Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbassando

Numero di risultati: 2 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

ARABELLA

663062
De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Lungo il corridoio, col capo appoggiato agli armadi, si schierano i bottegai del quartiere che credono ancora alla santità del peso e delle misure e aspettano in fila la volta di gettarsi ai piedi del vecchio Cristo, che in duecento o trecento anni che sta lì, ne ha sentite d'ogni colore e, abbassando la testa impolverata in un atteggiamento di stanchezza, par che dica: "Che fare? ci vuol pazienza..." Il Berretta nel rivedere il luogo e la croce risentì per una naturale associazione d'impressioni un rimescolamento che aveva nel fondo un rimorso, simile a una piccola puntura di spillo. E stava ancora coll'animo sospeso quando da una porticina di fianco sbucò un altro prete, che non aveva nulla a che fare colla nettezza e colla bonomia di don Felice. Era invece un vecchio olivastro, una faccia da contadino, rugosa come una castagna secca: era insomma don Giosuè Pianelli. "Ci siamo!" disse in cor suo il portinaio, che capì o credette di capire all'ingrosso il motivo di questa chiamata, e si preparò a sostenere un processo. "Ti ho fatto chiamare, caro Pietro, per qualche schiarimento. Sedete, don Giosuè." "Son comodo" disse il canonico, raggruppandosi più che sedendo sopra uno sgabello di legno, mentre il prevosto andava a mettersi nella poltrona di pelle, sotto la croce, come il Berretta era solito vederlo due volte all'anno. Il portinaio rimase in piedi tra i due preti inquisitori, sotto la soggezione di quel gran Signore in croce. "Io non ho bisogno di dirti che facciamo conto sulla tua sincerità, va bene, Berretta? Conosci don Giosuè?" "Eh, se mi conosce, altro che!" prese a dire il canonico, facendo in modo da poter osservare il portinaio nella luce obliqua che pioveva di sotto le tende. "Dunque, saprai, il mio Pietro, che don Giosuè Pianelli è stato il confessore della povera sora Ratta, che fu per i poveri di questa parrocchia un vero angelo di carità. I sussidi sono scarsi e la miseria cresce ogni dì." "Di miseria non c'è mai miseria" aggiunge don Giosuè, seguitando con un tono irritato: "Cresce la miseria, crescono i vizi, crescono i birboni, mentre cala la religione e la carità... Sono i begli effetti del massonismo trionfante." "Don Giosuè non ha torto" riprese il buon vecchietto "ma di cristiani ce ne sono ancora e il nostro Berretta è uno di questi: non è vero? bravo, bravo." Il portinaio spalancò la bocca, aprì le braccia a un movimento d'ometto meccanico e rimase lì. Avrebbe pagato un occhio del capo a non esserci. Sentiva già da lontano che i due preti andavano tirando i fili d'una rete per pigliarlo in mezzo. Ma gli mancò la forza di scappare, che in certi frangenti, come dice la lepre, è il miglior rimedio. "La santa Pasqua è vicina, e tu sai, non è vero, Berretta? tu sai tutta l'importanza dei sacramenti. Si tratta ora di compiere un'opera di giustizia, che si riduce in fondo a un'opera di carità, sicuro! Si tratta del bene dei poveri, sicuro! Tu hai detto a qualcuno che il signor Antonio Maccagno..." "Tognino, Tognino" corresse don Giosuè, mettendo nella storpiatura del nome un suo gusto particolare. "Tu hai detto che il signor Maccagno, tuo padrone, ha preso una carta..." "Io, io, io?" balbettò troppo in fretta il portinaio, rispondendo prima d'essere interrogato. Don Giosuè chiuse un occhio e guardò fisso coll'altro il prevosto. Quell'occhio nero e lucente, pieno di espressione, avrebbe voluto dire: "Capite?" "Aspetta, lascia finire a don Felice. Parlerai dopo, il mio galantuomo." E don Giosuè fece sentire un'ironia che sonò male all'orecchio del povero sarto. "Dunque, è vero o è falso che la notte prima del funerale, presente