Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 4 occorrenze

- gli chiese con voce velata il cocchiere abbassando la frusta. L'altro l'osservò. Il cocchiere seduto in serpe sul cielo dell'omnibus aveva un balenìo bianco sulla faccia. Erano gli occhi? non distingueva altro: il manico della frusta era lungo come una lancia. I cavalli immoti sotto la gramaglia del loro velo non sbruffarono nemmeno. Il cocchiere mosse la frusta. - Vuoi salire? - L'omnibus era lunghissimo: qualche vetro dei suoi sportelli riverberava al raggio obliquo di un fanale; l'interno non si discerneva, le ruote arrivavano ai vetri. - Vuoi salire? - ripeté per la terza volta. La sua faccia irriconoscibile nella ombra ebbe come un bagliore di maiolica. - No. Uno schiocco di frusta vibrò, i cavalli spiccarono un salto e l'omnibus rotolò fragorosamente. Egli si rivolse e lo vide scomparire poco dopo a destra, per la seconda svolta, verso la campagna. La notte non si era accorta di nulla. Egli proseguì, l'aria era sempre così tiepida, il buio così profondo. Poi tutta quell'apparizione, i tre cavalli apocalittici, l'omnibus, i fanali rossi che lucevano come una fiamma e guardavano come due occhi, il cocchiere quasi invisibile, il suo invito strano, tutto gli sparve colla medesima prontezza dallo sguardo e dal pensiero. In fondo al viale piegò a sinistra verso il sobborgo San Sebastiano, il più ricco e popoloso della città. I fanali erano ancora accesi, molta gente in giro. Un lungo fremito passava per la notte, il murmure lontano del fiume pareva un gemito di ferito. D'improvviso due colonne bianche balenarono sul margine della strada: la villa nascosta dagli alberi non si distingueva, ma un filo di luce passava per l'ultima finestra al primo piano. Aperse la porta colla chiave, salì le scale coperte da un tappeto così grosso che soffocava ogni rumore di passi, e sempre al buio infilò l'appartamento. Un violento profumo di fiori gli batté sul viso. L'appartamento era piccolo, dall'ultimo uscio socchiuso sboccava un'onda di luce. Egli lo spinse insensibilmente e si arrestò. Il gabinetto giallo, poco più grande di una tenda, era illuminato da un lampadario di bronzo dorato carico di candele trasparenti: un enorme specchio riluceva nel fondo, i mobili erano dorati; nel mezzo, sdraiata sopra una pelle di orso nero, una donna vestita di bianco fumava una sigaretta. Ella si era passata un braccio sotto la testa e guardava in alto colle spalle rivolte all'uscio. I suoi capelli, neri, diffusi, si discernevano appena sulla pelle della belva; mentre una delle sue pantofole dorate fuori della veste sembrava battere nervosamente la musica di un sogno. In un angolo, sopra un plinto di marmo giallo, un'onda di garofani traboccava da un vaso d'argento. A un tratto il suo piede si arrestò. Ella arrovesciò il capo, sorrise e con accento tranquillo disse: - Ti ho sentito. E lo chiamò con un gesto sulla pelle nera. - Dimmelo subito, mi ami? - Egli non rispose. - Rodolfo... - Mi ami?! - esclamò con più impeto, percotendogli quasi col volto sul volto silenzioso. Poi lasciando la presa con atto inesprimibile di disperazione e di amore: - Che m'importa? - gridò. - Ti amo io. - Mi hai sempre amato - egli rispose con voce quasi dolce mirandola negli occhi, e una luce lontana di stella sembrava brillare in fondo al suo sguardo nero come la notte. La bellissima donna si confuse. - Non ti ho sempre conosciuto. - Quindi non mi riconoscerai sempre. Ella si era fatta malinconica, egli era rimasto tetro: il gabinetto pieno di luce e di profumi li avvolgeva come in un'onda d'oro. Ella si levò, rimase un istante in piedi a guardarlo così sprofondato in quella meditazione, poi andò a sedersi sopra una poltrona nascondendovi il volto contro lo schienale. Passò del tempo: quando si alzò aveva gli occhi rossi; tornò a sedergli vicino, lo prese per le spalle ed arrovesciandosi la sua bella testa in grembo: - Rodolfo... - esclamò rabbrividendo alla fissazione del suo sguardo: - tu guardi nel vuoto. Ma in quel momento un impeto di vita le irruppe dal cuore, la sua fronte sfavillò. - Povero Beniamino! - proruppe cacciandogli le mani nei ricci dei capelli e squassandoli per rompergli l'incanto di quella meditazione; - povero Beniamino, che sei triste quando tutto ti sorride intorno. Non senti come sei bello? La tua fronte è segnata dal dito della storia, un giorno il mondo ti riconoscerà per uno dei suoi grandi. Napoleone I era pallido come te, i capelli di lord Byron erano ricciuti come i tuoi: tu potrai vincere battaglie belle come una canzone e scrivere canzoni sonore come una battaglia. Aspetta: la tua ora fatale passerà anche troppo presto portandoti lontano dai miei occhi, e io non ti vedrò più che in mezzo ad una aureola di gloria, sullo sfondo nero di una procella. La fronte di lui balenò. - Aspetta... - ella s'affrettò a ripetere: - la storia non saprebbe che farsi della tua giovinezza, la primavera è dei fiori. Sei già celebre, il mondo ti osserva palpitando. Io ti credo: la fede che s'inspira è pur sempre la migliore delle certezze. Ascolta - proseguì anelando con una moina di terrore e di adorazione: - se ti provassi che ti amo, se il tuo pensiero abituato a tutte le magnificenze dell'infinito, se il tuo cuore pieno di tutte le pompe dell'immortalità dovessero per forza arrestarsi davanti al mio amore... - Fermarsi è morire. - No, non ancora. Se quando tu cerchi nelle tenebre dell'ignoto io avessi per te conforti di luce e di rivelazioni; se quando tutto oscilla nel dubbio del tuo pensiero io restassi salda nella fede del tuo cuore; se quando tu lotti io fossi sempre la vittoria; se quando tu vinci io fossi sempre il premio... se io fossi nel tuo ieri eterno e nel tuo dimani immortale?... - La vita non è che l'oggi. - E sia pure. Hai ragione, noi donne siamo caduche, siamo un fiore ed un frutto, un profumo che accarezza, un sapore che corrobora. Sali, sii grande; io non posso nulla per te; sii infinitamente infelice, la tua felicità è forse in questo. Vivi lassù, al disopra dell'aria, dove le stelle guardano nel vuoto e le comete cercano Dio: io non ho né il diritto, né la forza di seguirti. Ma quando discenderai dal zodiaco fiammeggiante della tua idea al comando della storia, che avrà drizzato sopra un Golgota la tua croce nera, io sarò ad aspettarti lungo la strada e avrò lagrime che laveranno tutte le tue piaghe, parole che copriranno tutti gli insulti. Ma prima, fra l'apoteosi e il martirio, sovvèngati qualche volta di me, che ti avrò amato colla stessa costanza della terra che gira intorno al sole, sovvèngati della mia vita, che sarà sboccata nella tua come una fontana nell'oceano. La fontana è piccola, ma la sua acqua si può bere. Poi guardandolo improvvisamente come in atto di sfida proruppe: - Ebbene, senti: che cosa daresti tu, ambizioso, per essere il maggiore fra quanti uomini furono e saranno? - Il sembrarlo a tutti. Ella chinò scoraggiata la fronte, mormorando: - Mi soffochi. Egli era ancora nella stessa posa, sdraiato colla testa nel suo grembo guardandola cogli occhi immobili. La sua fronte altissima era pallida come una lapide. Ma un lampo passò ancora nelle pupille tremolanti della donna. - Credi tu almeno nel tuo genio? - Sei tu sicura di Dio? - Quindi egli si rialzò, le tese la mano: i suoi occhi brillavano come due stelle. - Rodolfo, Rodolfo... - ella gemé soffocatamente - tu mi abbandoni, te lo leggo negli occhi. L'altro non rispose. Ma ella non si arrendeva, gli serrava le mani, gli si avviticchiava col sorriso, collo sguardo; poi alzando le braccia per gettargliele al collo con atto stanco, febbrile d'amore, mormorò: - Vieni, dunque, dormiamo.... Egli le rattenne quel gesto. - È già l'alba - rispose freddamente. Fuori la notte era sempre così tenebrosa, il sobborgo aveva spento tutti i fanali, non s'udiva una voce: ma laggiù, lontano, quella piccola stella non era ancora sommersa. Quando fu presso la città, egli piegò macchinalmente a dritta lungo lo stesso viale. Le mura non si discernevano ancora, i platani facevano sempre sul suo capo una volta anche più nera dell'ombra. D'improvviso quel medesimo fracasso rotolò lontanamente: poi quegli occhi rossi riavvamparono, i sonagli tintinnirono, gli alberi tornarono a tremare e l'ombra indietreggiò fuggendo giù nel fossato, mentre una macchia di sangue lambiva sinistramente le mura e l'ondulazione di un galoppo leggero e cadenzato rimbalzava sulla strada. L'omnibus sembrava illuminato anche di dentro. Lo schiocco della frusta imitava la battuta delle nacchere. Egli era venuto sul ciglio della strada. Questa volta il balenìo bianco sulla faccia del cocchiere era come il riverbero di una vetriata. - Ferma! - egli gridò stendendo la mano. I cavalli si arrestarono stecchiti. L'omnibus illuminato internamente da un fanale bianco sopra lo sportello superiore appariva stipato nel fondo e sui sedili di casse bianche, segnate sul coperchio da una croce nera; una, la più piccina, forse di un bimbo nato e morto nel medesimo giorno, sembrava un cofanetto. Il cocchiere attendeva colla frusta bassa. - Salgo? - Pieno! - l'altro rispose battendo colla frusta sui fianchi dell'omnibus. - Salgo? - In serpe? - Egli vi si arrampicò, ma non si era ancora assettato che il cocchiere gli domandò: - Pronti? - Sì. Lo schiocco della frusta squillò e i cavalli si slanciarono. Allora esaminando il cocchiere egli s'accorse che era uno scheletro vestito di una livrea nera, con un largo cappello piatto sulla testa. Il balenìo bianco della faccia gli veniva dai denti. Andavano colla rapidità di un sogno. - Donde vieni? - egli domandò nel piegarsi sopra di lui ad una voltata vorticosa. - Dall'ospedale di San Lorenzo. - Quanti morti hai caricato? - Non li conto io. Vi fu una pausa. L'omnibus rotolava furiosamente, la città si era già perduta in lontananza, un gran viale fiancheggiato di lunghi cipressi appariva. - Dove vai? - Scarico al cimitero. - Ci fermiamo lì? - chiese guardando laggiù quella stella oramai vicina ad affondarsi. Un lampo più bianco passò sulla faccia del cocchiere, che ripeté: - Scarico al cimitero. Nello stesso momento la testa dell'altro gli cadeva morta sulla spalla. Lassù, lontano, la stella si era affondata.

