Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbassandosi

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Racconti 2

662702
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Appunto, ecco il corvo che aliava in alto, gracchiando, facendo larghi giri, accostandosi, allontanandosi, abbassandosi quasi a fior di terra e risalendo ad ali spiegate, remigando lento per l'aria! ... Non doveva essere quello spedito da Domineddio colla pagnottina al becco, se no non sarebbe rimasto cosí lontano, a tessere e ritessere circoli nell'azzurro del cielo, facendo straluccicare le penne al sole, gettando attorno per la campagna i suoi crà crà crà! ... Allora don Ilario rammentò le parole di padre Francesco: - Non fate come il corvo, che dice cras! cras! domani, domani! - E si fece animo. Quel corvo forse era mandato ad annunziargli l'invio del pane per domani. Le lagrime gli spuntarono dagli occhi, e una gran commozione gli rammollí le gambe: - Signore misericordioso! - Però stese una mano, strappò un cesto di acetosella e cominciò a masticarlo; poi ne strappò un altro, poi un altro; e andò a bere un sorso d'acqua alla fonte accosto. - Gli antichi eremiti non facevano cosí? - Gli parve anzi che l'acetosella avesse un sapore squisito, senza dubbio per grazia divina, perché un'altra volta egli non aveva finito di masticarla, tanto gli era parsa cattiva. Riprese il rosario e le litanie, e recitò un centinaio di volte gli atti di fede, di speranza, di carità e di contrizione nel corso della giornata, fino a sera. Verso il tramonto, il corvo tornò ad aliare per la campagna, facendo larghi giri, gracchiando piú forte nel silenzio della sera, crà, crà, crà. Ma la dimane, e il giorno appresso, non si fece neppur vedere. I crampi, acutissimi, insoffribili, spingevano don Ilario a rivoltolarsi per terra, con gran zufolio negli orecchi, con la vista intorbidata e la lingua arida, rastiante e incollata al palato. Il Signore voleva dunque gastigarlo a quel modo, lasciandolo in balia delle tentazioni? ... Ah, Madonna dei sette dolori! Ah san Giuseppe protettore! A un tratto gli parve di sentirsi chiamare e vedere, su l'entrata della grotta, un'ombra apparire e sparire; certo il diavolo in persona! E si nascose la faccia tra le mani, invocando tutti i santi del paradiso: - Gesú! ... Maria! ... Giuseppe! ... - La mattina dopo, alla voce della Salara che lo chiamava: - Don Ilario! don Ilario! - alle scosse delle mani che l'avevano afferrato per un braccio, egli aprí a stento gli occhi; e sentiva un subitaneo gran ristoro al buon profumo di quel piatto di maccheroni che la Salara gli aveva portato. - Don Ilario! ... don Ilario! ... Pazzo da catena! Sareste morto di fame, se non vi avesse scoperto il vaccaro! - - Quei maccheroni, - soleva dire don Ilario, tutte le volte che ne riparlava, - quei maccheroni me li avrà, forse, portati il diavolo sotto le sembianze della Salara; ma ci fu anche la volontà di Dio. Se il Signore avesse voluto farmi sciogliere dal legame con la Salara, avrebbe mandato il corvo, come fece con sant'Antonio eremita. - E perciò tu sei ora un sant'Antonio al rovescio - conchiuse un giorno suo fratello. - Quegli, oltre al corvo, aveva il porco; tu invece hai la troia!- Catania, 20@ 20 aprile 1888@. 1888.