Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 4 occorrenze

Beatrice, che non vedeva piú in là dello scherzo, sorrise abbassando gli occhi e mormorò: "Caro lei ... ." "Non crede che ne perderei il sonno? sarei costretto a dir rosari tutta la notte ... Non è la prima volta che la mia cara signora Beatrice non mi lascia dormire." "Oh ... no" fece Beatrice, protestando per celia. "Davvero, sa ... " tirò dritto il cavaliere che mentre si avanzava per tastare terreno, non si accorgeva di sprofondare nel molle. "Naturalmente ho sempre saputo rispettare le convenienze. Una donna maritata, si sa, impone dei doveri, specialmente quando ha un marito vivo, geloso, che non dorme. Ma se avessi potuto parlare, come possiamo parlare adesso, qui, in camera caritatis senza far torto ai morti, ho avuto anch'io il mio poema. Si ricorda questo carnevale? Tornavo a casa qualche volta da quelle benedette feste che parevo un uomo matto. Lei ride ... capisco che son ridicolo: ma di chi è la colpa? di chi sono certi occhioni, eh? Pensi l'effetto che mi ha fatto l'altro giorno a sentire dalla Pardi che la povera mia signora Beatrice era caduta in tante angustie, che non aveva quasi piú pane per i suoi figliuoli e che si disperava sotto la sferza di un villanzone ... : tanto, non è qui a sentire e possiamo chiamarlo col suo nome. Povera martire, povera pecorella! io non so di che cosa sarei capace per toglierla da questo letto di spine. Oh, non mi crede niente?" "Che cosa?" domandò quasi stupidamente Beatrice, come se non avesse ascoltato nulla. "O crede che tutti gli uomini siano egoisti a un modo? cosí giovane, cosí bella ... " sospirò il cavaliere. Un singhiozzo breve e rotto, mescolandosi alle parole, tradí piú che non fosse nelle intenzioni, i sottintesi e l'agitazione dell'oratore. Beatrice, che quasi rideva ancora, alzò le palpebre e credette di scorgere delle vere lagrime negli occhi lustri del suo benefattore, che sprofondando sempre piú nel molle, cercò di trarre a sé la bella manina, la imprigionò nelle sue colla tenerezza con cui si prende e si carezza una cosa viva. Beatrice s'irrigidí un poco e si ritrasse con un movimento scontroso. "Io vorrei essere un re per dare a questa bellezza il trono che merita." Sorpreso anche lui, assalito, trascinato come una pecora dalla potenza cieca della sua passione, il povero signore non ponderava piú, non connetteva piú. I consigli della vecchia prudenza, che aveva sempre predicato di prendere le lepri col carro, questa volta non arrivavano piú fino a due orecchie intontite dal sangue e dalla vertigine. Beatrice impallidí e cercò di alzarsi. Ma, trattenuta delicatamente, ficcò i grandi occhi stupiti in quegli occhietti lucidi che la affrontavano con violenza, con sete, guardò paurosamente intorno a sé, si sentí sola, chiusa dentro, in casa altrui, in balía altrui, si smarrí, supplicò con un gemito ... "Senti ... Non sei tu libera e padrona di te? non posso io fare del gran bene a te ed a' tuoi figliuoli? ... " Beatrice si coprí il volto colle mani. Le pareva di scendere in una gola tenebrosa e senza fondo. "No, forse?" ripeteva la vocina rasente al suo orecchio. Nell'impeto del ribrezzo essa ritrovò l'energia: si alzò, con un gesto duro del braccio respinse l'insistenza di quel bravo signore. Gli occhi le si riempirono di un'insolita vita, la bocca si contrasse a un tremito di sdegno e di sarcasmo. Poi, come vinta alla sua volta dall'eccesso nervoso della sua energia, cadde di nuovo a sedere e, con la faccia dentro il fazzoletto, si pose a piangere dirottamente come una bambina battuta. Il cavaliere, squilibrato, pentito, vergognoso, ma non istupidito del tutto, capí d'esser fuori di strada. Il cavallo gli aveva tolto la mano e prima di ribaltare del tutto cercò di mettere avanti le mani. Aveva voluto fare della poesia, alla sua età: male. Beatrice non era certamente venuta per sentire a recitare dei sonetti. Bisognava pigliarla lunga, girare la posizione. L'amore non si accende come un pagliaio e non c'è nulla che mandi piú fumo di un fuoco mal fatto. Non volendo perdere tutti i frutti della sua carità e delle sue intenzioni, si mise a sedere a fianco della povera disperata e con un tono tra l'offeso e il sostenuto cominciò a dire: "Ma che bambina! ho detto cosí per ... Che diamine! capisco che ho