- Poi abbassando la voce soggiunse: - Noi lavoriamo nel secreto a rovinare il vecchio impero per costruire la giovane Russia, cospiratori nell'ombra, martiri al sole. - Le vostre armi? - Tutte quelle che un uomo può usare. - Avete vinto nessuna battaglia? - Abbiamo ucciso un imperatore. - Ma l'impero è rimasto. E il vecchio non parlò più. Il mare era buio, le stelle brillavano ancora. Passarono forse due ore senza che i due strani interlocutori, caduti in una meditazione, forse profonda come quel mare, e scintillante di pensieri come il cielo di stelle, parlassero. Il vapore avanzava sempre agitando nell'ombra un pennacchio di fumo. Poi il vecchio mormorò: - Sono tutti morti... - e la testa gli ricadde pesantemente sopra le mani congiunte sulla canna, come sotto il peso di quell'enorme poema, del quale era l'ultimo verso, di quei due milioni e mezzo di soldati, ai quali solo era sopravvissuto. In quel momento l'alba cominciava a spuntare; lontano, in fondo all'orizzonte, una macchia bruna ed immobile poteva essere un'isola. - Eccola! - esclamò il giovane levandosi. La faccia del vecchio raggiò. Il mare mormorava, l'alba cresceva, il vapore rantolava sordamente. Allora il vecchio alzò ambo le mani come invocando e una lagrima, l'ultima, gli scese dagli occhi appannati. L'altro lo guardò trasalendo. Il vecchio soldato si trasfigurava: i primi rossori dell'alba sembravano vampate di cannoni lontani, l'onde avevano dei fremiti di battaglia, la costellazione era scomparsa, quando uno scoppio immenso squarciò l'Oceano e il sole sfolgorò. - Viva Napoleone! - gridò il vecchio salutando militarmente come se lo pigliasse per il fantasma del morto imperatore. Il sole saliva sopra Sant'Elena. - Andate a visitare la sua tomba? - domandò il giovane. - A morirvi. Egli è stato il primo, io sono l'ultimo. E fu l'ultima parola.

Una biblioteca è un cimitero - ripetè l'illustre critico abbassando la voce. La bella duchessa lo scrutò con occhio benevolo e soggiunse sorridendo: - Mi avete detto altre volte che dobbiamo ai frati le prime biblioteche: la prima delle ultime si è aperta ieri, la - Vittorio Emanuele". Non vi è mai sembrato che le vecchie biblioteche sentano fin troppo il convento? Ne ho visitate poche, ma ne ho sempre ricevuto la stessa impressione: che scaffali poveri e gelidi, che panche da chiesa o da refettorio! In fondo a tutte un tavolone con una lucerna sepolcrale pendente dal soffitto. Generalmente erano costrutte a navata. Gli uomini, che vi studiavano, dovevano essere penitenti, i libri di autori morti, tutte le opere un testamento. D'estate vi si sentiva un freddo d'inverno, d'inverno vi si sarà gelato addirittura. Una volta, sola con un domenicano, calvo e terribile, udendo il pavimento echeggiare sotto il mio passo leggero di donna gli domandai se v'erano sotto le prigioni. - E vi rispose? - Sorridendo che v'era la cantina. Ebbene abbiamo ragione noi moderni di volere allegri i cimiteri e le biblioteche. - Forse! ma saranno senza monumenti. - Accettereste per caso la formula di Victor Hugo, il libro ha ucciso il monumento mentre - ella aggiunse con sardonico sorriso - i nostri municipi non fanno che smentirla tutti i giorni? Oramai mancano le piazze per le statue. - La formula di Victor Hugo è terribile quanto giusta, ma sciaguratamente ce n'è un'altra più terribile, che egli forse non ha presentito: se il libro ha ucciso il monumento, il monumento è morto anche nel libro. Non si scrivono più capolavori. - Perchè? - Le ragioni sono troppe, dirne una sola, che le riassuma tutte, non è forse meno difficile di un capolavoro. Perchè non siamo noi più belli? Uno scienziato vi risponderà: perchè nella nostra educazione coltiviamo lo spirito trascurando il corpo, e così crederà di avere risposto. Ma questo è un effetto non una causa. Prima che il culto del corpo venisse trascurato, nello spirito sarà stata mortalmente ferita l'idea della bellezza. Perchè? Perchè non abbiamo noi più fede? Se la fede è una visione, l'arte è un processo fotografico che la fissa. Quale è dunque il nostro concetto della vita? Quale il nostro concetto della morte? Come ogni visione è un fatto individuale, così i sensi del corpo e le facoltà dello spirito in ogni individuo hanno una potenza forse indeterminabile ma predeterminata. La prima condizione per fare un capolavoro è dunque che esso esista nella zona, che la vita di un individuo può abbracciare. Ora la nostra vita individuale ha confini ben tracciati, abbastanza difesi, dai quali nessuna invasione di fatti o di idee possa irrompere devastando le pianure o affumicando gli orizzonti, entro cui deve formarsi la visione del capolavoro? Oggi che tutte le barriere sono abbattute fra popolo e popolo, e si fanno le ferrovie sotto il letto dell'oceano, e si sventrano le montagne, che cosa è la patria? Pei popoli, che dicono di averla, è il sentimento di un fatto già trascorso; pei popoli, che non l'hanno ancora, il sentimento di un fatto futuro. I popoli liberi dichiarandosi uguali vogliono uniformare leggi e costumanze, conciliare tutti gli interessi per annullare tutte le differenze; i popoli schiavi aspirano alla patria per smarrirla all'indomani nella fratellanza universale. La patria è il mondo, non vi è dunque più patria. Quale è la nostra religione? - La mia? - esclamò la duchessa con un sorriso - aspetto che me lo diciate. - La vostra risposta invece di essere spiritosa è profonda. Noi non abbiamo più religione: il sentimento religioso è rimasto perchè immortale, ma delle sue molte costruzioni nessuna è ancora dritta in fondo alle coscienze. Rovine dunque! Al principio del nostro secolo la poesia le ha cantate, adesso anche il canto è cessato perchè furono distrutte anche le rovine. La critica arrivò d'ogni lato con un'orda di scienziati, che si divisero ringhiosamente i rottami vantandosi con essi di ripetere l'edificio. Qualche volta son arrivati a ridisegnarne la pianta, e urlarono al miracolo, come se la pianta del Campidoglio rifatta dal Canina, quand'anche vera, potesse valere, non dirò nella coscienza di un popolo, ma nella immaginazione di un artista lo spettacolo del Campidoglio quale l'anima di Roma l'aveva profeticamente intuito, dieci secoli di storia composto, e l'anima di Roma morente l'aveva veduto per l'ultima volta fra le fiamme e la bufera dei barbari trionfanti. Che cosa è oggi la famiglia? La sovranità del padre, l'autorità del cognome, la catena della tradizione, tutto è spezzato. Una volta ogni famiglia era una dinastia, adesso è una democrazia, che sta per diventare demagogia: il padre si vanta amico del figlio, la madre sorella delle figlie. Rovine dunque! Anticamente la famiglia fu una torre nello stato che era una fortezza, nella patria che era un mondo contro il mondo; poi nel medioevo la torre diventò un palazzo, il palazzo una casa, oggi i ricchi hanno un appartamento e i poveri una camera. Ecco la famiglia: il gruppo è rimasto perchè insolubile, ma l'edificio, che s'innalzava sopra di esso come sopra tre cariatidi, padre, madre e figlio, è crollato. - Voi mi spaventate - disse la duchessa, diventando seria suo malgrado. - Perchè? Lo sapete pure che la vita dell'individuo nell'umanità è una rovina, che passa, in una rovina, che resta. Le rovine vi spaventano? Ma non siamo noi stessi un risultato di rovine, non siamo noi composti coi ruderi di venti civiltà, che si frantumarono compenetrandosi? Ieri Renan, il vostro scrittore prediletto, inseguito dal dubbio attraverso la propria nobile ed immensa erudizione, si domandava in un ammirabile opuscolo: che cosa è una nazione? Renan, che nell'estrema sensibilità della propria fibra ha sentito tutte le malattie