Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Giovanna la nonna del corsaro nero

204926
Metz, Vittorio 3 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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gridò alzando ed abbassando la mano a sua volta ed aprendo ora uno, ora due, ora tre dita. "Due, due, tutta!" Si riprese e si guardò intorno. "Che cosa mi fai fare, imbecille!" scattò. "Se mi avesse visto la signora contessa! Perché vuoi giocare alla morra?" "Non volevo giocare alla morra" si giustificò Nicolino. "Volevo dire che non ho avuto un'allucinazione, ho avuto una paura tremenda!" "Appunto, un'allucinazione causata dalla paura! Comunque, se hai tanta paura di stare solo, vieni con me ad esplorare l'esterno del tempio..." "Ecco, è meglio... Tutto quello che vuoi, basta che non mi lasci qui solo..." "Andiamo... E smettila di battere i denti!" "Non sono io che batto i denti, sono loro che non vogliono stare fermi... Andiamo..." I due uscirono. Quasi immediatamente entrarono Raul e il capitano Squacqueras. "E ora che abbiamo mangiato," disse Raul "direi che ci potremmo mettere a dormire..." "Ottima idea, giovanotto... Chi dorme non piglia pesci e a me il pesce non piace... Dove ci mettiamo?" Raul si avvicinò all'ara dei sacrifici che indicò al capitano. "Io direi di metterci qui" consigliò. Il capitano si avvicinò all'ara e ne saggiò la pietra con la punta delle dita come se si trattasse di un letto. "Qui? Molto bene... Per quanto il materasso sia piuttosto duretto, eh?" "Sono stanco morto" disse Raul sbadigliando. "Credo proprio che dormirò come un sasso..." "Appunto... Niente di più adatto, allora, di un letto di pietra..." Il capitano così dicendo si distese sull'ara e Raul fece altrettanto, accomodandosi accanto a lui. "Buonanotte" disse. "Speriamo bene" disse il capitano. "E voi cercate di non sognare Jolanda, la figlia del Corsaro Nero... Buonanotte..." Pochi istanti dopo dormivano saporitamente tutti e due. Ma, nonostante la raccomandazione fattagli dal capitano Squacqueras, molto probabilmente Raul dovette vedere in sogno la dolce figura di Jolanda, perché, ad un certo punto, cominciò ad agitarsi sul suo letto di pietra, chiamando nel sonno: "Jolanda! Jolanda!" Jolanda stava risalendo dai sotterranei, mentre dalla porta del tempio rientravano Nicolino e Battista. "Mi è sembrato di aver sentito chiamare il mio nome" disse "da una voce d'uomo..." "Mi sia consentito il dire che la cosa è impossibile, contessina" le fece rispettosamente osservare il maggiordomo. "Io e Nicolino eravamo fuori e non vi abbiamo chiamato... In quanto alla voce della signora contessa, nonostante i suoi toni baritonali, non si può dire che sia una voce d'uomo..." "Eppure," disse Jolanda, pensosamente "mi sembrava la voce di quel giovane... Sì, del Corsaro Blu..." "E allora," piagnucolò Nicolino "avevo ragione io... Quello è morto e adesso il suo fantasma vaga per la foresta in cerca di pace..." "Dio non voglia!" esclamò Jolanda, turbata. "Piuttosto, dov'è la nonna? I sotterranei di questo tempio costituiscono una specie di labirinto e l'ho perduta... Sentite, prendete un ramo acceso da quel fuoco e andiamo a vedere..." "Sì, signorina, è meglio" approvò il nostromo Nicolino. "Non so com'è ma con la signora mi sento più sicuro... Lei non ha paura di niente, beata lei!" Nicolino si avvicinò al fuoco e ne tolse un ramo che sollevò in aria servendosene come di una torcia. I bagliori della fiamma illuminarono Raul che disteso sull'ara con le braccia incrociate sul petto sembrava un morto. Non ci volle di più per paralizzare completamente Nicolino. "Il fantasma del Corsaro Blu!" farfugliò. Vide il capitano Squacqueras disteso accanto a Raul. "C'è anche il Doppio Barbanera Illustrato!" gridò. Risvegliati dagli urli di Nicolino, il capitano Squacqueras e Raul balzarono a terra, pensando all'attacco di qualche nemico. Raul rimase di stucco nel trovarsi davanti Nicolino. «Ma voi... Che cosa fate qua?" "Pietà, signor fantasma!" gridò Nicolino cadendo in ginocchio e tendendo le mani supplici verso il giovanotto... "Macché fantasma d'Egitto!" esclamò Raul. "Io sono vivo!" Jolanda non riuscì a trattenere la propria gioia. "Vivo!" esclamò. Raul si voltò dalla parte di Jolanda e nel vederla lanciò un grido di contentezza. "Jolanda!" esclamò. "Anche voi siete qua!" Poiché il giovanotto le si era avvicinato quasi per abbracciarla, Jolanda si trasse indietro e abbassando pudica gli occhi: "Sì, e c'è anche la nonna..." "Ci ritroviamo tutti!" esclamò il capitano Squacqueras, facendo buon viso a cattivo giuoco. "Come luogo di ritrovo, però, lo abbiamo scelto piuttosto maluccio!" Il maggiordomo Battista si rivolse a Nicolino. "Lo vedi, pezzo di cretino, che non c'era nessun fantasma?" Nicolino fissò con gli occhi sbarrati la scala da cui era salita Jolanda e rispose balbettando: "Lo dici tu!" "Che c'è ancora?" domandò Battista. "Il serpente piumato!" "Ma fammi il piacere!" Battista si voltò dalla parte verso la quale stava guardando Nicolino e annichilì vedendo la spaventosa figura che tanto aveva impressionato il nostromo avanzare verso di lui. Perdendo la sua naturale compostezza, gridò: "Mi sia consentito il dire: Aiuto!" Il sedicente Corsaro Blu sguainò la spada mentre il capitano Squacqueras correva ad acquattarsi dietro l'ara. "Capitano!" lo rimproverò Raul."Perché vi nascondete?" "Nascondermi io? Niente affatto! Mi accoscio per poter saltare meglio addosso a quella creatura infernale!" Da dietro la spaventevole figura sbucò Giovanna. Teneva in mano la spada sguainata che aveva tenuto puntata fino a quel momento dietro la schiena del mostro. "Niente paura," disse. "To', ci siete anche voi!" esclamò vedendo Raul e Squacqueras. Quindi, agli altri due: "L'ho acchiappato. E non è affatto un fantasma o un dio incas, o un gigante..." Si rivolse alla fantasmagorica figura che quatta quatta tentava di riguadagnare la porta. "Fermo là, non ti muovere, se non vuoi fare conoscenza con la punta della mia spada..." "Non è un gigante?" domandò Raul. "E come fa ad essere così alto?" Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato, mostrando che si trattava di un erculeo incas sulle cui spalle si era posto a cavalcioni il gran sacerdote il quale, visto che oramai il suo trucco era scoperto, si tolse la maschera di serpente. L'uno sull'altro i due formavano la fantastica figura che per poco non aveva provocato un infarto al povero Nicolino. "Semplicissimo, guardate" spiegò Giovanna. "Volevano spaventarci per allontanarci dal favoloso tesoro degli incas che è nascosto in questo tempio..." 7. Giovanna Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato... "Il tesoro degli incas?" esclamò Raul. "E dov'è?" "Eccolo" disse Giovanna. Si rivolse verso il sotterraneo da cui era sbucata chiamando: "Ehi, venite avanti voialtri, se non volete che del vostro gran sacerdote faccia un fodero per la mia spada!" Gli incas e le incas che abbiamo visto presenziare al sacrificio del tacchino, sbucarono dai sotterranei portando delle barelle cariche di vasi d'oro, braccialetti e collane di smeraldi, armille, corone d'oro, tiare, armi tempestate di pietre preziose, statuette e persino padelle tutte d'oro massiccio. Mentre i sei si affollavano intorno al tesoro, il maggiordomo Battista che era andato a guardar fuori del tempio, attratto da un rumore, si trasse di lato appoggiandosi con le spalle al muro: "Un drappello di soldati spagnoli!" annunciò con voce ufficiale. "Spagnoli!" esclamò Giovanna. "E noi siamo quasi inermi! Ma niente paura! Li conceremo per le feste ugualmente... E voi" seguitò, rivolto a Raul e al capitano Squacqueras "ci darete una mano, signori..." Raul esitò un istante, poi sospirando dichiarò: "Io non posso stare con voi, signora..." "Perché?" domandò Jolanda, sorpresa. "Perché fino ad ora vi abbiamo mentito... Io non sono il Corsaro Blu... Sono Raul di Trencabar, figlio del governatore di Maracaibo..." "Il figlio di Trencabar!" esclamò Jolanda, annichilita. "Sì, Jolanda, perdonatemi!" esclamò Raul. "Vado a raggiungere i vostri nemici, che altri non sono che i miei soldati... Andiamo, capitano Squacqueras..." "Non è il Doppio Barbanera Illustrato?" domandò Nicolino. "No, ma mi raccomando," scongiurò l'ex almanacco "non ci sparate alle spalle! Non è corretto! Non sta bene!" Uscì in fretta dietro Raul mentre Giovanna gli gridava dietro: "Non spariamo alle spalle, noi... Non siamo spagnoli!" "Non avrei mai creduto!" sospirò Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, con lo sguardo fisso nel vuoto. "Non ci pensare, Jolanda, e aiutami... Li sistemeremo noi questi spagnoli... Fate tutti come me!" Si avvicinò al tesoro degli incas, afferrò dei gioielli a casaccio e corse verso la porta. Fuori del tempio il sergente Manuel che comandava il drappello di soldati spagnoli sollevò una mano. "Alt!" comandò. Quindi, rivolto ai suoi uomini: "Attenzione," disse"qualcuno sta venendo verso di noi procedendo fra le rovine..." Quindi, a voce altissima: "Chi va là?" domandò. "Spagna!" rispose Raul. "E Milano!" aggiunse il capitano Squacqueras. "Ah, siete voi!" esclamò il sottufficiale. "Siete salvi, grazie alla Beata Vergine del Pilar... E ditemi! Non c'è nessuno nel tempio?" Raul esitò un momento. "No" dichiarò poi. "Non ci sembra, almeno..." "Sarà meglio assicurarsene... Avanti, soldati..." Sulla soglia del tempio apparvero Giovanna con i suoi compagni, le mani cariche di gioielli. "Pronti?" comandò Giovanna. "Fuoco!" Tutti lasciarono i gioielli contro gli spagnoli. I gioielli caddero intorno agli spagnoli che si fermarono interdetti. Il sergente Manuel ricevette in un occhio un enorme smeraldo che gli cadde in mano. "Caramba!" esclamò. "Uno smeraldo..." "Qui piove oro!" gridarono i soldati gettandosi a pesce sui gioielli provenienti dal tesoro degli incas e facendo a spintoni fra loro. "A me!" "A me!" "Lascia stare!" "Questo l'ho visto prima io!" "E togliti di mezzo, tu!" "Lascia quel vaso o ti ammazzo!" "Fermatevi!" gridò Raul gettandosi sulla mischia. "Capitano, aiutatemi a fermare questi energumeni!" "Magnifico!" esclamava intanto Giovanna, soddisfatta. "I soldati combattono fra loro per arraffare quanti più gioielli possono! Il sergente afferra una tiara di smeraldi, la passa a un soldato che la passa ad un altro, questo la lancia sulla testa del sottufficiale, goal! Lo ha preso in pieno! I soldati spagnoli si azzuffano, magnifici per continuità e resistenza! Il figlio di Trencabar tenta invano di opporsi alla loro furia, ma è travolto. I soldati si pestano fra loro. Siamo appena al primo minuto e già non c'è più un uomo valido in campo. Presto, approfittiamone per barricarci nel tempio!"