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il 31 però la massa delle nubi divenne più densa e più nera, abbassandosi tanto da credere che volesse tuffare i suoi lembi nel mare. Il vento crebbe di violenza girando da sud a , fischiando in mille guise attraverso gli attrezzi e sollevando gigantesche ondate che andavano coprendosi di bianchissima spuma. Ben presto si udì in lontananza il tuono e alcuni lividi lampi illuminarono i neri vapori che allora correvano disordinatamente come cavalli sbrigliati. Il capitano fece chiudere buona parte delle vele e salire in coperta tutto l'equipaggio. Il lupo di mare prevedeva un uragano violentissimo e voleva essere pronto a sostenerne gli attacchi. Verso le 11 del mattino il mare diventò burrascosissimo e il vento ancora più impetuoso. Non erano onde, ma vere montagne d'acqua quelle che correvano urtandosi furiosamente. Non si udivano che i mille muggiti del vento, lo sbattere delle vele e dei cordami, il gemito degli alberi, le grida dei marinai e le strida delle procellarie. Il "Danebrog", guidato dall'abile mano di mastro Widdeak, si comportava valorosamente, fendendo le onde col suo acuto e solido sperone, ma dopo qualche ora si trovò in una situazione così scabrosa che fece illividire il viso a più di un marinaio e aggrottare la fronte persino al flemmatico tenente. Il vento aveva allora raggiunto la straordinaria velocità di 27 metri al minuto secondo, velocità che solo raggiunge nelle grandi tempeste, e alle quali ben poche navi resistono. Infatti il "Danebrog" si sentiva trascinare via con velocità incalcolabile, andando attraverso le onde che si rimescolavano orribilmente empiendo l'aria di mille muggiti, tuffando spesso il tribordo nell'acqua. Gran parte delle sue vele, in meno che non si dica, furono lacerate e strappate dai pennoni, compromettendo così molto seriamente la sua stabilità. Il povero legno, che non obbediva quasi più al timone, traballava disordinatamente, ora salendo i cavalloni, ora precipitando negli avvallamenti dove minacciava di venire per sempre inghiottito: gemeva, perdeva ora un pezzo di murata, ora un attrezzo della coperta. C'erano certi momenti che tanta era la massa dell'acqua che si slanciava sopra i suoi bordi, da non sapere se galleggiasse ancora o fosse per andare a picco. Il capitano Weimar, aggrappato alla ribolla del timone con a fianco mastro Widdeak, malgrado la gravità della situazione, conservava un ammirabile sangue freddo e comandava con voce tonante la manovra. Il tenente aggrappato ad una catena di prua faceva eseguire gli ordini con voce tranquilla, come se si trovasse in una solida casa, anzichè su una nave che da un momento all'altro poteva sfasciarsi. I marinai, scalzi, seminudi, senza berretti, inzuppati d'acqua, i volti lividi per il terrore, si tenevano stretti stretti alle murate o alle sartie, o ai bracci delle vele inferiori, cogli occhi fissi sui comandanti, pronti a eseguire le manovre. Di quando in quando qualcuno di loro, investito da un colpo di mare, veniva trascinato per la coperta o gettato contro gli alberi, riportando talvolta delle contusioni di qualche gravità. E uno fu persino sbattuto fuori dalla murata e si salvò solamente aggrappandosi prontamente ad una gru. Alle 9 pomeridiane, cioè dopo tredici ore di ostinatissima lotta, il "Danebrog" che aveva sempre camminato con una celerità superiore ai dodici, e qualche volta ai tredici nodi, si trovava a breve distanza dallo stretto di Behring. Già la costa americana, al chiarore di un lampo era stata scorta a sette od otto miglia sopravvento. Il capitano Weimar mandò due uomini sulla gran gabbia, affinchè fossero pronti a segnalare le isole Diomede che sorgono in mezzo allo stretto, e contro le quali poteva venire spinto il "Danebrog". Alle 10 una raffica furiosa si rovesciò sulla nave, la quale, presa di traverso, fu violentemente rovesciata su di un fianco. Un immenso grido di spavento echeggiò sulla coperta mescendosi a urli della tempesta. Tutti i marinai credettero che non si risollevasse mai più. Fortunatamente Koninson, che si trovava presso i bracci della vela di maestra con pochi colpi di scure tagliò le manovre. Ciò bastò perchè la nave riprendesse il suo equilibrio prima che le onde si precipitassero sulla tolda. Quasi subito successe una breve calma. Le nubi, violentemente squarciate da quel