Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbassano

Numero di risultati: 19 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

La fatica

169323
Mosso, Angelo 1 occorrenze
  • 1892
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Nel dottor Maggiora la fatica segue un corso inverso, cioè diminuisce rapidamente la forza nel principio, e poi si abbassano lentamente le contrazioni fino all'esaurimento completo. Questa è una grande differenza in confronto della linea retta trovata come espressione della fatica da Kronecker nelle rane e nei muscoli staccati presi dal cane. Ciò dimostra che nell'uomo il fenomeno è assai più complesso. Si direbbe quasi che nella curva muscolare registrata dall'ergografo, leggiamo la differenza così caratteristica che osservasi nella resistenza al lavoro tra gli uomini; alcuni dei quali improvvisamente si sentono affaticati e smettono, mentre altri più perseveranti consumano poco per volta le loro forze, andando per gradi all'esaurimento completo delle medesime. L'ergografo ci dà scritta una delle cose più intime e più caratteristiche del nostro individuo, cioè il modo col quale noi ci affatichiamo, e questo segno particolare si mantiene costante. Se ogni giorno alla stessa ora, noi facciamo una serie di contrazioni col medesimo peso e lo stesso ritmo, otteniamo dei tracciati che presentano sempre lo stesso profilo, e ci persuaderemo che il tipo individuale della fatica si mantiene costante. Sono ora sette anni che faccio delle esperienze con questo mio apparecchio e le curve delle varie persone sono poco cambiate. Nelle memorie A. Mosso, Le leggi della fatica studiate nei mascoli dell'uomo. Memorie della R Accademia dei Lincei, 1888. che ho pubblicate sulle leggi della fatica sono riferiti i tracciati che dimostrano questa costanza nei caratteri personali della curva scritta coll'ergografo. Qui per brevità mi limito a dire che sono eguali e che non si distinguerebbero i tracciati scritti nel 1888 da quelli scritti nei 1884. Però non sarebbe esatto affermare che la curva della fatica rimane costante. Il tipo suo varia quando si modificano le condizioni dell' organismo. Nel dottor Maggiora tra il quarto ed il sesto anno si nota una sensibile differenza, ma egli è divenuto più forte e sono assai migliorate le condizioni della sua salute, in confronto di quello che erano dal 1884 al 1888. Egli resistè meglio alla fatica, e la sua curva mentre oggi nella prima, parte va rapidamente decrescendo, che questo è appunto il suo carattere personale, si mantiene nella seconda parte abbastanza resistente al lavoro prima che si esaurisca l'energia. È inutile che io soggiunga che anche qui egli sollevava 3 chilogrammi col ritmo di 2 secondi. Del dottor Maggiora e del professor Aducco, siccome lavorarono con me per lo spazio di sette anni circa, conservo tutta la serie delle curve durante questo periodo di tempo, chè non passò mai mese che per qualche ragione non facessimo delle esperienze coll'ergografo. Ho dunque tutte le trasformazioni, gli alimenti e le diminuzioni che per cause diverse, presentò la loro forza. Ho notato che le variazioni sono più evidenti nei miei colleghi che sono giovani, di quello che siano sopra di me in cui il tipo è rimasto invariato. Per ottenere ogni giorno le medesime curve bisogna che il nostro corpo lo mantemamo pure in condizioni identiche. Il regime, il riposo della notte, le emozioni, la fatica intellettuale esercitano una influenza evidentissima sulla curva della fatica. Basta che uno digerisca o dorma male o faccia qualche eccesso, perchè subito la curva cambi non solo per la durata del lavoro, cioè per il numero delle contrazioni ma nel tipo stesso della sua curva, così che uno che abbia una curva come quella del professor Aducco, può sotto l’ influenza di cause debilitanti, dare una curva che rassomiglia a quella del dottor Maggiora. Le differenze si riferiscono non solo alla quantità del lavoro meccanico ed alla figura della curva, ma anche al tempo che è necessario al ristoro dei muscoli, così che dovrà aspettarsi un tempo più lungo del normale perchè il muscolo si reintegri nella sua forza. Vedremo cioè che dopo un esaurimento della forza due ore non bastano più, ma ci vorrà un tempo più lungo per dare nuovamente una curva normale. Una differenza notevole nella forza si produce col cambiare delle stagioni: di questo mi convinsi con ripetute esperienze sopra il professor Aducco nel quale il calore della state modifica d' assai la nutrizione del suo organismo. L'esercizio, di tutte le cause che modificano le condizioni del corpo, e quello che aumenta di più la forza dei muscoli. Lo vediamo nel tracciato 10 del professor Aducco, che è quasi lungo il doppio del precedente, perchè qui fa 80 contrazioni, e la loro altezza totale è di 2m959 -. Questo tracciato fu scritto mentre il cilindro si moveva più rapido che nel tracciato della figura 7 : perciò le linee sono alquanto più staccate l’ una dall'altra: ma il ritmo delle contrazioni è sempre di due secondi. Il lavoro meccanico compiuto in questo tracciato per esaurire la forza dei muscoli flessori del dito medio è di chilogrammetri 8.577. Vediamo cioè che dopo un mese di esercizio fa

Pagina 96

Fisiologia del piacere

170734
Mantegazza, Paolo 2 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Se questo si ripete e gli angoli della bocca si alzano e si abbassano convulsivamente, il riso cresce di intensità, finchè la lieta convulsione diventa tanto forte che il respiro è interrotto, l'espirazione riesce difficile, e i poveri visceri del venire; agitati continuamente dalle scosse rabbiose che loro comunica il diaframma, recano disturbo e la mano pietosa corre a proteggerli da tanto eccesso di moto. La circolazione viene pure disturbata, e il volto si fa rubicondo, mentre gli occhi divengono lacrimosi per puro fenomeno meccanico; talvolta si prova un forte dolore all'occipite. Il riso ne' suoi massimi gradi può riuscire pericoloso. Il minimo male che può produrre è quello di farci bagnare con la nostra orina, o di far nascere un dolore di ventre passeggero, mentre può arrivare a produrre la morte coll'apoplessia cerebrale, collo scoppio di un'aneurisma, o con la rottura di qualche viscere. Il riso ridotto ad una formula elementare è una vera scarica nervosa che, per il modo improvviso con cui scocca, trae in convulsione il diaframma ed altri muscoli secondari; è una valvola di sicurezza, con la quale si dà sfogo all'eccesso di forza che non può essere rattenuta. Quando il piacere dura a lungo, e sale a poco a poco di grado, può arrivare alla massima intensità senza produrre il riso, mentre un piacere di minimo grado può far uscire ad un tratto nello scoppio più fragoroso. La natura però del piacere esercita a questo riguardo un'influenza molto maggiore della sua intensità, e il riso è l'espressione più naturale di una classe particolare di piaceri intellettuali che, come abbiamo già veduto, spettano al mondo bizzarro del ridicolo. Lo spasimo più voluttuoso di un amplesso ci fa appena sorridere, mentre la vista di una caricatura ci può fare scompigliar dalle risa. Il singolare si è che vi sono alcune sensazioni, mancanti affatto di elementi intellettuali superiori, che ci trascinano con prepotenza al riso; ciò che si osserva nel solletico. Pare che in questo caso il fenomeno si riduca ad un moto riflesso prodotto da una irritazione di indole specifica.

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Pagina 58

Il successo nella vita. Galateo moderno.

173155
Brelich dall'Asta, Mario 2 occorrenze
  • 1931
  • Palladis
  • Milano
  • Paraletteratura - Galatei
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abbassano gli occhi a terra, nè si lascia correre lo sguardo dietro all'altra persona. Parlando con qualcuno non gli si va troppo vicino. Specialmente persone miopi cadono spesso in quest'errore. Non si parla troppo celermente, ma neppure con una lentezza che stanca; parlando non si grida, ma nemmeno si sussurra.