cadavere, tu hai aiutato il sor Antonino..." "Tognino!" ribadì l'altro, che preferiva avere il suo uomo storpiato. "... a cercare una carta nella stanza della morta?" "Io ho detto? quando ho detto questo? io, una carta? che carta? non so un bel niente, io, di carte... Io faccio il sarto..." Così disse il portinaio, con aria distratta, muovendo il capo ad ogni frase, ora a destra, ora a sinistra come un automa meccanico; ma il cuore era un martellamento d'inferno. Capì subito che se si lasciava pigliare a questa trappola egli era perduto. Divenne rosso rosso, come se il vino rubato alla vecchia Ratta gli andasse tutto in una volta alla testa. "Non so niente io, di carte..." "Ha coraggio di spergiurare sotto gli occhi di nostro Signore questo bel galantuomo" saltò su il canonico. "Abbiate pazienza, don Giosuè. Intellige quae dico Il Berretta può benissimo aver detto una cosa e la gente aver interesse a capirne un'altra: va bene?" "Sissignore, sor prevosto, che Dio lo benedica, deve essere proprio così. C'è della gente che mi manderebbe volentieri in galera, e della gente che vorrebbe vedermi impiccato. Che ne so io di questi pasticci? Io faccio il sarto, vedo e non vedo, sento e non sento, piglio da tutti e non m'intrigo nei pettegolezzi. Di che carte mi parlano?" "Senti, il mio bravo Pietro, noi non facciamo nessun aggravio a te. Sappiamo bene che sei un galantuomo e che anche tu devi obbedire al più forte. Lasciamo stare quel che puoi aver detto o meno: e aiutaci a depurare la verità. L'hai sorvegliata tu la morta la notte avanti al funerale? Sì? bravo, bravo. Ed eri solo in camera?" Il Berretta, coi dieci diti delle mani irrigiditi in aria, faceva ogni sforzo per poter dir di no, un bel no, che l'avrebbe salvato dal rispondere altri sì; ma non seppe sputarlo fuori. La strada del male non era la sua e il diavolo non aiuta che i suoi. "E in quella notte non è venuto il sor Antonino?" "Vuol dire il sor Tognino" corresse per la terza volta il canonico. "Di' la verità, non c'è nulla di male." "Bisogna che io mi ricordi" sillabò, alzando gli occhi alla volta, e portando alla bocca la punta d'una mano. "Eh, eh, guarda il balordo" sogghignò don Giosuè andando colle mani fin sotto il naso del suo galantuomo. "Noi non dobbiamo far violenze alla coscienza, caro don Giosuè. Bisogna pure che il nostro Berretta si ricordi e verifichi il fatto, spiritu et veritate Non gli vogliamo far del male, si sa; né lui è uomo capace di far del male al prossimo, mentre ci può essere della gente interessata a far del male a lui." "Lei dice bene, sor prevosto: che Dio lo benedica per i suoi morti." "Lo conosco da un pezzo il babbuino: oggi gli giova di far l'indiano per non pagare dazio. Volete che non se ne ricordi? prova un poco ad alzare gli occhi, aperti ve', a questo Signore in croce e torna a ripetere: ' Non me ne ricordo '. Sostieni che il sor Tognino non è venuto quella notte, verso le due; di': non è vero, Signor Gesù Cristo, che io ho fatto lume al padrone mentre egli cercava una carta... Ah! tu vorresti scappare, adesso." Don Giosuè afferrò il portinaio per un braccio e cominciò a scrollarlo, come se cercasse di svegliare uno dei sette dormienti. "Non so niente, dico..." gridò piagnucolando il poveretto con voce più scossa e indebolita. Come diavolo il prete aveva saputo questi particolari? eran voci corse, c'eran dei testimoni, oppure era una trappola per farlo cascare? Fra i due giudici il più pericoloso non era, come si potrebbe credere, quel che pareva il più terribile, quello cioè che gridava di più, che lo minacciava, che l'irritava colla sua voce rauca, col suo dito lungo, magro, color tabacco. La forza non è sempre nella forza. Ciò che lo avviliva maggiormente, che gli toglieva l'animo di resistere e di spergiurare, che lo disarmava in quel contrasto, era la