Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679062
Perodi, Emma 4 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Appena il giullare entrò, fece una comica riverenza abbassando la testa e ponendo in evidenza l'enorme gobba. Bastò quella mossa per dileguare la tristezza della signora e farla ridere di cuore. - Madonna, io posso inforcare quella lumaca del mio destriero e ritornare da tuo padre! - Perché? - domandò la contessa Berta. - Fui mandato qui per farti ridere; tu ridi e io parto. Non vorrei che con me tu mettessi in opera il proverbio: "Avuta la grazia, gabbato lo santo". È vero che non sono un santo, ma potresti in questo caso trattarmi come tale; e io ho gabbato molta gente, ma non fui mai gabbato. La Contessa continuò a ridere e il gobbo prese a dire: - Messere e madonna, eccomi qui nella vostra casa. Se volete che restiamo amici, dobbiamo fare i nostri patti. - Che patti? - esclamò il Conte. - Sarebbe bella e nuova che un giullare c'imponesse la sua volontà. Riccio non rispose, ma scrollò il berretto coperto di sonagli e si avviò verso la porta. - Dove vai? - domandò il Conte. - Dove mi pare. Tu mi hai chiamato perché facessi quello che tu non sai fare, cioè tenere allegra la tua sposa; tu vuoi da me un favore ma non permetti che io domandi un compenso, e io me ne vado. Siamo tutti pari: arrivederci! - E la lettera di mio suocero? - È inutile, messere, che io te la consegni, tu non sai leggerla. Io tornerò a chi l'ha scritta e dirò che venga a prendersi la figliuola se non vuole che crepi alle mani di un signore così prepotente. - Tu non partirai, gobbo maledetto! - A chi dici, messere? Tu sai che mi chiamo Riccio; se tu mi chiami gobbo, io ti chiamo pelato. A questo punto la Contessa rise, e risero tutte le dame presenti; il Conte soltanto fremé nel sentirsi burlato in presenza della moglie, e per tagliar corto a quel discorso che lo seccava, ordinò a Riccio di leggergli la lettera del suocero. Il giullare l'aprì, la rigirò da tutte le parti e poi lesse: Un giullar mi chiedesti per madonna, Che dal tedio si rode e si consuma, Ecco Riccio; se il cuci alla gonna, Di Berta, il tedio tosto ne sfuma. - Come leggi spedito! - disse il Conte. - Ci vuol poco; questi versacci sono miei, proprio miei e di nessun altro. Ora ho letto la lettera, che non è lunga, e ti snocciolerò la filastrocca de' miei patti. - Sentiamola! - disse la Contessa, che si divertiva a far parlare il giullare. - Voglio un letto di piume finissime, che mi permetta di riposar bene, perché la mia metà non può giacere sul duro. - E dov'è questa tua metà, che non la vedo? - Sei forse cieco? Eppure la porto bene in mostra; la mia cara metà è unita a me da legami indissolubili, ed io, meschino, debbo chinar la testa e sopportare tutte le noie che m'impone. - Questa tua metà, sarebbe forse la gobba? - domandò il Conte, il quale incominciava a divertirsi. - Non la chiamar così, signor mio! Fra i suoi difetti, v'è pur quello di essere permalosa, e freme a sentirsi dar quel brutto nome! Invece vuol essere chiamata amena Collinetta, o Collinetta amena, ed allora è tutta latte e miele. Ma, intanto, parlando e ciarlando, dimentico il meglio: avrò il letto di finissime piume? - L'avrai, - disse il Conte. - Passiamo al secondo patto: io ho bisogno di quattro vestiti all'anno; uno per stagione. - L'avrai pure; non ci vuole a vestir te, più stoffa che a vestire un bambino. - La quantità è niente, lo so pur io; - rispose Riccio, - ma siccome quando vestite me, vi conviene vestire anche l'amena Collinetta mia, così dovete sapere che ella è alquanto sofistica; vuole che il suo abito sia tutto imbottito di bambagia e che non faccia una grinza, altrimenti non mi dà pace né tregua. - Il nostro sarto ti farà i quattro vestiti, e Collinetta amena sarà contenta! - disse il Conte ridendo. - Passiamo al terzo patto, - soggiunse il giullare. - Collinetta amena ha lo stomaco delicato; i cibi ordinari non li digerisce, ed ha bisogno di brodi sostanziosi, di carni tenere, di caccia fine, di gelatine e pasticcini. Se mi prometti di trattarla bene, rimarrò, altrimenti mi conviene di partire. - Non dubitare, tu mangerai alla nostra tavola e Collinetta amena pure, dal momento che siete inseparabili. - Non vuol dir nulla questa vaga promessa. Mangiare alla tavola di un signore, non s'intende mangiare delicatamente come mangia il signore. Potresti dare a Collinetta amena da mangiar chiodi, e tu accomodarti lo stomaco con tordi e pernici. No, io voglio i patti chiari e intendo che la mia metà abbia lo stesso trattamento di madonna. - L'avrà, l'avrà! - esclamarono marito e moglie. - E ora è terminata la filastrocca dei patti? - Ci rimane il più e il meglio. Collinetta amena è previdente, essa pensa alla vecchiaia e non fida troppo sulla generosità dei grandi. Ogni anno essa vuole tant'oro quanto ella ne può contenere, perché bisogna che dica che ella vincola la sua libertà soltanto per un anno. - Madonna Collinetta avrà l'oro che chiede, - replicò il Conte, - e avrà tutto il resto; però, col patto che la tristezza non apparisca mai sul volto della mia sposa e che il castello di Romena echeggi sempre di risa. - S'intende! - rispose il giullare. E abbassando la testa fece fare alla gobba tre inchini. Questa mossa bastò, come la prima volta, per far ridere a crepapelle la Contessa e le sue dame. Col giullare era entrata davvero l'allegria nel castello di Romena, e quando egli vedeva che la Contessa era pensierosa, si permetteva di far burle d'ogni genere, e raccontava storielle così ridicole da costringerla a ridere. Se erano a mensa e si accorgeva che non rimaneva per lui nessun boccone prelibato, si alzava, e senza tanti complimenti lo prendeva dal piatto di madonna Berta; dopo pranzo si metteva a cantare con una voce quasi chioccia le bellezze di Collinetta amena, e sfogava i supposti tormenti del suo cuore con parole così buffe, accompagnate da gesti così ridicoli, che madonna Berta si smascellava dalle risa e doveva imporgli di tacere. A Romena tutti eran pazzi di Riccio e gli permettevano di parlar liberamente e di far quello che gli pareva. Il solo che non potesse vederlo era un certo messer Lapo, un poetastro lungo e secco come una pertica, e noioso, aiutatemi a dire noioso. Questo tale non rideva mai alle facezie del gobbo e lo schivava quanto più poteva. E il giullare, che voleva divertire i signori alle spalle di quel figuro, lo tormentava sempre e non si lasciava sfuggire qualunque occasione si presentasse per metterlo alla berlina. Questo messer Lapo era un uomo alquanto pauroso; aveva paura degli animali, aveva paura dei morti, delle streghe, e, soprattutto, degli spiriti. Ora Riccio, saputo questo, volle fargli una burla, e siccome dormiva in una camera vicina a quella del poetastro, una sera, mentre questi sfogava alla finestra il suo estro poetico cantando alla luna, s'introdusse in camera di lui e si nascose sotto il letto. Quando ser Lapo ebbe sfogato ben bene la voglia di cantare, chiuse la finestra e si coricò. Ma era appena nel primo sonno, che si destò di soprassalto sentendosi tirare le coperte. - Gli spiriti! - disse con un fil di voce. Le stratte alle coperte si ripeterono insistenti, e poi sentì una mano diaccia che gli toccava i piedi: - Sono morto, - urlò, e con tutti e due i pugni si diede a batter nella parete per destare Riccio. Ma Riccio non rispondeva e continuava a tirar le coperte, a smuover le panchette e a far l'ira di Dio. - Anime sante! vi farò dire una messa, due messe, dieci messe, ma lasciatemi in pace! Nulla. Il diavolìo aumentava, gli sgabelli andavano per terra, i vestiti volavano come pipistrelli, battendo nel viso di ser Lapo: pareva il finimondo, e l'infelice non osava aprir gli occhi e tanto meno scendere dal letto. Quando Riccio credé di averlo abbastanza impaurito, se ne andò a letto e dormì saporitamente. La mattina dopo il poetastro e il giullare s'incontrarono nella sala del castello in presenza de' signori. Ser Lapo aveva un viso giallo da far pietà e certi occhi tutti stralunati dalla paura. - Non hai dormito neppur tu, compare? - domandò Riccio. - No, - rispose brevemente l'altro, che non voleva parlare degli spiriti. - Madonna e messere, nelle nostre camere ci son gli spiriti! - disse Riccio. - La mia Collinetta amena è tutta ammaccata dai colpi che le hanno dato. - Dunque li hai sentiti anche tu? - domandò ser Lapo sgranando gli occhi. - Se li ho sentiti? Non mi hanno lasciato dormire un momento solo. - Perché non ti sei fatto vivo quando ho bussato nella tua parete? - Amico, la paura mi ha fatto morire la voce nella strozza. - Io non vi dormo più in quella stanza, con licenza di madonna e di messere, - disse Lapo. - Va' a dormire in Torre, - rispose il Conte. - E io neppure ci dormo, - disse Riccio. - Andrò in Torre anch'io. Bisogna sapere che il castello di Romena era fiancheggiato da molte torri, ma ve n'era una più alta delle altre, che guardava il pian di Campaldino, e che chiamavano soltanto Torre, mentre le altre avevano tutte un nome speciale. Così il gobbo e il poeta quel giorno stesso presero le loro carabattole e andarono a stare