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Questo si dovrebbe eseguire come segue: Si emette l'aria dai polmoni in posizione prima (calcagni uniti, braccia alle coscie), per cui il ventre verrà premuto fortemente in dentro e le costole si abbassano. Poi durante un continuato alzare delle braccia lateralmente in alto, respirare molto profondamente, in seguito a che il petto si allarga ed anche il ventre si dilata. Quando il polmone è pieno di aria, il corpo si trova in posizione tesa. Sollevando contemporaneamente il corpo sulle punte dei piedi, si aumenta l'effetto di quest'esercizio. Nell'emissione dell'aria aspirata, le braccia vengono abbassate rapidamente e l'aria viene completamente espulsa dal polmone. Si ripeta quest'esercizio più volte. Condizione preliminare per questo esercizio è l'aria buona. Nell' aria corrotta della camera da letto, con finestre chiuse, tale esercizio sarebbe più dannoso che utile. Si badi ancora di aspirare l'aria non attraverso la bocca, ma attraverso il naso. In tal modo essa si libera dalla polvere ed entra nei polmoni già riscaldata.

Pagina 234

Il tesoro

181845
Vanna Piccini 1 occorrenze
  • 1951
  • Cavallotti editori
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Moderazione, signore: una boccata di fumo rischiara, corrobora, tiene su: un pacchetto, due, tre di sigarette abbassano il livello del prestigio femminile. Fumare in pubblico non è sempre grazioso per una donna, lo si tollera, ma mette in disagio chi deve sopportare questa vista. Se in un crocchio al caffè, o in altri ritrovi, un uomo offre una sigaretta, si può anche non rifiutare; ma se una donna è sola, vederla con la sigaretta in bocca è penoso e si può equivocare sulla sua qualità. In istrada tanto meno e ammesso che una donna fumi. In treno chi fuma deve scegliersi lo scompartimento riservato ai fumatori, e se nessun altro si serve del legale permesso, prima di accendere si chiederà ai presenti licenza. Ugualmente, in una casa privata, prima di fumare, si chiederà sempre il permesso agli ospiti.

Pagina 561

Il galateo del campagnuolo

187403
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 1873
  • Collegio degli artigianelli
  • Torino
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Ma guardateli bene in viso senza paura, invocate tutta la forza della vostra autorità e state tranquilli, che abbassano il capo. Che la maggioranza ne' paesi sia di ladri? Si starebbe freschi! «Sarebbe intanto a desiderarsi, osserva il prof. Cantoni, che le provincie prendessero provvedimenti sopra l'accattonaggio, o vagabondaggio nelle campagne, e sul domiciliarvisi di persone, le quali non possono render conto del come vivano. Ogni Comune sussidii i propri poveri, ma sol quelli, che veramente meritano questa qualifica. Gli oziosi, respinti dalle città e dalle campagne intendano una buona volta, che bisogna lavorare.» Oh se si dichiarasse una buona volta guerra agli scioperati, e loro non si desse nè tregua, nè quartiere, e ciò si facesse in tutti i paesi; dappertutto si gridasse: fuori gli oziosi, in modo che essi non trovassero proprio più posto in nessun luogo; oh sì che allora vi sarebbe più lavoro, e i furti campestri sarebbero affatto scomparsi! Nel circondario di Nuoro in Sardegna un proprietario armò a sue spese alcuni giovani valorosi e con essi si è posto a dar la caccia ai briganti, che infestano quella terra; è un esempio da imitarsi. Ma v'è chi dice, che non può sostener la fatica. Non potete sostener la fatica? Ma non faticate a più doppi nel viver di ladroneccio? Dovete far certe vitaccie per sfuggire la vigilanza de' padroni, sottoporvi a pesi enormi, per strade impraticabili, con un'oppressione continua al petto per tema d'essere scoperti; fatiche ben più intollerabili, che mettersi di buona voglia a far quello che è lecito e onesto, dove vi guadagnate un'onorata esistenza, senza paure, e senza rimorsi, con un buon nome fra i compaesani. Più ancora che la passiate sempre liscia; ma sapete il proverbio, che tanto va la gatta al lardo, che alfin vi lascia lo zampino; e voi una volta o l'altra cadrete in trappola, e allora, o vi pigliate tante legnate sulle costole, o tanto di piombo nella schiena, da averne la salute rovinata per tutta la vita; oppure andrete a popolare le prigioni, gettando il disonore sulla fronte de' vostri figliuoli. Ma fate pur di scampar dal carcere, sfuggirete la taccia di ladro, che l'opinione pubblica vi dà? O che credete di non essere conosciuto? Guardatevi d'attorno. Che credito avete nel paese? Chi si fida di voi? Senza che, ditemi un poco, questo vivere sempre col capestro alla gola, questo impallidire ogni volta che vedete un cappello da carabiniere, credete che sia una bella vita? Laddove, chi cammina sul retto sentiero, non ha neppur uno di questi travagli; e può assai bene provvedere a sè e alla famiglia, anche senza beni di fortuna; chè il lavoro, a chi vuol occuparsi, non manca; e non solo con quello può procacciarsi giornalmente il viver suo, ma ancora far qualche risparmio per ogni occorrenza, e guadagnato di santa ragione, il che dà una dignitosa fierezza; perchè ciò che viene dal sudor della fronte ci fa portar la testa alta; e la coscienza netta è un buon origliere per riposare la notte. Ma veniamo a dati men vaghi; che può guadagnare un manovale alla giornata oltre il vitto? Posto la state col verno e tenuto conto delle feste, mettiamo cinquanta centesimi al giorno, il che dà 15 lire al mese, 180 all'anno. Leviamone 80 per vestimenta e per qualche altro bisogno; vi resteranno pur sempre 100 lire per anno, che collocate nella cassa di risparmio della provincia saranno al sicuro dai desiderii de' tristi, e frutteranno buoni interessi, e dopo un qualche tempo potrete con esse comperarvi un angolo di terra, che sarà ben vostro, e diventerete a vostra volta proprietario, senza che nessuna lingua possa ridir un filo sul vostro conto; anzi avrete credito di galantuomo e sarete ben voluto da tutti; che è quello, a che deve badare ogni onesta persona. Per contro se vi date al furto, non avrete mai nulla di nulla; perchè lo sapete il proverbio: la farina del diavolo sen va in crusca; oppure; quel che vien di riffa in raffa, se ne va di buffa in baffa; e andrete per giunta a marcire in prigione, e sarete l'obbrobrio di voi, della vostra famiglia, del vostro paese, di tutti. Oh se l'amor del lavoro, se il rispetto della proprietà, se la dignità personale, fosse giustamente sentita, i frutti della campagna si moltiplicherebbero, l'agricoltura a più doppi prospererebbe, la vita sarebbe più dolce, più tranquilla; e le carceri sarebbero vuote; onde non sarebbe più una favola l'età dell'oro, fantasticata dai poeti. È cosa che stringe il cuore, quando si mette l'occhio sulle statistiche criminali, lì si vede un numero sterminato di miserabili, che poltriscono oziosi in un'aria mefitica di quattro mura, i quali se fossero volti al lavoro potrebbero moltiplicare la produzione nazionale a benefizio di tutto il paese, e invece ora gli sono di dupplice aggravio e pel lavoro cessante, e per la spesa del loro mantenimento; sono consumatori, senza produrre altro che infamia. Voglio recar in mezzo delle cifre. Nel regno italiano, stando alla statistica del 1871, v'è un movimento di 180000, dico centottantamila carcerati all'anno. Ciascuno costa centesimi 80 al dì, onde il paese spende all'anno L. 52,560,000 Calcoliamo ora quanto avrebbero dovuto produrre tante braccia se si fossero impiegate in utili lavori. Ogni individuo può guadagnare una lira al giorno, tenendoci al minimo, che dà il totale annuo di ....... » 65,700,000 Nel 1869 fra testimonii e periti sono stati chiamati dinanzi ai tribunali 1,900,000 persone; mettiamo che per indennità il governo abbia pagato in media L. 3 ciascuno, somma in tutti ........... » 5,700,000 E se questi testimonii e periti fossero restati al lavoro, avrebbero prodotto l'uno sull'altro una lira ciascuno, totale ...... » 1,900,000 Lo scialacquo adunque che portano i prigionieri alla patria nostra è di L. 125,860,000. Dico cento venticinque milioni ottocento sessanta mila lire all'anno. E sì che qui non contiamo lo stipendio de' giudici, de' magistrati, dei direttori delle carceri, degl'ispettori, de' guardiani, che tutti hanno una paga tale e quale; e la questura, i carabinieri, le guardie di sicurezza pubblica? E gl'infiniti casamenti occupati dai carcerati, che potrebbero essere convertiti in tante profittevoli officine? Si può senza tema d'errare, calcolare dieci volte tanto. Vedete ora quanto l'ozio ed il vizio costi all'Italia! E pensare che nell' istruzione lo Stato spende solo 15 500 000 lire! Ma se ci mettessimo da davvero, come abbiam accennato più su, a far noi la polizia in casa nostra, a non tollerare per nulla l'ozioso, l'accattone, a provveder del lavoro sì, e poi guai a chi non adopera le sue braccia per quel che possono; nessuna tregua, nessuna pietà per il vizio; e ciò nelle città, ne' paesi, ne' borghi, dappertutto; oh sì che la voglia di lavorare verrebbe, e che gli nomini sarebbero più onesti e virtuosi. Via su, qui nel nostro villaggio li contiam sulle dita i viziosi, la coscienza di tutti vi declina nome, cognome, paternità del ladruncolo; ebbene non transigiamo: via di qua, poltroni! E se questo grido eccheggiasse in tutti gli anditi, v'assicuro io che i luoghi di pena, se non verrebbero del tutto chiusi, sarebbero di molto ridotti.