"È giusto" disse Giovanna, abbassando la mano. Quindi rivolta al maggiordomo Battista: "Digli che ci conducano dal loro capo..." Il maggiordomo Battista si rivolse all'indiano che gli stava più vicino e gli disse una lunga frase in dialetto caraibo. Il selvaggio esitò un istante poi rispose qualche cosa. "Cosa ha detto?" domandò Giovanna. "Ha detto che ci condurrà dal suo capo. Può darsi che sia una persona gentile..." "Speriamo che ci inviti a pranzo!" esclamò Nicolino. "Quando ho paura mi viene appetito..." "Infatti," disse Battista "ha detto questo qui che aspettano solo noi per mangiare..." Nel bel mezzo del villaggio dei caraibi, Giovanna, Nicolino, Jolanda e il maggiordomo Battista, legati strettamente a quattro pali sormontati da mostruosi totem, guardavano gli indigeni che danzavano intorno ad essi la cosiddetta "danza della morte". A un certo punto due donne indiane che portavano una enorme marmitta attraversarono il cerchio dei danzatori e andarono a collocarla sopra un gran fuoco che ardeva a poca distanza dai quattro prigionieri, cominciando a riempirla d'acqua che attingevano da una sorgente che scaturiva lì accanto. "Ci preparano l'acqua calda per il bagno" commentò Nicolino, cercando di essere ottimista ad ogni costo. "Sono gentili..." "Non sono gentili," rispose il maggiordomo Battista, amaramente, "sono semplicemente cannibali..." "Sì, mio povero Nicolino," gli spiegò Jolanda "quella marmitta serve per far cuocere il primo di noi che verrà mangiato..." "Oh, mio Dio, quanto mi dispiace!" esclamò ipocritamente Nicolino. "Povera contessa Giovanna!" "Perché pensate che comincino proprio da me, imbecille?" esclamò Giovanna, in tono irritato. "Perché bisogna dar sempre la precedenza alle signore anziane..." "La mia carne è vecchia e coriacea" disse Giovanna. "Forse questi indiani conoscono qualche polverina che ringiovanisce le carni" disse Nicolino. "In Italia la usano... Oh, mamma mia!" Questa ultima esclamazione di Nicolino era stata causata dal fatto che due indiani si erano messi a girare intorno al suo palo, indicandoselo l'uno con l'altro e scambiandosi misteriose parole nel loro dialetto. "Ci preparano l'acqua calda per il bagno..." 4. Giovanna "Questi" disse Nicolino, allarmatissimo "ce l'hanno con me..." "Proprio così" confermò il maggiordomo Battista. "Pe... perché?" balbettò Nicolino, impallidendo. "Che cosa hanno detto?" "'Cominciamo con questo viso pallido" disse il maggiordomo. "Conoscete anche la loro lingua?" esclamò Jolanda, ammirata. "Un perfetto cameriere deve conoscere tutte le lingue" rispose il maggiordomo. "E perché vogliono incominciare proprio con me?" piagnucolò Nicolino. "Lo hanno detto loro che sono pallido... La carne bianca non è buona per il lesso..." Quindi, indicando con un cenno della testa il maggiordomo ai due selvaggi: "Cominciate con lui, che è bello colorito" disse. "Lui sta bene... Guardate che bella faccia di salute che tiene..." E, cantilenando come un venditore napoletano che, è risaputo, mette anche le sue grida in musica, gridò: "È bianco! È rosso! Quant'è buono! Jammo, magnate, magnate!" "È inutile" disse Jolanda. "Non conoscono la vostra lingua..." "Ma Battista, che la conosce, glielo può spiegare..." "Bravo!" disse Battista. "Così mangiano prima me di te!" I due indiani si avvicinarono al palo di Nicolino e, senza parlare, cominciarono a scioglierlo dai suoi legami. Nicolino, terrorizzato, si mise a gridare: "Aiuto! Signora contessa, aiuto, mi vogliono mangiare! Mi vogliono fare lesso!" Come se fossero rimasti impressionati dalle grida che uscivano dalla gola del nostromo, gli indiani si guardarono, poi uno di essi gli disse qualche cosa nel suo dialetto. Nicolino si rivolse a Battista. "Che... Che cosa mi ha detto?" "Ti ha detto" tradusse Battista: "'Sta' tranquillo, viso pallido! I guerrieri della tribù dei Guana Guana non ti vogliono fare lesso!'..." Il povero nostromo respirò di sollievo. "Oh, meno male!" esclamò. "'Ti vogliono fare arrosto'..." concluse Battista. "Quella pila serve soltanto per sbollentarti e toglierti i peli..." "Ma io non voglio essere sbollentato e spelacchiato!" protestò Nicolino. "A me l'acqua bollente mi scotta!" Attratto dagli strilli di Nicolino che urlava come una scimmia rossa, un tipo di indiano dall'aspetto autorevole si avvicinò al gruppo composto da Nicolino e dai due indiani che stavano trascinando il malcapitato nostromo verso la pila. "Zitto, arrosto!" disse a Nicolino parlando in tono autoritario come persona abituata al comando. Quindi, rivolto ai due indiani: "Attizzate il fuoco!" "Ehi, buon uomo!" disse Giovanna, rivolgendogli la parola. L'indiano dall'aspetto autorevole, che era il Cacicco della tribù, si voltò verso Giovanna. "Cosa vuoi, vecchia pallida?" le domandò, parlando uno spagnolo abbastanza comprensibile. La faccenda di essere chiamata vecchia pallida da un selvaggio impermalì Giovanna che fu pronta a rispondergli: "Meglio essere pallida che con la faccia rossa e dipinta come la tua!" Quindi indicando il nostromo Nicolino con il mento: "Come avete intenzione di cucinare quell'uomo?" domandò. "Allo spiedo, vecchia pallida" rispose il Cacicco. Giovanna abbozzò una smorfia di disprezzo. "Peuh!" esclamò. "Che cucina primitiva! Io, se fossi in voi, lo cucinerei in tutt'altro modo..." "E in che modo?" domandò il Cacicco, incuriosito... "Ci sono mille maniere per cucinare il nostromo... Io, però, penso che la ricetta migliore sia quella chiamata: 'nostromo arrosto alla moda'." "E come faresti, vecchia pallida, a cucinarlo in questa maniera?" "È facilissimo" rispose Giovanna."Si prenda un nostromo e dopo averlo aperto e pulito come si deve, lo si disossi completamente..." "Ma io non voglio essere disossato completamente!" protestò Nicolino. "Le ossa servono! Altro che, se servono!" "Zitto, arrosto!" gli dette sulla voce il Cacicco. Quindi, rivolto a Giovanna: "Seguita pure, vecchia pallida..." "Dunque, dopo averlo disossato completamente farcitelo con un ripieno fatto delle sue stesse interiora e di prosciutto di porco selvatico tritati, pane grattato, cinque o sei grossi pizzichi di pepe, un grosso pugno di sale, tre o quattro pizzichi di noce moscata, due pugni di carne secca e un pugno di erbe aromatiche..." "Qui, fra pizzichi e pugni, mi riducono un 'ecce homo'!" esclamò Nicolino. "Aggiungete quindi sette od otto spicchi d'aglio..." "No, l'aglio no, non lo digerisco!" protestò Nicolino. "Zitto, arrosto!" gli impose il Cacicco. "Continua, signora pallida" disse in tono molto più gentile di prima a Giovanna. "Una volta che sia riempito per bene, lardellatelo con delle fettine di guanciale, e adagiatelo su un letto di cipolle e olio bollente... Fatelo cuocere a fuoco lento per tre ore, poi toglietelo dal fuoco e fatelo riposare per un'ora..." "Ma come volete che faccia a riposare su un letto di cipolle e olio bollente?" "Zitto, arrosto! E poi?" domandò il Cacicco, rivolto a Giovanna. "E poi non resta che circondarlo di patate arrosto che se non mi sbaglio sono un prodotto locale e servirlo in tavola. La dose è per venti persone... Vedrete che mangiarlo sarà proprio un piacere!" "Sarà un piacere per voi, ma non per me!" blaterò Nicolino. "Silenzio, arrosto!" "Questo qui che continua a chiamarmi arrosto, mi dà fastidio!" bofonchiò Nicolino di pessimo umore. Il Cacicco stette a pensare un momento leccandosi le labbra, poi sul suo viso apparve un'espressione di diffidenza. "I visi pallidi" disse "hanno la lingua biforcuta. Forse carne cucinata così diventa velenosa..." "Datemi un maiale selvatico ed io lo cucinerò come ho detto e lo mangerò" propose Giovanna. "In tal modo avrete la prova che il 'nostromo arrosto alla moda' non può far male." "E invece fa male, malissimo!" esclamò Nicolino, rivolto agli indiani. "Ricordatevi che non mi avete comprato al mercato, mi avete trovato nel bosco... Io non sono un nostromo mangereccio, sono un nostromo velenoso..." "Silenzio, arrosto!" "E dagli!" esclamò Nicolino. Il Cacicco senza più esitare si rivolse ai due selvaggi che erano accanto a lui. "Si faccia la prova con il maiale selvatico!" ordinò. I due si allontanarono, mentre Nicolino disperato esclamava: "Tutta colpa di quel dannato Trencabar! Ah, se avessi a portata di mano qualcuno di quei maledetti spagnoli che hanno affondato la Tonante!"