presenza bonaria e paterna di don Felice, la voce buona, carezzevole di questo buon vecchio tremolante, che mentre accaloravasi a proteggerlo, rimescolava tutte le forze morali della resistenza. "Senti, caro Pietro," riprese la voce paterna e insinuante del prevosto "capirai benissimo che qui non si tratta del nostro interesse, né di cattive intenzioni che si abbiano contro di te, povero diavolo. Si tratta puramente e semplicemente d'un diritto di giustizia, sicuro! Si tratta del pane di molta povera gente, che si presume danneggiata non da te, povero diavolo, ma da un uomo, a cui Dio avrebbe tolto per un momento il lume della coscienza. O le voci che corrono son false e tu, il mio buon Pietro, hai il dovere di dimostrare che son false e che quello che hai potuto dire a terze persone è egualmente falso: o le voci son vere, cioè hanno fondamento nel vero, anzi tu sei stato, tuo malgrado, testimonio del vero, e allora, caro figliuolo, pensa al carico di coscienza che stai per assumere. Senza cattiva intenzione tu ti fai complice d'un ladroneccio, ti copri di una responsabilità che io, ne' tuoi panni, non vorrei per tutto l'oro del mondo portare davanti al tribunale di Dio." "Ma se io non posso parlare" singhiozzò l'uomo, alzando le due mani sopra la testa e tenendole così aperte nell'aria. "Se ci andasse di mezzo la vita?" "Ah, t'hanno dunque minacciato," entrò a dire don Giosuè "bene, bene, bene!..." E fregandosi le mani, fe' una giravolta nella stanza. "Ti hanno minacciato? e dubiti che questo Signore che ti sta sul capo sia meno forte dei prepotenti che ti minacciano? e quando pur sapessi che c'è qualche pericolo a dir la verità, puoi tu comperare la tua sicurezza a prezzo d'un tradimento? e credi che vi possa essere sicurezza nel campo della ingiustizia? e ti par bello dormire sul letto di spine de' tuoi rimorsi, il mio Pietro? in balìa al genio delle tenebre, il mio Pietro?" Così batteva sul cuore del portinaio la voce amorosa e terribile. "Io non ho rubato nulla a nessuno, per la benedetta Madonna! Sono un povero uomo che non fa male a nessuno; non ho detto niente a nessuno; non voglio andare in cellulare" provò ancora a ripetere con monotonia, annaspando colle mani in aria, buttando gli occhi in tutti i cantucci dov'era sicuro di non incontrare gli occhi de' suoi giudici, chinando il capo per isfuggire al baglior bianco di quel Signore in croce. "Non voglio andare al cellulare: prima mi ammazzo." "Non è la strada più lunga per andare all'inferno, babbuino, l'ammazzarsi... Senti il parere di chi ti vuol bene, asino! non capisci che il tuo negare a noi non serve a nulla, perché ne sappiamo più di te?" A ogni frase don Giosuè dava una ruvida scossa al suo uomo. "Che cosa hai detto al Mornigani? non sai che ti hanno visto col lume in mano a far chiaro al tuo ladrone, voglio dire al tuo padrone?" Il portinaio, scosso, sospinto da queste parole e dalla mano vigorosa del prete, non sapendo dove trovare un rifugio, andò a stramazzare ginocchione sulla predella, come un uomo veramente mazzolato, strinse la testa nelle mani e ruppe in tali singhiozzi, che don Felice ne sentì una profonda compassione. Voltatosi verso don Giosuè, non volle più che seguitasse a tormentarlo. "Sta bene," disse costui "badate però a non lasciarmelo scappare." "È un buon ambrosiano incapace a far del male." "Fategli fare una buona confessione; io intanto corro ad avvertirne l'avvocato." Don Giosuè uscì e ritornò sui suoi passi a prendere il tricorno, che nella furia delle idee aveva dimenticato in sagrestia. Si strinse nel mantello, ritraversò la chiesa, così invasato dal suo primo trionfo, che non salutò nemmeno con una riverenza il padrone di casa. Uscì e prese la strada più corta verso Sant'Ambrogio, dove abitava l'avvocato, senza sentire l'acquerugiola fredda che veniva dal cielo.