Pagina 25

Il pollo non si mangia con le mani. Galateo moderno

188822
Pitigrilli (Dino Segre) 1 occorrenze
  • 1957
  • Milano
  • Casa Editrice Sonzogno
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Egli non pensa una sola parola di ciò che dice; voi non pensate una sillaba di ciò che rispondete, perchè il suo e il vostro subcosciente sanno che questi discorsi non abbassano la temperatura: al contrario! Ma, chissà per quale diabolico motivo, nessuno sa percorrere i dieci piani di un ascensore senza orchestrare in imprecazioni, esclamazioni e lamenti il bollettino meteorologico. Tutto il resto della conversazione dei salotti e dei caffé - tranne qualche argomento sporadico - è dilatazione del nulla. Le signore che si dànno appuntamento in una confetteria, ci vanno, come al bagno turco, per perdere alcuni chilogrammi di parole sotto forma di evaporazioni verbali. Un cancelliere che dovesse riassumere due ore di conversazione in un caffé, non saprebbe che cos'abbiano detto quelle signore, quale fatto sia emerso, quale idea sia scaturita, quale pensiero si sia formato. E se una idea è uscita, se un fatto nuovo si è enunciato, è sommerso in una quantità indistricabile di frasi inutili. Per queste parole inutili che avvolgono quel poco che merita veramente di essere detto, i critici della poesia hanno inventato un termine: in italiano, «zeppa», in francese «cheville», in spagnuolo, «ripio». Cheville è la parola o il gruppo di parole che il poeta - il vacuo poeta, lo sgangherato versificatore - si vede costretto a incollare allo strettamente necessario per trascinarsi fino alla fine dell'endecasillabo; è l'imbottitura che deve aggiungere alle sei o sette sillabe che basterebbero a dire ciò che voleva dire, per arrivare alle undici che gli sono imposte dalla servitù della metrica. Un grande poeta, che era anche un diligente cesellatore, scrisse un verso che è un grido di esecrazione contro il «ripio», la «zeppa», la «cheville» e coloro che se ne servono: «Le dernier des humains est celui qui cheville», l'ultimo degli uomini è colui che... » Il verbo non esiste né in spagnuolo né in italiano, ma avete capito che cosa voleva dire De Musset. Questo abuso della «cheville» costituisce il fondo della conversazione: bisogna essere degli stilisti nel parlare e in tutte le altre forme di esprimersi, per difendersi dall'inclinazione ad abbandonarsi alla voluttuosa comodità. Il Vangelo insegna a dire «sì», quando dovete dire sì, e «no» quando dovete dire no. Ma non tutto ciò che il Vangelo insegna, gli uomini lo hanno messo in pratica. La conversazione è lo sport di interrompersi a vicenda e di non permettere all'altro di terminare la frase. Piccolo inconveniente, quando la conversazione è una ginnastica polmonare, ma fatale quando si ha interesse a sapere qualche cosa. Se volete sapere qualche cosa da qualcuno, evitate che una donna assista al vostro colloquio. Esempio: voi volete informazioni sopra il signor X. Il conversatore vi dirà: - Il signor X si è fatta una posizione con mezzi non del tutto encomiabili. La persona che interrompe interromperà: - L'ho conosciuto a Viareggio. Il signore che aveva voglia di parlare del signor X, aggiungerà: - A Viareggio? Noi ci andiamo ogni anno. Quest'anno però ho preferito la Costa Azzurra. A Montecarlo ho giocato alla roulette... E voi non sapete più nulla sul signor X, perchè la conversazione è stata deviata sulla roulette o sulla Costa Azzurra. Colui che sa ascoltare si comporta nel modo opposto. - Il signor X si è fatta una posizione con mezzi non del tutto encomiabili. Quello che non interrompe stupidamente: - Poco encomiabili? - Si potrebbe dire riprovevoli - continua colui che ha veramente qualche cosa da dire. - E' passato da un fallimento all'altro. - Fallimento? - Bancarotta fraudolenta, il che gli fece avere delle seccature giudiziarie. - Giudiziarie? - Ha passato qualche mese in carcere. Immaginate invece che con voi ci sia una donna di quelle che non sanno ascoltare e impediscono agli uni di parlare, agli altri di udire: - Ah, che orrore! Piuttosto che il carcere preferirei mille volte morire. E il primo si metterà a parlare della morte, ma non parlerà più come desideravate voi, e forse ci eravate andato apposta, del signor X. Invece colui che sa ascoltare si attaccherà all'ultima parola: - Carcere? L'altro, incoraggiato, continuerà: Poi venne un'amnistia, trovò nuovi capitali, sposando una vedova ricca, una tedesca. Colui che non sa ascoltare: - Non sposerei mai un tedesco. I tedeschi... E la conversazione gira sopra i tedeschi. Colui che sa ascoltare dice: - Una vedova ricca? - Sì, e la moglie ha pagato, fino al giorno in cui disse «e ora basta», ed è scappata con un direttore d'orchestra. Colui che non sa ascoltare: - Ho conosciuto il direttore d'orchestra Dimitri Mitropoulos: per me è superiore a Toscanini....