del nostro secolo, vicino forse a morire s'accorge che la nazione sta morendo. La vita antica aveva due termini, individuo e stato; la vita moderna ne la ancora tre, individuo, stato e umanità; la vita futura tornerà ad averne due, individuo e umanità. Che cosa è la nazione? L'orda. La patria? L'accampamento. Così la storia si mise in cammino, ha scritto con frase immortale il Quinet. Quando la tenda diventò di sasso e il terrapieno una muraglia, l'accampamento si trasformò in città: allora l'orda si mutò in popolo, e la patria arrivava fin dove gli ultimi armati dell'orda potevano accampare lungi dalla città. Lì era il confine della patria, l'orbita tracciata a quel popolo dalla sua doppia forza di attrazione e di ripulsione nel sistema storico del mondo. Adesso le città non hanno più mura e i doganieri passeggiano su tutti i confini invitando i viaggiatori a varcarli: non vi è più patria, non vi sarà dunque più nazione. - Ed è per questo che non si scrivono più capolavori? - Chi sa? Il capolavoro è un quadro: vi sono dunque condizioni di luce e necessità di prospettiva, che lo dominano: poi un quadro dev'essere composto in modo che esprima più di quello che fa vedere. Ogni angolo di campagna non è quindi un paesaggio, nè ogni crocchio un gruppo. Un capolavoro - seguitò l'illustre critico correggendosi con atto nervoso - è anzitutto una visione, che ha bisogno di formarsi nel popolo prima di tradursi nell'opera dell'artista. Laonde occorre che nello spirito del popolo, dal quale deve sorgere, istinto, sentimento e idea, queste tre forme della vita, non si siano offese collo svolgersi; che la sua filosofia non sia troppo alta nè la sua religione troppo bassa, che la sua scienza sappia analizzare ma non ancora decomporre, che la sua civiltà sia arrivata a quel grado e la sua storia a quel punto, nel quale l'una tocca l'apogeo e l'altra trova la coscienza; bisogna finalmente che la stessa perfezione necessaria all'artista per estrarlo si sia prima verificata nel popolo per produrlo. A venti o a settanta anni non si scrive un capolavoro, non si fonda una religione, non si costituisce un impero: le reggi della vita sono identiche nell'individuo e nel popolo. Ci vuole dunque una unità fisica di razza, una unità morale di sentimento, una unità ideale di pensiero; se il popolo non sarà uno come razza, non arriverà alla necessaria intensità di sensazione: se non sarà uno moralmente, mancherà l'unità di composizione; se non sarà uno idealmente, quella di significato alla sua opera. Orbene siamo noi uni come razza, per esempio, noi italiani? Oggi una statistica sta contando il colore dei capelli e degli occhi per apprendere la proporzione fra le razze, che ci compongono; sono molte, troppe anzi. Tutti i barbari attraversarono l'Italia per andare a Roma e nel partirsene ci lasciarono dei bambini per compenso dei tesori rubati o distrutti. Prima del cristianesimo Roma era diventata l'emporio di tutte le religioni: il cristianesimo le divorò, ma esse gli rifiorirono in pustule sulla pelle. Il vapore e il telegrafo hanno reso costante quello che era momentaneo, cioè il passaggio di un popolo attraverso un altro; il commercio ci offre i prodotti, la scienza, le ragioni, l'arte gli spettacoli di tutti i popoli. Noi soccombiamo sotto il peso delle nostre conquiste: lo stato non difende più la nostra personalità storica, l'umanità non ci ha ancora dato la propria. Il cielo non è più per noi che un deserto popolato di mondi, la terra un laboratorio gremito di viventi; la critica ha distrutto la leggenda senza creare la storia, la religione ha perduto Dio conservando i santi, la scienza non ha sorpreso il fenomeno che per disperare di rinvenire la legge. Tutti i medici sostengono oggi che l'ingegno è una nevrosi, e infatti basta guardare la fisonomia d'un uomo d'ingegno per vedere quella di un malato: negli uomini moderni la testa è più grossa e il petto più angusto che nelle statue antiche. L'ultima filosofia, la massima, l'hegeliana, risolve l'universo in una idea: l'ultima scienza, il darwinismo, conclude nell'uomo all'animale; l'ultima affermazione cattolica è stata la necessità del potere temporale, l'ultimo grido della poesia una bestemmia, l'ultima parola dello stato una parola di abdicazione: libertà! - Lo so che non siete liberale: e allora? Egli si fermò. Evidentemente il lungo discorso lo aveva affaticato: la sua bella faccia di pensatore colla fronte alta sotto i lunghi capelli grigi perdette lo splendore della ispirazione, i suoi occhi si appannarono, un'ombra gli si distese sulla bocca e vi spense il sorriso. Quindi reclinando la testa sul petto parve seguire giù nell'oscurità di un baratro lo sprofondarsi di una visione, ma improvvisamente si raddrizzò, e con quella voce lenta e dolce, che ammaliava subito il pubblico dall'alto della cattedra, riprese: - Sainte-Beuve pel primo ha trovato l'immagine paragonando Renè a una torre e le altre opere di Chateaubriand ad un gruppo di case agglomerate sulla sua base. Oggi che il libro ha ucciso il monumento e il monumento è morto nel libro, giacchè non si scrivono più capolavori, l'immagine trovata da Sainte-Beuve per Chateaubriand vale per tutti, e chi fabbrica una capanna, chi una casa, un palazzo, una villa, una città. Guardate Balzac, che Sainte-Beuve, il primo critico del secolo, ha negato: Balzac, il primo genio del secolo, che si dibatte trent'anni per scrivere un capolavoro senza riuscirvi, e invece di alzare un monumento fonda una città. I suoi quaranta volumi sono tanti rioni, nei quali si muove una popolazione identica e diversa siccome in tutte le città: non manca una bottega, una industria, un istituto, una scuola. Dalla pescivendola alla principessa del sangue o dell'avventura la città possiede tutte le categorie e le varietà femminili; vi saranno trenta pittori, cento giornalisti, poeti e scienziati, preti e demagoghi, assassini e gendarmi, burocratici e soldati, parlamento e prigioni, ospedali e teatri, genio e follia, misticismo ed usura: plebe venuta dalla campagna, o germogliata fra il selciato, o nata dal fermento delle immondizie accumulate negli angiporti. Vi sono i martiri oscuri e gli eroi decorati, veri o falsi: Napoleone I vi passa parecchie volte nelle sue varie campagne, i Borboni vi soggiornano molti anni, Svedenborg vi arriva dalla Scandinavia. Vi è il passeggio pubblico costantemente pieno di carrozze, il corso rumoroso di folla; nei quartieri aristocratici la ricchezza moltiplica il frastuono e la luce, si profonde in capolavori e in aborti, ripete tutte le sue eterne grandezze e i suoi eterni obbrobrii. Nei quartieri bassi la miseria prosegue la propria vita di stenti aiutandosi di crimini e di eroismi, ingegnandosi con gioie minuscole e con piaceri bestiali, bestemmiando Dio e credendo nei signori. Ma le stagioni passano, e il clima varia dal gelo alla canicola, mentre migliaia di persone vivono in quella città, e la loro vita vi produce centinaia di drammi, migliaia di sentimenti e di idee. Balzac ha fondato da solo questa città, nella quale tutti verranno poi a costruire. - Ah! - esclamò la duchessa - comprendo. - Badate al primo, Flaubert. Un altro, il quale ha sognato il capolavoro, e penetrato della sua unità decise che ogni artista non può scriverne più di uno, giacchè bisogna attendere per esso il momento armonico di tutte le facoltà dello spirito con tutte le circostanze esterne. Flaubert verrà a fabbricare nella città di Balzac. Vedete quella casa? È la casa di Madame Bovary, forse la più bella della città. Critici ed artisti non si stancano di lodarne la disposizione interna, l'eccellenza dei materiali, l'armonia della facciata e dei