La zia Colomba alzò le spalle, come se non gliene importasse nulla che la sentissero, tentennò un pezzo il capo, e abbassando di nuovo la voce fin dove glielo permetteva il calore del discorso, soggiunse: "Sì, mi rincresce, e vedrei volentieri che tu cercassi un altro sito, il mio bene". Ferruccio, figlio di Pietro Berretta, da un anno circa, dacché rinunciando alla vocazione era uscito dal Seminario, andava cercando la sua strada, e solamente per non essere d'aggravio ai suoi, s'era adattato a scrivere nello studio del sor Tognino. Non avendo potuto trovar posto nella portineria, era andato a convivere colla zia Colomba e colla zia Nunziadina, sorelle di sua madre, in una casetta di via San Barnaba, posta tra il convento dei barnabiti e l'ospedale, un luogo segreto tra molti giardini, dove l'erba si fa strada in mezzo ai ciottoli, dove qualche macchia di vecchie piante resiste ancora agli urti della civiltà. La zia Nunziadina, una nanina che reggevasi su due piccole gruccie, alta un braccio da terra, con un faccino profilato e bianco, tutta cuor di Gesù, lavorava i pizzi da chiesa, mentre la Colomba, che potevasi paragonare a un gruppo di rovere, andava intorno coi fagotti, al Monte di Pietà a comperare e per le case a vendere. La povera nanina non era meno attaccata a Ferruccio di quel che fosse la sorella. Anche lei, che viveva in un guscio, aveva seguito il figlio della povera Marietta per tutti gli anni che il chierico rimase in Seminario, mettendo in disparte i pizzi più belli e un cassettone di refe per le gambe del futuro ministro di Dio. Quel dì che per qualche contrasto il ragazzo dichiarò di non voler andar avanti, la zia Nunziadina non gli tolse il suo amore per questo. Il refe non era ancor tinto. E questo amore diventò ancora più tenero, quando le due zitellone, conosciute nel quartiere col nome di "due beate", ebbero la fortuna di tirarsi il giovane in casa e di covarlo come si cova un uovo. La zia Nunziadina gli cedette subito il suo stanzino pieno di quadretti e di rosari, che dava sul giardino di casa Merliani, e lei si ridusse a dormire nella stanza vicina, insieme alla Colomba. In mezzo non c'era che una cucina, che serviva anche di salotto, col telaio e il seggiolone della sciancatella sotto la finestra vicino al ballatoio. Davanti apriva il suo grandioso ombrello un vecchio castano amaro, dalle braccia robuste, che d'estate sbatteva nelle chiare stanzette una fresca e tremolante luce verdognola. Le "due beate" vivevano come in paradiso, al di sopra degli stenti, colla chiesa sull'uscio, colla vista dei giardinetti, risparmiando ogni giorno qualche soldo, che andava a ingrossare un libretto di risparmio, che la zia Colomba consegnava per sicurezza al padre Barca, il dotto rosminiano, autore di una "Cosmogonia mosaica" molto riputata. Ferruccio, per non essere di aggravio alle zie, procurava di tornar utile in casa, attingendo acqua, portando legna e carbone, uscendo e tornando colla cesta della roba stirata, aiutando la zia Nunziadina a increspare, a incannettare le cotte e i camici, a riscaldare i ferri: o correva al Monte, durante la vendita, per aiutare la zia Colomba a trasportare la mercanzia. Il suo sogno era di poter entrare presso un libraio a far pratica, dove potesse adoperar meglio le cognizioni e l'ingegno, e per un pezzo sperò colla raccomandazione del padre Barca di essere assunto da un editore di operette religiose; ma sul più bello il libraio fece affari d'autore e