Pagina 143

Nuovo galateo

189953
Melchiorre Gioja 3 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
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. * Alla China gli uomini tenendo le due mani unite sul petto, le movono in modo grazioso, ed abbassano un poco la testa, dicendo Isin, Isin. Abbordando una persona rispettabile, alzano le due mani giunte, quindi si abbassano sino al suolo. Se due persone dopo una lunga separazione vengono ad incontrarsi, s'inginocchiano amendue, abbassano la testa sino a terra, e ripetono due o tre volte la stessa cerimonia. Chi facesse la riverenza all'europea, riceverebbe cinquanta colpi di bambou per ordine paterno del benignissimo mandarino del suo quartiere. L'abitante della Nuova Orleans, allorchè presentasi al capo della sua nazione, lo saluta con un urlo: passa quindi nel fondo della regia capanna senza guardare nè a destra nè a sinistra, e là rinnova il saluto alzando le braccia sulla testa ed urlando tre volte. Il re lo invita a sedere con un piccolo sospiro; il suddito lo ringrazia con un nuovo urlo; a ciascuna dimanda del re il suddito urla pria di rispondere, e rinnova la stessa gentilezza allorché parte. Nelle Indie si misura il rispetto dalla distanza a cui si ritira il salutante dal salutato: allorché passa un Bramine (specie di sacerdote o di monaco) grida o fa gridare da lungi ad alcuno di casta impura di ritirarsi alla distanza che basta: questa distanza è fissata, ed é più o meno grande in proporzione della bassezza della, casta. Un Cego o Tier, per es., dee rimanersi a quella di 64 passi; e le caste più basse, come i calzolai, i Paria' i Pulià , a quella di 128. L'Europeo volendo cogli atti dar argomento di rispetto e di venerazione, si nuda il capo; l'Orientale se lo copre; quegli nella massima effusione del sentimento curva soltanto il capo e il dorso; questi volendo anch'egli esprimere la sua riverenza, nasconde il capo e prostrasi faccia a terra. L'lnglese in un accesso d'urbanità o d'amicizia vi afferra pel braccio, ve lo scuote vigorosamente come se volesse strapparvi la spalla, il tutto freddamente, senza che il volto dica nulla, e quasi che tutta l'anima fosse passata nel braccio che vi viene scosso a più e forti riprese. Questa gentilezza facchinesca fa le veci degli abbracci de'Francesi e degl'Italiani.

Pagina 169

Coloro che aspirano al vanto di gentilezza speciale, abbassano, senza affettazione, d'un grado la voce allorché parlano alle belle, il loro discorso s'indirizza ad esse come a terze persone; ai fratelli di esse, benchè loro amici, non danno del tu volgare alla loro presenza, e, in vece di nominarli col semplice nome battesimale, qualche epiteto indicante stima od affezione v'aggiungono. Siccome la modestia, la tenerezza, la fedeltà devono essere le virtù principali delle donne, siccome un'aria d'innocenza dee regnare ne' loro sguardi, il timido pudore sulle lor guance, la grazia in tutti i moti delle persone; quindi sarete impulito se terrete loro discorsi che le costringano ad arrossire, se farete gesti che suppongano in esse estinta la virtù, o le inviterete a giuochi cui il solo ardimento dell'uomo suole, cimentarsi. Non é mia intenzione di tacciare d'impulitezza ogni maniera di scherzi e di giuochi: io so che la bella Galatea gettava de' pomi al suo pastore, ma fuggendo tra'salci, benché bramosa d'essere prima veduta, forse voleva dirgli: Arréstati. La pulitezza vorrebbe anco che lo scherzo o il giuoco fosse una specie d'omaggio al gentil sesso: Emilio, sfidato al corso da Sofia, lascia ch'ella corra avanti; quindi, raggiuntala di slancio, l'abbraccia dolcemente, la trasporta alla meta qual lieve piuma, e grida Vittoria a Sofia, alla presenza de' suoi genitori che sorridono. Paragonate la condotta di que' giovanastri sfrontati, i quali, anco alle donne che non conoscono, si presentano con una mano nella cintura dei calzoni, coll'altra nel giubboncello , con testa alta, sguardi impertinenti, ed aria di conquista e di trionfo;

Pagina 226

M. non gli parlano fuorché in ginocchio, Ne'primi giorni del nuovo anno giungono a Pekin dalle province dell'Impero più di mille mandarini per complimentare l'imperatore; essi vengono distribuiti nelle differenti corti dal palazzo, secondo la loro dignità; tutti insieme fanno tre genuflessioni, ed abbassano tre volte la testa verso l'interno del palazzo; un officiale del tribunale delle cerimonie dice ad alta voce: in ginocchio; e il suo ordine é eseguito: egli dice poscia: Battete la testa contro terra; e tutti battono la testa contro terra: lo stesso ufficiale dice: Alzatevi; e ciascuno si alza. - È cosa ambita e raramente concessa l'essere ammesso all'onore di dar del naso per terra. Mario Equicola nella storia di Mantova accusa Giovanni Galeazzo Visconti, duca di Milano, di avere corrotti i costumi italiani, e per es., d'udir i suoi sudditi facendoli star ginocchione davanti a lui e di farsi baciar la mano; il che in Italia, ei soggiunge, era prima tenuto atto servile. Schiller dice dell'imperatore Rodolfo II, il quale era dominato dalla passione pe'cavalli « L'accesso » a lui era chiuso a chiunque; ed era necessario » vestirsi da mozzo di stalla per avvicinarsi alla sua » persona ». Bernier racconta che l'imperatore del Mogol non pronuncia una sola parola senza che i grandi della corte non alzino le mani al cielo e non esclamino - Maraviglie!Maraviglie! I titoli fastosi che assumono i re asiatici possono scandalizzare gli Europei, cui l'abitudine non fa un dovere di rispettarli, ma non lasciano d'essere men veri. Il re d'Ava, per., es., si chiama Dio; e allorché egli scrive ad un sovrano straniero, si intitola re de're, al quale tutti gli altri devono obbedire, come amico e parente di tutti gli Dei del cielo e della terra; colui che, per l'affezione che questi hanno per esso, é la causa della conservazione di tutti gli animali e della successione regolare delle stagioni; fratello del sole, prossimo parente della luna e delle stelle, padrone assoluto del flusso e riflusso del mare, re dell'elefante bianco e dei ventiquattro parasoli . I re d'Ava portano questi parasoli come contrassegni della loro dignità. Questi e mille altri simili usi, infinitamente diversi da' nostri, tendono a confondere nella mente del popolo l'idea del principe coll'idea della divinità.