torto. Metta che abbia voluto confessarle un peccato, ecco. Andiamo, asciughi questi occhioni, mi dia la manina e mi assolva. Che cosa c'è da piangere? lei è in casa di un gentiluomo e conosco troppo bene gli obblighi di ospitalità per ... Che diavolo! Là, via, non mi dia questo rimorso d'averla fatta piangere cosí. E che lagrimoni! Discorriamo dei nostri affari. Che cosa si diceva? ah, della causa e dell'avvocato. L'ho visto e mi ha detto che oramai non c'è piú nulla a sperare. È una barca scassinata che fa acqua da tutte le parti ... ." Per spiegare come un uomo avveduto cadesse cosí subito in contraddizione con ciò che aveva detto cinque minuti prima, bisognava immaginare che il cavaliere parlava, sí, colla bocca, ma il pensiero correva dietro a un altro ordine di idee, di meraviglia in meraviglia. Quel piangere sfrenato, quell'atto di ribellione quasi matronale in una donna abbastanza sciocchina, nota lippis et tonsoribus (anche la frase latina veniva a cacciarsi in mezzo), in una donna che nella bella Pardina — una vespa, in lega col diavolo — aveva una cosí grande confidenza: che accettava con tanta semplicità delle elemosine e veniva in persona a pagare i debiti della sua gratitudine, tutto ciò era un fatto cosí strano e inesplicabile anche per una testa lucida e pratica, che il povero signore cadde di confusione in confusione. Non restava che di toccare un altro tasto, quello della prosa, e non perdette tempo. Lí accanto c'era uno stipetto con qualche inezia elegante, e vi mise subito la mano. Beatrice, passato il primo impeto, capí di essere caduta in un tranello, e credette di vedere in questo gioco la mano di Palmira. Le parole del cavaliere, togliendole l'ultima illusione, l'irritarono e le diedero la forza di reagire. Ma nell'alzarsi, nel ritrarre il braccio a sé vide risplendere un non so che, un oggetto d'oro, un braccialetto ... Un gran buio invase gli occhi suoi, un gran tremito in tutto il corpo le fece temere di venir meno, di stramazzare in terra. Si appoggiò colla mano alla sponda di una poltrona, abbassò il capo avvilita, incapace fin di piangere, fin di muovere le labbra a un suono di protesta. Una volta fece il tentativo di togliersi dal polso quel segno, quell'anello massiccio; non poté. Non ci vide abbastanza, non ebbe la forza di far scattare la molla. Il suo protettore pregò, supplicò, perché non gli facesse il torto di rifiutare un segno innocente della sua amicizia. Non si sarebbe parlato piú di queste cose. Non gli rifiutasse questa consolazione: non gli volesse male: gli concedesse il piacere di esserle utile. Per lui era un bisogno del cuore. Nominò ancora l'avvocato, il deputato, il suo buon amico di Novara, mentre l'accompagnava docilmente verso l'uscio: cercò di ridere e di farla ridere ... Beatrice disse una volta di sí, senza capir bene a che cosa diceva di sí. Di tutte le belle parole del suo benefattore non afferrò che un rumore sordo, e non vedeva l'ora che l'uscio si aprisse. Aveva bisogno d'aria, si sentiva soffocare… Il cavaliere la tenne ancora un momentino prigioniera sulla scala, picchiò ancora una volta sulla bella manina ... Finalmente la povera donna si trovò in istrada nella piena luce del sole, come se fosse volata dalle scale. L'istinto piú che la volontà la condusse sulla via di casa sua; ma fece forse cento passi senza vedere innanzi a sé che un bagliore, senza sentire che un gran frastuono di un grosso fiume che passa. Era possibile? e il suo povero Cesarino non veniva a difenderla? Che tradimento, che bassa insidia, che vergogna!.. Come tornare davanti a’ suoi figliuoli, davanti alla sua Arabella? per chi l'avevano presa? che opinione aveva la gente di lei? quando aveva lei autorizzato la gente a giudicarla cosí? O era una vendetta, una stupida congiura di Palmira che voleva abbassarla al suo livello? E i denari presi per amor di suo padre come poteva ora restituirli? a chi ricorrere adesso? in chi fidarsi? Come raccontare queste cose a Demetrio? E, inseguita da questi fantasmi, andò di via in via senza veder nessuno, finché, sentendosi venir meno, si rifugiò nella chiesa di Sant'Alessandro, cercò un angolo oscuro presso una cappella, vi s'inginocchiò, quasi cadde sul marmo freddo dei gradini, e raggomitolandosi in sé stessa, nascose la sua vergogna e il suo cocente dolore.