"No, la fuga" rispose il conte di Trencabar abbassando bruscamente la leva e facendo così cadere la saracinesca di ferro fra lui e gli altri. "No, la fuga" rispose il conte di Trencabar... Giovanna ruggì scagliandosi contro l'improvvisa barriera che si era frapposta fra lei e il suo nemico. "Traditore!" gridò. "Fellone! Mi ha giocato ancora una volta..." E rivolta al Viceré, a Battista e a Jolanda: "Voi aiutatemi a sollevare quest'accidente di saracinesca!" "Presto, seguitemi!" gridò il conte di Trencabar scendendo lo scalone a precipizio e rivolgendosi al capitano Squacqueras che era di guardia davanti alla porta dove l'aveva collocato poco prima il Viceré. "Giovanna la nonna del Corsaro Nero è nella mia camera!" "In questo caso" rispose il capitano "io vado nella mia!" "A che fare?" "A gettarmi un po'sul letto... Io sono come Francesco!... Dormo sempre alla vigilia di una battaglia per dar prova del mio sangue freddo..." E scappò di corsa verso il salone. "A me, soldati!" comandò il conte di Trencabar, rivolto alle guardie. Giovanna, aiutata dal maggiordomo, dal Viceré che ormai era passato completamente dalla sua parte e da Jolanda, si stava spezzando le unghie nel tentativo di sollevare la saracinesca. Ad un tratto esclamò con accento di trionfo: "Si solleva, si solleva!" La cortina di ferro, effettivamente, si stava sollevando, ma da sola, per rientrare nel soffitto. Alzandosi, però, scoprì una lunga fila di guardie schierate con gli archibugi puntati su Giovanna e i suoi. "Arrendetevi!" gridò Trencabar che stava dietro i soldati. Giovanna, che per sollevare la cortina di ferro aveva posato ín terra la spada, allargò le braccia. "Purtroppo," disse "non posso far resistenza..." "Impadronitevi di costoro, conduceteli fuori e fucilateli contro il muro di cinta" comandò Trencabar, rivolto al sergente Manuel. "Non vi sembra di esagerare?" domandò il Viceré, mentre i soldati circondavano i tre. "Bisogna dare un esempio!" rispose Trencabar. "Ve lo darò anch'io un esempio" disse freddamente Giovanna. "Vi farò vedere come sanno morire dei Ventimiglia..." E uscì dalla camera a testa alta, circondata dai soldati e seguita da Jolanda e dal maggiordomo. Il Viceré la seguì con lo sguardo, quindi scosse la testa. "Avrei preferito vedere come sa morire un Trencabar!" disse. "Andate, andate, conte, questa notte non avete fatto altro che darmi delle disillusioni!"

