Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbassandosi

Numero di risultati: 3 in 1 pagine

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Racconti 3

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Infatti aperse le ali, per dar comodo al marchese di cavalcarla, e prese il volo, lentamente da prima, andando su e giú pel vasto locale, obbediente alle redini, accelerando la corsa all'incitamento del fischio del cavaliere, abbassandosi e innalzandosi ... Io guardavo a bocca aperta, quasi non credendo ai miei occhi. «È maraviglioso!» esclamai. «Dovrebbe provare anche lei. Si faccia coraggio». «Sono sempre stato un meschino cavalcante ... Si figuri!» «Non le pare che il problema sia risoluto?» «Solamente ... » obbiettai. «Dica pure ... ». «Solamente non so fino a quanto si possa calcolare su l'obbedienza del re degli uccelli». «Si può calcolare assai meno su l'obbedienza degli ordigni di un dirigibile, di un aeroplano. L'aquila poi ha su di essi un gran pregio: non teme il vento piú impetuoso. Tra un anno mi propongo di fare esperimenti pubblici. Voglio essere assolutamente sicuro. E poi, non ci sarà mai una macchina che potrà sollevarsi cosí alto, fino a due mila metri. Non parlo della spesa. L'aquila non costa niente, appena il suo mantenimento. Le par poco? Tra cinquant'anni ... » Non potevo dire che il marchese di Santa Pia fosse un sognatore. La realtà che mi stava sotto gli occhi superava infatti le arditezze del sogno. Aveva inventato anche una specie di leggero sellino da fissarsi al petto dell'animale, all'attacco delle ali. Una solida tigna avrebbe mantenuto saldo il cavaliere sul sellino, per evitare che fosse preso dalla vertigine dell'altezza e dello spazio. Aveva pensato a tutto, fuorché alla orrenda possibilità ... - Il dottor Maggioli si fermò un istante, quasi volesse godersi l'ansiosa aspettazione suscitata negli ascoltatori. - Dopo un anno - riprese - di continuo allenamento - mi pare che si dica cosí - egli era sicuro del fatto suo. Esercitava le tre addomesticate all'aria aperta, tra le gole delle montagne che circondano il vecchio castello. I suoi contadini lo vedevano, con terrore, partire sul dorso di un'aquila, perdersi tra le nuvole, radere le aspre cime rocciose, scendere, risalire, e tornare dalla aerea passeggiata, col viso raggiante di sodisfazione; forse lo credevano un mago. E un giorno essi furono impotenti spettatori dell'incredibile combattimento, della spaventosa tragedia che avveniva nello spazio. Videro apparire due punti neri su l'azzurro limpidissimo, che rapidamente s'ingrandirono, accostandosi all'aquila cavalcata dal marchese, e cominciarono a rotearle attorno. Erano due aquile che agitavano le ampie ali minacciosamente. Il marchese dové capire il pericolo, e spinse la sua alla discesa. Allora quelle si decisero all'assalto, chi sa? forse con l'intenzione di liberare la compagna asservita, forse sospinte da aspro bisogno di preda. La lotta durò pochi momenti. Colpito alla testa dai furibondi rostri delle assalitrici, il marchese fu visto abbandonarsi sul dorso della sua aquila che tentava di resistere colpendo alla sua volta col becco, quantunque il suo collo fosse impacciato dalle redini strette dal pugno del suo cavaliere. Muti di orrore, i contadini videro che una delle due aquile, afferrate col rostro le redini, trascinava in alto, dietro a sé, quella che piú non opponeva resistenza, mentre l'altra con gli artigli sollevava il peso del corpo del marchese, agevolando il volo di tutte e tre verso la cima piú alta