Pagina 249

IL nuovo bon ton a tavola e l'arte di conoscere gli altri

190556
Schira Roberta 1 occorrenze
  • 2013
  • Salani
  • Milano
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L'invitato con leggera tendenza paranoica sospetta che gli altri invitati, se si appartano o abbassano la voce, parlino di lui ed è circospetto anche nei confronti del cibo. La coppia scoppiata. Non c'è nulla di peggio che capitare a cena una sera in cui i padroni di casa hanno litigato o sono in crisi o stanno per separarsi e, nonostante questo, si ostinano a organizzare cene e inviti. Oppure decidono di uscire lo stesso in coppia. Lo fanno o come estremo tentativo per salvare il matrimonio, o perché hanno bisogno di un pubblico. Davvero imbarazzante. Ciascuno dei due ha un solo obiettivo per tutta la cena: ricoprire di frecciatine malefiche il partner approfittando della presenza di estranei per rinfacciare tutto il rinfacciabile. Una volta, alla fine della serata, l'uscita del marito «Potresti alzare quel sederone cellulitico e andare a prendere una bottiglia di vino, per cortesia, visto che non hai fatto un cavolo per tutta la sera?» ha fatto capire a noi ospiti che forse era meglio togliere il disturbo. La maggior parte delle volte i rimproveri lasciano completamente indifferente il diretto interessato, ma mettono in seria difficoltà gli ospiti. I peggiori sono quelli che vi obbligano a prendere posizione. Davanti a un «Diglielo tu, se non ho ragione?» oppure un «Secondo te? Avanti, di' quello che pensi!» è meglio svignarsela. In questi casi l'unica cosa saggia è rispondere con un diplomatico: «Scusate, ma si è fatto tardi» e battere in ritirata. La coppia pomiciona. A pensarci bene, non so se sia più intollerabile la coppia scoppiata o la coppia pomiciona. Li riconoscete quasi subito, perché arrivano tenendosi per mano. Badate, descrivendovi questa tipologia di coppia non sto affatto pensando a due studenti, o a una coppia fresca di luna di miele, no, i fidanzatini in questione possono essere anche due settantenni che si sono appena conosciuti, anzi è proprio a loro che mi sono ispirata, avendone incontrato recentemente un paio di esemplari. Sembrano isolati dal mondo, a tavola vi passano il sale continuando a fissarsi negli occhi, si estraniano dalle conversazioni, si tengono per mano sotto il tavolo, ma senza particolare passione. Si chiamano tra di loro con nomignoli nauseabondi e, se intervengono attivamente alla serata, parlano continuamente di come si sono innamorati, della loro canzone preferita e dei loro progetti futuri. Una variante della coppia pomiciona è la coppia in attesa; in questo caso, l'argomento principale sarà ovviamente il nascituro e il corso di preparazione al parto, l'ultima ecografia oppure le sopraggiunte intolleranze alimentari di lei. La coppia in odore di santità. Sia in veste di ospite sia di anfitrione la coppia in odore di santità, appena seduta a tavola, dedica qualche minuto di preghiera a ringraziare il Signore, poi la cena prenderà l'avvio sul tono pacato, tranquillo e fintamente pacifico dei padroni di casa. Gli argomenti di conversazione saranno opportunamente selezionati, nulla che possa turbare le coscienze. Ecco, la persona più vicina a questa tipologia, anzi il personaggio perfetto per farvi capire a chi sto pensando, è Ned Flanders, il vicino devoto di Homer Simpson, quello che lui definisce «più santo di Gesù». Ovviamente non si fanno inviti il venerdì e, se capita, niente carne per rispettare il giorno di magro mentre, la domenica, l'invito a pranzo potrebbe comprendere anche la partecipazione alla Santa Messa. I figli della coppia in questione si alzano a sparecchiare, poi vanno a letto da soli: dei veri mostri. L'anfitrione ipermaterno. Il padrone di casa ipermaterno o iperpaterno inizia ad accudirvi non appena entrate in casa assillandovi di domande e ha un unico scopo per tutta la sera: occuparsi di voi rimpinzandovi di cibo. «Non ti piace la carne di agnello? Oh, ma non ti preoccupare, ho in freezer una bistecca di manzo, oppure un branzino o preferisci un pezzo di gallina?» Dopo cena vi fa sedere sul divano, vi mette addosso una copertina e vi toglie le scarpe, e guai a voi se osate protestare. La sua preoccupazione principale è che ve ne andiate da casa sua senza sentirvi sazi e così vi ingozza di cibo, di oggetti, di parole e possibilmente anche di qualche «schiscetta» per il viaggio, nel caso abbiate ancora un languorino. Si preoccupa per la vostra salute fisica e morale e in genere utilizza, in pieno stile materno, il ricatto come modalità relazionale: «Se non torni entro una settimana, potrebbe venirmi quell'eritema di origine psicosomatica», «Se non finisci le lasagne le getterò tutte nella spazzatura: è davvero un peccato». E, prima di congedarvi, un «Trovati un/una fidanzato/a, è ora che tu metta la testa a posto» non ve lo toglie nessuno. L'ospite oculato, ossia taccagno. Se siete riusciti a farvi invitare da un autentico taccagno siete bravissimi. Lui non ha mai con sé il portafogli, come un mio amico di Torino, gira sempre con una banconota da cento euro in tasca evitando così le piccole spese come offrire aperitivi, caffè o pagare il taxi. Al ristorante vuole sempre fare alla romana, segnandosi le sue portate. Se viene invitato difficilmente porta qualcosa, ma se lo fa probabilmente è un regalo riciclato: occhio alla scadenza. Però dopo il vostro ennesimo invito decide di ricambiare: state pronti. Non c'è nulla che non va, se non nelle porzioni e nella qualità degli ingredienti: porzioni ridotte e ingredienti scadenti. Ma quello che denuncia irrevocabilmente l'anfitrione tirchio è la scelta del vino: se volete bere decentemente conviene che ve lo portiate da casa.

Pagina 35

La giovinetta educata alla morale ed istruita nei lavori femminili, nella economia domestica e nelle cose più convenienti al suo stato

192770
Tonar, Gozzi, Taterna, Carrer, Lambruschini, ecc. ecc. 1 occorrenze
  • 1888
  • Libreria G. B. Petrini
  • Torino
  • paraletteratura-galateo
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Pagina 337

Le buone maniere

202456
Caterina Pigorini-Beri 1 occorrenze
  • 1908
  • Torino
  • F. Casanova e C.ia, Editori Librai di S. M. il re d'Italia
  • paraletteratura-galateo
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Pagina 87

Eva Regina

204184
Jolanda (Marchesa Plattis Maiocchi) 2 occorrenze
  • 1912
  • Milano
  • Luigi Perrella
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Pagina 585

Anch'egli si è sposato, con una buona fanciulla che seppe subito indovinare sotto l' apparenza un po' rude e la deficienza delle qualità mondane il vero valore del carattere e la garanzia d' una futura felicità ; infatti le sue abitudini di sobrietà e di lavoro, il suo amore alla casa e alla famiglia ; la delicatezza di sentimento, i riguardi gentili che spiega in ogni occasione, tutte, infine, le manifestazioni della sua personalità così nobile d'animo sebbene non vanti un blasone, rivelano ogni giorno più i tesori che sono in lui e col confronto involontario, abbassano sempre più l' altro, il rivale vincitore, agli occhi e all'anima della delusa rendendo più amaro il rimpianto dell' irrevocabile. E se dalla finestra del suo palazzo, dalle fredde stanze ove rimane per tanto tempo sola ; o dalla sua carrozza stemmata dove cerca inutilmente di sfuggire al suo cruccio segreto ; o dal suo palchetto al teatro in cui fa pompa dei suoi gioielli con l' anima chiusa alla gioia e avvelenata dalla gelosia — vede la coppia bene assortita e felice, non potrà a meno di sostituirsi mentalmente a quella sposa avventurata e pensare che così avrebbe potuto essere di lei se fosse stata meno ambiziosa, meno romantica, meno sollecita del proprio egoistico bene. Ecco là ciò che avrebbe potuto essere : la pace, l' amore, la serenità ; ecco la visione beata del paradiso di cui ella non varcherà la soglia d'oro mai più.

