - Può sembrarvi tale; eppure, dopo gli ultimi studi e le ultime e più diligenti osservazioni fatte dagli scienziati europei ed americani, non vi è più da dubitare, signor Rokoff, per quanto la cosa possa parervi inverosimile. Se si squarciasse la nostra atmosfera, che è un velo ingannevole che fa ostacolo alla vista vera, si vedrebbero delle cose spettacolose che prima non si supponevano esistere. Togliete l'aria e con vostro grande stupore vi apparirebbe il cielo, anche in pieno meriggio, non più azzurro come lo vedete ora, bensì nero come il fondo d'una botte di catrame e al sommo di quell'abisso tenebroso vedreste fiammeggiare un. grande astro del più bel violetto e che altro non è se non il nostro sole. - Il cielo nero? - Sì, signor Rokoff. - E perché ci appare invece azzurro? - In causa delle rifrazioni della nostra atmosfera, la quale è satura ormai di luce, di vapori, di miriadi di germi erranti e di polveri impalpabili. Langley, il segretario dell'Istituto Smithsoniano degli Stati Uniti, e Su, il famoso astronomo dell'osservatorio di Washington, l'hanno ormai luminosamente provato. - E come mai i raggi del sole ci appaiono gialli? - Perché oltre alle fiamme violette, ne ha pure di gialle e siccome queste sono le più lunghe e hanno una maggiore estensione ci giungono prima. Quando le violette arrivano, le prime hanno già saturata la nostra atmosfera. - Sicché anche gli altri astri, che a noi sembrano d'oro più o meno giallo o rossiccio, avranno invece tinte diverse. - Sì, signor Rokoff. La stella Scorpione, per esempio, è d'un rosso fiammeggiante, mentre la sua vicina, che le tiene compagnia, è un piccolo sole verde pallido! Sirio invece è d'un viola oscuro; la Beta della costellazione del Cigno è pure violetta, mentre la sua compagna è giallo-pallido. - Deve essere però enorme il nostro sole per sprigionare tanto calore. - Un milione e duecentocinquantamila volte più grosso della terra, signor Rokoff. - Che meschina figura farebbe il nostro globo. - E altrettanto meschina la farebbe il sole messo a fianco di Acturus, il re dei soli, che espande pel cielo cinquemila volte più luce e calore dell'astro che ci illumina - disse il capitano. - Eppure anche il nostro sole deve produrre del calore in quantità enorme - disse Fedoro. - Tanto che nel solo spazio d'un secondo potrebbe, se accumulato, portare al grado di ebollizione cinquecento milioni di chilometri cubi di ghiaccio. - Misericordia! - esclamò Rokoff. - Mi pare di sentirmi cucinare malgrado quest'aria gelata che mi fa scoppiare la pelle del viso. - Ma allora il nostro globo non deve ricevere che una piccola parte del calore che irradia il sole - disse Fedoro. - Una quantità infinitesimale - rispose il capitano. - Diversamente, la nostra terra da migliaia d'anni sarebbe stata abbruciata e ora non sarebbe più che un semplice carbone. - Capitano, non vi è pericolo che il sole possa aumentare la massa di calore che ci manda? - Se si deve credere agli scienziati, il calore del sole non ha ancora raggiunto il suo massimo sviluppo, anzi continuerebbe ad aumentare per sette od ottocentomila anni, poi dovrebbe succedere un periodo di ristagno e quindi di decadenza, perché l'astro finirà col consumarsi. - E che cosa avverrà, quando comincerà a raffreddarsi, per la nostra umanità? - chiese Rokoff. - Se non l'avrà abbruciata prima di giungere a quel periodo, tristi giorni dovranno passare gli abitanti del nostro globo. La terra, non più riscaldata, diverrà infeconda, anche in causa del continuo ritirarsi dei fuochi centrali; le sue estremità si copriranno di ghiaccio e i poli invaderanno a poco a poco l'America e l'Australia. I popoli saranno costretti a radunarsi sotto l'equatore, finché suonerà anche per quelle regioni l'ora fatale. - Capitano, ora mi fate rabbrividire pel freddo - disse Rokoff. - Mi pare di trovarmi rinchiuso in un monte di ghiaccio. Mi sento venire la pelle d'oca pensando a quei giorni. - Serbate i vostri brividi per altre occasioni - disse il capitano ridendo. - Fra dieci, o venti, o centomila secoli non vi saremo più, state sicuro. Lasciate quindi che tremino i nostri tardi pronipoti. Signori, passiamo la catena! Badate alle nausee!

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