della montagna. Sparirono dentro un'insenatura della roccia ... E questa volta fu atteso invano il ritorno del marchese. Otto giorni dopo ne trovarono lo scheletro buttato via fuori dalla grotta dove le due aquile avevano il nido. La carcassa e gli arnesi della addomesticata, giacenti poco discosto dallo scheletro, fecero capire che anch'essa era stata uccisa e divorata. Nessuno, dopo la disgrazia del marchese, si ricordò delle tre aquile, di quella con un'ala, e delle altre due addomesticate. Un lontano parente del marchese, che ne raccolse l'eredità, arrivato al castello dopo un mese, le trovò morte di fame -. INDICE COSCIENZE I. PAROLA DI DONNA II. IN VINO VERITAS…? III. ELIGIO NORSI IV. MA, DUNQUE? V. L'ANELLO SMARRITO VI. ESITANZE VII. RETTIFICA VIII. IL PARANINFO IX. SFOGO X. L'ABATE «CASTAGNA» XI. RISPOSTA XII. UN CONSULTO LEGALE XIII. UN CRONISTA XIV. SORRISINO XV. LETTERA DI UNO SCETTICO XVI. UN SUICIDA XVII. IL BRACCACCIO XVIII. IL CASO DI EMILIO ROXA XIX. TORMENTATRICE UN VAMPIRO I. UN VAMPIRO II FATALE INFLUSSO LA VOLUTTÀ DI CREARE I. I MICROBI DEL SIGNOR SFERLAZZO II. UN GELOSO!!! III. L'INCREDIBILE ESPERIMENTO IV. LA REDENZIONE DEI CAPILAVORI V. LA SCIMMIA DEL PROFESSOR SCHITZ VI. IL BUSTO VII. LA CONQUISTA DELL'ARIA VIII. DUE SCOPERTE IX. L'INVISIBILE X. IL DOMATORE DI AQUILE 129

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Prendi, - disse Costanza abbassandosi, affinchè Alessio la liberasse dal peso di quel corpo. Il giovine lo sollevò nelle braccia poderose. Velleda era vestita di una sola camicia, sulla quale Costanza aveva gettato uno scialle. Quando Alessio sentì il contatto di quelle carni morbide, il profumo sottile che emanava da quel corpo delicato e vide quella testina riversa che a ogni passo che egli faceva inchinavasi all'indietro come la testa di un cadavere, fu preso di orrore e disse a Costanza: Riportiamola a letto, io non voglio essere il tuo complice. E troppo tardi; il cancello è chiuso, il duca ci aspetta, vieni! E fecero ancora alcuni passi in silenzio fra la sabbia coperta di piante e Alessio fermandosi di nuovo riprese : Costanza, perché vendicarci? Non sono libero forse? Vieni, - ripetè la donna a denti stretti afferrandolo per un braccio. - Sei libero, sì, ma per lei saresti in galera e io mi dannerei. Non parlarono più e quando penetrarono nel fondo della grotta Alessio depose il bei corpo bianco sulle alghe e, acceso un fiammifero, si mise a guardarlo. Franco non vi era ancora e Costanza, uscendo sulla spiaggia, non lo vide neppure al bagliore dei lampi che si facevano più fitti. Quando rientrò nella grotta sorprese il giovane in ammirazione. È bella? Ti piace? Godine, io non sarò gelosa, anzi la vendetta sarà più grande quanti più saranno gli uomini che l'avranno insozzata, la maledetta! Taci! Taci; strega, - diceva Alessio rivoltato da quel cinismo. Velleda era bella davvero col piccolo capo appoggiato sopra un mucchio di alghe e il corpo circondato dalle scure piante. La camicia sottile seguiva le curve del seno e delle anche e i piedi soltanto erano nudi. Pareva una giovinetta pudicamente coricata, una giovinetta composta e casta anche nel sonno. Eccolo! - disse Costanza udendo un rumore di passi sulla sabbia indurita dall'acqua. Alessio si alzò e usci, mentre il duca entrava. Perché così tardi? - gli domandò Costanza. Sono passati i doganieri e ho avuto paura di esser sorpreso. Hai scelto invero un luogo molto strano. Non dubitate; c'è chi veglia, - ella rispose. - Lei è là e dorme. Non v'indugiate troppo, - aggiunse