Pagina 662

Una famiglia di topi

205266
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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Sono le nostre azioni quelle che c'innalzano o ci abbassano. E tu diventeresti dicerto un topo inferiore se continuassi a tenere in pena i miei, per istartene qui a chiacchierare con mia sorella.... - Amico - rispose Rosicalegno, incoraggiato da quelle parole generose e giuste; - se la Lilia e io s' è fatto questo sbaglio, gli è che non possiamo vederci apertamente; ma tu non puoi figurarti quanto ci vogliamo bene.... - - Non puoi figurarti quanto ci vogliamo bene! - fece eco la Lilia. - Zitta, sfacciata! - l' interruppe di nuovo Dodò; che riprese, voltandosi dalla parte di Rosicalegno: - Orsù, dammi retta. Siccome io sono d' un carattere leale e risoluto, e non mi garbano i mezzi termini, ti espongo francamente una mia idea. Così la faccenda non può continuare. Anche s' io non la scoprivo, si sarebbe giunti, prima o poi, a conoscer la verità; la Lilia sarebbe stata rinchiusa in gabbia, per levarle il ruzzo, e tu.... - Io sarei stato ucciso, come sarò ucciso di sicuro - rispose con tristezza il povero sorcio. Dodò, se il caso non fosse stato tanto grave, trattandosi del poco giudizio di sua sorella, avrebbe sorriso. Si vedeva proprio che Rosicalegno non conosceva affatto la famiglia Sernici, tutta compassione per gli uomini e per le bestie. In quella casa non s' uccideva nè pure una mosca. Tutt' al più avrebbero potuto mettere in dispensa qualche trappola, non per far male al sorcio, ma per pigliarlo ammodino, se sciupava le forme del parmigiano, e portarlo in cantina, dove poteva sbizzarrirsi con altri suoi compagni. Più d' una volta la Letizia aveva avuto quest' ordine dai padroni. - Non sarai ucciso, non aver paura! dichiarò Dodò con tutta certezza. Basta che tu mi ubbidisca e faccia il topino perbene. - Che debbo fare? - domandò, sempre turbato, Rosicalegno, - Ecco qua: in vece di stare ne' nascondigli e ficcarti in tutti i buchi più oscuri, se gli è vero che tu ami la mia sorella, devi mostrarti ai signori, e venir proprio in mezzo a noi. - Ah mai! mai! - esclamò tutt' impaurito l' estraneo. - E perchè? - Perchè la mia razza è disprezzata, perchè son brutto, perchè son povero, perchè non ho avuto nè educazione, nè istruzione, io! - Nel dire queste parole, gli venivano i lucciconi; e guardava la Lilia come un povero spazzacamino potrebbe guardare la figliuola di un re. La Lilia, per dissimulare la commozione interna che la straziava, s'era messa a lisciarsi la testa, tanto per avere la scusa di strofinarsi gli occhietti. - Non è il caso di far tanti discorsi - ripigliò calmo Dodò. - Io conosco la nostra famiglia; e ti assicuro che invece d'essere scacciato e maltrattato perchè non sei indiano come noi, se ti mostri agevole e grazioso, avrai cure e carezze. - Coraggio, Rosichino mio, coraggio! - susurrava la Lilia all' orecchio dell' amico, a cui aveva messo quel nomignolo per affezione. - Coraggio, coraggio! - ripetè Dodò, che questa volta non isgridò la sorella. - Si fa presto a dire: coraggio! - ripicchiava l' altro; - ma quando si è topi non si è leoni. Io, per amore della Lilia, mi butterei nel petrolio ardente; ma sento che le gambe non mi reggono, se debbo veder de' signori. Non ci sono avvezzo, io; sono un selvaggio. - Prova; - gli ordinò Dodò - perchè se, dopo tutta la tolleranza che ho avuta e i buoni consigli che t' ho dati, ti ritrovo ancora nei cantucci con mia sorella, la Lilia la mordo a sangue; e quanto a te.... quanto a te, so io come ti concio. - Coraggio, Rosichino mio, coraggio! - badava ancora a susurrare la Lilia. - Verrò - promise finalmente Rosicalegno, che non sapeva resistere alle moine di quella topa. - Verrò; e sarà quel che sarà! - Sarà il tuo matrimonio e la tua fortuna, credimi! - disse Dodò, sicuro del fatto suo. Poi, avvicinatosi al topino bigio, gli diede un bacio fraterno sul muso; e tirando la propria sorella per una zampa, le ordinò: - Marcia al tuo posto, tu! E senza voltarti indietro. -

Pagina 192

Il libro della terza classe elementare

211003
Deledda, Grazia 1 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
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Le acque del mare lo sollevano e lo abbassano e lo scuotono, con onde enormi, che spesso si rovesciano anche al di sopra di esso. Il pilota non può più governare il timone, e perderebbe l'orientamento, cioè non saprebbe come è diretta la nave, se non avesse la bussola.