fianchi: sciaguratamente critici ed artisti oggi non sono più buoni giudici, e però se molte case di Balzac, per esempio quelle di Eugenie Grandet o di Cousine Bette, mi paiono migliori, la casa di Madame Bovary resterà un eterno modello delle case borghesi al nostro secolo. Vedete dietro di essa quel magnifico mostruoso edifizio? Sono i palazzi di Salambò, ancora un'opera di Flaubert: Madame Bovary doveva essere il capolavoro, Salambò il monumento: il capolavoro è forse più bello del monumento, ma vorrei aver fatto piuttosto Salambò che Madame Bovary. Siete stanca? - No. - Allora, passeggiamo. Guardate, via Alessandro Dumas figlio: le due case all'imboccatura sono di Margherita Gauthier e di Clemenceau, lo scultore, più innanzi in quel vasto palazzo c'è il salone del Demi-monde. Via Emilio Augier: questa è più larga, di stile più solido e moderno. Vedete le finestre al secondo piano della terza casa a sinistra? Là stanno Les Lionnes pauvres, l'altra di facciata appartiene a Maitre Guerin, poi vi è quella del Gendre Poiret e subito dopo il palazzo degli Effrontès. Quest'altra strada, che ha un solo palazzotto elegante, ma pretenzioso, verniciato, leggete: via Octave Feuillet questo è il palazzotto di Camors. Via Champfleury: oggi è poco frequentata, in fondo vi è lo studio di Courbet il pittore. Vicolo Edmondo Duranty; è corto, senza sfondo. Oramai arriviamo alla grarnde piazza De Gonconrt. La vedete? È formata di grandi fabbricati irregolari, palazzi del settecento, prima della rivoluzione, durante la rivoluzione, dopo la rivoluzione. Voltatevi, quella Certosa è di Stendhal, osservate la sua statua, alta in atteggiamento rigido dal profilo tagliente, che domina sul largo piedestallo Rouge et Noir. Egli solo aiutò Balzac nella fondazione della città: adesso avete dinanzi due strade, via De Goncourt, l'altra più recente via Alfonso Daudet. Per quale volete mettervi? - Per la più grande, via Goncourt. - Gettiamo nullameno uno sguardo nell'altra, ne vale la pena. Quel palazzo sontuoso e barocco è del Nabab, negli altri dappresso e che paiono alberghi stanno a pensione gli ex Re in esilio: quella è la piccola casa di Jacque il macchinista, nell'ultima in fondo abitò Numa Roumestan il ministro. Adesso entriamo in via De Goncourt: è una bella strada. Ecco lo studio di Manette Salomon, l'ospedale di Soeur Filomene, la casa della Faustin, in quella casipola nacque la povera Elisa, in quell'altra abitarono i fratelli Zenganno, più in là Renata Mauperin. Quella palazzina, a due passi, con una piccola facciata da museo, è la Maison de l'Artiste, una specie di bazar pieno di mobili, di quadri e di cianfrusaglie. Un momento: osservate quella casa, che si avanza stranamente sulla strada: è di aspetto povero sotto la decenza, è la casa di Germinie Lacerteux. Svoltando si entra nel quartiere di Zola, il più vasto dei quartieri recenti, quantunque sia ancora in costruzione. L'enorme fabbricato che si prolunga dalla casa di Germinie Lacerteux, ripetendone il disegno, dall'insegna della grande liquoreria presso la porta si chiama L'Assomoir: è quello che ha fatto il nome all'ingegnere, no all'architetto, perchè questa volta l'ingegnere è un grande artista. Esaminate come Zola ha riprodotto minuziosamente il cattivo stile parigino moderno nel palazzotto dicontro; questa volta l'esattezza arriva al capolavoro, è il palazzotto della Curèe. Più in là sorge la casa dell'altro Rougon Son Exellence, in fondo alla strada l'immenso, prodigioso mercato, il vero Ventre de Paris. - È bello? - Un mercato difficilmente può esserlo, ma è immenso, prodigioso. Avete ancora notata quella altana? Là abitava Elena Mouret colla figlia, la povera piccina nervosa. - Quell'altana è un capolavoro. - Di costruzione non direi, ma vi si respira un'aria più pura, e sulla conca di questo mercato è di un effetto eccellente. Vogliamo salirvi? - Perchè no? - rispose finalmente la duchessa - forse dalla sua altezza si scorge il grande giardino del Paradou. - Spero che non vi piacerà. Giammai artificio violentò maggiormente la natura: è la farragine del mercato dentro il giardino. - Forse avete ragione, ma il giardiniere è stato nullameno un grande poeta. - E lo sarebbe parso doppiamente, se avesse saputo un po' meno la nomenclatura. La duchessa si arrese. - Ritorniamo - disse poi. - Non vi sembra che il quartiere sia bello e soprattutto grande? - Senza dubbio, ma vi sento due brutti difetti, la monotonia dello stile e una suprema volgarità nelle massime come nelle minime cose. - È moderno. - La città di Balzac lo è del pari e non mi fa pesare sulla coscienza la volgarità di questo quartiere. Poi non tutto vi è compiuto: si capisce che vi abita soltanto la nuova borghesia e il popolino, nessuna famiglia illustre, nessun grand'uomo è ancora venuto a stabilirvisi. Da solo questo quartiere non potrebbe vivere e nemmeno diventare una città. - Infatti tutto vi è come provvisorio, la vita non vi ha conservato nulla. - Vi manca persino una chiesa. - No, girate quell'angolo: ecco la chiesa, forse meglio la cappella di Lourdes: nella volta egri ha dipinto i quattro evangeli. - Povero Zola! il terzo non potè finirlo. - Non ve ne lagnate: Zola della religione non sentiva che l'idolatria e in lui l'artista era finito assai prima che l'uomo morisse. La sua opera conclude al dottor Pascal, l'eroe della scienza, che vorrebbe da questa trarre una morale, una religione nuova, e invece sprofonda nel l'animalità di un incesto. Zola era un pessimista inguaribile: onesto, dolorosamente ammalato della propria onestà, vide e disegnò come nessuno prima di lui l'abbiezione del popolo sino alle classi più alte, ma non vide altro. Tutto quanto la vita ha di nobile, di eroico, di veramente tragico gli sfuggì, eppure la vita dura nella storia soltanto per questa eccellenza di pochi, che vi funzionano come un sale antiputrido: eroismo di pensiero, eroismo di cuore. Ma vinto nel giorno tardo del suo trionfo Zola ebbe paura, e si rifugiò in un sogno ancora più anarchico che socialista: allora non vide più. Le sue ultime figure furono di cartone dipinto, la sua musica rimase un frastuono, il suo colore una macchia, il suo pensiero si oscurò, il suo cuore rimbambì. - Siete violento nelle verità. - La verità lo è sempre finchè combatte: nessun artista ha potuto salvarsi entrando nel socialismo: guardate Zola, Tolstoi, oggi tocca ad Anatole France. Il socialismo è dunque ancora falso, vuoto forse, se i poeti, che hanno sempre l'istinto e la nostalgia del nuovo, non estrarne una novità e vi perdono il senso dell'arte. La duchessa sorrise. - Torniamo nella città di Balzac. - Temereste smarrirvi altrimenti. - Impossibile! ho sempre tenuto d'occhio il grande campanile della chiesta di Svedenborg, il campanile di Seraphitus. E talmente alto che nulla può nasconderlo. - Forse talvolta le nuvole. - Ah! - proruppe quasi stizzosamente la duchessa - non avrete dunque mai un momento di entusiasmo, sarete sempre un critico? Quindi illuminandosi in viso: - Giacchè volevate salire meco sull'altana di Zola, accompagnatemi sul campanile di Seraphitus: là saremo più in alto, in un'aria, in una luce più pura. - E vedremo tutta la città e il suo bel territorio, i villaggi vicini, la grande rocca di Hugo, indefinibile e portentosa agglomerazione di castelli, le ville eleganti di George Sand, il capriccioso villino di Musset, il vecchio Maniero di Lamartine... - seguitò con accento quasi ironico. - Seraphitus! - mormorò la duchessa. - Voi vi chinerete dall'alto del suo campanile come egli dalla cima del Fiord, ed altrettanto impassibIrE. - No. - Non vorrete dunque guardare? - Sì, ma in alto. L'illustre critico non rispose.