Pagina 157

Una famiglia di topi

205079
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
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. - Non lo farò più, mamma, - promise Nello un po' mortificato, abbassando gli occhi sul piatto. In quel momento la Letizia, che doveva portar il caffè e latte co' panini imburrati per la fine di tavola, entrò tutta turbata nella sala da pranzo, e domandò alla padrona: - Perdoni, signora contessa: li ha presi lei i tovaglioli per il caffè e latte? - Io, no, - rispose la signora. E soggiunse: - O che si sono smarriti? - Mah!... io non ci capisco nulla. Gli avevo messi nel cassetto di sotto della credenza, e non mi riesce più di trovarli. - O come va questa faccenda? Basta, porta il caffè e latte: i tovaglioli si cercheranno; intanto, prendine degli altri in guardaroba. - La donna portò il caffè e latte; ma scappò in fretta a cercare i tovaglioli che mancavano. Dove potevano essere andati? Lei avrebbe giurato che di lì non gli aveva mossi; e pure non c'erano! E non era entrato nessuno, nessuno! Proprio, era il diavolo che ci metteva la coda! E frugava, e rimescolava, e buttava tutto per aria: tempo perso! Quando la contessa Sernici e i suoi figliuoli si furon levati di tavola, la contessa andò a cercare la Letizia, e le chiese: - Be', gli hai poi ritrovati questi tovaglioli? - Signora mia, non me ne parli: io, proprio, mi ci sbattezzerei! - La signora conosceva la Letizia per incapace di commettere una cattiva azione; ma d' altra parte non voleva nè anco ch' ella fosse così sbadata da non sapere dove avesse messa la roba che le era stata data in consegna; così che fissò la donna severamente, e le disse: - Guarda bene di ritrovare que' tovaglioli, perchè mi dispiacerebbe assai d'aver affidata sinora la casa a una mosca senza capo.... Tu sai se te ne voglio, del bene; ma intendo che al mio servizio ci sia della gente che sappia dove ha la testa. - All'udire quelle parole della sua buona padrona, la Letizia non potè più tenersi, e diede in un dirotto pianto. La contessa stette a guardarla un momento; e vedendola così afflitta e smarrita, non ebbe cuore di rattristarla di più. - Via.... - disse - che c' è da piangere? Una volta si può sbagliar tutti. Animo, su: cerchiamo insieme. Ma sei poi certa di aver riposti que' tovaglioli nella credenza? - Sì signora;... - rispose la donna ancor singhiozzando. In quel momento s' udì Nella gridare dall' altra stanza: - Mamma! mamma! vieni a vedere! - La signora, non sapendo di che si trattasse, accorse subito; e trovò Rita e Nello che accoccolati davanti a un cantuccio della sala, tutto nascosto da una tenda pesante di velluto paonazzo, si tenevano i fianchi dal ridere. - Che c' è? - domandò la signora. - Guarda, guarda, mammina! - La contessa si curvò, e vide la Caciotta tutta affaccendata a tirar dentro con le zampine e co' denti qualcosa di bianco che strascicava per terra.... Guardò bene: era un de' famosi tovaglioli.... Alzò la tenda: c' eran lì dietro, tutti! - Ah, brutta ladra! - esclamò la contessa fra stizzita e ridente. - E io che me l' ero presa con quella poverina!... Letizia! Letizia! - Comandi! - gridò Letizia arrivando lei pure.

Pagina 36

Lo stralisco

208586
Piumini, Roberto 6 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
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La stretta nave filava sulle onde allungate, propizie, abbassando e rialzando di poco la prua, terminante a chiocciola come la punta di una pantofola. I nove marinai, lanciandosi ogni tanto brevi richiami con voci acute, fischianti, regolavano le vele per raccogliere al massimo il vento compatto da Settentrione. Gentile, che durante le giornate burrascose era rimasto quasi continuamente sdraiato sulla cuccetta rigida, tormentato da malesseri d'anima e di corpo, alternando sonni agitati a veglie torpide, al calmarsi del mare sali sul ponte, e trovato un luogo appartato a prua, senza conversare con i marinai affaccendati, rimase per ore a guardare l'orizzonte: svarianti danze di gabbiani, affollate fughe di pesci appena sotto la superficie, ai lati della chiglia tagliente. A destra, netta e lontana, la sagoma di Sciro sembrò stare immobile a lungo: poi, quasi d'un tratto, apparve indietro, come una gigantesca balena all'improvviso fuggita nel mare. Riportando avanti lo sguardo, appena a destra della linea di prua, a tre o quattrocento metri dalla nave, Gentile notò qualcosa di bruno e irregolare, e si alzò incuriosito, coprendosi la fronte con la mano. Una zattera di lato beccheggiava sulle onde. Un palo alto poco piú di una persona, spoglio, stava al centro. Se mai aveva portato una vela, era del tutto scomparsa. La zattera sembrava vuota: ma presto, nei momenti in cui l'onda la inclinava a favore della nave, qualcosa di chiaro si poté scorgere: un misterioso groviglio. Gentile si voltò verso i marinai, per richiamare l'attenzione: ma il turco dalla pelle buia che stava alla barra già spingeva per piegare la rotta verso il relitto. Il capitano e gli altri si riunirono a prua, a mano dritta, mentre la vela, piú chiusa al vento, si afflosciava, facendo rallentare la nave. La zattera, quasi immobile sul mare, si avvicinava: alghe verdastre e nere le orlavano il bordo, smangiato dal sale: ma il corpo di tronchi era saldo. Spinta da vento e correnti, chissà da quanto vagava, inanimata, per le aperte acque dell'Egeo. Quando fu ancora piú vicina, da bordo videro cos'era quel bianco: due scheletri, uno grande e l'altro minuto, intricati, legati ai tronchi da robuste corde di pelle, che resistendo ad ogni strattone del mare non avevano ceduto, stringendosi anzi e tirandosi, saldando quel groviglio di ossa al legno muschioso. I due scheletri erano abbracciati, con le bocce bianche dei crani appoggiate uno alle spalle dell'altro, in figura di strana e spaventosa tenerezza. — Sono pescatori? — chiese Gentile a Mutak Amat, il capitano. — Uno doveva essere molto giovane... Un ragazzo. Forse padre e figlio... La zattera, quasi ormai a contatto con la nave, sfilava dondolando e ruotando lentamente lungo la fiancata. Nessuno, da bordo, allungò pali o lanciò funi per trattenerla. — Pescatori, forse, — disse il turco, salutando gli scheletri con un bacio veloce. — Ma di solito i pescatori annegano sulle loro barche... Potrebbero essere naufragati su un'isola e aver costruito la zattera per tentare il ritorno... Certo, quel legno è in mare da piú di due anni. Rallentando e sbandando vistosamente sulla scia della nave la zattera restò indietro, e diede l'impressione di dirigersi, senza fretta, verso la sfumata Sciro. — Ma lo scheletro piccolo ha ossa troppo sottili, - disse Mutak Amat dopo un silenzio. — Scommetterei la mia nave contro una conchiglia che quello è uno scheletro di donna... Gentile si senti chiudere la gola, come se una mano violenta gliela stringesse. — Sposi? — disse piano. — Sposi naufragati? Il capitano indugiò. — Forse, — disse, e lanciò un corto comando al timoniere, che spinse la barra per catturare il vento. Subito la vela si gonfiò, e la nave, leggermente scricchiolando, si inchinò alla spinta e accelerò. — O forse amanti... — disse Mutak Amat. — Certe tribù dell'Egitto, o della lontana terra dei Berberi, usano legare gli amanti illegittimi su una zattera, e affidarli alla crudele pietà del mare... Gentile rispose allo sguardo del turco senza una parola. Poi tornò a guardare a Nord. Ormai la zattera non si distingueva piú. Talvolta sembrava al pittore di vederne uno spigolo, breve forma scura sul profilo di un'onda. Ma altre macchie, simili a quella, apparivano in altre parti, e subito scomparivano nel misterioso orizzonte.