Pagina 342

C'era due volte il barone Lamberto

219698
Gianni Rodari 1 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
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Gli altri abbassano gli occhi, sospirando. Non sanno bene cosa gli conviene rispondere. Ma non possono mettersi contro Delfina. — Va bene, — cede il barone, — vi dirò tutto. Ma per il momento non può dire niente, perché stanno arrivando i ventiquattro direttori generali delle sue banche, seguiti dai ventiquattro segretari che portano le cartelle. Marciano per tre, con passo militare, decisi a vedere il barone in faccia da vicino. La folla si divide per farli passare. Essi circondano il barone con aria minacciosa. Il direttore generale della Banca Lamberto di Singapore, che è il piú anziano del gruppo e parla per tutti, dice: — Signore, potremmo restare soli? Il barone, sorpreso, li guarda uno per uno. Non gli sembrano tanto contenti della sua rinascita. Come mai? — Anselmo, — egli dice, — accompagna la signorina Delfina e i suoi amici in soffitta. Li raggiungerò tra un momento. A tutti gli altri signori e signore, i miei piú sentiti ringraziamenti e un cordiale arrivederci. Come vedono, ho una riunione d'affari... Ecco, siamo soli. Cioè, siamo soltanto quarantanove. Chi chiede la parola? — Io, — dice il direttore generale di Singapore. — Prego. — Sarò breve. Anzi, sarò interrogativo. Come mai lei ha due orecchie? — Mi sembra di averne il diritto. Anche i gatti ne hanno due. — A chi apparteneva, allora, l'orecchio che i banditi ci hanno inviato? — A me. — In questo caso, lei aveva tre orecchie, non due. — Le dirò... — Ci mostri le mani, per favore, — lo interrompe il direttore generale. Il barone esegue, dando lui stesso un'occhiata. Toh! Il dito amputato è ricresciuto completamente, e figura al suo posto come niente fosse. — Come mai ha dieci dita? — incalza l'inquisitore. — E lei, quante ne ha? E lor signori, quante ne hanno? E quante ne ha il Papa di Roma? — Lasci in pace Sua Santità. Lei è un impostore! — Riconosco, — ammette sorridendo il barone Lamberto, che i fatti sono alquanto strani ed insoliti. — E fa bene, — lo interrompe nuovamente il direttore generale di Singapore. — Quanto a noi, non riconosciamo in lei il barone Lamberto, proprietario e presidente delle banche che qui rappresentiamo. — Chi sono io, allora? — Sono fatti suoi, egregio signore. La sua carta d'identità non c'interessa. Della scomparsa del barone Lamberto risponderà alla polizia. — Ben detto, — ripetono in coro gli altri ventitre direttori generali. I ventiquattro segretari si affrettano a prendere nota anche di questa importante battuta. Il barone Lamberto sorride. Non per la battuta, né per la minaccia di far intervenire la polizia. Gli è venuta in mente un'altra cosa. È questa che lo fa sorridere. — Signori, — dice, alzandosi di scatto e dirigendosi verso le scale, — abbiano la bontà di attendermi qualche minuto. Mi sono ricordato di una cosa d'importanza decisiva. Nel frattempo manderò il mio maggiordomo a servire dei rinfreschi. — Ma cosa le salta in mente? — Dove va? Venga qua! — Fermate l'impostore! Ventiquattro piú ventiquattro scalmanati inseguono vociando il barone Lamberto, che sale i gradini a tre per volta, spalanca la porta delle soffitte, piomba sul gruppetto in attesa e fa: — Signorina Delfina, mi vuole sposare? — Come ha detto, scusi? — Le ho chiesto se mi vuole sposare. Non sarebbe una cosa magnifica? Mi è venuta in mente proprio adesso, mentre discutevo con questi signori. Da quando l'ho conosciuta il mio cuore batte solo per lei, i miei occhi vedono solo i suoi occhi verdi e i suoi capelli rossi. Sento che siamo fatti l'uno per l'altra e che vivremo per sempre felici e contenti. La signora Zanzi e la signora Merlo si abbracciano per la gioia, confidandosi che loro l'avevano sempre pensato. Il signor Armando ci resta di gesso, perché un pensierino su Delfina l'aveva fatto anche lui. Il signor Bergamini e il signor Giacomini battono le mani e si permettono di scherzarci sopra: — A quando i confetti? — Viva la signora baronessa! — Un momento, — dice Delfina, senza scomporsi, non ho ancora detto la mia opinione. — Dica di sí, Delfina, — insiste il barone, — e questo sarà il piú bel giorno della mia vita. — Invece dico di no. Sorpresa, esclamazioni, commenti vari: «Ma che maniera di buttar via la fortuna!», «Ecco, non le basta un barone, forse vuole un principe azzurro», «È perfino maleducazione, rispondere di no a un signore cosí perbene!» — È proprio un «no-no», o è soltanto un «no-forse», oppure un «no-vedremo», o magari un «no-aspettiamo un po' di tempo»? — incalza il barone. — Mi lasci qualche speranza. Mi dica almeno «ni». — Ma neanche per sogno. Per il momento il matrimonio è l'ultimo dei miei pensieri. — E il primo qual è? — domanda il signor Armando. — Il primo, — dice Delfina, — è di capirci qualcosa in tutto questo pasticcio. Il barone ci aveva promesso una spiegazione. — Piú che giusto, — sospira il barone (quante volte gli tocca sospirare, oggi). — Vi dirò tutto. — Era ora, — commentano i ventiquattro direttori di banca, che si sono infilati anche loro nella soffitta (i ventiquattro segretari sono rimasti fuori sulle scale, per assoluta mancanza di spazio). — L'anno scorso, in ottobre, mi trovavo in Egitto... Il barone Lamberto rivela il suo segreto. Racconta ogni cosa per filo e per segno, mentre Anselmo fa di sí, di sí con la testa. Anselmo, anzi, interviene una volta per ripetere le parole precise del santone arabo incontrato per caso all'ombra della Sfinge: «Ricordati che l'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita». Tutto ora diventa chiaro alla mente dei ventiquattro direttori di banca. Essi passano dal sospetto alla commozione. Quando il barone arriva al punto in cui i banditi gli tagliano prima l'orecchio poi il dito, essi non resistono: cadono in ginocchio, gli baciano le mani, specialmente il dito nuovo. Qualcuno gli bacia anche l'orecchio. Quando il barone arriva al momento in cui si sveglia nella cassa da morto, la signora Merlo si fa il segno della croce e la signora Zanzi, appassionata del gioco del lotto, mormora tra sé: «Morto che parla fa quarantasette». Anselmo piange e lascia cadere due o tre volte l'ombrello, che i direttori di banca si chinano a raccogliere per mettersi in vista. — Ecco, — dice il barone, — questo è tutto. E ora, che ne direste di fare un brindisi alla salute dei presenti? — A proposito di salute, — dice Delfina, — se ho capito bene, siamo noi che le abbiamo restituito la sua. — Certo. — E senza nemmeno essere dottori, — prosegue Delfina. — Siamo proprio meglio dei maghi. Abbiamo mantenuto in vita questo gran signore con la nostra voce. Con il nostro lavoro. Di cui non comprendevamo nemmeno il significato. Per settimane, per mesi, quassú a ripetere il suo nome come pappagalli, senza sapere perché. A proposito, un disco o un nastro registrato, non avrebbero ottenuto lo stesso effetto? — No, signorina, — spiega Anselmo. — Avevamo fatto qualche esperimento, ma non funzionava. — Ci voleva la voce umana, — dice Delfina, — ci volevano i nostri polmoni. Per mesi abbiamo tenuto nelle nostre mani la vita del barone Lamberto senza saperlo, senza nemmeno sospettarlo... — Già, — esclama il signor Armando, sorpreso, avremmo magari potuto chiedere un aumento di stipendio. — Di più, — scopre il signor Giacomini, stupito, — avremmo potuto chiedere anche un miliardo. Lei, signor barone, ce lo avrebbe dato un miliardo. Lei, signor barone, ce lo avrebbe dato un miliardo, se glielo avessimo chiesto? — Si capisce, — ammette il barone, — anche due. — Ma allora, — balbetta il signor Bergamini, sbalordito, — allora, in un certo senso, siamo stati... truffati. — Macché truffati! — esplode il direttore della banca di Singapore. — Siete stati pagati benissimo. Ma senti che roba! — La manodopera, — commenta il direttore della banca di Zurigo, — ha sempre delle pretese scandalose. — Adesso però, — dice Delfina, — non serviamo piú. — Per carità! — si affretta a dire il barone. — Avrò bisogno di voi come prima, a qualunque prezzo. — No, signor barone! — grida dal fondo delle scale uno dei segretari. — Questo no! — Come? Chi è che si permette? Resti al suo posto, lei! Faccia silenzio! Sembra che i ventiquattro direttori generali vogliano saltare tutti insieme sul povero piccolo segretario, per schiacciarlo con il loro peso. — Piano, piano, — fa il barone incuriosito, — lo lascino dire... Venga su, lei, parli apertamente. — Signor barone, — dice il segretario, emozionatissimo, — lei non ha piú bisogno di nessuno. Sono ore che nessuno pronuncia piú il suo nome, eppure lei, a quanto pare, continua a vivere, non accusa disturbo veruno e non accenna minimamente ad invecchiare. — È vero! — esclama Anselmo. — È proprio vero, signor barone! — È vero, è vero, — gridano, al colmo dell'entusiasmo, i ventiquattro direttori di banca. Delfina e i suoi amici si guardano. Il barone guarda Delfina. Sembra che la storia stia arrivando a una svolta decisiva. — Anselmo, — dice il barone, — controlliamo. Anselmo cava di tasca il suo libriccino e comincia il controllo delle ventiquattro malattie, del sistema scheletrico, del sistema muscolare, del sistema nervoso, dell'apparato circolatorio, eccetera eccetera. È tutto a posto. Non c'è una sola cellula che faccia i capricci. La circolazione dei reticolociti è in aumento. — Interessante, — mormora il barone, — interessante. Mi sento come nei miei giorni migliori. Come mai? — Signor barone, — insiste il piccolo segretario, deciso a far carriera, — il perché è chiarissimo. Lei è rinato, signor barone! La sua vita di prima, quella che era appesa al filo della voce di questi... di questi sei... di questi signori, è finita. Là fuori, sul lago, è cominciata per lei una seconda vita. Lei non ha piú bisogno di nessuno! Di nessuno! — Interessante, — ripete il barone, — dev'essere proprio cosí. Mi sento veramente rinato. Quasi quasi prenderei un altro nome, per dimenticare quello di prima. Che ne direste