con intonazione sarcastica. - Venite, - e presolo per la mano lo condusse accanto alla dormente. Ci vedi anche nelle tenebre! - osservò Franco. È l'odio che mi guida; voi non sapete odiare come me. Addio, - e uscì per andare in cerca d'Alessio. Franco, eccitato dalla lunga attesa, si gettò come un pazzo su Velleda, ma appena sentì quelle carni ghiacciate dall'aria della notte e quella bocca che non rispondeva ai suoi baci, fu preso da un vago terrore. Non così aveva sognato di possederla; non così. Se l'era figurata nelle lunghe veglie, piena di ardori, di ribellione forse; aveva vagheggiato di lottare con lei, di domarla alla fine con l'impeto della sua passione, ma mai aveva pensato di stringerla a sé inerte, insensibile. Oh! non era quello il premio dopo un così lungo delirio : non era un premio! Velleda! Velleda! - le diceva scotendola, ma ella dormiva sempre sotto l'azione del potente narcotico, dormiva così profondamente che a Franco a momenti veniva il sospetto che fosse morta, ma quel sospetto si dileguava sentendola debolmente gemere. Allora la baciava di nuovo, l'accarezzava tutta, cercava di riscaldarla al contatto della sua carne, della sua carne ardente, fremente di desiderio e di brama, e per un istante illudevasi di averla scossa dal letargo, di averle comunicato il suo fuoco, di averla fatta fremere, ma l'illusione svaniva presto lasciandolo spossato e non pago. Ma poiché tutti i tentativi per destarla riuscivano vani, Franco si alzò dal giaciglio di alghe e, fattosi sull' imboccatura della grotta, chiamò Costanza. Nessuno rispose. Intanto il vento aveva rinforzato, i lampi eransi fatti più spessi e il mare s'infrangeva con fracasso sulla spiaggia, spingendo lingue listate di spuma sulla sabbia asciutta. Franco chiamò di nuovo e credè di sentire una voce die gli rispondesse : Vengo! Egli era così turbato, così scosso da quell'ora di amore senza corrispondenza, da quelle carezze smaniose prodigate a un corpo inanimato, sentiva tanto forte il disgusto di sé, che non vedeva il momento di fuggir lontano da Velleda e dal luogo che gli ricordava la sua ignominia. Gli pareva d'essere abbietto e vile, come quei satiri che vanno a scoperchiare le tombe delle giovinette per violarle. Ah! il freddo di quel corpo, lo sentiva ancora sulla carne, lo agghiacciava ancora, mentre il sudore della angoscia gli scendeva dalla fronte. Fuggire! Non voleva altro che fuggire! Egli si diede a correre sulla spiaggia, travergando quel terreno coperto di colonne infrante e di massi biancheggianti fra l'appio e le palme, che al chiarore dei lampi parevano tombe, ora inciampando, ora rialzandosi, preso da un terrore che toglievagli il respiro. E l'impressione di quelle carni gelide, di quella bocca che non si schiudeva a nessuna carezza, a nessun grido, lo perseguitò anche nella sua camera, ove appena giunto accese molti lumi, per scacciare i fantasmi che lo perseguitavano. Quando ebbe fumata una sigaretta e si fu alquanto calmato, esclamò con un ghigno di rabbia: Sono sempre un inetto, anche nel male! Ho forse goduto? L'ho forse umiliata? No, Velleda non saprà nulla e domattina, destandosi nel suo letto, ignara di tutto, correrà a stender le braccia, a offrire la bocca desiosa di baci a Roberto! No, non lo farà, si vergognerà di farlo; questo almeno voglio - e ubbidendo a un pensiero improvviso, andò alla scrivania e tracciò sulla carta queste parole: Velleda, mentre stanotte tu credevi di dormire nel tuo letto, giacevi nella grotta in riva al mare, su un letto d'alghe. Su quel letto, come