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Giacché se all'uomo comune basta a volte un lungo sguardo per farsi invadere l'anima da una donna, a un pittore come Filippo assai meno occorreva: e fu lei a respingere il getto d'estasi meravigliata di lui, abbassando faccia e capo come avevano le ritrose sorelle. Fu un breve scroscio, ma un attimo assai lungo. Fra Diamante sotto il cappuccio; Filippo a guardare, sopra due simili, una testa velata di nero, che conservava nella posizione china un tremolio di fuggitiva, l'ostinazione allertata di chi si nasconde. Poi l'acqua d'improvviso calò. Prima fra tutte la monaca piú alta allungò il piede e si avviò fra le pozzanghere, mentre le altre due, sorprese da quella solerzia che loro toccava, dopo un'incertezza la seguirono, sollevando con le mani solo di mezza spanna i lembi della tonaca. Filippo lasciò passare un momento, poi uscì allo scoperto e prese la strada dietro a quelle. — Fratello mio, — disse Diamante, arrivando con passo affannato a toccargli il braccio. — Buon Filippo, non era dall'altra parte che stavamo andando? — Prima sì, — disse il pittore. — Ma ora, dovunque sia, si va da questa parte.

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. — Solo quelli necessari, del resto, — disse Filippo, abbassando il capo con esemplare, remissiva discrezione. — Assegnerò il compito ad una monaca semplice e paziente, frate Filippo: non ti sarà di nessun disturbo. — Di questo son sicuro, e ti ringrazio. — Infine, caro pittore, cosa di pochissimo conto, a suor Marta non sarà concesso vedere, né prima né poi, il ritratto che farai, giacché la regola della modestia, nel nostro ordine, è assoluta. — Capisco perfettamente, madre Pia, — disse il pittore, sollevando lo sguardo con quasi allegra simpatia. — E sono preso da profonda ammirazione, da profondo rispetto per questa vostra disciplina, così forte da saper togliere a donne l'eterno desiderio, nato nell'Eden, di guardarsi... Ma dovrà pur accadere che, quando il volto della Madonna sarà fatto, suor Marta lo veda... — Naturalmente, frate Filippo, — disse la badessa, dolcemente. — Ma sarà appunto il volto di Maria. Se è tolta a suor Marta la vanità della propria bellezza, concessa le sia la gioia di farne dono alla Madre di Cristo! — Amen, amen! — disse Filippo, in convenevole tono.

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Quando suor Caterina tornò, svegliando al passaggio il finto sopito con uno stropiccio di gola, ed entrò abbassando la testa per non vedere nemmeno di sfuggita il ritratto, e posò l'ampollina d'olio sul tavolo di Filippo, Lucrezia sedeva al suo posto, quietamente. E allora rientrò il pittore dal chiostro, con un petalo di rosa fra le dita macchiate di vernice bruna. Guardò Lucrezia, vide uno sguardo di pianto felice. Guardò il dipinto, e notò sullo specchio, nella parte vuota del volto, l'impronta fresca e ancora vaporante di un bacio. Un bacio a sé, al ritratto incantato, a lui stesso? Non importava: era dato.