nella Torre. In essa non vi era altro che una stanza per piano. Lapo prese quella di sotto e Riccio quella di sopra. Intanto il giullare aveva avvertito i signori che la storiella degli spiriti era una burla preparata da lui al poeta per tenere allegra la nobile compagnia, e aveva pregato il Conte di dar ordine che nessuno, di notte, rispondesse, qualora Lapo si mettesse a urlare e chiedere aiuto. In quel giorno Riccio, approfittando dell'assenza di Lapo aveva smosso i mattoni che rispondevano sul letto del poeta e, chiappati sul tetto una diecina di pipistrelli, l'aveva rinchiusi in una cassetta. Quando fu notte e tutti erano a letto, Riccio alzò uno dei mattoni smossi, e, legati per una zampa i pipistrelli a un cordino, li spinse giù. Questi si abbatterono sul viso di ser Lapo e con le grandi ali sbatacchiavano sulle coltri, sul guanciale e facevano un vero diavolìo. Lapo, che dormiva con un occhio solo, si destò di soprassalto, e stava per balzare dal letto e correr su da Riccio, quando sentì questi che urlava: - Salvatemi! Ho i diavoli in camera! Mi scorticano vivo! Allora capì che era inutile ricorrere al buffone, e messa la testa sotto le coltri si raccomandò l'anima a Dio. Quando piacque a Riccio, i pipistrelli cessarono di sbatacchiar le ali sul letto di Lapo; ma questi non si riaddormentò più, e la mattina dopo disse al Conte che nella Torre non ci voleva più stare, perché c'erano i diavoli, e invocò la testimonianza di Riccio. - Guardami, signor mio, e ti accorgerai dal mio viso quello che io abbia passato stanotte. A centinaia sono comparsi i diavoli alati in camera mia e io ho gridato, ho tempestato, mi son fatto il segno della croce, ma tutto è stato inutile. Se non mi dài un'altra camera, io me ne torno oltralpe, da dove son venuto, - disse Riccio. La contessa Berta, che sapeva tutto, non poteva trattenere le risa, vedendo la faccia impaurita che faceva il giullare nel raccontar a sua volta le avventure della notte, e lo spavento vero che gli si leggeva negli occhi. - Ti darò un'altra camera e a te pure, messer Lapo, - disse il Conte. - Voi dormirete nelle stanze terrene, che mettono alle prigioni; queste sono vuote, e là non ho mai inteso dire che vi fossero spiriti né diavoli. Anche quel giorno il poeta e il buffone presero le loro carabattole e le portarono in due stanzoni quasi bui. Riccio faceva animo al poeta dicendogli: - Stasera, prima di andare a letto, faremo venir qui fra' Leonardo con l'acqua santa, e quando avrà benedetto le pareti non temeremo più di nulla. Riccio, nell'entrare in quegli stanzoni disabitati, aveva veduto uscirne impauriti una quantità di scarafaggi e la vista di quegli animali gli suggerì un'idea, che mise subito ad effetto appena fu solo, dando loro la caccia e acchiappandone una gran quantità. La sera, com'egli e Lapo avevano stabilito, fecero andar fra' Leonardo a benedir le camere, e poi ognuno si ritirò nella propria, lasciando socchiuso l'uscio che le poneva in comunicazione fra loro. Lapo andò subito subito a letto, perché era stanco morto della veglia delle notti precedenti, e s'addormentò; Riccio, invece, cavò con cura a uno a uno gli scarafaggi dalla cassetta ove li aveva riposti, adattò loro un moccolino sulla schiena, e poi li portò davanti l'uscio di ser Lapo, e, accesi che ebbe i moccolini, spinse gli scarafaggi dentro la camera del poeta. Poi socchiuse l'uscio in modo che gli animaletti non tornassero indietro, e si mise a gridare: - Aiuto! aiuto! Ecco i diavoli! Il poeta si destò, spalancò gli occhi e vedendo quella processione di lumicini impazzì quasi dalla paura, mentre Riccio continuava a urlare: - Ahimè! Amico, soccorrimi, dei piccoli diavoli mi salgono nel mio letto, mi camminano sulle carni, mi entrano in bocca, sono indiavolato anch'io! Ser Lapo non parlava per non aprir la bocca e non esporsi alla stessa sorte del compagno. S'era tirato le coltri fin sopra al capo e si raccomandava a tutti i santi del Paradiso, promettendo a san Francesco un pellegrinaggio alla Verna, e a san Jacopo di Campostella, uno in Gallizia, se avevano misericordia di lui e lo salvavano. Intanto Riccio urlava sempre: - Son dannato! Me ne sono entrati dieci in bocca, mi brucian le viscere, mi dilanian lo stomaco, mi strappano il cuore! Tutta la notte il buffone continuò a gridare e a smaniare, e quando fu giorno andò in camera di ser Lapo, facendo gesti di ossesso e boccacce e sgambetti, come se avesse davvero avuto cento e non dieci diavoli in corpo. Ser Lapo era più morto che vivo, e questa volta, senza vedere né messere né madonna, fece un fagottino e se ne andò da Romena per compiere il pellegrinaggio prima alla Verna e poi in Gallizia. Quello che ridessero la Contessa e il conte di Romena al racconto delle avventure di quella notte, fatto da Riccio, non si può dire con parole. La Contessa badava a dirgli basta, perché dal tanto ridere soffriva. E quest'avventura continuò a tenerla di buonumore per molto tempo e a rallegrare le veglie invernali. Intanto, l'anno pattuito per il soggiorno di Riccio al castello di Romena stava per terminare, e il giullare non si sentiva disposto a rimanere in quella solitudine. Egli era assuefatto alle Corti numerose, popolate di dame e di cavalieri, alle liete brigate, e sentiva che a lungo andare avrebbe perduta la vena comica in quel castello, dove convenivano poche persone e sempre le stesse. Voleva dunque andarsene e, senza prevenir nessuno, la mattina che compieva l'anno si presentò nella sala dov'erano messer Alessandro, madonna Berta, i loro valletti e le loro dame. - Salute alla compagnia! - disse Riccio entrando e agitando il berretto con i sonagli. - Salute a te! - rispose la Contessa. - Che vuol dir, Riccio, codesto saluto diverso dal solito? - Gli è, madonna, che oggi non è un giorno come tutti gli altri. - Come sarebbe a dire? Che io sappia, non ricorre nessuna solennità. - È giorno d'addio, madonna. È un anno che sono arrivato, e oggi, che termina l'anno, me ne vado. - Parli da senno? - Da senno, madonna; l'aria di Romena non mi si confà. - Ma tu sai, Riccio, che qui ti vogliamo bene e abbiamo mantenuto tutti i nostri patti. Hai avuto il morbido letto di piume per Collinetta amena, hai avuto quattro abiti di panno di velluto, hai avuto buoni bocconi ... - Sì, madonna; anche tu però hai avuto giorni lieti e hai imparato a ridere. - È vero. - Però Collinetta amena deve avere ancora tant'oro quanto ne può contenere. - È giusto; - rispose il Conte, - ma tu non ci lascerai, non è vero? - Io vi lascerò, e Collinetta amena vuole subito quello che le spetta. - Sia fatta la tua volontà! - disse il Conte; e presa una borsa d'oro da un forziere la fece scivolare dal collo nella gobba del giullare. Riccio intanto s'era messo una mano sotto il farsetto e guardava il Conte. - Non ti basta? - domandò messer Alessandro. - Collinetta amena può contenere altre monete, - rispose Riccio. Il Conte tornò al forziere, prese una manciata d'oro e la fece sparire nella gobba. Riccio tirò giù dall'imbottitura del farsetto una manciata di stoppa e disse al Conte: - Collinetta amena può contenere altre monete; signor di Romena, rammentati dei patti. Il Conte tornò al forziere, prese altro oro, e lo mise nella gobba; ma più lui ne buttava e più Riccio cavava capecchio. A farla breve, per empir la gobba ci volle tutto l'oro del forziere. Messer Alessandro era su tutte le furie e madonna Berta rideva. Quando la gobba fu piena zeppa di monete d'oro, Riccio si levò il berretto con i sonagli, e disse: - Collinetta amena contiene molte monete, ma l'allegria non si paga, e madonna, che ha imparato a ridere di cuore, riderà ancora per molti anni ripensando al falso gobbo. Salute alla compagnia e figli maschi! Dopo aver detto queste parole, uscì. Nel cortile, il cavallino, sul quale era giunto, era già sellato, un altro era carico della roba del giullare, e lo montava un villano. L'omino, nonostante il carico che aveva nella gobba, balzò presto in sella, perché aveva paura che il Conte si pentisse e gli riprendesse l'oro che gli aveva dato, e via. La contessa Berta rimase in sala a ridere e non dimenticò più la consuetudine presa di aprir la bocca alle franche e sonore risate, e tutte le volte che il Conte si lagnava di essere stato spogliato dal giullare, essa gli rispondeva: - L'allegria non si paga! La novella aveva messo tutti di buonumore, e Vezzosa aveva riso veramente di cuore. - Vedi se ti ho fatto dimenticare la tristezza di questa settimana? - disse la Regina a Vezzosa. - La novella mi ha fatto ridere, ma quel che ha dileguato la mia tristezza è stata la vostra accoglienza, la vostra bontà per me; io sono felice, felice, e non rammento più i brutti giorni passati. Ma ora dico come Riccio. Salute alla compagnia! e me ne torno a casa. Cecco e Maso uscirono insieme con Vezzosa, e per tutta la via non fecero altro che parlare del bel modo col quale la Regina narrava e della freschezza di mente di quella donna già tanto avanti negli anni. - È stata una benedizione per la nostra famiglia; - disse Maso, - cerca d'imitarla. Vezzosa sorrise e rispose: - M'ingegnerò. E corse su dalla malata.