fallì. Seguirono giorni di grande malinconia per il povero ragazzo, che si vedeva lungo e inutile. Egli non poteva passar la vita a contemplare la zia Nunziadina, che lavorava le sue dodici ore senza far rumore, tra le tortorelle che passeggiavano in cucina a beccare nelle screpolature dei mattoni. In questi momenti tanta tristezza gl'invadeva il cuore, che se ne trovava il viso molle. "Come si fa, zia? i posti non si trovano mica sempre secondo i nostri desideri, e io sono stufo di vivere alle vostre spalle, povera gente anche voi. Del resto, in cinque mesi che mi trovo a lavorare col sor Tognino, non mi sono accorto ch'egli sia quel diavolo d'usuraio che dite voi. È un uomo d'ingegno, lesto, che lavora come un giovinotto. Ora mi dà sessanta lire e capite, zia, che nel mio caso non è facile trovarle dappertutto sessanta lire." Questi discorsi avevano luogo in un basso ammezzato che serviva di anticamera allo studio del sor Tognino. Una larga finestra, che occupava quasi tutta la parete, riceveva luce da una corte in cui l'aria colava con un color scialbo d'aria vecchia. In giro eran molte finestre che si guardavano in faccia. La casa è un'alta e bella costruzione recente, posta quasi nel cuore della città, con molte botteghe verso la via Torino, con eleganti balconi al primo e secondo piano, con un portone signorile, su cui domina l'iscrizione cubitale d'un dentista tra due massicci denti molari. Sugli stipiti sono molti cartelli e lamine scritte, che dànno all'edificio il carattere d'un gran magazzino. Dalla parte degli ammezzati invece una porta secondaria viene quasi ad addossarsi alle logore costruzioni della vecchia Milano, e serve di sfogo ai retrobottega e agli appartamenti, a cui si accede per via d'una scaluccia sempre sporca e bagnata. Qui era lo studio del padrone di casa, ossia di colui che i casigliani riconoscevano per il padrone di casa, perché a lui pagavano due volte l'anno la pigione; ma in realtà il signor Maccagno non era che rappresentante o subaffittario interessato d'una Compagnia di assicurazione che aveva fatto poco buoni affari. Dopo un po' di silenzio la Colomba, che per la prima volta poneva il piede in quella tana, prese a dire: "Io non voglio, il mio bene, importi la mia volontà. Tu hai raggiunta l'età del giudizio e sai distinguere da te quel che va fatto. Hai studiato anche il latino, sicché, figuriamoci! Ciò che importa a questo mondo è di non perdere il timor di Dio. Anche di camicie stai male, ma spero rilevarne una mezza dozzina al Monte al prezzo di quattro lire l'una, se quel della tromba manterrà la parola. Son belle camicie nuove, di tela forestiera, che forse hanno appartenuto a qualche conte sbagliato. Son forse, un po' larghe, ma tu pensa a ingrassare, anima mia... E quella chi è?" L'improvvisa domanda fu accompagnata da un gesto verso una ragazza che scendeva la scala (di cui vedevasi un gomito dalla finestra) facendo cantare un secchiello di rame. "È la cameriera della signora." "Come si chiama?" "Augusta." "È un bel nome, ma ha certi occhi! Non sarebbe meglio che tu voltassi le spalle alla finestra, quando scrivi?" "Non ci si vede, cara zia" rispose Ferruccio, ridendo con sicurezza, come chi ha l'animo tranquillo. "Tu che hai studiato il latino sai come si dice: Oculos porta peccatorum ." La vecchietta allegra e rubizza rideva ancora a sentirsi in bocca il latino, quando l'uscio si aprì bel bello ed entrarono Aquilino Ratta, il vice-ricevitore del