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— E piuttosto bravo, direi, — disse il pittore, abbassando la testa. Madurer rideva. Inquietamente si voltò verso l'amico. — Tu hai la faccia stanca, Sakumat, — disse poi, serio, — sei molto pallido, e anche un po' magro. — Sono davvero pallido e magro, Madurer? Bisogna che vada a guardarmi in uno specchio... Ma forse è meglio che non ci vada. Non mi vorrei spaventare. Lasciamo lo spavento nello specchio. — Si. La tua immagine è là che aspetta, per farti spavento: ma tu non ci vai! — esclamò il bambino. Poi aggiunse, calmo: — Forse ti stanchi perché non posso ancora aiutarti a dipingere. — Non lo credo, Madurer, — disse il pittore, — non è faticoso, lavorare con íl pennello. E la nave va cosí veloce, che fra poco basteranno tre colpi di colore... Madurer tornò con lo sguardo al mare sgombro, alla sua destra. Tacque qualche minuto, pensando e respirando lentamente. Poi chiuse gli occhi e, per qualche istante, si addormentò. Sakumat si passò le mani sulla faccia, in silenzio. La barba era ormai lunga, e numerosi fili bianchi vi segnavano le ondulate piste del tempo. Il bambino riapri gli occhi. — E se dall'altra parte del mondo, fra un orizzonte e l'altro, affondano il Tigrez? — disse accigliandosi, come se avesse fatto in quell'istante un sogno di sciagura. — Può capitare, Madurer, — disse Sakumat lentamente, scostando le mani dal volto, — il vecchio Krapulos è certo un gran capitano, la ciurma è sveglia e fidata, la nave è forte... Ma può capitare. Tu pensi che capiterà? — No. Ma ci proveranno! — disse Madurer quasi con ira. — Chi ci proverà? — Gli spagnoli. E poi anche i greci. — Tutti insieme? Ahi, povero Tigrez... — Non tutti insieme. Prima gli spagnoli, dalle parti della costa libica, e quasi un mese dopo, i greci. — Ma Krapulos, è greco anche lui! Come mai gli dànno la caccia? Sono altri pirati? — Non ricordi cosa diceva quel ragazzo nella storia di Zineb e i pirati, Sakumat? Diceva: «Tutti i pirati sono nemici di tutti». — No, diceva: «Per un pirata, tutto il mondo è pirata». — È piú o meno la stessa cosa, no? — Sí, infatti. E poi, cosa accadrà? — Dunque, gli spagnoli andranno a picco in un baleno, perché combattevano ubriachi di vino. — Sia lode ad Allah, e al suo profeta. E i greci? — Con i greci sarà piú dura. Il Tigrez sarà colpito da una bordata. — Vittime a bordo? — Purtik, il nostromo. Via la testa con una palla di cannone. — Beh, era un rinnegato. Prima o poi la doveva perdere, la testa. Lascia una vedova a Rodi, se non ricordo male... Ma si è già risposata da ventitré anni. Madurer rise debolmente. — Invece lo sai chi fa vincere il Tigrez? — disse. — Madurer. — E come fa? È solo un mozzo. — Sí, però ad un certo punto della battaglia con i greci, c'è da andare in fretta sul pennone per manovrare la vela quadra, e sotto il tiro dei greci nessun altro ce la fa. Ci provano in sette, e cascano giú come mosche, e si sfracellano un po' sul ponte, e un po' finiscono in mare. — Poveracci! Allora va su Madurer? — Sí, va su come un gatto. — Ma i greci non sparano anche a lui? O sono sbronzi di vino greco? — No, sparano e mirano dritto. Ma Madurer non è mica scemo. Sale coperto dall'albero, e cosí in fretta che nessuno riesce a prendere la mira. Eppoi c'è il mare agitato, e tutto si muove. — Bene. E cosí riesce a girare la vela quadra. — Allora il Tigrez fa la manovra giusta, e sperona la nave dei greci. Muoiono quasi tutti, perché lí ci sono i pescecani. Tre si salvano, e diventano pirati. — Ahi, povero Krapulos! Tre nuove bocche da sfamare! — Due bocche in piú, Sakumat. Purtik ha perso la testa, e quindi la sua bocca non c'è piú. — E quelli che tentavano di salire alla manovra? Quelli che si sono spiaccicati e caduti in mare? — Ah sí. Quelli... Sono morti in due. Uno coi pescecani, e uno proprio fracassato sul ponte. Due su sette sono morti. Cosí non c'è una sola bocca in piú da sfamare! — E chi erano? — Gente da poco, anzi da niente. Non si sa nemmeno come si chiamavano. Per ricordare i loro nomi, dovremmo dire quelli di tutti gli altri. Insomma, esistevano poco anche prima, capisci? — Come la farfalla verde sul muschio verde. Madurer rise. — Allora il Tigrez ci guadagna, con i due pirati nuovi! — disse Sakumat. — Certo! — disse Madurer. — Perché poi saranno fedelissimi a Krapulos. Sono di Salamina, suoi compaesani. Anzi, uno è suo cugino. — Com'è piccolo il mondo, — disse Sakumat alzando le spalle. — E allora, per il nostro mozzo, ci sarà un premio? — Diventerà nostromo. — Cosí, di colpo? Non è un pochino troppo giovane? E gli altri pirati non sono invidiosi? — No, nessuno è invidioso. E poi nessuno di loro vuole fare il nostromo. Non vogliono le responsabilità. Ma siccome un nostromo ci vuole... E poi, quando c'è la battaglia, possiamo fare che Madurer ha già sedici anni. A sedici anni si può fare il nostromo, vero? — Sul Tigrez sí, — disse Sakumat. — Ma ora sei stanco, Madurer, dovresti... Madurer lo interruppe, con un gesto della mano. — Tutte quelle battaglie rallenteranno un po' il viaggio, però! — Sí, un po'. Ma ci sarà buon vento. Tutto il vento che occorre. — Forse è meglio che la battaglia con gli spagnoli non c'è stata. Facciamo cosí. Quella battaglia non c'era. — Pensa se lo sapessero gli spagnoli, che festa farebbero! — disse Sakumat. — Ma adesso riposa, Madurer. Il bambino si abbassò tra i cuscini. — Quando il Tigrez tornerà e sarà vicino, si vedrà che Madurer è nostromo? — Si vedrà di sicuro. E forse, allora, sarà già diventato capitano. Un capitano si vede da lontano, no? Quel gioco fu l'ultimo che Madurer fece con lena.