- L'ho già, - rispose la ragazza abbassando la testa, volendo dire che lei come tutti gli abitanti di Bibbiena, erano sottoposti all'ubbidienza della famiglia Saccone, che era entrata nei diritti dell'arcivescovo Tarlati di Arezzo. - Se io dunque sono il tuo padrone, Nicolina, a me spetta il primo bacio. E il Conte l'abbracciò; ma mentre la ragazza tentava di svincolarsi da lui, il signore vide l'anello di ferro che portava nell'indice, e le domandò da chi l'aveva avuto. Nicolina rispose che l'aveva trovato sulla proda di un fosso nel far l'erba. - Se è così l'anello mi spetta, perché sono il padrone della terra. E ridendo lo tolse di dito alla ragazza e se lo mise nel mignolo. Ma subito sentì accendersi il sangue e il cuore da un violento amore per Nicolina, e guardandola fisso con gli occhi scintillanti, le disse a bassa voce: - Bisogna che questo anello sia quello della nostra unione, Nicolina. Sali meco su questo cavallo e ti condurrò in una villa dove c'è tutto quello che puoi desiderare; avrai vesti di seta, gioielli e paggi. Nicolina fu così stupefatta da queste parole che non seppe rispondere; allora il Conte la sollevò da terra, la pose a sedere sulla sella e il cavallo partì di trotto facendo le faville sui ciottoli della strada. Il Diavolo, che era nascosto dietro un muricciolo, fece una capriola dalla contentezza e poi, riprendendo l'aspetto umile del Frate cercatore, si diresse verso la casa dei Dovizii. Questi erano tre fratelli, possidenti di terreni. Ognuno aveva la sua parte di terra, che coltivava a modo suo; ma il patrimonio paterno restava indiviso, e i fratelli vivevano fra loro d'amore e d'accordo. Il Frate li trovò riuniti in una stanza terrena occupati a tagliare col coltello i dentali per l'aratro. Nel veder fra' Leonardo si alzarono e vollero offrirgli da bere, ma il Diavolo li ringraziò. - No, brava gente, son venuto soltanto a prendere l'elemosina per il convento. - Scusateci, fra' Leonardo, ora siamo da voi. Si preparano i dentali per l'aratro, ché quelli che abbiamo son consumati, - disse il maggiore de' tre fratelli. - Eppure, - continuò il secondo, - furon fatti da poco col legno di querciolo; ma la nostra terra è dura come il sasso, e si suda molto a lavorarla. - Figuratevi, - aggiunse il terzo fratello Dovizii, - che in una giornata si stancano due paia di manzi; a mantenere tante bestie c'è da andare in rovina. - Capisco che vi lamentiate, figli miei, - rispose il Diavolo, - e voglio aiutarvi. Questo dentale fu fabbricato da san Giuseppe. Quando vi s'innesta il vomero, esso lavora tutto il giorno da sé e fa tanti solchi quanti non ne farebbero quattro aratri tirati dai manzi. Disgraziatamente questo dentale non può avere altro che un padrone e bisogna che appartenga a uno solo di voialtri. - Tiriamo a sorte per vedere a chi tocca! - esclamarono i fratelli. Il Frate acconsentì, e quando i Dovizii ebbero tirato, il dentale toccò al minore, che aveva nome Ciapo. Fra' Leonardo glielo diede e andò via avendo ricevuto una larga elemosina, dopo di aver raccomandato ai due fratelli maggiori di non esser gelosi del minore. Questi andò a prender l'aratro, lo portò in un campo, che non era stato lavorato da tre anni, e inserì il vomero nel nuovo dentale. Subito il vomero si mise in moto, volando sulla terra come un uccello cacciato dalla tempesta e facendo un solco più profondo per due volte di quello che suol fare il vomero. I due fratelli maggiori, che erano andati per vedere, rimasero immobili dalla sorpresa, ma in quel momento sparì dall'animo loro l'affetto per il fratello e provarono per lui un'invidia indicibile. Ciapo, invece, si gonfiava d'orgoglio. - È stato fortunato davvero di vincere il dentale! - sussurrarono essi a bassa voce, - noi avevamo tanti diritti quanto lui, ma il caso lo ha favorito. Ciapo udì questi discorsi e si volse irato. - Non fate come i reprobi, - disse, - che chiamano caso la volontà di Dio. Se ho ottenuto questo dono prezioso, vuol dire che ero stimato più degno di voi di riceverlo. I due fratelli gli risposero per le rime e lo chiamarono vanaglorioso. Quest'epiteto fece andare in bestia Ciapo. - Andatevene! Andatevene! - esclamò, - non mi fate uscir dai gangheri, perché con il mio aratro posso ammassare in breve molte ricchezze, e quando sarò un signore, se mi salta il ticchio, vi riduco alla miseria. Questa minaccia fece salire ai due fratelli maggiori tutto il sangue alla testa. Essi erano ciechi di rabbia e dissero: - Abbi giudizio, borioso maledetto, perché se tu ci minacci, ti spoglieremo di ciò che costituisce la tua superbia! - Se avete il coraggio, fatelo pure, - rispose Ciapo alzando il roncolo che portava alla cintura e ponendosi a difesa del suo tesoro. I fratelli, pazzi di furore, vedendogli in mano quel ferro, estrassero i coltelli e lo crivellarono di ferite, cessando soltanto quando Ciapo cadde morto davanti a loro. Una risata maligna echeggiò in quel momento dietro a una siepe. Era il Diavolo che rideva dalla contentezza e se ne andava felice dell'opera sua. Prima di giungere in Bibbiena, lasciò le vesti di Frate cercatore, e prendendo l'aspetto di un mercante di buoi, entrò in una osteria e chiese da cena. La serva gli portò in tavola un par di rocchi di salsicce, una frittata e un fiasco di vino. Mentre il Diavolo mangiava, entrò un uomo tutto commosso, narrando che i vecchi Sbrigoli erano crepati a tavola dal troppo mangiare e dal troppo bere. Il Diavolo si strofinò le mani e ordinò alla serva un altro fiasco di vino, ma di quello vecchio, stravecchio. Mentre sorseggiava il primo bicchiere entrò nell'osteria un altro uomo, annunziando che il conte Marco, mentre cavalcava per recarsi a una sua villa, dopo aver rubato la bella Nicolina Verri, era stato sorpreso dalla piena, guadando l'Archiano, ed era morto. - Anche la ragazza? - domandò il Diavolo. - S'intende, e il cavallo pure, - rispose l'uomo. - Il cadavere del conte Marco è stato ripescato, ma nessuno ha avuto ancora tanto coraggio da portare la notizia del disastro al padre suo. Il Diavolo, dalla contentezza, scese nell'orto e ballò come un burattino. Quando si fu rimesso a tavola, altri giunsero nell'osteria raccontando che i due fratelli Dovizii avevano ucciso Ciapo, e poi, dallo spavento del delitto commesso, si erano dati alla fuga. Il Diavolo mandò un grido di gioia e chiese che gli portassero un fiasco di vin santo. Intanto la gente era sgomenta da quel succedersi di disgrazie e di delitti in poche ore, e si faceva il segno della croce temendo che fosse prossimo il giorno del giudizio. Il Diavolo centellinava l'ultimo bicchierino di vin santo quando Gesù Cristo si presentò sull'uscio. - Satana, - disse, - la giornata è trascorsa e tu devi tornare alle fiamme dell'Inferno. - Son pronto, Nazzareno, - rispose Satanasso asciugandosi la bocca, - ma ti assicuro che non farò il viaggio solo. Porto meco tutti quelli che ti eran cari in questo paese. - Quali arti diaboliche hai tu impiegato per condurre a te quelle anime timorate di Dio? - domandò Gesù Cristo. - Un mezzo semplicissimo: li ho beneficati. Tu mi avevi proibito di tormentare gli Sbrigoli, i Verri e i Dovizii, e io non ho trasgredito la tua volontà; invece di molestarli, li ho arricchiti. Questo fatto ti servirà d'esempio, Nazzareno. Tu saprai un'altra volta che per perdere gli uomini vi è un mezzo ben sicuro; quello di beneficarli. Addio! E il Diavolo fece un lancio e sparì nell'oscurità della notte. Mentre Gesù Cristo, afflitto dalla dannazione di quelle anime, riprendeva il pellegrinaggio, alla luce delle torce vide recare sopra una barella il cadavere del conte Marco, che riportavano al palazzo. Poi, ammanettati in mezzo ai soldati, scòrse i due fratelli Dovizii. Il Signore si coprì la faccia e pianse esclamando: - Il Diavolo è più potente di me! - Come raccontate bene, Regina! - esclamò Vezzosa. Vi si starebbe a sentir degli anni. Me l'avevano detto che non ci era nessuno che narrasse le novelle come voi, ma non ci credevo. Ora non posso più dire così, ed è un piacere davvero l'ascoltarvi. - La mamma, - rispose la Carola, - ci fa parer corte le veglie d'inverno, e se tu ci fai bene attenzione, ogni novella contiene uno o più ammaestramenti. Io lo dico sempre, ai miei figliuoli, che son ben felici di avere una nonna come lei. Cecco aveva una voglia matta di unire le sue lodi a quelle altrui, ma la presenza delle donne di fuori lo tratteneva e avrebbe taciuto se la Vezzosa non l'avesse stuzzicato dicendo: - Scommetto che di quanti siamo qui, il solo che non piglia gusto alle novelle della Regina, è Cecco. Lui, assuefatto in città, deve ridere delle nostre fandonie. - Io? - rispose Cecco arrossendo. - Sì, proprio voi; al reggimento disimparate tutte le usanze del paese, e invece di sentir raccontare volentieri i fatti veri o immaginarî che riguardano il Casentino, leggete i fattacci che stampano i giornali. Ne ho visti tanti che sono ritornati da fare il soldato, e tutti avevan cambiato pensiero e disprezzavano ciò che prima piaceva loro. - Vi sbagliate, Vezzosa, - rispose Cecco vincendo il ritegno. - Io sono stato volentieri sotto le armi, perché ho imparato a montare a cavallo, a puntare un cannone, a sopportare le fatiche delle marce, e, all'occorrenza, sarei buono anch'io a difendere il nostro paese, che non è il Casentino solo, ma bensì tutta l'Italia. Ma anche quando ero nelle grandi città, il mio pensiero si volgeva sempre qui, e non vedevo il momento di tornare a casa per abbracciare la mia vecchietta e aiutare i fratelli. Io non credo che si possa essere buoni soldati, se non si comincia dal fissare le proprie affezioni a una casa, a un pezzetto di terra, e da queste non si estendano a una regione e poi alla grande patria, che il soldato deve essere pronto a difendere. - Cecco, voi parlate come un libro e non l'avrei mai creduto; ma già siete figliuolo della Regina. Godo davvero di sentire che voi siete rimasto un buon casentinese anche sotto le armi; vuol dire che alla vostra casa e alla vostra mamma siete affezionato davvero. Cecco non rispose, ma scambiò con la Regina uno sguardo pieno d'affetto. - Quand'è mamma che ci racconterete un'altra novella? - domandò la Carola. - Domenica, se non c'è nulla in contrario. - Allora, Vezzosa, non mancare domenica prossima; e siccome sarà entrato il carnevale, dopo la novella farete due salti. Avverti le compagne, e Cecco suonerà l'organino. - Cecco ballerà, - disse Vezzosa. - In paese non ce n'è tanti dei ballerini come lui, ed è meglio che suoni chi non può dimenar le gambe. Il bell'artigliere non poteva soffrire che quella ragazza si occupasse sempre di lui, e per levarle ogni speranza disse: - Su di me non ci contate, io non so ballare. - Si vedrà! - rispose Vezzosa che non voleva darsi per vinta. Per dare un'altra piega al discorso, Cecco disse: - Si può sapere, mamma, quello che ci racconterete domenica? - Se posso rammentarmene bene, vi racconterò la novella di Adamo il falsario; me la raccontava sempre la mia nonna; ma sono tanti e tanti anni che può essermi uscita di mente. - Oh, ve la rammenterete, nonna! - esclamò l'Annina, - voi non dimenticate mai nulla, e domenica saprete farvi onore davanti a molta gente! Poi balleremo e voi ci starete a vedere. - Io andrò a letto, bimba; alla mia età si ha bisogno di riposo. - Ora ne avete bisogno davvero, andate a letto, mamma. La vecchia, aiutata da Cecco, si alzò e andò in camera. Quando il bell'artigliere fu tornato in cucina, Vezzosa gli si piantò davanti, dicendogli: - Siamo tutte donne sole; vi dispiace, Cecco, di accompagnarci? Egli non poté rifiutarsi e uscì fischiando; ma invece di mettersi accanto alla Vezzosa, com'ella avrebbe voluto, s'imbrancò con i bambini, e con lei non scambiò altro che la felice notte sull'uscio di casa.