una belva mi sono gittate sul tuo corpo nudo e ti ho fatta mia. Voglio che tu lo sappia affinchè il pensiero di quest'onta tu lo senta anche nelle braccia di mio fratello, affinchè tu lo respinga inorridita. Si, sei stata mia, rammentalo sempre. Tu arrossirai ora dinanzi a me, tu non potrai più trattarmi con disprezzo, poiché tu mi appartieni; ma non è inerte, insensibile che ti voglio ancora. Ti voglio, viva, animata, fremente; ti voglio subito, poiché il mio desiderio ,si è fatto più vivo, più imperioso. A quando? Il duca non firmò la lettera, ma dopo averla chiusa in una busta e avervi fatto l'indirizzo la sigillò con l'anello di smeraldo, che portava incisa la mano che spezza il pane, con lo stemma dei Frangipani. Domattina saprà tutto, - disse, e accesa un'altra sigaretta prese a fare con cura minuziosa la sua toilette toiletteda notte.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

L'aquila, abbassandosi, gli disse: - Conte, mio bel Conte, la pianta di dittamo del buon cuore fiorisce special- mente vicino alla miseria. - Il Conte si rabbonì; scese da cavallo e caricò sulla sella il fastello delle legna. La vecchina camminava piano, quindi do- veva camminar piano anche lui. Intanto il cielo diventava nero nero, e i fulmini facevano parere la pianura un mare di fuoco. - È lontana di qui la vostra casa? - domandò il Conte alla vecchina. - È lontana per le mie gambe e non per le vostre. - Ed ambedue seguitavano a camminare. Finalmente, fra il bagliore dei fulmi- ni, il Conte vide una capanna piccina pic- cina. Era stanco anche lui e aveva una fame.... una fame.... - Eccoci a casa mia, - disse la vec- china, fermandosi davanti alla capanna. Entrarono. In cucina c' era il fuoco spento, una sola panca da sedere e una tavola. La vecchia accese il lume, fece ri- covrare il cavallo, e disse al Conte: - Mettetevi a sedere per riposarvi; intanto io vi porterò qualche cosa da man- giare. Quel che ci sarà, lo divideremo fra noi. Ma ci sarà poco. Siamo vassalli del Conte, e non c'è gente più povera e più maltrattata di noi. - Il Conte non fiatò: ma si sentì andar via tutta la fame che aveva. La vecchina mise in tavola una ma- gra forma di cacio, un mezzo pane e una brocca d’acqua, e non cessò un momento dal lagnarsi della durezza del Conte e dei suoi sottoposti, che toglievano ai poveri anche il sangue a nome del padrone. Il Conte seguitava a stare zitto, e buttava giù qualche raro boccone tanto per non parere. Quando ebbero finito di mangiare, la vecchina accese un lume e condusse il Conte nell'unica cameruccia della capan- na, e accennandogli un misero lettuccio, gli disse: - Coricatevi, e buon riposo. - Il Conte si coricò, ma gli ci volle un pezzo a addormentarsi, benché cascasse di stanchezza; e appena chiuse gli occhi gli parve d'esser trasportato nel suo castello. Tutti erano cambiati: i servi portavano alta la testa e scherzavano lavorando; le ancelle della Contessa facevano echeggiare le sale delle loro allegre risate; la Con- tessa passeggiava sulle terrazze, tenendosi in collo il suo bambino e rideva come non l'aveva mai veduta ridere. Il Conte si destò e volle partire. Gli pareva di soffocare in quella capanna. Andò per sellare il suo cavallo; la vecchina era già desta. - Ditemi, buona donna, - le chiese mettendole in mano alcune monete d'oro - dove fiorisce la pianta di dittamo del buon cuore? - Vicino al castello del Conte non ci alligna; ma più che salite verso la mon- tagna e più diventa comune. - Il Conte la ringraziò, montò a cavallo e si diresse verso la