lotto, Salvatore Boffa il fonditore di caratteri e l'Angiolina l'ortolana, venuti in deputazione per parlare al sor Tognino, loro mezzo parente, sull'argomento del testamento Ratta. Era il consiglio che aveva dato loro l'avvocato Baruffa. "Non c'è," disse Ferruccio "ma tornerà verso mezzodì. Se possono aspettare cinque minuti..." "A me pare che dal momento che siamo venuti possiamo anche aspettare..." osservò il vice-ricevitore col tono di chi fa una proposta ragionevole. "Aspettiamo pure" gorgheggiò con una cantilena tutta sua particolare l'ortolana, che, riconosciuta la Colomba, riprese a dire: "Come? anche la Colomba nella casa dei ladri?" La donna, che stava stringendo i gruppi di due grossi involti, l'uno di panno verde l'altro in un fazzoletto rosso di cotone, raccontò d'esser venuta a parlare a quel suo ragazzo, che era figlio della povera sua sorella Marietta. Toccava a lei a fargli da mamma e a rattoppargli i quattro stracci, perché il figliuolo, dacché era uscito dal Seminario, si trovava come perso nel mondo. A trovare un onesto boccone di pane, spavento! in giornata è diventato un affar serio. "In giornata la fortuna è dei ladri e dei Tognini" declamò l'Angiolina colla voce fresca, che usava in verziere al tempo delle prime fragole. "Io direi, punto primo, di non guastare la torta" osservò colla naturale prudenza il vice-ricevitore, che amava in ogni questione star sempre dalla parte della ragione. Prima di fare degli scandali era bene parlare amichevolmente col loro parente, sentir le due campane e ragionare. A ragionare ci s'intende, e per ragionare non è necessario gridare... Salvatore Boffa, quel piccolotto nero che aveva ancora la faccia rifasciata nel fazzoletto, alzò il capo, socchiuse gli occhi, dimenò le mani forse per dire: "Le donne, falle tacere le donne..." Ma non uscì che un sordo mugolìo. "Torto o torta, qualche cosa dovremo rompere del sicuro" seguitò colla sua indomabile ostinazione la donna, facendo scorrere le mani sulle maniche, come se si preparasse a lavare. "La Colomba sa bene anche lei di che cosa si tratta." "Io non so nulla, caro il mio bene. Io sto laggiù a San Barnaba, fuori del mondo." "Come? non sapete che Tognino Gattagno" (e accompagnò il nome col gesto di chi gratta l'aria) "ha fatto scomparire un testamento di quattrocento mila lire?" "Scomparire..." osservò sorridendo Aquilino, che non amava le asserzioni avventate. "Punto primo..." "Sissignori! un testamento, in cui, dire a dire, è impegnato il sangue di tanta povera gente." "Noi non sappiamo se l'ha fatto sparire o se non l'ha fatto..." "Caro il mio regio impiegato, si vede proprio che il cilindro vi scalda la testa." Angiolina volle alludere al cappello che Aquilino aveva preso per la circostanza, perché Tognino non dicesse in nessun modo che i parenti gli avevano mancato dei debiti riguardi. "Non sappiamo? è vero o non è vero che quella vecchia ha lasciato una sostanza di quattrocento mila lire? non l'ha detto il notaio? non l'ha detto l'avvocato? non l'ha detto don Giosuè? è vero o non è vero che questo birbone s'è pappato tutto?" "Noi siamo venuti per discorrere, e per discorrere bisogna, punto primo, discorrere, è vero?" Aquilino, che non si curava mai del punto secondo dei suoi ragionamenti, si volse verso Ferruccio per avere una testimonianza in un giovinotto serio, che sapeva scrivere. Anche il vice-ricevitore, per dir la verità, lusingato un po' troppo nelle sue speranze, dopo aver lasciato vincere alla