E, abbassando il capo senza aggiungere altro, andò al suo lavoro, ripensando alla bestialità fatta col dare una matrigna alle figliuole. La Regina confermò il fatto, piangendo dalla felicità e raccomandò a Vezzosa di essere per Cecco buona e affettuosa compagna. - Almeno quando non ci sarò più io per volergli bene, ci sarai tu, ed egli potrà consolarsi con te della mia mancanza, - diceva la vecchia. La domenica, Vezzosa, che non era più malata, ma bianca e rossa come un fiore, fu invitata a desinare a casa Marcucci, e le dettero a tavola il posto accanto a Cecco, che doveva occupare in seguito, quando sarebbe stata la moglie di lui . Maso aveva invitato anche il resto della famiglia di Vezzosa, ma la matrigna, che era in furore per non averla potuta accasare a modo suo, non volle accettare, e così convenne anche a Momo di stare a casa sua. Non fu un desinare, ma un pranzo in tutta regola, quello che i Marcucci offrirono a Vezzosa. Cappone lesso, un buon fritto, tordi arrosto, ammazzati da Cecco, cenci dolci e vin buono. E di questo pranzo non godé soltanto Vezzosa, ma anche il pievano e due amici di Cecco, che erano stati soldati con lui e si erano recati da Bibbiena al podere di Farneta, dietro invito dello sposo. Vezzosa non s'era messa in fronzoli; aveva la sua sottana di flanella, il giacchetto eguale e un grembiule di seta. Di gioie nulla, altro che i piccoli pendenti d'oro, che Cecco le fece togliere per ornarla delle buccole con le perle, regalo compratole a Firenze, dove aveva fatto una gita il venerdì col pretesto di vendere della canapa. Naturalmente quella domenica fu bevuto più del consueto, e il desinare terminò quasi a notte. Mentre gli uomini fumavano a tavola, Vezzosa si rimboccò le maniche del vestito, si mise un grembiale da cucina, e aiutò le altre donne a sparecchiare e a rigovernare. Cecco, non le toglieva gli occhi da dosso, badava a dire alla mamma sua: - L'ha già preso il suo posto in casa, e vedrete come lo saprà tenere! Come è graziosa anche nel far le faccende; par fatta di un'altra pasta di noi, zotici villani! Ed era vero. Vezzosa non si abbassava nel prestare umili servigi. Aveva un certo fare che nobilitava ogni opera delle mani, e una destrezza che già le future cognate le invidiavano. Quando la cucina fu tutta in ordine, ella andò a sedersi accanto a Regina, e le disse sorridendole: - Mamma, aspettiamo la novella! La vecchia la guardò con compiacenza e prese a dire: - C'era una volta a Bibbiena una ragazza per nome Amabile, che era reputata in paese la bella delle belle. Il padre di lei faceva il tessitore di panni, dunque Amabile non era punto, ma punto ricca. Però le piaceva di comparire, e avrebbe fatto a meno di desinare pur di mettersi un fronzolo nuovo. Dovete sapere che da anni e anni a Bibbiena c'è la costumanza di far baldoria l'ultimo giorno di carnevale. In quel dì una comitiva di Fondaccini, con nastri celesti e merli, vivi o morti, legati per le zampe al cappello, gira di giorno la città suonando il trescone sul violino o sull'organetto. Ogni tanto questa comitiva dei Fondaccini si ferma davanti alla casa di qualche persona facoltosa, acclama il proprietario che dispensa denari e rinfreschi. Nello stesso tempo un'altra comitiva, detta dei Piazzolini, percorre altre strade, e a una cert'ora si ferma in Piazza Grande. Costì uomini e donne si mettono in giro alla fonte e cantano la canzone del Pomo Bello. Appena suona la campana della torre, tutta questa gente va in Piazzolina, dove i Fondaccini hanno acceso il Pomo Bello, che è un rogo formato di fascine di ginepro. Mentre la fiamma avvolge il rogo, anche i Fondaccini cantano la canzone del Pomo Bello, suonano il trescone, e le ragazze e i giovinotti ballano a più non posso. Ora avvenne che Amabile, la bella fra le belle di Bibbiena, si trovasse sulla Piazzolina quando fu incendiato il Pomo Bello. Ella era accompagnata dal padre, che, essendo uomo faceto, cantava a squarciagola: e le ronzava intorno Bindo, un altro tessitore, che era tanto innamorato di lei che pareva lo avesse stregato. Amabile, che era vana e ambiziosa, lo teneva a bada, ma non gli dava troppe speranze, perché il giovanotto non aveva terre al sole. Quell'ultima sera di carnevale, dunque, era mescolato alla folla un giovine signore di casa Dovizî, venuto da qualche giorno da Pisa, dove compieva gli studî. Costui appena vide Amabile se ne innamorò a tal segno che non si rammentò neppure che la ragazza era di bassa condizione, e lui di famiglia nobile. Voleva lasciare gli studî e non moversi più da Bibbiena, e dopo aver ballato con lei e averle dette tante dolci parole, consumò la strada davanti la casa di Amabile cantando le ultime strofe della canzone del Pomo Bello, che dicono: La Brunettina mia, Coll'acqua della fonte, La si bagna la fronte, Il viso e il petto. Un bianco guarnellino, Ell'ha con che si veste, E pel dí delle feste, Quello adopra. La voce del giovane si faceva specialmente forte per cantare gli ultimi quattro versi, che sono questi: S'io fossi in campo acciso, Fra suoni e canti, Io mi vedrei davanti, Il suo bel viso. Amabile, cui non era sfuggita la cortesia del giovine signore, capì che era lui che cantava, e disse fra sé: - Bindo non mi avrà certo; di qui a poco, sarò la moglie del bel cavaliere. Il dì appresso ella stava filando sull'uscio di casa, quando Desiderio Dovizî, passando di là, la salutò cortesemente. Ella rispose al saluto, e con belle maniere lo invitò a fermarsi per scambiare alcune parole. Desiderio accondiscese, e da quel giorno non cessò di passare dalla casa di Amabile, finché le due chiacchiere diventarono lunghi discorsi. A farla breve, egli, che era sempre più consumato dalla fiamma d'amore, le promise di sposarla appena terminati gli studî. Amabile era al colmo della felicità, perché aveva sempre bramato di crescere di grado e di vestire abiti di drappo, come aveva veduto portare alle signore del castello di Bibbiena. Ma intanto che i due giovani parlavano del loro avvenire, il fratello maggiore di Desiderio, cui non era sfuggita la passione del giovane per la bella fra le belle, gli ordinò di tornarsene a Pisa agli studî. Desiderio, prima di partire, pose in dito ad Amabile un ricco anello, e si fece promettere di restargli fedele. In capo a tre mesi egli sarebbe tornato e allora avrebbero pensato a celebrare le nozze. Amabile pianse in sulle prime, ma il timore di guastarsi i begli occhi, che tutti decantavano, la fece smettere, e, ripreso il fuso, tornò sulla porta a cantare per svagarsi. I giovinotti, che si erano allontanati per lasciare il campo libero a messer Desiderio, appena lo videro partire ricominciarono a ronzare intorno ad Amabile, la quale li trattava gentilmente, e alle loro parole melate rispondeva senza scoraggiarli, come sogliono far le ragazze che desiderano di sentirsi sempre adulare. Intanto messer Desiderio non s'era fatto vivo, e Amabile si cominciava ad annoiare di doverlo attendere tanto tempo, Un giorno ella era andata a merenda a Fonte Chiara da una sua comare, e verso sera se ne tornava a Bibbiena, quando le si accostò un cavaliere montato sopra un bellissimo cavallo morello: - Che cosa desiderate, signor cavaliere? - domandò Amabile alzando su di lui i bellissimi occhi. - Bella fra le belle, vorrei offrirti questa rosa, meno fresca delle tue labbra, - rispose il signore. Amabile fece una risata. - Voi non sapete certo che io sono promessa sposa, e che non posso accettare neppure un fiore da altri che dal mio sposo. Il cavaliere non rispose, ma balzato di sella infilò il braccio nella briglia e si mise a camminare accanto ad Amabile, sussurrandole nell'orecchio paroline dolci. Fra le altre cose egli le disse: - Se la bella fra le belle non vuole accettare una rosa, posso offrirle un bel fiore d'argento, poiché mio padre mi ha lasciato tanti fiorini d'oro da caricare tre carri. - Anche il mio sposo è ricco e non mi ricuserebbe nulla, - rispose Amabile. Quand'ebbero fatto un pezzo di strada il cavaliere disse: - Oltre l'eredità di mio padre, ho anche i beni che mi ha lasciati mia madre, i quali consistono in campi e vigneti; e se la bella fra le belle ricusa il fiore d'argento, posso offrirglielo d'oro. - Non vi ascolto, - rispose Amabile turbata. Così doveva parlare il serpente alla nostra prima madre. Fecero un altro pezzo di strada e il cavaliere disse: - Fin