montagna. Sali, sali, la foresta diventava più folta e la neve cominciava a cadere. Nonostante il Conte non si sgomentava e spronava il cavallo. Voleva tornare a casa col ramoscello verde, e tornarci presto. A un tratto si trovò ad un crocicchio. Vedeva quattro strade lunghe, intermina- bili, e non sapeva quale prendere; intanto la neve e il vento ghiacciavano il povero Conte. In quel momento sentì uno starnazzar d'ali sopra alla sua testa e scòrse l'aquila reale. - Imbocca una strada qualunque. Il dittamo del buon cuore fiorisce per tutto quassù, - disse l'aquila, e sparì. Il Conte riprese speranza, e spronò il cavallo; ma la neve cadeva sempre più fitta e copriva tutto. Cavallo e cavaliere caddero in un fosso. Il Conte gemeva e chiedeva aiuto; nes- suno lo sentiva. Sarebbe bastato che qual- cuno gli avesse gettato una corda per salvarlo; ma il tempo passava ed egli si sentiva sempre più intirizzire dal freddo. Comin- ciava a rassegnarsi a morire senza rivedere i suoi, sbranato forse dai lupi, quando udì abbaiare un cane, e poco dopo lo scòrse avvicinarsi alla sponda del fosso, insieme con una bambina. - Non vi sgomentate, - gli disse la bambina - corro a casa e torno con una fune per tirarvi su. - Il Conte riprese animo, e dopo un po' di tempo vide ricomparire la coraggiosa bambina, la quale, legata solidamente la fune al tronco di un albero, la lasciò ca- lare nella fossa. Aiutato dalla fune, il Conte potè salire insieme col cavallo sulla proda, sano e salvo. La bambina gli dette pure una boccettina di liquore per risto- rarlo, e lo guidò a casa sua, dove fu ac- colto affettuosamente e albergato dai ge- nitori di lei. - Vi potremmo dare di più, - disse il padre della bambina a cena, mettendo in tavola castagne e carnesecca - ma il Conte ci spolpa. Se sapeste che flagello è un padrone simile per noi! Bisogna soffrire e tacere; ma lui deve essere più infelice di tutti gl'infelici che fa. - Il Conte respinse il piatto, disse che era stanco, e chiese d’andare a letto. S'addormentò anche quella notte a stento, e in sogno vide la felicità che re- gnava nel suo castello riflessa in tanti quadri lieti, e vide che nessuno desiderava il suo ritorno. Si destò, fu preso da un grande sco- raggiamento e si mise a piangere. In quel momento sentì battere forte forte alle im- poste della finestra. Aprì e vide l'aquila. - Cògli un ramoscello del dittamo del buon cuore, che cresce qui sulla fine- stra della bambina; annaffialo di lacrime e portalo a casa tua; vedrai che non si sec- cherà più. - A. casa non ci torno; non ci posso tornare! - Perchè avresti fatto il viaggio? - gli domandò l'aquila. - Da' retta a me e parti subito. - Il Conte colse il ramoscello, si vestì e scese giù. Tutti erano già alzati e lavo- ravano. Il Conte sellò il suo cavallo, dette una borsa piena di danari al capoccia, baciò la bambina e ringraziando si al- lontanò. La famiglia lo accompagnò con sa- luti e benedizioni, ed egli si sentì sol vare il cuore. Il Conte, tornando al castello, vide spa- rire a un tratto l'allegria da tutti i volti, cessare i canti, cessar le risa, ma egli non si sgomentò per questo; voleva essere amato ad ogni costo. Egli piantò con cura il ramoscello di dittamo in un bel vaso, lo annaffiò ogni giorno, si mostrò umano e affabile con i sottoposti, dolce con la moglie, carezzevole col bambino, e da quel tempo il dittamo del buon cuore fiorì splendidamente nel castello, e il Conte diventò un signore fe- lice, meno temuto, ma molto amato.

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