- domandò con un tremito nella voce sottile, abbassando vezzosamente il volto sotto il mascherino per guardare la scarpetta scollata, in pelle bronzina, a bottoncini rotondi sopra un fianco, che teneva ancora alzata. - Talento di calzolaio! - l'altro replicò, mentre il gruppo delle maschere si scioglieva come per incanto a quel nome di principessa. Infatti Lelio Fornari, non ancora celebre, ma già abbastanza noto per un romanzo crudele di satira contro le signore della città, aveva pronunciato quel titolo con una inflessione di voce ben diversa dal tono mordace, col quale da mezz'ora teneva testa agli attacchi di tutte quelle mascherine borghesi. In fondo il suo spirito, bizzarro ed altero, si compiaceva di tale minimo trionfo al veglione del grande club cittadino, ove capitavano talvolta anche le dame dell'aristocrazia clericale. La principessa era allora fra esse quella più in voga. Quindi Lelio Fornari inchinandosi elegantemente le offerse il braccio senza parlare; ella accettò. Ma una delle prime maschere tornò indietro sbarrando loro il passo. - Guardatene - si rivolse alla principessa col tono confidenziale da maschera a maschera: - è un uomo cattivo. Lelio, che la conosceva, sdegnò di rispondere. - Non amerà che i tuoi piedi. - Sarebbero mai più piccoli del suo cuore? - ribatté con accento canzonatorio la principessa. - Un uomo, che insulta le signore nei propri libri! - Vi lagnate dunque per qualche amica? - Vi avrebbe riconosciuta! - esclamò la principessa, aggravando quella ironia. La mascherina, moglie di un maggiore di fanteria, una brunetta piccante, che non mancava mai ad una festa del club e si lasciava corteggiare troppo palesemente da tutti, trasalì sotto la maschera. - Da che cosa credereste di avermi indovinata? - La principessa si volse aspettando. - Dai piedi - rispose insolentemente Lelio: - voi siete molto più piccola, eppure li avete più grandi della principessa. La folla delle maschere si pigiava in due immensi saloni, rumorosamente, sotto la luce cruda dei lampadari a gas, che gli enormi specchi incastrati nella parete ripetevano all'infinito per una infilata luminosa, come un altro corso di maschere silenziose nel baccanale dei propri vestiti. La principessa sospesa al braccio di Lelio, che glielo premeva insensibilmente profittando di tutte le spinte, disse: - Siete stato brutale. - Vi piacerei per questo difetto? - No. - Ne ho altri. - Sentiamo: ditemi prima i migliori. - Vi amo. - Così presto? - Perché così presto? Vi siete pure accorta che vi seguo per strada da sei mesi. - Davvero! - Egli non rispose. - Allora ditemi anche perché mi amate. - Non lo so. - Ditemi come. - Nemmeno. - Non sapete proprio altro? - Altro... cioè... - Ebbene? - Questo rientra ne' miei difetti peggiori. - Sentiamo egualmente. - So che un giorno mi permetterete di amarvi. Una franca risata le agitò dinanzi alle labbra la blonda di merletto nero. - Ma chi può averlo detto? - Voi stessa. - Oh! diventate enigmatico. - Tutti gli enigmi non sono tali se non perché debbono venire sciolti. Io vi seguo da sei mesi, ve l'ho detto quantunque lo sapeste già; ve ne accorgeste subito, la prima volta, all'angolo del Pavaglione, allorché, urtandovi quasi, io mi arrestai, sorpreso dalla strana espressione del vostro volto. - Strana! - ella ripeté quasi irritata di non ricevere un complimento migliore. - Oh! non siete bella, ecco la vostra superiorità. Se aveste le forme statuarie e il viso classico della contessa Ghigi, non vi avrei nemmeno guardata: la bellezza che si può misurare al compasso non serve più che negli esemplari d'accademia e pei romanzieri della vecchia scuola. Allora una modella dovrebbe essere la donna più adorata e più adorabile, mentre invece la si paga ad ore, e nessuno pensa a lei se non per paragonarla a qualche altra meno difettosa, perché nella sua classe la vera bellezza è la statua. - Conosco questa vostra teoria, l'avete già sviluppata nell'ultimo romanzo. - Aspettate: ecco quello che non vi ho messo. Voi sorrideste all'urto, col quale vi respinsi quasi allo svoltar di quell'angolo: eravate vestita di una lana azzurra listata di bianco, cogli stivalini alti, un piccolo cappello da uomo, una bizzarria di acconciatura, che vi attirava tutti gli sguardi e che voi sola potevate arrischiare in provincia. - Avete buona memoria. - Io mi volsi, tornai indietro per seguirvi: non vi avevo ancora veduta. La vostra figurina snella mi ondulava dinanzi con passo quasi saltellato piegando appena la testa per ricevere un saluto fra la gente, che si rivolgeva a guardarvi, e che avevate quasi l'aria di allontanare colla graziosa alterigia del portamento. Mi erano rimasti impressi i vostri occhi: dovevano essere glauchi, di un verde-mare inesplicabile nella mobilità del suo colore fra le iridi improvvise degli sguardi. Vi sorpassai; mi vedeste, mi fermai in fondo al portico per studiarvi meglio, poi vi seguii dappertutto, sino al vostro palazzo. Vi avevo veduta. - Non ero bella. - Per fortuna. - Altrimenti non mi avreste amata? - Ve l'ho pur detto. - Ma davvero non vi piacciono le belle signore? - Né signore, né belle. - Cosicché...? - Voi non siete né l'una né l'altra. Ella non s'irritò, presa in quella bizzarra conversazione, che il luogo e l'abito potevano permettere; tornò a ridere. - Perché mi amate dunque? - Non lo so, vi dirò invece perché mi piacete. Questo lo so bene. Vi conosco come voi stessa forse non vi conoscete, benché sentiate che la vostra forza di donna non sta nella bellezza e nel vostro titolo di principessa. Erano passati nel secondo salone, più vasto, parato di una carta gialla, e un po' meno affollato. Molti avevano già notato la nuova maschera di Lelio e la studiavano acutamente, indovinando dall'aria altera di lui che dovesse essere qualche gran dama. Lelio Fornari non era simpatico. Sebbene fosse quasi bello e le brillanti qualità del suo spirito lo rendessero prezioso in tutte le conversazioni, si temeva troppo la mordacità improvvisa dei suoi frizzi, spesso anche troppo veri, e si seguitava a negargli l'importanza dell'ingegno, meno per l'arditezza della sua originalità che per l'immodestia battagliera, colla quale egli l'adoperava. Si trovò quindi serrato nuovamente in un gruppo di maschere, cui si aggiunsero alcuni eleganti, in marsina, colle camicie lucenti come la porcellana, gli occhi vividi della curiosità leggermente sguaiata di tutti i veglioni. La principessa era tutt'altro che una maschera signorile: non aveva che uno scialle bianco, antico, a ricami finissimi e frangiato sopra un abito di seta nera a sottana corta; nessuna altra traccia di ricchezza. Portava lo scialle sulla testa come le donne del popolo, con un mascherino nero, volgarissimo, i guanti a due soli bottoni. Nullameno l'eleganza del portamento, e quella indefinibile disinvoltura delle grandi dame, lasciavano trapelare da tale borghese acconciatura un sentore aristocratico con qualche acredine di mistero, che attirava la gente. - Finirai in un suo romanzo, mascherina. - Oh! i romanzi scritti! - ella ghignò sotto la blonda. - Ti ha letto! - esclamò il conte Turolla, uno dei più eleganti. - Sarei allora al suo braccio? - replicò in falsetto la principessa. Tutti scoppiarono a ridere. Lelio tacque: evidentemente quell'intoppo l'irritava. - Hai dunque perduto il tuo spirito? - lo aggredì una mascherina afferrandogli l'altro braccio. - Mascherina, voi dovete averlo già innamorato: vedete, non è più riconoscibile! - Non m'innamoro mai. - Vanteria! - esclamò la mascherina. - Abilità, altrimenti non si è mai amati. La principessa lo guardò involontariamente. - Adesso improvviserai una teorica - intervenne daccapo il conte Turolla; - l'amore vero è contagioso. - Non vi sono più amori veri; voi stesso, conte, ne siete una prova. Sareste così elegante se credeste alla possibilità di essere amato per voi stesso? - L'altro non seppe rispondere subito. - Toccato! conte! - gli si rivolse la principessa. - Toqué - egli ribatté con un mediocre gioco di parole. - E di me, senza dubbio - ella rispose tirando il proprio cavaliere fuori del gruppo, e gittando al conte sotto la maschera con voce di scherno: - Ma, e Cornelia? - Sarà coi Gracchi. - A gracidare. - Ih! ih! oh! - Allora Lelio profittò del chiasso provocato da quelle scempiaggini per fare due altri salti e perdersi nella folla. - Idioti! - mormorò la principessa. - Sono i vostri cortigiani. - Infatti mi dicono talvolta che sono bella - replicò appoggiandoglisi al braccio; e tradendo così il desiderio di riprendere con lui l'interrotta conversazione. - Hanno ragione perché non vi conoscono. Infatti che cosa siete per loro? La principessa Montalto di origine vecchia, con un gran patrimonio, un gran