qui ho parlato alla bella fra le belle soltanto dei beni ereditati da mio padre e da mia madre; ma ho ancora dei boschi immensi lasciatimi da mio zio, e se il fiore d'oro le par cosa troppo misera, posso offrirgliene uno tutto scintillante di diamanti e rubini. Questa volta Amabile rispose: - Tacete, messer lo cavaliere, voi volete la mia dannazione. Ma lo sconosciuto continuò a parlare a voce bassa di ciò che voleva offrire alla bella fra le belle. Prima di tutto abiti più ricchi di quelli di una regina e un palazzo degno di un re di corona. Amabile non poté resistere a siffatte tentazioni. Ella si tolse di dito l'anello da sposa e l'offrì al cavaliere, e invece di tornare a casa si lasciò condurre lontano, nel luogo ove doveva trovare il palazzo promessole. Ma più che camminavano, più il cielo si faceva scuro, e a una a una sparivan le stelle. Nella campagna non si udiva altro canto che quello sinistro della civetta. Allora ella ebbe paura e disse allo sconosciuto: - Signor cavaliere, è tanto che camminiamo e non vedo dinanzi a me altro che una spianata, che somiglia a un camposanto. - È il cortile del mio palazzo, - rispose il signore. - Vedo una croce come quelle che piantano sul margine delle vie, nel luogo ove fu commesso un delitto. - È la banderuola del mio tetto, - rispose lo sconosciuto. Amabile fece alcuni passi e poi si fermò. - Mi par di camminare sopra una cava abbandonata, dove gettano gli animali morti. - È la soglia della mia dimora, - disse il cavaliere, e la trascinò giù per la discesa. Ma appena ebbero toccato il fondo della cava, la luna ricomparve ed Amabile si vide dinanzi, invece del bel cavaliere, uno scheletro avvolto in un lenzuolo sbrandellato. Amabile cadde in ginocchio, gridando: - Misericordia! Allora il morto le disse: - Non urlare: son Desiderio, lo sposo tuo. Tornavo per celebrare le nozze e sono stato aggredito da due ladroni, i quali, dopo avermi spogliato, mi hanno messo questa corda al collo e mi hanno gettato in questa cava. Il mio cadavere marciva sopra a terra, quando Gesù s'è impietosito e mi ha dato le sembianze d'uomo per provare la tua fede. Tu sei una spergiura, ma io voglio mantenere le promesse che ti ho fatte poco fa. Avrai abiti da regina, perché anche le regine sono rivestite di terra dopo morte; avrai un palazzo degno di un re di corona, perché anche i re, una volta spirati, son posti sottoterra. Dammi la mano, sposa mia, e mettiti al mio fianco, perché è sonata per me l'ora di tornare in seno alla morte. Ciò dicendo lo scheletro legò la corda attorno al collo della ragazza con un nodo così forte che nessuno avrebbe potuto sciogliere; e si coricò sulla terra umida. Amabile passò tutta la notte a pregare la Madonna, che non la udiva. Verso l'alba vide qualche cosa che si moveva ai suoi piedi. Era un topolino che stava fermo a guardarla. Nel medesimo tempo apparve qualche cosa di nero sopra la casa, e un corvo bigio andò a posarsi sopra una pietra. Il corvo e il topo erano due Maghi, che andavano in quel luogo a pascersi di cadaveri. - Corpo del diavolo, compare! - disse il corvo. - Sei giunto presto e scommetto che hai già scelto quel che ti piace meglio di quella ragazza! - Ma Satanasso non ci permette di toccar carne viva, - rispose il topo. - Ebbene, aspetteremo che sia morta. - Sì, - disse il topo - io mi sono scelto le gote. - E io le labbra, - replicò il corvo. - Le mangeremo gli occhioni neri. - E le orecchie rosee. Amabile si sentiva gelare, ma ebbe la forza di dire: - Ahimè! sono tanto giovane e smilza che avrete poco da mangiare; scommetto che vi tornerebbe più conto di salvarmi. - Salvarti! E come si farebbe mai? - Non è difficile; basta che il topo roda la corda che mi tien legata al cadavere, e che il corvo mi porti fuori da questa caverna. - Che cosa ci daresti se ti si contentasse? - domandarono i due Maghi. - Supplicherei mio padre di tesservi un bell'abito di drappo per ciascuno. I Maghi si misero a ridere. - Una camicia di finissimo lino. I Maghi risero più forte. - Anche un mantello di velluto. - No, - disse il topo, - non ho bisogno di vestiti né di biancheria; ma voglio due ali per volare. - Ed io, - continuò il corvo, - voglio quattro piedi per camminare. - Se domani non ci dài quello che chiediamo, l'anima tua è perduta, - aggiunsero tutti e due. Quelle condizioni parvero abbastanza dure a Amabile; ma accettò tutto, piuttosto che restare in quella caverna legata allo scheletro. I Maghi le fecero fare un giuramento sulla crocellina d'oro che portava appesa al collo, e appena ella ebbe giurato, il topo si mise a rosicare la corda, finché non fu spezzata, e poi il corvo si avvicinò, se la fece salire in groppa e la ricondusse fino dal padre. Quando l'ebbe posata nell'orticello del tessitore, l'avvertì che il giorno dopo sarebbe tornato in quel luogo insieme col compagno, affinché ella mantenesse la promessa. Amabile corse subito a picchiare all'uscio di cucina, che dava sull'orto, e il padre andò ad aprire. Ma vedendo la sua bella figliuola pallida, infangata, con gli occhi sbarrati, cominciò ad urlare che doveva esserle accaduta qualche disgrazia, e dallo strepito destò tutta la gente del vicinato. Amabile raccontò tutto quello che le era accaduto, e il padre disse che bisognava ricorrere a fra' Cirillo, che era un frate francescano, famoso per dar consigli. Appena fu giorno, Amabile andò al convento, accompagnata dal suo babbo e in confessione raccontò tutto a fra' Cirillo, che le disse: - Figlia mia, tu hai giurato sulla croce e nessuno ti può prosciogliere dal giuramento; ti conviene fare quanto hai promesso. - Dio mio, sarò dannata! - esclamò Amabile. - Stammi a sentire, - replicò il Frate, - e fa quanto ti ordino. La ragazza promise di non dimenticar nulla. - Prenderai prima un coltello che non abbia mai toccato carne; andrai lungo le siepi ascoltando il soffio del vento nell'erbe; quando udrai un lieve rumor di sonaglio, taglia la parte superiore dell'erba, che è quella del sonno, portala nell'orto, stendila in terra e torna ad avvertirmi. Amabile fece come le aveva ordinato il Frate e, trovata l'erba, la tagliò con un coltello nuovo e la stese nell'orto, e poi tornò dal Frate, il quale la rimandò a casa dopo averle insegnato quel che doveva fare. Fino a sera l'Amabile rimase nell'orto in orazione, e quando fu notte, sentì la voce del topo, che la chiamava. - Sono pronte le ali? - domandò in tono di scherno. - Non ancora, - rispose Amabile, - ma presto sì. - Sbrigati, sbrigati, - replicò il Mago, - ho furia, e domani sera devo essere a Firenze per certi affari miei. - Riposatevi un momento, - rispose la ragazza, - e vi contento subito. Il topo, che si sentiva volentieri trattato come persona di riguardo, si sedé sull'erba preparata da Amabile; ma l'erba del sonno produsse il suo effetto e di lì a poco il topo dormiva e russava. Dopo qualche momento comparve il corvo, e domandò: - Ebbene, carina, dove sono i miei quattro piedi? - Ahimè non ho potuto trovarli, neppure pagandoli a peso d'oro, - rispose Amabile. - Ne ero sicuro, - disse il Mago sghignazzando. - Ora dunque mi spetta metà della tua animaccia, e la voglio fra poco. - Concedetemi un po' di tempo, caro Mago! - esclamò Amabile. - Spero che avrete compassione di una povera ragazza innocente, che vi reca da cena. - Come mai? - domandò il corvo. - Ho acchiappato un topo con la trappola e l'ho portato qui per offrirvelo, - disse accennando il topo che dormiva sdraiato sull'erba. Il corvo lo guardò. - È un bocconcino ghiotto e lo accetto, a condizione di non rinunziare ai miei diritti. - Fate quello che vi pare, - replicò Amabile. Il corvo non si fece pregare: chiappò il topo per la collottola e giù in un boccone. Ma quello, svegliandosi, si mise a gridare e a dimenarsi tanto forte che con le quattro zampe forò lo stomaco del ghiottone. Allora comparve fra' Cirillo, che aveva veduto tutto. Egli recava la croce, e gridò: - Via, razza nata dal Diavolo! Questa ragazza non vi appartiene più perché ha adempiuto la sua promessa. A te, topo, ha dato le ali, perché oramai sei una cosa sola col corvo; a te, corvo, ha dato le quattro zampe che volevi. Andate dunque, e restate così come avete voluto essere, fino al giorno del Giudizio. I due Maghi, scorbacchiati, se ne andarono, ma non per questo la ragazza fu salva. Il grande spavento che aveva avuto nella caverna la fece