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— Son sei anni che è morto, — disse Gentile, abbassando appena la faccia. — Benedetto sia il suo ricordo. Dopo un'occhiata veloce al fratello maggiore, Giovanni disse: — Ma io credo, signore, che nostro padre non potrebbe provare gioia piú grande di quando, ancora ragazzi, ci teneva nella bottega, e guidava senza toccarle le nostre mani e la mente, facendoci considerare le forme e le figure, e ci insegnava, perdonando i nostri errori, a impastare le terre per la pittura... — Anch'io lo credo, mastro Giovanni, — approvò il Doge, muovendo il capo avanti e indietro in un assenso solenne. — Ma è il momento ora di parlarvi della ragione per cui io e gli Anziani della Serenissima vi abbiamo convocato. Forse, avrete pensato, vi si vuole affidare un lavoro in uno dei nostri bei palazzi... Invece è cosa diversa, e benché nessuno vi possa imporre quel che la vostra volontà non accetti, la richiesta che stiamo per farvi è per la Repubblica di grande impegno e valore, e non vi parrà giustamente altro che lode e privilegio il fatto che sia rivolta a voi. I due fratelli pittori tornarono a guardarsi per un istante, e come erano abituati da sempre in un attimo si lessero sotto la compunta tranquillità, e la rispettosa curiosità dei volti, la scintilla di un sorriso, un complice ammiccamento sul procedere ampolloso del Doge. — Del resto, fratelli Bellini, — continuò il Reggitore con un movimento delle bianche mani, — alla fine di tutto uno solo di voi sarà impegnato... Ma ora vi dirò piú chiaramente. Gli Anziani, nei loro scranni ai lati del Doge, presero fiato nello stesso momento, come i cantori all'inizio di un inno: e per un attimo ai due fratelli pittori parve che il resto del discorso sarebbe stato davvero cantato da tutti quei vecchi in palandrana. Invece il Doge riprese da solo: — Il Sultano dei Turchi, Imperatore Maometto, che vive e regna a Costantinopoli, e con il quale la Serenissima ha da anni rapporti di pace ed alleanza, ci manda a chiedere un pittore, il piú valente che abbiamo, per un'opera nel suo palazzo. Sebbene non ufficialmente, ci fa sapere che quest'opera sarà un suo ritratto, e verrà esposto a venerazione sopra la porta interna del Palazzo Imperiale. Voi sapete piú di me, maestri, come gli usi e la religione dei musulmani non favoriscano la rappresentazione delle figure umane... Pare dunque che non ci siano nelle terre dell'Islam artisti capaci d'altro che meravigliosi ornamenti. La richiesta di un pittore capace ci è giunta in modo solenne e direi quasi pressante, tale da non permetterci dubbi né esitazioni. Né dubbi o esitazioni abbiamo avuto, del resto, nel pronunziare subito i vostri nomi: però ne abbiamo ancora, e non sono risolti, su a chi di voi chiedere e affidare l'opera... Il Doge tacque, volgendo ai lati lo sguardo lungo le due file di Anziani, come per raccogliere il loro consenso a quanto diceva. Poi tornò a vagare con gli occhi dalla faccia di Gentile a quella di Giovanni, che restarono in silenzio, ben convinti che il discorso non fosse finito. — Insomma, benedetti figli di Jacopo, — disse il Doge unendo le mani quasi a preghiera. — C'è stata una discussione molto appassionata, che vi risparmieremo: dovete solo sapere che i nostri venerabili Anziani, animandosi nel descrivere e commentare la bellezza delle vostre opere, e le qualità del vostro tocco, eran diventati come i ragazzini delle sponde che gridano durante le gare sul Canal Grande... Presi da discreto disagio, i due fratelli lo sciolsero in una risata, a cui si unirono gli Anziani, come a premiare la bonomia del Doge. — Alla fine, — disse il Signore facendo abbassare subito la voce di tutti, — alla fine ci siamo detti: scelgano loro. Piú di tutti noi, voi sarete rispettosi della vostra differenza, e generosi nella decisione. Scegliete dunque, maestri, chi di voi, se vorrà, potrà svolgere questo incarico prezioso, per il quale è annunciata, naturalmente, una generosa ricompensa. Non bisogna che lo facciate subito, s'intende. Il Doge tacque. Senza guardare il fratello, Giovanni prese la parola. — Illustre Signore, e voi nobili Anziani, non mi occorre consultare mio fratello Gentile io lo indico senza dubbio, e subito, come il piú adatto alla missione, la cui proposta onora anche me. Io non voglio, e certo nemmeno lui, discorrere qui, per questa ragione, sui diversi modi della nostra arte: cioè di come io penso e faccio le opere di pittura, o di come le pensa e fa lui... Se voi avete discusso, se vi siete accalorati, è stato vostro diritto e gioco: ma noi, quando insieme scoprimmo sotto lo sguardo amoroso e leale di Jacopo nostro padre, le diversità del nostro stile, subito le accettammo ed amammo come fossero parte dell'uno e dell'altro: in tale modo che mai ne vorremmo o sapremmo fare oggetto fra noi di discussione, e tanto meno di preferenza e contesa. Altre ragioni, in verità decisive, spingono invece a scegliere Gentile per questa missione: accade infatti che, come forse sapete, io stia in pieno lavoro alla Scuola Grande: e ad un punto tale che, interrotto o affidato ai soli aiuti, il danno sarebbe irreparabile, e la spesa rovinata. Un viaggio come quello che proponete, poi, richiede forza e buona salute: e io, benché qualche anno più giovane di mio fratello, sono di natura piú fragile e malsana. Vado soffrendo da mesi un perfido male ai piedi, che mi costringe a dipingere seduto, e non mi permette di sopportare altri viaggi che quello da casa mia a San Marco... Gentile ha tempra robusta, adatta ai viaggi, e per di piú ha da pochi giorni dato l'ultima pennellata al Salone del Maggior Consiglio, proprio oltre quella parete. Egli è dunque libero da impegni presenti, e nessun contratto lo lega per i prossimi mesi. Infine, rivelo che in un periodo della giovinezza in cui io ero affidato a una balia a Treviso, a causa della mia debole salute, Gentile ebbe una balia turca qui a Venezia, che gli raccontava storie dell'Oriente e gli insegnò la misteriosa lingua di Costantinopoli. E Gentile cosí bene l'apprese, che sempre era lui ad accompagnare nostro padre Jacopo alle fiere di piazza, dove i mercanti del Levante vendono terre colorate e i preziosi pennelli damasceni. Vedete dunque, Signore e Venerabili, come sembra che la stessa mano di Dio si sia mossa a indicare quale di noi due possa, se vorrà, prendere la via. E Giovanni, sbirciando questa volta Gentile con un sorriso truffaldino, abbassò la faccia come colui che umilmente s'apparta. Gentile sorrise. Il Doge, guardandolo, lo incoraggiò a parlare. — Signore illustre, e Anziani venerabili, — disse il pittore, — nonostante quello che mio fratello ha detto, pur accettando come sacra e benedetta la differenza delle nostre pitture, io sono nell'animo convinto che egli sia miglior pittore di me. Tuttavia, quello che lui dice sul corso dei nostri lavori, sul suo malanno, e sulla mia conoscenza della lingua turca, è la verità. Inoltre, io non nego che un viaggio nelle terre d'Oriente molto mi piacerebbe, giacché ricordo le storie che non solo la balia turca, ma nostro padre ci raccontava: storie di cavalieri e cavalli straordinari, di leoni e deserti, stupende magie e musiche, damigelle incantate. Io e Giovanni lo ascoltavamo in silenzio, seduti ai suoi piedi, con la schiena contro il muro del campiello ancora caldo di sole: e l'odore salato del canale diventava per noi il profumo dei porti d'Oriente. Alla fine, ricordi, Giovanni? nostro padre diceva: «E domani, pesciolini, ve ne conterò una nuova! » Giovanni Bellini, che durante il racconto di Gentile aveva mutato la sua espressione allegramente cospirativa in una di intensa e commossa memoria, alzò verso il Doge gli occhi rossi di pianto. — Miei cari, miei cari, — disse il Signore, sporgendosi in avanti sullo scranno, dopo una pausa rispettosa, — mi sembra che quello che occorreva sia ottenuto. Giovanni non può, e non vuole. Gentile vuole e può. A voi va bene, a noi va bene: anche all'illustre Maometto piacerà.

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