nome e un magnifico palazzo, nel quale li ricevete quando non siete o a Roma o in villa. Avete dei cavalli, date delle feste, invitando, benché la vostra sia una famiglia clericale, quasi tutte le persone eleganti di ogni classe e di ogni partito. Vi debbono ben dire che siete bella, poi lo credono. Siete alta, sottile, avete un portamento inimitabile, una freschezza di gran fiore. Le vostre eleganze parigine disorientano i loro gusti e i loro giudizi provinciali; qualche volta, in teatro o in carrozza, vi obliate in pose da sognatrice. Lelio, che la guardava negli occhi, glieli vide battere improvvisamente: le loro ciglia troppo lunghe passavano dai fori del mascherino come una peluria di seta. - Per voi non sono così? - Io vi conosco. - Senza avermi mai parlato prima d'ora. - Mai. - Siete stravagante. - Confessate che da quattro anni, i quattro anni del vostro matrimonio, non siete mai stata come vi credono i vostri cortigiani. - Vorreste il mio segreto. - Sono io che ve lo dirò. Ella ebbe un gesto. - Bisogna amarvi per averlo indovinato. Voi non siete la principessa di Montalto nata contessa Malavolti; eravate come straniera nella casa fredda di vostra madre, siete appena un'ospite in quella di vostro marito. Dovunque siate nata e comunque viviate, in voi è qualche cosa di diverso dalla famiglia e dalla razza, cui appartenete. Il vostro mondo non è questo, l'ignorate voi stessa, e nemmeno io saprei dirvelo; ma deve essere lontano, in una di quelle regioni e di quelle epoche nelle quali il disordine era la poesia della vita, e ogni passione alzava la bandiera della propria libertà. Adesso invece vi manca tutto, siete malcontenta, annoiata: la vostra eleganza non è che un omaggio reso alla folla, e che essa vi restituisce col suo gusto infantile delle cose rare. - Per farmi il ritratto, ecco che disegnate una testa di fantasia. - La vostra è appunto una testa fantastica. I vostri capelli troppo crespi per una signora sembrano aver conservato l'arsura dei grandi soli, ma non sono veramente belli che spettinati, mentre invece li bipartite a madonna con una violenza di contrasto, che dà al vostro volto una espressione beffarda di idealità. Avete gli occhi verdi, la bocca larga ed ardente, la pelle bruna, ombrata di peluria; il vostro sorriso è quasi sempre violento, la vostra voce invece è sottile e dolce come quella di un bambino. Nessuna delle altre signore è così: esse non sono più che piccole borghesi, di una educazione più corretta, ma di un gusto raramente fino. La loro bellezza, quando sono belle, è nota anticipatamente: è una riproduzione più o meno castigata dei modelli, che servirono così bene ai nostri grandi vecchi pittori di razza latina. - Sono dunque una gitana? - Nel corpo, ma avete tutto il mare negli occhi e... - E? - Ve lo dirò più tardi: voi non avete mai amato, non amerete mai. - Nemmeno mia madre, nemmeno i miei figli, se ne avrò? - Nemmeno. - Mi concedete poco - ribatté sardonicamente. - Nullameno vorreste amare - egli seguitò scrutandola con acutezza negli occhi. - I vostri capricci, costretti a storpiarsi per passare attraverso il piccolo mondo elegante delle vostre relazioni, vi rendono cattiva: lo sentite voi stessa, talvolta al punto di insuperbirne. Ella abbassò la testa come colpita dalla verità di questa analisi. - Avete finito? - Quello che volevo dirvi adesso? Sì. - E voi solo mi amate? - Sì. - Perché? - Ve l'ho pur detto: non siete né signora, né bella; avete qualche cosa della donna fuori della nostra civiltà, la quale non ha saputo farne che una dama o una serva. - Siete un romantico. - Può essere, ma vi ho indovinata. - Chi sa! - Perché siete venuta a parlarmi? - Per sentirvi rispondere. - E adesso? - Fatevi presentare. - Quando? - Appena mi sarò tratta la maschera per il cotillon. La sua voce breve sembrava dare un ordine. Alla sua volta Lelio Fornari s'imbarazzò: dopo tutta quell'arditezza di fraseologia la semplicità della conclusione lo sorprendeva. - Irma! - esclamò improvvisamente come in un impeto di passione. - Lelio - ella ribatté quasi col medesimo accento sfuggendogli dal braccio, e perdendosi fra la folla prima che egli riuscisse a riafferrarla. - Battuto al primo capitolo! - gli sussurrò una voce all'orecchio, mentre altre maschere lo riassalivano senza lasciargli il tempo di riprendere il solito tono di braveria spirituale. Il veglione non era che a mezzo, e malgrado l'ampiezza di quei due saloni, si poteva appena ballare. Nel meno vasto, tutto a stucchi e a specchi, un suonatore noleggiato, bel vecchio dal colorito rosso e dalla testa calva, suonava quasi sempre dei valtzer appena la piccola orchestra taceva nell'altro; ma la ressa delle maschere era tale che solo nel mezzo si era potuto aprire un circolo per le coppie più ballerine. Gli ispettori del club, col nastrino azzurro all'occhiello della marsina, s'affannavano indarno a conservare l'ordine del ballo, presi anch'essi nello stordimento di tutta quella confusione educata, fra l'abbarbaglio dei colori, la stravaganza dei costumi, lo scintillìo, l'addensarsi subitaneo dei gruppi, che una parola bastava a sciogliere talvolta, mentre spesso ingrossavano come nella violenza di un tumulto. Era tutta la borghesia di Bologna, ricca, avida di piacere in quegli ultimi giorni di carnevale, e che la confidente promiscuità della maschera liberava amabilmente dalla fatica di fingere come nelle altre feste una eleganza di modi superiori alla sua vita. Le signore più note per sfarzo erano già state riconosciute e girellavano con dietro un crocchio di ammiratori; altre, fanciulle o mogli di piccoli impiegati, camuffate alla meglio, andavano sole o s'arrestavano agli angoli, respinte da quella folla più felice, allineandosi involontariamente alle pareti come quei rimasugli ributtati dalle acque del mare senza cessa alla riva, e che vi rimangono come una indefinibile orlatura. Poi l'onda delle maschere sboccando dalle porte dei due saloni dilagava per tutte le altre sale del club, ove alcuni vecchi solitari giuocavano ostinatamente la partita di tutte le sere, o qua e là sui divani qualche coppia dalla posa impacciata sembrava attendere sempre un momento più opportuno per restringere ancora il proprio duetto. Nella sala del camino un giovane deputato della città, grassoccio e bonario come un curato di campagna, discuteva di politica fra l'attenzione di pochi, paghi di affettare così per l'allegria di quel veglione una trascuranza di gente superiore. E la lunga fila delle mamme e delle zie venute sino lì a rimorchio da tutte le case, anche le più lontane della città, passavano in una processione lenta, come di ombre nere e silenziose fra gli scoppi irrefrenabili delle voci e i passi, le piccole corse saltellanti delle coppie più giovani, che sfuggivano pazzamente per ritornare subito indietro cogli occhi ardenti, il volto roseo, lasciando quasi sempre una traccia acuta di profumo. Lelio Fornari appena poté rompere la folla uscì dalla porticina del salone giallo a sinistra, presso il palcoscenico, e pel corridoio a specchi, fra due file di sofà gremiti di maschere e di marsine, venne sino alla sala del caminetto. Il giovane deputato gli rivolse la parola. - Già stanco lei! - Si soffoca. E gettandosi sulla poltrona accese una sigaretta. Ma anche lì seguitarono per lui i saluti e i frizzi delle maschere. Realmente era seccato: una noia improvvisa di quel grande gaudio volgare gli era entrata nell'animo dopo quel colloquio così facile e insieme temerario colla principessa. Adesso scrutava nella memoria i suoi più effimeri atteggiamenti, meravigliandosi di quanto aveva potuto dirle senza che ella se ne mostrasse minimamente offesa. Come mai si era tanto inoltrato? Perché l'altra glielo aveva permesso? Lelio Fornari non era ricco. Malgrado la facilità di essere accolto per la sua nascita e per la sua educazione anche nei migliori saloni del piccolo olimpo bolognese, egli non aveva davvero molte relazioni: sdegnava la piccola borghesia, quantunque affollata di belle ragazze, e temeva d'ingolfarsi in spese maggiori delle proprie risorse frequentando troppo l'alta società. Le sere, quando non lavorava, o qualche cagione improvvisa non lo traeva solitario per le vie più remote della vecchia città, le passava tutte al "Caffè delle Scienze" fra un gruppo di amici, già invidiosi della sua piccola gloria, ma con tutto l'ardore delle più nuove idee nel cervello e la gioconda virulenza della giovinezza nel sangue. Naturalmente egli li dominava. Lo conoscevano, o almeno credevano di conoscerlo ancora più orgoglioso che ambizioso, di un pessimismo affettato in quella sua posa di non innamorarsi e di non credere all'amore delle donne. Egli invece ne soffriva segretamente. Un