ammalare, e presto presto si ridusse al lumicino. Il tessitore si rodeva le mani dal dispiacere. Avere una figliuola così bella, la bella fra le belle, e vedersela morire nel fiore degli anni! Il padre mandò a chiamare un forestiero che curava gl'infermi; costui le dette intrugli sopra intrugli, ma Amabile non risanò. Mandò a chiamare fra' Cirillo, e fra' Cirillo l'asperse di acqua benedetta; ma Amabile non risanò. Allora mandò a chiamare una vecchia, che stava in una capannuccia su verso la Beccia, e che tutti chiamavano la Strega, e costei, guarda e riguarda, esamina che ti esamino, disse che Amabile non sarebbe guarita, perché il suo male aveva sede nel cervello. E infatti non guarì. Di giorno era un po' più tranquilla, ma la notte pareva una indemoniata, perché appena l'aria si faceva buia, lo scheletro si alzava dal fondo della cava, si avvolgeva nel lenzuolo sbrandellato, e via accanto a lei a tormentarla, a coprirla di rimproveri per la fede mancata e per esserle fuggita con l'inganno. - Spergiura! Spergiura! - le diceva, e con le mani scheletrite le cingeva il collo, e con le guance ghiacciate toccava il viso infocato di Amabile. La malata urlava, si dibatteva tutta la notte, e ogni momento faceva atto di gettarsi giù dal letto; ma lo scheletro la tratteneva con le lunghe braccia, Amabile lo vedeva e lo sentiva, ma il padre, che l'assisteva, non vedeva nulla e attribuiva quelle smanie alla febbre che divorava la figliuola. Una sera Amabile morì. Le donne del vicinato la vestirono dei suoi abiti più belli, accesero molti ceri attorno al cadavere e le misero una croce fra le mani. Prima esse pregarono per l'anima di lei, poi, stanche, cederono al sonno. Quando si destarono all'alba, che è che non è, il cadavere era sparito. Figuriamoci lo spavento del padre e delle donne! Chi diceva che i ladri lo avevano rubato per spogliarlo degli abiti! Chi diceva che il Diavolo se l'era portato via! Figuriamoci se il padre cercò il cadavere della sua Amabile per fargli dare onorata sepoltura! Si mise alla testa di una comitiva di amici, e frugò per le macchie, per i burroni; tutto fu inutile. Allora fece fare delle novene; ma sì, il corpo d'Amabile era sparito e nessuno l'aveva veduto, né in città, né nel contado. Poi, come succede sempre, egli si stancò di cercare e riprese a tessere pensando sempre alla figliuola. Ecco com'erano andate le cose. Il corvo e il topo, che ormai formavano una sola persona, perfida per cento, appena che furono burlati a quel modo da Amabile pensarono di vendicarsi atrocemente di lei, e, aspettato il sabato notte, si recarono a un luogo dove sapevano d'incontrare il Diavolo, e gli esposero l'accaduto. - Che cosa posso fare per compiacervi, figli diletti? - domandò Satanasso quando ebbe udita tutta la narrazione. - Noi vorremmo un piccolo favore soltanto, - rispose il corvo che era molto loquace e parlava anche per il compagno. - Vorremmo cioè che ogni notte lo scheletro di messer Desiderio si destasse dal sonno della morte e andasse a tormentare Amabile. All'ora della di lei morte, poi, sarebbe nostra brama che Desiderio portasse la sua promessa sposa nella cava abbandonata, e se la tenesse a fianco fino al giorno del Giudizio. - Compare, - disse il topo, che vinceva in perfidia il corvo, - non ti pare che sarebbe meglio ottenere che tanto Desiderio quanto Amabile tornassero in vita per alcune ore; così il tradito continuerebbe a tormentare la spergiura? - Bravo! - esclamò il corvo. Il Diavolo, che era stato a sentire, si dette una fregatina alle mani in segno di allegrezza, e concesse ai due Maghi quello che volevano. - Ora, - disse il topo, - voliamo pur via e andiamo a godere dello spettacolo di Amabile alle prese con lo scheletro. Quella vista ci farà buon sangue, Infatti il corvo, nelle notti della malattia di Amabile, non si mosse più di sul davanzale della finestra, e quando la ragazza fu morta volò dietro allo scheletro, che se la portava nella sua caverna umida. Nel destarsi in quel luogo d'orrore, Amabile gettò un grido, e il topo le disse: - Perfida fra le perfide, ora non c'è nessuno che ti roda la corda. - Né che ti prenda sulle proprie ali per cavarti di qui, - aggiunse il corvo. - Sposa mia, sei diventata tanto brutta che mi fai orrore; - le diceva lo scheletro, - ma posa la testa più qua, affinché mi serva da guanciale. E allora lo scheletro posava il teschio sul viso di Amabile e la copriva d'improperî. - Spergiura! ... Vile! ... Anima nera! ... Strega! ... Questa scena si ripeteva ogni notte, e il corvo e il topo non la perdevano mai; venivano da lontano per assistervi, e a tutti e due pareva di andare a nozze. Ora avvenne che, dopo un certo tempo, fu stabilito a Bibbiena di costruire una nuova chiesa in onore della Madonna, e pensarono di prender la pietra nella cava abbandonata dove giacevano insepolti i cadaveri di Desiderio e di Amabile. Gli scavatori, appena vi scesero e videro quei due corpi, corsero a Bibbiena a raccontare il fatto, e il povero tessitore, che non aveva dimenticata la figlia, andò subito nella cava con la speranza di riconoscere in uno dei due cadaveri la sua Amabile. La riconobbe infatti dalle vesti, e con molta solennità fece trasportare la salma nel sagrato della Pieve, dove le dette onorata sepoltura. Le ossa di Desiderio furono poste in altro luogo. Da quel momento in poi Amabile riposò in pace, aspettando il giorno del Giudizio, e Desiderio la cercò invano accanto a sé. Si dice che per anni e anni un corvo stesse sempre, di notte, sul sagrato della Pieve gracchiando. Era il Mago col topo in corpo. Nessun dei due aveva potuto dimenticare il tradimento. Ora saranno crepati di vecchiaia, almeno si spera. E qui la novella è finita. - Mamma, - disse Cecco, - non so perché stasera ci abbiate raccontato questa novella che mette i brividi. Pare che l'abbiate detta per la Vezzosa. La ragazza rise di cuore mettendo in mostra i bellissimi denti, e fu lei che rispose: - No, la mamma non l'ha detta per me, prima di tutto perché non son la bella fra le belle, esposta a grandi tentazioni, e poi perché sa come la penso, - e qui guardò Cecco con occhio affettuoso. - Se ha scelto stasera questa novella, è perché si suol raccontare alle future spose. La mamma ha fatto bene a seguir l'usanza; è tanto bello di fare ciò che hanno fatto quelli che vissero prima di noi. Ma quell'Amabile, sentite, mamma, è vero che fu cattiva, ma ebbe una punizione che più tremenda, credo, non avrebbe saputo inventarla neppur Dante, che ha scritto l'Inferno! - E che ne sai tu di Dante? - le domandò Cecco. - Poco o nulla. Quand'ero piccola andavo per la vendemmia da certi cugini del babbo a Rassina, e là c'era una vecchia che sapeva a mente il canto del conte Ugolino, quello dei Serpenti, e non so più quali altri. Non sapeva neppur leggere, ma li diceva così bene da farci piangere. Ella ci raccontava che al tempo dei tempi questo Dante era stato in Casentino, a Poppi, a Romena e altrove, sempre ne' palazzi de' Guidi, e qui aveva scritto anche qualcuno di quei canti. Dice che i fiorentini lo avevan messo al bando e lui, sdegnato, se n'era venuto in questi poggi a sfogare il suo risentimento. - Non sai che cosa è avvenuto di quella cugina di tuo padre, che sapeva a mente i canti di Dante? - domandò la Regina alla sua futura nuora. - Ho sentito dire che era morta, - rispose la ragazza. - Morta sì, ma prima di scender nella fossa aveva fatto una tappa al manicomio. La povera Rosa s'era tanto empita la testa di quei canti, della descrizione delle pene dei dannati, che si figurava di esser lei nell'inferno circondata di serpenti. Era uno strazio a vederla. Credimi, Vezzosa, certi libri non son fatti per gli ignoranti come noi. Se ci si comincia a riflettere, s'ammattisce, perché il nostro cervello non è avvezzo a certo cibo. Maso fece osservare alla Vezzosa che era tardi e occorreva interrompere la veglia. La ragazza salutò tutti, prese in collo i bambini per baciarli, e avanti d'uscire chiamò da parte l'Annina e le regalò le buccole che aveva prima agli orecchi. Maso la riaccompagnò fino a casa, insieme con Cecco. Sulla porta c'era la matrigna ad aspettarla, che le urlò da lontano: - Dovevi farti aspettar dell'altro! È questa l'ora? Se tardavi un momento, trovavi tanto di catenaccio. Cecco sussurrò a Vezzosa: - Coraggio, ce n'è per poco; lasciala urlare e dormi bene.