di Osvaldo? — Mi permetto di consigliare Renato, — osa ancora il piccolo segretario. — Perché? — Renato vuol dire, appunto, nato due volte. E poi... e poi... col suo permesso, anch'io mi chiamo Renato. — Bravo, — dice il barone. — Ragazzo intelligente. Anselmo, segnati cognome e indirizzo. Merita una promozione. Dunque, mi pare che a questo punto possiamo sciogliere l'assemblea. — E noi? — domanda la signora Merlo. — Siamo licenziati? — domanda il signor Armando. — Avremo almeno la liquidazione? — domanda il signor Bergamini. I ventiquattro direttori di banca protestano in coro: — Anche la liquidazione! Ma dove andremo a finire? Il barone Lamberto-Renato, invece, sorride. Strano sorriso, però. Sembra che stia pensando di fare uno scherzo a qualcuno. Uno scherzo maligno... — Ma sí, — dice dopo aver sorriso per un centinaio di secondi, — la liquidazione ci vuole. Anselmo, prepara per ciascuno di questi tre egregi signori e di queste gentili signore... un sacchetto di camomilla. Scegli l'annata migliore. Consiglierei... Tibet del Settantacinque. — Bravo! — approvano i direttori di banca e i loro segretari. — Bravissimo! — grida il piccolo segretario Renato, per battere il ferro finché è caldo. Delfina e i suoi amici restano silenziosi e meditabondi. Anche perplessi. Anche indignati. Cinque paia d'occhi fissano Delfina. Forse lei ha una buona risposta pronta. Si capisce che la sta pensando da come corruga le sopracciglia, da come si batte col dito medio sul ginocchio. Anche il barone Lamberto guarda Delfina con curiosità. Lei per un pezzo resta zitta fissando un punto nell'aria, non si capisce esattamente dove, forse una trave del soffitto, forse un vetro della finestra, dietro il quale passa maestosamente una nuvola bianca. — D'accordo, — essa dice finalmente, tra la sorpresa generale, — accettiamo il dono generoso del signor barone. — Le sue camomille sono piú profumate delle rose di Bulgaria. Ma noi non vogliamo essere da meno di lui, vero? Ho pensato che anche noi possiamo regalargli qualche cosa... — Piú che giusto, — approva il direttore della banca di Singapore. — Fate una colletta con i vostri risparmi e regalate al barone Lamberto un oggetto ricordo d'oro o d'argento. — Un servizio da caffè, — propone un altro direttore. — Un orologio a cucú. — Un portachiavi a forma di isola di San Giulio. — Zitti, voi, — ordina il barone. — Ascoltiamo Delfina. — Grazie, signor barone, — dice Delfina, con un piccolo inchino. — Propongo dunque ai miei cinque compagni di offrire gratis al barone, per l'ultima volta, un saggio della nostra bravura. In fin dei conti egli non ci ha mai visti mentre pronunciavamo il suo nome. Siete pronti? E senza neanche guardare i suoi imbarazzati compagni, Delfina attacca: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Poi anche il signor Armando si fa coraggio e tira fuori la voce: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Uno alla volta gli altri si uniscono al coro: — Lamberto... Lamberto... Lamberto... «Belle voci, ottima pronuncia», pensa il maggiordomo Anselmo, soddisfatto: è stato lui, a suo tempo, a scegliere i sei dicitori tra centinaia di candidati. Il barone ascolta con un sorrisetto fermo come una vespa all'angolo della bocca. Poi il sorrisetto vola via. Al suo posto un'espressione di stupore gli si disegna su tutta la faccia. Anche i ventiquattro direttori, poco fa semplicemente curiosi e interessati, appaiono stupefatti. Delfina affretta il ritmo, battendo il tempo con la mano sul ginocchio e incitando con le occhiate e con i gesti i suoi compagni a far sempre piú in fretta. — Lamberto Lamberto Lamberto... Con l'allenamento che hanno, passano da sessanta colpi al minuto a ottanta, a cento, a centoventi... A duecento colpi al minuto sembrano sei diavoli scatenati che stiano litigando a colpi di scioglilingua. — Lambertolambertolambertolam... Sotto gli occhi dei presenti, sempre piú meravigliati, il barone Lamberto-Renato comincia a ringiovanire, ringiovanisce, continua a ringiovanire. Ora gli si darebbero venticinque anni. E un giovanotto che potrebbe partecipare ai Giochi Universitari, un attor giovane pronto a salire sul palcoscenico per interpretare parti da primo amoroso. Passa dall'età della laurea a quella della maturità classica. E non si ferma, perché Delfina e compagni non si fermano, non cessano di sparare il suo nome a velocità di mitragliatrice: — Lambertolambertolambertolamberto... Quando il barone è arrivato ad avere diciassette anni ed è già diventato cosí snello che i vestiti gli stanno larghi addosso, comincia anche a diventare piú piccolo, attraversando all'indietro l'età della crescita. — Basta! Basta! — grida il maggiordomo Anselmo, atterrito. I ventiquattro direttori hanno la bocca spalancata, ma non trovano parole da far uscire. Lamberto sembra un ragazzo nei panni del suo papà: i pantaloni sono molto piú lunghi delle gambe, i segni della barba sono spariti dalla sua faccia. Ora avrà quindici anni... — Lambertolambertolambertolamber... — Basta, per carità! Lamberto ha un'espressione sorpresa, non capisce bene quello che gli sta capitando... Si tira indietro le maniche della giacca che gli coprono le mani... Si tocca la faccia... Adesso avrà, sí e no, tredici anni... E ora Delfina smette di dire il suo nome e fa segno agli altri di smettere. Si fa un gran silenzio, si vede Anselmo che sparisce di corsa da qualche parte, ma torna quasi subito, portando un bel vestitino con i calzoni corti: — Signorino, si vuol cambiare d'abito? Questo è quello che le fu regalato nel millenovecento..., anzi nel milleottocentonovantasei... È un po' fuori moda, ma tanto carino. Venga, signorino, venga... Mentre Anselmo accompagna Lamberto in un'altra stanza a vestirsi da giovinetto, si sentono dei singhiozzi... È il segretario di nome Renato che si dispera. — Credevo, — egli dice a Delfina tra le lacrime, — che voi non aveste piú alcun potere sulla vita del signor barone. Ahimè, la mia carriera è finita! — Su, su, — lo consola Delfina, — non se la prenda, lei è tanto giovane, domani è un altro giorno, eccetera eccetera. — Mi dica almeno in che cosa ho sbagliato. — In questo, — gli spiega con pazienza Delfina, — che lei ha formulato una teoria ma non si è preoccupato di verificarla. — Ma è vero o no che il barone stava bene senza che piú nessuno pronunciasse il suo nome? — Forse durava ancora l'effetto del funerale, con tutta quella gente a nominarlo gratis. Ad ogni modo io ho voluto fare una prova. Intanto che c'ero, ho voluto anche vedere che cosa sarebbe successo introducendo nell'esperimento la variabile della velocità. È chiaro e distinto? — Altroché, — sospira Renato. — Lei ha proprio una mentalità sperimentale. Vorrebbe sposarmi? — No, naturalmente. — Perché? — Perché no. — Ah, capisco... Ma ecco che Lamberto ricompare, tenuto per mano da Anselmo, con l'aria di un ragazzetto sperduto e confuso. Si guarda in giro, senza saper che fare. Guarda i presenti come se non li avesse mai visti. Vede Delfina e un timido sorriso compare sul suo faccino. — Delfina, — dice, — vuole diventare la mia mamma? — Ci mancherebbe, — risponde Delfina. — Prima mi vuole per moglie, ora mi vuole per madre. Deve sempre attaccarsi a me per stare in piedi? Lamberto sembra sul punto di piangere. Proprio in quel momento il direttore generale della banca di Singapore, che si è rapidamente consultato con i suoi colleghi, prende la parola per dire: — Signor barone... Anzi... hm... hm... signorino... la situazione ci sembra ora cambiata in modo radicale. Lei non ha piú l'età per presiedere ventiquattro banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore e Altrove... Bisognerà nominarle un tutore, perché è minorenne. A questo provvederemo nella prossima assemblea dei direttori generali. Nel frattempo... Ci è venuta un'idea. Con il suo aspetto fresco e attraente, lei sembra fatto apposta per commuovere il pubblico. Gireremo un film pubblicitario per la Tv, nel quale si vedrà una cassaforte delle Banche Lamberto e Vediamo un po'... Lei si rinchiuderà nella cassaforte sorridendo e pronunciando queste parole: «Qui dentro sto al sicuro come nella mia culla». Le va l'idea? Lamberto guarda Anselmo, guarda Delfina, in cerca di consiglio. Ma Delfina non apre bocca. Gli tocca proprio fare da solo. Stringe i denti e i pugni. Ci pensa su un bel po', finalmente si alza e con voce ferma risponde: — Manco per niente! Il mio tutore sarà Anselmo, che è abituato a obbedirmi, non uno di voialtri, vecchi gufi di banca! E quanto a me... voglio studiare... Voglio fare... La sua faccia s'illumina. Finalmente Lamberto sorride apertamente, allegramente. Si mette perfino a saltellare intorno per la stanza. — Voglio diventare un artista del circo equestre. È sempre stato il mio sogno e questa volta ho tutta una vita per realizzarlo. — Bravo! — grida la signora Zanzi, sempre piú commossa. — La cosa è assurda, impossibile e perfino indecente, — sentenzia il direttore della banca di Singapore. — Lei è indecente, assurdo e perfino un po' antipatico, — gli risponde Lamberto. — Bravo! — grida la signora Merlo. I direttori di banca parlano tutti insieme. Delfina e gli altri parlano tutti insieme. Anche Anselmo parla e parla, mentre Lamberto continua a ballare, saltare e mostrare la lingua al signore di Singapore. — Farò il trapezista, l'acrobata, il giocoliere, ballerò sulla corda, domerò i leoni e gli elefanti, farò il pagliaccio, il suonatore di tromba e di tamburo, ammaestrerò foche, cani, pulci e dromedari... Farà... farà... Che cosa farà? Questo non si può ancora sapere. Ma Delfina adesso è molto contenta del regalo che ha pensato per lui. Proprio in quel momento il signor Giacomini, che per non restare con le mani in mano aveva lanciato l'amo dalla finestra, tira su un pesce di otto etti. — Chi ha detto, — grida il signor Giacomini, eccitatissimo, — che questo era un lago morto? Anselmo, prepari la padella per il fritto. E chi parla male del Cusio l'avrà da fare con me.

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