piccolo ventaglio lo percosse sulla spalla. Egli balzò in piedi, ma la maschera dallo scialle bianco, frangiato a bellissimi ricami, passò oltre al braccio del prefetto, un omiciattolo sulla quarantina già calvo, con due fedine bionde e due gambe grottescamente arcate, che gli davano malgrado la solennità della fisonomia un'aria bizzarra di pagliaccio. Poi la mascherina ripassò gettandogli dagli occhi verdi un rapido sguardo abbagliante. Il circolo si era diradato intorno al caminetto. - La conosce quella mascherina? - chiese il giovane deputato a Lelio Fornari. - Ho appena qualche sospetto. - Io credo di averla riconosciuta. Lelio già ricomposto aspettò la rivelazione, ma l'altro, che voleva essere pregato, tacque. - Vuoi fare un giro con me, cattivo? - arrivò saltellando quella mascherina, la brunetta del maggiore, che aveva tentato di turbargli il primo incontro colla principessa. Allora Lelio ridiventò amabile. - Temo di attirarmi troppi odi. - Vieni egualmente, sono io che ti difenderò. - Avresti il coraggio di comprometterti per così poco? - Ella ebbe un grazioso movimento di testa, prendendogli il braccio per trascinarlo dietro la principessa, della quale si vedeva lo scialle bianco riflesso nell'ultimo specchio in fondo all'appartamento. - Tu ami la principessa. - No. - Provamelo. - Non vi è che un modo. - Quale? - Provare invece che ti amo, lo accetteresti? - Prima che mi sia offerto? È vero che non sono una signora, me lo hai detto dianzi: tratti così con tutte le altre donne? - Senti, mascherina, in questo momento tu mi abbomini: vorresti vendicarti di tutto il male che non ti ho fatto. La principessa tornava indietro; Lelio ebbe un fremito, sul suo viso apparve come uno sdegno di noia. - Me ne vado, me ne vado, non voglio rendere altri geloso - gli urlò sul viso la mascherina piantandolo improvvisamente in mezzo alla stanza così che la principessa udisse; e fuggì con un grande svolazzo di sottane tutta contenta di aver potuto compiere quella piccola malignità. Allora Lelio scioccamente si mise dietro alla principessa rimproverandosi di fare una così magra figura, e pensando a quale degli amici avrebbe chiesto il favore di quella presentazione. Ma il cotillon tardava. Nell'allegria crescente delle sale passavano dei soffi di follia e di passione; l'aria troppo riscaldata da quell'eccesso d'illuminazione a gas si era riempita di profumi e di una polvere sollevata dallo scalpiccio di tutti quei piedi, che turbinava sulle larghe fiamme dei becchi dorati; tutti i visi si erano animati, i gesti parevano febbrili, le voci salivano sino alle urla più squarrate per ridiscendere ad un murmure sommesso nella stretta dei colloqui ostinati, fra lo stridore vitreo delle malignità e le tentazioni di tutte quelle carezze arrischiate o sopportate. Persino molti vecchi si erano lasciati vincere dall'orgasmo generale, e passavano a braccetto di qualche maschera affettando di satireggiare sè medesimi nell'esagerazione del portamento, ma in fondo trepidanti di una tale ripresa di giovinezza, che li rituffava nell'onda inebriante della vita dopo tanti anni trascorsi in secco sull'ultimo lido. Solo la processione delle mamme e delle zie, ammantellate di nero, seguitava colla stessa lentezza annoiata, riposandosi a grandi distanze da un divano all'altro, o nel passare davanti ad una pendola la consultavano con lunghe occhiate, mentre la ressa fuggente delle mascherine le urtava momentaneamente, e qualcuna affannata, saltellante, nell'iride dei propri colori, stringeva all'improvviso una di esse al collo, le sussurrava fra il nero del cappuccio qualche parola, e scappava furbescamente prima di ricevere la risposta. Quindi le ombre proseguivano crollando il capo con una rassegnazione contenta della gioia altrui. I più annoiati erano i pochi provinciali, perché anche Bologna come tutte le capitali per quanto piccole ha questa categoria alle proprie feste, e i giovanetti di primo carnevale, cui la confidente facilità degli altri eleganti faceva soffrire nell'amor proprio; quindi si raggruppavano qua e là per riunire tutte le loro debolezze in un assalto di maldicenza, o isolati sopra una poltrona tentavano tratto tratto di ostentare la noia. Alcuni bevevano. Lelio Fornari si riconobbe ridicolo. Tutto il suo orgoglio era prostrato da quelle poche scherzose parole della principessa, che dicendogli di farsi presentare aveva risposto così repentinamente al suo urlo inconsapevole. - Irma! Girellò ancora pel vasto appartamento seguendola da lontano per attendere almeno qualche gesto, ma ella sembrava averlo dimenticato. Benché riconosciuta già da tutti, seguitava a tenere la maschera per divertirsi di quel frastuono senza prendervi troppa parte, barattando qualche stretta di mano colle più intime conoscenze, che le si inchinavano ossequiosamente come se fosse già smascherata. E a poco a poco il suo codazzo si era ingrossato, molte signore in toeletta da ballo venivano a complimentarla, altre l'avevano invitata a cena. - E Giulio, tuo marito? - È a Roma. Le sale per la cena erano al pianterreno, ma un piccolo gruppo di signore con quella prepotenza aristocratica, cui i circoli borghesi non sanno mai resistere, si era fatta apparecchiare una tavola nell'ultimo gabinetto presso il botteghino del caffè, malgrado il tintinnìo dei bacili e dei bicchieri, che ne usciva come da uno sbocco di officina. Lelio a poca distanza dalla principessa in quel momento, avrebbe dato un anno della propria superba giovinezza per essere fra quegli invitati, ma tutto il suo ingegno e la sua educazione non potevano meritargli simile onore. Il conte Turolla invece, capitando in quel punto, offrì il braccio alla principessa, che lo pregò di trarle il mascherino. Egli levò prima delicatamente i due lunghi spilloni, che le fissavano lo scialle sul mazzo dei capelli, quindi tirando al disopra di questo la fettuccia elastica le liberò il viso. La principessa apparve rossa, cogli occhi gonfi, tutta in sudore: la sottile peluria delle sue gote pareva brinata. - Oh! - esclamò scherzosamente - chissà come sono! E si avviò la prima senza degnare Lelio Fornari nemmeno di uno sguardo. Questa indifferenza, che qualunque altro di quel piccolo mondo aristocratico avrebbe preso per una necessità dell'etichetta, ferì profondamente l'amor proprio del giovane romanziere. Tutti gli odi malati della sua vanità proruppero come una muta di cani al primo allentare dei guinzagli dietro le orme fuggenti di una volpe. Nessuno degli eleganti invitati a quella breve cena olimpica valeva quanto lui, che senza titoli sapeva di discendere da un'antica famiglia feudale, forse con poco lustro nelle cronache, ma di un sangue più puro, se mai sangue puro poté conservarsi nelle famiglie, che quello medesimo dei Montalto. Sciaguratamente una stessa decadenza economica aveva forzato tutti i suoi parenti a destreggiarsi nelle professioni: alcuni erano rimasti in campagna, mutati in piccoli proprietari, economi ed incolti senza più alcun orgoglio di tradizione. Suo padre era fra questi. Egli invece aveva studiato legge, ma non ne avrebbe mai esercitato il mestiere subdolo e proficuo, meno ancora per una ripugnanza dell'ingegno che per la nativa alterezza del carattere. Viveva quindi parcamente colla pensione assegnatagli dal vecchio padre sulla dote materna la prima metà dell'anno a Bologna, e nella estate si ritirava sui monti ad una villa assai malandata col nobile pretesto di comporvi qualche libro. Tutto ciò gli sembrava ancora di un grande tono aristocratico, sebbene quella vita a Bologna gl'infliggesse tratto tratto dolorose umiliazioni. Infatti dal grosso club cittadino avendo voluto passare all'altro dei nobili frammezzato anch'esso di borghesi importanti, benché un qualche arricchito troppo presto venisse periodicamente escluso, si era urtato a parecchie difficoltà di antipatie. Non vi si giuocava e non vi si faceva grande lusso, ma la poca pensione ve lo esponeva egualmente ad amari riserbi nell'evitare certe partite di piacere o nell'accettare certi inviti. Infatti egli rimproverava sovente a se medesimo questa debolezza. La sua larga cultura filosofica, gli istinti ribelli, che nella prima giovinezza, quando in Italia il socialismo non era ancora partito, lo avevano tratto passionatamente nel campo dei novatori più rivoluzionari, e un buon senso sicuro, cui doveva le migliori osservazioni ne' suoi romanzi ancora saturi di vecchio romanticismo, gli mettevano facilmente a nudo l'inane vanità di tale pretensione. E non pertanto l'alterigia inguaribile dello spirito, esagerata ancora dalla finezza del suo gusto, lo condannava inesorabilmente a cercare l'eletta compagnia mondana fra gente, alla quale gli sarebbe