Quando vi fu dentro, abbassando gli occhi sul petto, gli venne fatto di vedere, insieme con altre medaglie di bronzo e d'argento, quella d'oro con l'effigie di san Marco, datagli dalla madre al momento della partenza, e, intenerito da quel ricordo, disse: - San Marco benedetto, voi che prendeste a simbolo il leone, aiutatemi a domare la terribile fiera! E con un bacio ardente, deposto sull'immagine, suggellò la preghiera. In quel momento gli parve che gli occhi del santo Evangelista, ch'egli invocava, brillassero di una luce vivissima e che la testa circondata dall'aureola si abbassasse in atto di annuire. Questo bastò a Valfredo per riacquistare fede nell'impresa e, uscito dall'acqua, stava per rivestirsi, quando si vide davanti uno dei mori, che formavano la guardia del Sultano. Questi, vedendo luccicar sul petto al cristiano la medaglia d'oro, stese la mano per afferrarla, ma Valfredo, che era agile e forte, spiccò un salto all'indietro, e afferrato un sasso minacciò di lanciarlo sulla testa a chi osava avvicinarglisi. Il moro non si lasciò intimidire da quella minaccia, e tolta dal fodero la terribile scimitarra che portava al fianco, la brandì e si slanciò contro Valfredo, il quale, indovinata l'intenzione del nemico, senza esitare, lanciò con gesto rapido la pietra. Essa colpì in pieno petto il moro, che cadde rantolando per terra. - San Marco benedetto, e tu, madre mia, abbiatevi un giuramento: nessuno mi toglierà questa medaglia, doppiamente sacra, altro che dopo la mia morte! - disse Valfredo. E, rivestitosi in fretta, lasciò il suo nemico agonizzante per terra, e si allontanò. Ma poco dopo sopraggiunse una squadra di guardie che, raccolto il ferito, seppe da lui, prima che spirasse, che il feritore non era altri che il cristiano addetto alla guardia del leone d'Africa. Questa indicazione bastò perché Valfredo fosse subito arrestato e condotto incatenato alla presenza del Sultano. Il genovese serviva al solito d'interprete fra il sovrano de' Turchi e il cavaliere di Romena. - Can d'un cristiano, - disse il primo, - perché hai uccisa una delle mie guardie? - Signore, - rispose Valfredo, - io possiedo un talismano che deve servirmi a domare il feroce leone e renderlo docile come una pecorella. Mentre uscivo da una vasca del giardino, nella quale avevo cercato refrigerio ai bollori meridiani, la guardia mi s'è avvicinata e ha voluto rubarmi il mio talismano. Io mi son fatto indietro ed egli ha sguainata la scimitarra per mozzarmi la testa. In quel momento, non avendo armi per difendermi, ho afferrato un sasso e l'ho colpito. Signore, io non ho difeso soltanto la mia vita, ma ho voluto conservare il talismano che deve procurarti la soddisfazione di vedere a' tuoi piedi, reso mansueto, il terribile leone del deserto. - Se è così, cristiano, hai fatto bene ad uccidere la guardia; ma io non ho molta pazienza di attendere, e voglio che non più dentro ad un mese, ma dentro una settimana, tu mi conduca davanti il leone sciolto, al quale in presenza mia tu conterai i peli della criniera. Hai capito? Valfredo capiva purtroppo, ma non si perdeva d'animo. Gli furono tolte le catene e venne rimesso in libertà. Egli si grattò il capo, non sapendo come cominciare l'educazione del leone, e ritornò dintorno alla gabbia. Il leone lo salutò con un ruggito, che pareva una cannonata. - Le disposizioni della belva sono buone; si principia bene davvero! - esclamò Valfredo. Mentre stava pensando al modo di addomesticare il leone, capitò accanto a lui un veneziano prigioniero. - Amico, - gli disse, - per tutto il palazzo non si parla altro che di te e della bella medaglia d'oro che porti al collo. Vuoi giuocarla contro questo prezioso pugnale che io tengo nascosto nelle vesti? E gli faceva vedere un'arma dalla impugnatura d'argento, tempestata di pietre preziose, e nello stesso tempo toglieva di tasca due dadi. Valfredo, alla vista del pugnale e soprattutto dei dadi che aveva sempre maneggiati con tanta passione di giocatore, si sentì rimescolare il sangue, e già stava per cedere all'invito, quando gli parve di scorgere dinanzi agli occhi la faccia rannuvolata di san Marco. - No, - rispose con fermezza, - io non cederò alla tentazione e non arrischierò il mio talismano contro il tuo pugnale prezioso; tu fai in questo momento con me la parte del Diavolo. Vattene! Il veneziano si offese della repulsa, e, pieno d'ira, si gettò addosso a Valfredo per piantargli l'arma nel cuore. Ma Valfredo, più pronto, gli afferrò la mano, lo disarmò, e come sfregio gli fece una leggiera scalfittura sulla guancia, poi se ne andò. Dopo un'ora, incatenato di nuovo, Valfredo era alla presenza del Sultano. - Dunque, can d'un cristiano, non vuoi concedermi un momento di pace e dovrò sempre occuparmi di te? Prima mi uccidi una guardia, ora mi ferisci uno schiavo, che io tenevo in gran conto perché era abilissimo nei lavori d'orafo ed ha arricchito il mio tesoro di gioielli ed armi preziose! Che dici a tua difesa? - Nulla, - rispose Valfredo, cui il genovese serviva d'interprete, - quel veneziano voleva che io giocassi il mio talismano, ed essendomi rifiutato, egli ha tentato di uccidermi, ed io l'ho disarmato e ferito al volto. Del resto, signore, la sua ferita è così lieve che, se egli volesse, potrebbe subito tornare al lavoro. - Lieve o non lieve che sia, tu gliel'hai fatta, quella ferita, e devi essere punito. Non ti concedo più una settimana, ma un giorno per ammansire il leone, tanto da contargli in presenza mia i peli della criniera. Va'! Il cavalier di Romena, per ordine del Sultano, fu riposto in libertà, e afflitto e sconsolato andò in un punto solitario del giardino e si buttò in ginocchio. - San Marco benedetto, datemi un suggerimento, un'ispirazione per uscire da questo impiccio, perché io non so davvero come fare per ammansire il leone! Se mi aiutate, vi prometto, per l'eterna salute mia, di porre il mio braccio in difesa della fede e della città di Venezia, che vi ha eretto un tempio splendido e vi ha scelto a protettore. Subito dopo che aveva pronunziato questa promessa, si sentì invaso da una forza e da un coraggio straordinario. Gli pareva che avrebbe spezzato una incudine di ferro con una mano e avrebbe divelto dalla terra uno degli alberi giganteschi del giardino. Volle provarsi, e, cinto infatti con le braccia il tronco robusto di un albero, si mise a tirarlo. Con tre strattoni le radici si sollevarono dalla terra, come avrebbe fatto una pianta di rose da un vaso. Animato da questo primo esperimento, Valfredo aprì la gabbia del leone, e vi penetrò. La fiera ruggì, e con gli occhi spalancati, la bocca aperta, fece un lancio per saltargli addosso e piantargli nel petto i potenti artigli; ma Valfredo, invocato che ebbe san Marco, stese le mani, e, afferrato il leone per le gambe, lo mantenne a distanza. La fiera ruggiva, mandava schiuma dalla bocca e lampi dagli occhi, ma non poteva moversi, trattenuta dalle ferree mani del giovine cavaliere. La belva e l'uomo stettero così un pezzo con gli occhi fissi, e fu il leone che dovette abbassare lo sguardo dinanzi a Valfredo. Allora questi liberò le zampe dalla stretta; ma appena il terribile avversario si sentì padrone dei suoi potenti mezzi di offesa, con la bocca spalancata si avventò alle gambe del giovine, il quale, prima che le zanne gli lacerassero le calze, afferrò per le ganasce l'animale e lo costrinse a rimanere a bocca aperta senza poterlo mordere, senza poter fare nessun movimento. Dapprima, il terribile abitatore del deserto, fremette; ma poi, a poco a poco, si ammansì, e piegate le ginocchia rimase in atteggiamento umile dinanzi al suo soggiogatore. Le mani ferree si staccarono dalle ganasce del mostro, il quale non si mosse e con la lingua incominciò a leccare le palme di Valfredo. - San Marco, vi ringrazio di avermi fatto il miracolo! - esclamò il cavalier di Romena. - Ora sono salvo. E senza timore alcuno spalancò la gabbia e andò nel giardino. Il leone lo seguiva scodinzolando, ma i giardinieri, vedendolo, fuggivano spaventati, cosicché la notizia che Valfredo aveva domato il leone, giunse a palazzo prima che egli vi conducesse la fiera. Le guardie però non vollero lasciarlo entrare con quella compagnia, e il giovine cavaliere dovette attendere un ordine del Sultano. Intanto egli si era seduto sopra uno scalino di marmo e il leone gli stava accucciato ai piedi come un mansueto cagnolino. Poco dopo giunse l'ordine del Sultano, e allora Valfredo fu introdotto nella sala del trono alla presenza del temuto signore. - Cristiano, compi ciò che ti ho imposto, - ordinò. Valfredo non rispose, ma inginocchiatosi a fianco dell'animale incominciò a contargli i peli della criniera. Il conto riusciva lungo, perché la criniera del re del deserto era foltissima; ma il leone non si moveva e si lasciava toccare senza dar segno alcuno di tedio o di ribellione. Il Sultano non fiatava, ma le guardie, con la scimitarra sguainata, stavano pronte per difenderlo. Quando Valfredo ebbe terminato di contare, disse: - Vedi, potente signore, che io ho compiuto in un giorno un miracolo. Avevi una fiera e io l'ho ridotta più mansueta di un agnello. Questo leone potrai tenerlo ai