vecchia parente delle partite a tarocco, ch'era un peccato a strapazzarle a quel modo, anche lui era rimasto scosso e mortificato quando il notaio assicurò che Tognino aveva ereditato tutto. Un uomo, per quanto prudente e ragionevole, non è di legno. Alla povera Carolina, Aquilino aveva fin strappato un dente, ed è sempre una cosa ingrata dover sputar fuori una buona speranza. Il testamento faceva obbligo all'erede universale di assegnare ai parenti di secondo e terzo grado un regalo, una mancia una volta tanto: ma Aquilino Ratta aveva dignitosamente rifiutato l'elemosina. Un Aquilino che si è battuto a Mestre e ha fatto il quarantotto non riceve elemosine. Con tutto questo non poteva approvare il sistema di violenza con cui i diseredati credevano di farsi rendere giustizia, punto primo, perché la violenza ha sempre torto... "Non conoscevo questa storia del testamento" disse la Colomba, cercando cogli occhi il figliuolo, che stava lì come incantato anche lui a sentire. "Possibile? una sostanza di quattrocento mila lire?" "Tutta lui!" ripigliò l'Angiolina, agitando i dieci diti raccolti in due pugnetti sotto il naso della Colomba. "E questo cilindrone non vuole che io dica che Raffagno è degno della galera... E dire a dire che siamo una masnada di bisognosi, senza contare i morti di fame, corpo d'una biscia! che stentano a star diritti se tira vento. Infame, tutto per lui e per le sue sgualdrine!" La donna eccitata e sferzata dalla sua passione parlava cogli occhi infiammati, colla faccia in su, coi pugni chiusi e puntellati sul grosso dei fianchi, assorbendo in sé tutta l'anima della Colomba e dei tre uomini che le stavano intorno. "Quattro...cento...mila lire!" sillabò ancora una volta, parlando quasi coi denti, verso la Colomba, che infilati i due fagotti, congiunse le mani in un atto di pietosa commiserazione. E l'ortolana, postandosi sul piede destro, avanzato l'altro come se si preparasse a ballare il minuetto, colle due braccia piegate sulle anche, come due solide anse d'un'olla di bronzo, stava per aggiungere una lunga frangia, quando, proprio in quel punto, l'uscio di scala si schiuse, spinto da una mano dolce, e Arabella entrò col suo passo leggiero, dicendo: "Scusi, signor Ferruccio..." e vista dell'altra gente, fece un inchino colla testa, ripetendo: "Scusino..." Era vestita d'un lungo soprabito di velluto con orli e risvolti di pelliccia, con un cappello di mezzo lutto guarnito di nastri violetti, che scendevano a fasciarle le fattezze delicate del volto. Teneva le mani in un piccolo manicotto d'un pelo lungo e floscio, che premeva sul grembo. Entrò col respiro un po' affaticato (essa era già sui due mesi) portando in quell'aria ottenebrata e pregna dell'acre odore della muffa e dell'inchiostro un delicato profumo di ireos... Porse un foglio a Ferruccio, dicendo: "Le ho portato il promemoria della povera Teresa Stella. Sono stata ieri a vederla e fa veramente compassione. Ha il marito malato all'Ospedale e tre figliuoletti senza pane. La stanza non può pagarla assolutamente; non è mica un pretesto. Lo dica a mio suocero". "Sissignora, glielo dirò." "Se no, pagherò io per lei." "Sissignora..." rispose di nuovo Ferruccio, movendo il capo come un arlecchino snodato. "Se le può perdonare il semestre, fa un'opera di carità." "Sissignora." Ferruccio rosso più del fuoco corse ad aprir l'uscio, come se avesse bisogno di mandarla via subito. Tremava tutto. "La permette, la mia bella signora, che io