stato impossibile comunicare le proprie idee, e che giudicava i suoi libri un semplice dilettantismo. Quindi tale noncuranza della principessa lo sferzò a sangue sul cuore. "Una civetta come tutte le altre!" mormorò poco dopo mentalmente rituffandosi nel veglione. Ma lo spettacolo gli parve allora anche più volgare. Nessuna maschera era elegante, nessun costume rivelava un'idea o almeno una sufficiente cultura nell'imitazione: poco lusso e non molta grazia. Oramai tutte le signore erano discese a cena; rimanevano le figlie e le mogli degli impiegati, che profittando dell'intervallo cominciavano a ballare senza più soggezione degli altri, in un allegro oblio della propria meschinità. Qualche coppia vagava a braccetto, assorta, beata momentaneamente di una intimità chissà da quanto tempo sospirata. Egli non volle ballare: alcune fra quelle ragazze senza maschera lo ammirarono sinceramente. "Che buffonata!" pensò all'improvviso insolentendo tristamente contro quel sollazzo di una piccola gente curvata tutto l'anno sotto il peso della economia domestica. Tuttavia una vanità anche più piccola lo attirava irresistibilmente verso quell'ultimo gabinetto, nel quale cenava la principessa. Resistette, poi colla solita sofistica di tutte le passioni si persuase di vincere una falsa paura coll'andarvi, e traversò il vasto appartamento fino allo stanzino del caffè per chiedere delle sigarette. Nel passare per quell'ultimo gabinetto, ove non sedevano a tavola che quattro uomini e quattro donne, nessuno gli badò; egli ripassò altero, senza guardare, avendo già rinunciato internamente a quella presentazione. - To'! non ceni? - gli chiese gaiamente un maestro di pianoforte, allegro giullare torinese non senza qualche piccola qualità di artista, che divertiva tutte le signore di Bologna. - Non ho fame. - Sei innamorato? Ah! tu no, me lo ero scordato. - E tu dove ceni? - Dalla contessa Ghigi, la divina; dev'essere laggiù nell'ultima saletta colla principessa Montalto, la marchesa Ruffoni e la signorina Antici. Me lo hanno detto. Tu non conosci alcuna di loro? - Alcuna. - Vuoi che ti presenti?... fra noi artisti.... Lelio Fornari frenò a stento un sorriso di albagia. - Come vorrai. - Allora vieni con me. - Alla loro tavola? - C'inviteranno: ci vado a posta. - Tu puoi farlo, io no; non le conosco. L'altro s'ingannò sul tono sardonico delle parole. - Dopo, non mancherà tempo. Quale ti piace di più? - Nessuna veramente. - Io preferirei la principessa come donna. E il giullare commentò questa preferenza con un gesto lubrico. - Allora presentami a lei. - Ciao. Lelio Fornari tornò nella sala del caminetto. Il giovane deputato, in colloquio grave col prefetto, parlava dell'ultima crisi ministeriale così incostituzionalmente risolta dal presidente Agostino Depretis; il prefetto andava guardingo, mentre l'altro ripeteva con una certa enfasi i soliti luoghi comuni dei giornali. Egli si mescolò alla conversazione. Più colto e perspicace d'entrambi si mise a difendere Depretis, disegnando un po' confusamente la sua complessa figura di vecchio parlamentare. Naturalmente la discussione si rinfocolò, ma egli otteneva così di trattenerli finché ripassasse tutto quel gruppo di signore colla principessa, e allora il prefetto le avrebbe indubbiamente fermate fornendo al maestro Armandi un momento opportuno per la presentazione. Poi non gli spiaceva di farsi vedere da lei in tale compagnia semi-diplomatica. Quindi il suo spirito aizzato trovò qualche paradosso originale: Agostino Depretis, così profondamente scettico dopo essere stato così caldo rivoluzionario, era la più viva espressione del momento politico in Italia. - Chi può credere adesso fra l'epopea, che si dissolve, e la commedia, che riannoda la vita suscitata dall'epopea? È l'ora dei volteggiatori politici: la sinistra arrivata al potere ne impara le difficoltà tradendo tutto il proprio programma. Agostino Depretis è forse ancora il solo fra tutti quelli che gli mutano intorno, il quale conservi alto il sentimento della grandezza nazionale. - Egli inizia una nuova êra di corruzione - proruppe il deputato. - L'avrà dominata. - È certamente un uomo superiore - replicò il prefetto contento dell'aiuto imprevedibile, che gli veniva dal giovane romanziere. - Ah! ecco un gruppo di signore. Infatti la principessa si avanzava prima fra il conte Turolla ed Armandi; questi affettava grottescamente delle arie da domestico. Il prefetto e il deputato s'inoltrarono per salutarle, si formò crocchio: Lelio rimaneva un po' dietro al prefetto. Allora Armandi lo presentò: la principessa ricevette il suo inchino, gli tese la mano colla solita cortesia, e passò oltre senza parlare. Lelio e il deputato rimasero addietro, soli. - La più bella è sempre la contessa Ghigi: la principessa non è che piccante. Lelio Fornari sollevò bruscamente la testa come sotto la puntura di una ironia, ma quando tornò nel salone gli dissero che la contessa Ghigi e la principessa Montalto se n'erano già andate.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Guardò curiosamente il capitano ed i suoi due compagni, alzando abbassando vivamente le palpebre dalle lunghe ciglia di seta, poi sedette su sasso in attitudine rassegnata, dicendo brevemente al vecchio: - Ti obbedisco. Il drappello, dopo aver salutato gli stranieri, s'allontanò percorrendo il fondo del burrone, senza che un muscolo di quel grazioso visino avesse trasalito. - Il padre di questa fanciulla doveva essere un ricco agricoltore - disse Fedoro, che la osservava attentamente. - Le contadine non vestono mai in seta, né si storpiano oggidì i piedi. - Che suo padre fosse il capo del villaggio? - chiese il capitano. - Certo. - Che piedini graziosi! - disse Rokoff. - Non ne ho mai veduti di piccoli, e non credevo che le cinesi riuscissero ad arrestarne lo sviluppo a tal punto. - Le persone di buona condizione ci tengono ad avere figlie coi piedi minuscoli, perché ciò aumenta il valore commerciale della donna, e tu sai che qui le spose si comperano. Più la scarpa che si presenta al futuro marito è piccola, più egli deve sborsare. - Quindi qui la bellezza non conta? - Viene dopo i piedi. - Singolare paese! - In origine però quest'usanza deve aver avuto qualche altro motivo - disse il capitano. - Si dice che i cinesi di tempi antichi fossero terribilmente gelosi delle loro donne e che siano ricorsi a questo barbaro uso per impedire loro di fuggire. Infatti, coi piedi così storpiati, non possono camminare a lungo. - Devono soffrire assai, almeno nei primi tempi - disse Rokoff. - Questo è certo - rispose Fedoro. - E come fanno per arrestarne lo sviluppo? - chiese il capitano. - Perché l'operazione riesca perfettamente, secondo l'ideale degli uomini, piegano le dita sotto la punta del piede, eccettuato il pollice che deve rimanere libero, poi fanno in modo che il tallone cambi direzione diventando verticale, invece di orizzontale. Per ottenere ciò, adoperano delle fasce di seta o di cotone lunghe un metro e mezzo e larghe un palmo. L'operazione comincia quando la fanciulla ha sei o sette anni e non cessa se non quando tutte le parti molli sono atrofizzate ed il piede ha cessato di crescere. Ricorrono però sovente a dei modi più barbari, battendo la faccia dorsale dei piedi perfino coi ciottoli e producendo perfino delle fratture. - Che tormento - disse Rokoff. - Talora poi le fasce vengono continuamente strette e cucite. - Vorrei vedere quei piedi. - Non lo otterresti. Le donne cinesi sono così gelose da non concedere tale permesso nemmeno ai loro mariti. - Ah! Che bel paese è la Cina! - esclamò Rokoff, ridendo. - Il paese delle sorprese strabilianti! - Ecco gli uomini che tornano - disse il capitano. - La minaccia di scatenare il terribile drago ha fatto effetto. Il vecchio era ricomparso seguito dai due portatori della bara carichi di due enormi canestri contenenti la deliziosa infusione. Il capitano regalò ai tre uomini due tael, prezzo ben superiore al contenuto dei panieri, un altro alla fanciulla, poi si diresse verso l'altipiano con Rokoff e Fedoro. - Partiamo - disse. Quando giunsero allo "Sparviero" la macchina già funzionava. - Siamo pronti? - chiese il comandante. - Sì, signore - rispose il macchinista. Passarono sul fuso, le eliche orizzontali si misero in movimento turbinando, le ali si mossero sbattendo lievemente per non guastarsi al suolo e il treno aereo s'innalzò prendendo subito lo slancio verso l'opposto declivio della montagna. Sul margine della foresta i tre cinesi e la fanciulla, istupiditi dallo spavento, lo guardavano innalzarsi. - All'ovest - disse il capitano al macchinista. - Andremo a cacciare sulle rive dell'Hoang-ho.

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