piedi del tuo trono, ed esso darà maggior idea della tua possanza e sarai paragonato agli antichi imperatori di Roma e di Bisanzio. Non ti pare che in cambio di questo servizio io meriti qualche ricompensa? - E l'avrai, infatti, cane d'infedele! - rispose il Sultano. - Guardie, legatelo, e fra un'ora voglio che il suo cadavere penzoli dalla forca. Fremé Valfredo a tanta ingratitudine, e quando vide le guardie che si avanzavano per legarlo, urlò: - A me, leone di san Marco! A quel grido la fiera si scosse, ruggì, e, gettandosi addosso alle guardie, le sbranò; poi, saliti i gradini del trono, piantò gli artigli nel petto al Sultano e lo ridusse in pochi istanti boccheggiante cadavere. Le altre guardie fuggirono spaventate a rinchiudersi nelle cantine del palazzo. Ovunque era lo scompiglio. Si udiva il rumore di porte sbatacchiate, di catenacci scorrenti nei ferrei anelli. Valfredo era rimasto solo col leone, in presenza del cadavere del Sultano. Allora, animato da insolito ardimento, si slanciò nei giardini, preceduto dalla fiera, gridando: - A me, cristiani, per il leone di san Marco, noi siamo liberi! A un tratto una folla di prigionieri di tutte le nazioni, circondò il cavaliere di Romena. Accorrevano dal ponte, dalle galere, dai giardini, da ogni banda, carichi di ceppi, ma sorridenti a quel grido che prometteva loro la libertà. Invano i soldati turchi cercavano di sbandarli; il leone ne disperdeva le schiere, e la falange dei prigionieri avanzava sempre verso la rada del palazzo, nella quale si cullavano le dorate galere su cui sventolava l'orifiamma. I prigionieri se ne impossessarono mercè il leone, che fece strage dei mori che le costudivano, e poco dopo essi spiegavano le vele al vento e navigavano alla volta dell'Adriatico, verso la terra della libertà! Allorché le sentinelle della torre di Malamocco videro giungere le dorate galere sormontate dall'orifiamma, dettero l'allarme. Ma Valfredo scese in una imbarcazione, chiese di parlamentare e fu condotto dal Doge, al quale narrò dell'uccisione miracolosa del grande nemico della Repubblica e della liberazione di tanti cristiani, trattenuti lungo tempo in dure catene. Vennero fatti solenni rendimenti di grazia al protettore di Venezia per quel fatto, e quando Valfredo espresse il suo desiderio di porre il suo braccio e la sua spada al servizio della Serenissima, il Doge e il Consiglio lo investirono del comando delle navi prese ai Turchi. E su quelle Valfredo corse vittorioso i mari, sempre accompagnato dal leone, che era docile con i cristiani e ferocissimo con gli infedeli, sbranandone quanti più poteva. Il cavalier di Romena salì ai più alti onori e acquistò grandi ricchezze. Già inoltrato negli anni, tornò a Romena. Il padre suo era morto, morta la buona madre che lo aveva pianto così amaramente per lunghi anni, e i suoi fratelli eran tutti vecchi. Essi, che avevano contribuito a farlo scacciare dal padre, ora, sapendolo ricco, lo accarezzavano e lo circondavano di attenzioni, apparentemente affettuose, ma dalle quali egli non si lasciava ingannare. Valfredo si trattenne alcuni mesi nel castello di Romena, e in quel tempo, chiamati da Firenze architetti, scultori e pittori, fece costruire una ricca cappella in onore di san Marco, nella quale ordinò che fosse trasportato il cadavere della buona madre sua, di colei che lo aveva protetto nell'esilio. Vi potete figurare se il leone, che era il compagno inseparabile di Valfredo, destasse la curiosità degli abitanti del Casentino! Essi scendevano dai monti più alti per vederlo, e il leone, che era docile e buono con quelli che amavano il padrone, riprendeva i suoi istinti bestiali appena si accorgeva che qualcuno tentava di far male a Valfredo. Infatti sbranò un cugino del suo padrone perché lo diffamava, e staccò con una zannata la mano destra di un perfido suo nipote, il quale, non contento dei molti doni avuti da lui, gli aveva rubato una grossa somma in tanti fiorini d'oro della Serenissima Repubblica di Venezia. Quella belva pareva guidata da una intelligenza soprannaturale e si sarebbe detto che l'anima del santo protettore della città del mare si fosse trasfusa in lui. Valfredo visse molti anni e morì a Venezia carico d'onori. Il giorno stesso della sua morte fu trovato stecchito anche il leone, la cui pelle servì di lenzuolo funebre al cavalier di Romena. - La vostra novella, - disse Vezzosa quando si accòrse che la Regina aveva terminato di narrare, - ha prodotto il solito benefico effetto sopra di noi. Vedete, mamma, i volti nostri non esprimono più l'ansietà; voi ci avete divagati e noi siamo più calmi, più fiduciosi e più forti. Però, nonostante l'assicurazione che Vezzosa aveva data alla Regina, la conversazione languì. Nessuno osava parlare vedendo Maso col capo chino e gli occhi fissi in terra, come nei giorni della morte di un manzo o dello sperpero della raccolta; e quel silenzio e quell'abbattimento del capoccia si rifletteva su tutta la famiglia. Questo silenzio si sarebbe prolungato chi sa quanto, se un incidente non fosse venuto a interromperlo. - Una lettera! - gridò dalla viottola un frate converso di Camaldoli che tornava da Poppi. - Presto, datemi un mulo prima che faccia notte. Mentre i ragazzi correvano nella stalla a prendere il trapelo, Vezzosa aveva preso la lettera a lei diretta e la leggeva alla luce dell'ultimo chiarore crepuscolare. Non appena ebbe terminato di leggerla, esclamò: - Le nostre speranze non sono deluse, le nostre fatiche non sono state sprecate. Sentite: la moglie del nuovo ispettore, la buona signora Durini, mi dice che sua madre e suo padre prendono tre stanze da noi per quattro mesi e ci dànno cento lire al mese e il servizio a parte. Sperano che li provvederemo di vino, d'olio, di farina, di legna, di tutto, insomma. Dobbiamo rispondere subito, se siamo, o no, contenti della somma che ci offrono, perché essi cercano una villeggiatura. Il padre della signora Durini è stato ammalato ed ha bisogno di rimettersi. - Sia ringraziato il Cielo che ha esaudite le mie preghiere! - esclamò la buona Regina con le lacrime agli occhi. - E quando giungerebbero? - domandò la Carola. - Martedì, che è il primo luglio. Maso era il più attaccato all'interesse di tutti i Marcucci. Prima di dare una risposta egli si consultò coi fratelli e domandò loro se non credevano che dall'affitto di una parte della casa potessero ricavare un utile maggiore. Aveva sentito dire che il segretario comunale di Poppi aveva affittato quattro stanze e la cucina per centottanta lire al mese, e che l'Amorosi, il locandiere di Bibbiena, prendeva da ogni camera quarantacinque lire. Non potevano essi pretendere di più? Eppoi, due vecchi soli, che cosa avrebbero consumato? Non credevano i fratelli che se la famiglia fosse stata più numerosa, avrebbero guadagnato di più vendendo il vino, l'olio, i polli e il resto? I fratelli gli fecero però osservare che questo era un affare fatto, e se aspettavano una offerta più lucrosa, rischiavano di perdere il mese di luglio e forse l'intiera stagione. - Maso, non vi riconosco; - disse la Vezzosa, - lasciare il certo per l'incerto, scusate, mi sembra una bella pazzia. Inoltre, una famiglia molto numerosa, con bambini, per esempio, sperpererebbe le frutta e l'uva. Non vi lasciate tentare da un guadagno maggiore, e accettate questo di cento lire, che ci piovono dal Cielo. Chi sa che non doveste pentirvi di aver dato un calcio alla fortuna! Scusate se io, ultima venuta in casa, m'ingerisco di queste cose; ma darei metà del sangue mio per levarvi dalle angustie. - Ti devo proprio dare ascolto? - disse il capoccia a Vezzosa. - Vi prego, per quanto ho di più caro a questo mondo, che è il mio Cecco, accettate. - Vada dunque per cento lire! - disse il capoccia. - Vezzosa, tu che sai mettere in carta tanto benino, scrivi alla signora Durini che i suoi genitori possono pure venire quando vogliono e da noi troveranno un piatto di buon cuore, che è tutto ciò che i poveri possono offrire. Quella sera i Marcucci cenarono con grande appetito e la notte dormirono tranquillamente, sicuri ormai che una buona sommetta sarebbe entrata nella cassa della famiglia. E la mattina dopo, donne e uomini erano di nuovo tutti in faccende per lustrare ancora e pulire tutta la casa, Pareva che aspettassero l'acqua benedetta, tanto si davano da fare. Vezzosa mandò i ragazzi nei boschi in cerca di rami di quercia, e alle bimbe dette incarico di portare quanti fiori avessero potuto trovare. Essi tornarono carichi, e Vezzosa disponeva i rami sulle porte a guisa di festoni, e i fiori nei rozzi vasi di vetro e anche nei bicchieri. - Fanno allegria! Fanno festa! - ella diceva a mano a mano che coi fiori adornava le stanze. - I signori debbono ricevere una buona impressione della nostra casa e debbono conservarla ... Bambini miei, - aggiunse poi rivolta ai nipotini, - a voi spetta di esser molto cortesi con i villeggianti, per tre ragioni: sono gente anziana, sono signori e sono nostri ospiti, avete capito? I bambini avevan capito benissimo e si proponevano di rendere lieto il soggiorno di Farneta ai genitori della signora Durini.

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