la riverisca?" disse la zia Colomba, facendosi avanti con una riverenza e co' suoi due fagotti infilati sulle braccia. E mentre Arabella le fissava gli occhi in faccia: "Son la Colomba, che servivo i Grissini, la zia di questo figliuolo, si ricorda?" "Molto bene: e vi trovo tal e quale. Come state, Colomba?" "Si resiste. E la sua bella mammina sta bene? Come s'è fatta grande e bella, angeli custodi. Non è più quella magrina bionda che trovavo sulle scale, si ricorda? Ho dovuto domandare a Ferruccio..." "Brava! venite a trovarmi qualche volta." "Certo, volentieri: mi farà una grazia." "Lei si ricorda..." riprese a dire Arabella rivolta verso il giovane. "una carità..." "Sissignora..." Ferruccio aprì di nuovo l'uscio e si affrettò a chiuderglielo dietro le spalle, come se cercasse di tenerla fuori per sempre. "Ci vuol altro che vestirsi di velluto, brutta smorfiosa" entrò a dire l'Angiolina subito dopo. "Ci vuol altro che i cappellini e che il fare la carità col sangue della povera gente, sgualdrinetta." "Che colpa ne ha lei?..." osservò la Colomba. "Le solite esagerazioni..." soggiunse Aquilino, crollando il capo in aria di compatimento. Ferruccio, pallido e irritato, stava cercando anche lui una parola di difesa, quando la voce chiara e nervosa del sor Tognino, che risonò sul pianerottolo, diede una scossa ai pensieri dei tre delegati e agitò la zia Colomba, che avrebbe voluto essere già lontana tre miglia. "Non voglio assolutamente che lei passi di qui" diceva il vecchio suocero ad Arabella. "Sta bene, sta bene, ma può parlare con me senza bisogno di tanti avvocati." E ancora infiammato in viso aprì l'uscio e con gli occhi semichiusi, come fanno oltre ai corti di vista coloro che non vogliono vedere, adocchiò gli illustri personaggi che stavano aspettando l'udienza. Aquilino, volendo prendere una rispettosa iniziativa, dondolò un poco sulle gambe a guisa di canna, e agitando il suo cilindro prese a dire: "Sono io, caro sor Tognino, io Aquilino Ratta, sicuro: e questi son due nostri buoni parenti, coi quali, per i quali siamo venuti, se lei ha tempo un piccolo momentino, perché vorressimo, punto primo, discorrere un poco in intuito di quel testamento di quella povera Carolina nostra parente, per la quale..." "Aaah!" cantarellò in tono nasale il vecchio affarista, come se cascasse dalle nuvole. "Passate di qui…" ed entrò per primo nello studio. Aquilino si rivolse all'Angiolina e alzato un dito diritto come una lancia, le raccomandò ancora una volta la prudenza. "Parlo io!" disse con quel dito in aria, e andò avanti. Il Boffa lo seguì. Ultima fu l'Angiolina che, data una scossa tremenda alla Colomba, volle tirarsi un altro chiodo dallo stomaco: "O vediamo i soldi, Colomba, o si fa il quarantotto!" E trottolò dietro gli uomini. "O zia Colomba!" proruppe Ferruccio, pallido in viso, correndo presso la donna. "Che storia è questa? avete sentito che brutte parole? e che c'entra la signora Arabella?" "Io non so niente, il mio bene, io sto a San Barnaba; ma non mi meraviglio di niente. Il denaro è peggiore del diavolo che l'ha inventato. Andrò in cerca di tuo padre e mi farò contare la storia di questo testamento. Io ho detto subito che quella povera creatura era in bocca ai cani..." "Saranno le solite esagerazioni..." "Non mi meraviglio di nulla, e torno a dire, vedrei volentieri che tu cercassi un pane migliore. Vieni a casa presto stasera e ne parleremo anche colla zia Nunziadina."

Cerca

Modifica ricerca