furioso colpo di vento, mostrarono per alcuni istanti il sole, che in quelle latitudini elevate, nella stagione estiva, si può dire che non tramonta mai. L'effetto prodotto da quella luce dorata sullo sconvolto mare fu stupendo, ma durò pochi istanti. Le nubi richiusero quello strappo, la semi-oscurità tornò a stendersi sui flutti e il vento ricominciò a ruggire con maggior forza, spingendo innanzi a sè la nave, alla quale non restavano più che la vela di trinchetto e la randa dell'albero di mezzana. Ad un tratto si udirono i gabbieri gridare: - Terra a prua! ... Il capitano affidò il timone a mastro Widdeak e si slanciò, nonostante i violenti rollii, a prua dove l'aveva già preceduto il tenente. Ad una distanza di quattro miglia il mare si sollevava a prodigiosa altezza intorno al gruppo delle Diomede formato dall'isola Ratmanoff che è la più grande, dalla Krusenstern che è la mezzana e da Ferway che è un arido scoglio. - Bisogna tenersi al largo assai, capitano! - disse il tenente - Mi metterò io al timone! - rispose Weimar. - Fate preparare alcune vele di ricambio. - Temete che scappino quelle spiegate? - Se giunge una raffica forte quanto quella di prima non potranno resistere, ne son certo. Il capitano ritornò a poppa e prese la ribolla del timone mentre il tenente faceva portare in coperta alcune vele. Il "Danebrog" era giunto nello stretto, il quale è largo ben 83 chilometri fra il capo orientale dell'Asia e il capo di Galles dell'America e profondo assai. Qui il mare era orribilmente agitato. Le onde, spinte dal vento, si schiacciavano, per così dire, fra due coste, quantunque, come si disse, queste siano assai distanti l'una dall'altra; e si frangevano furiosamente contro le isole lanciando sprazzi di spuma a tale altezza che questi toccavano le nere frange delle nubi. A mezzanotte il "Danebrog" giungeva dinanzi all'isola Ratmanoff, sulla quale volteggiavano disordinatamente migliaia di uccelli marini. D'improvviso, quando i marinai si credevano già quasi fuori di pericolo, una raffica furiosa investì la nave che tuffò più di mezza prua nel seno degli spumanti flutti. Gli alberi si curvarono come fossero semplici stecchi, poi si udirono due scoppi violenti seguiti da urla di terrore. Le due vele strappate dai pennoni volarono via come due immensi uccelli. Il capitano Weimar, malgrado il suo straordinario coraggio, impallidì. - Una vela! Una vela o siamo perduti! - gridò. Infatti il "Danebrog", senza un brano di tela, veniva spinto dalle onde e dal vento contro l'isola Ratmanoff che mostrava i suoi scogli a meno di quattro gomene di distanza. Il tenente, Koninson, mastro Widdeak e una decina di marinai malgrado le disordinate scosse che li atterravano, tentarono di spiegare una trinchettina, ma le onde che si precipitavano in coperta e i soffi tremendi del vento, rendevano quell'operazione quasi impossibile. Tre volte la vela fu innalzata fino al pennone e tre volte il vento l'abbattè e con essa gli uomini. Allora un grande spavento si impadronì del l'equipaggio. Alcuni marinai perduta completamente la testa per il terrore, si misero a correre per la coperta sordi ai comandi e alle minacce dei capi. Altri, non meno spaventati, si gettarono sulle baleniere. Il "Danebrog", semi-rovesciato su un fianco, coperto d'acqua ad ogni istante, andava sempre attraverso le onde malgrado gli sforzi disperati del capitano che non aveva abbandonato la ribolla. Ad un tratto avvenne un urto formidabile sul tribordo, seguito da un crepitio sinistro. Il capitano, il tenente e i marinai furono violentemente rovesciati in coperta. Quando si risollevarono il "Danebrog" non correva più. Si era arenato a una sola gomena dall'isola, in mezzo ad un gruppo di scoglietti le cui punte nere uscivano dalle onde.

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