domandò con vivo rincrescimento il Pianelli, abbassando la testa. "Stamattina alle quattro ... " balbettò colle labbra tremanti il Martini. "Son tornato per chiedere al commendatore tre giorni di licenza e aspettavo anche lei per regolare la consegna. Voglio portarla a Milano ... ." L'emozione soffocò le parole in gola al pover'uomo, che faceva di tutto per non farsi vedere a piangere dalla gente. Il Pianelli sentí alla sua volta farsi il cuore piccino. In quel momento avrebbe dato mezzo del suo sangue per evitare una consegna, da cui doveva risultare un ammanco di mille lire. Gli faceva orrore non meno il suo pericolo che l'idea di dare a un povero diavolo già cosí tribolato un colpo di quella sorte. "La trovo in ufficio verso le tre?" "Sí, ci sono ... " rispose il Pianelli. "Ecco il commendatore." Vedendo venire il direttore, il Martini gli andò incontro, mentre il Pianelli, correndo via, cercò di sfuggire a quel penoso dialogo. Entrò in ufficio con passo confuso e legato. Gettò il cappello su una sedia, il bastone sul tavolo, e si fregò la fronte colle mani, tre o quattro volte, come se togliesse delle ragnatele dagli occhi. Era mezzodí. Il Martini sarebbe venuto alle tre. In tre ore egli non poteva inventarle le mille lire, a meno di credere che il suocero si lasciasse commuovere all'ultimo momento: a meno di credere che Gesú gliele mandasse per compassione de' suoi figli. Per Dio! (queste imprecazioni scattavano come tante scintille dall'anima sua spaventata). Per Dio! se gli avessero lasciato ventiquattro ore di tempo! Pensò di tornare ancora in cerca del Pardi; ma dove trovarlo? e poi, no, da quell'asino che si lasciava guidare dalla moglie ... Degli altri suoi amici o non si fidava, o non voleva inchinarsi a nessuno, o erano povera gente, che stentavano a sbarcare essi stessi il lunario col misero stipendio. Nella cassa in cui egli cominciò a rovistare, c'erano molti conti correnti e molti mandati di pagamento già firmati dal Martini col visto del commendatore, tra i quali uno a favore del capomastro Inganni, in conto di alcune riparazioni per ingrandimento e adattamento dei locali d'ufficio, per la somma complessiva di duemila lire precisa. La formola del mandato era stata scritta dal Pianelli alcuni giorni prima colla cifra in tutte lettere "due mila" e nel margine i quattro numeri "2000" d'una linea magra e lunga com'era la scritturina nervosa del cassiere aggiunto. Non si trattava di voler falsificare un documento, né di rubare un quattrino a nessuno; ma solamente di evitare a sé una miserabile figura, e al Martini un colpo mortale, di guadagnare tempo, di non precipitare in due in un abisso senza luce e senza fondo. Eravamo al quindici del mese. Prima della fine non si sarebbe fatta la verifica dei mandati e lo scandaglio di cassa. Bastava per il momento che il Martini credesse in buona fede a un mandato di lire tremila già pagato al capomastro Inganni e partisse coll'animo quieto, lasciando a lui Pianelli il tempo necessario per rimettere il denaro e per rifare il mandato ... Con una goccia di acqua clorata sulla punta d'una penna nuova si potevano sostituire facilmente due piccolissimi tratti e cambiare colla stessa mano il due in tre, il 2 in 3 ... Non l'avrebbe mai fatto, nemmeno per salvare la vita dei suoi figliuoli, se si fosse trattato di mettersi del denaro non suo in tasca: non voleva che guadagnare ventiquattro ore di tempo, e salvare con un ripiego momentaneo la vita e l'onore di due famiglie. Il mandato era lí, che gli occhi lo divoravano. La penna vi passò sopra asciutta una volta, due volte, quasi per provare. Due zampe di mosca potevano evitare un terribile scandalo, forse risparmiare un delitto. Il non farlo era quasi una crudeltà verso quei poveri innocenti. Il mandato Inganni l'aveva pagato lui, e il Martini certo non aveva né tempo, né voglia di stare a riscontrare ad una ad una tutte le parcelle parziali e di verificare la somma. Egli non voleva fare per ora che uno stato di cassa per poter ripartire e star via tre o quattro giorni coll'animo piú sollevato. Quando avesse ritrovato e rimesso il denaro in cassa, il Pianelli era uomo capace di confessare tutto all'amico e d'implorarne il perdono. Ogni piú onesto uomo può trovarsi per dodici ore in una suprema necessità, e l'onestà di quarant'anni di vita non la si distrugge mica in ventiquattro ore, con due sgorbietti di penna. Ciò che salva l'uomo è l'intenzione. Uno ha il senso dell'onestà, un altro non l'ha. Il primo verrà sempre a galla per quanti sforzi tu faccia per affondarlo: il secondo precipiterà sempre come un sasso nell'acqua. Cesarino si sentiva uomo integro nella sua coscienza, e, se un caso maledetto l'aveva tratto a sporcarsi le mani di fango, bisognava dargli il tempo di lavarsele. Quel fango ripugnava anche a lui, in nome di Dio santo!.. Non c'è nessun gusto a fare il ladro. Queste considerazioni andavano assediandolo, stringendolo in mezzo, pungendolo con mille punte, alle quali sentiva di non saper piú resistere. Si asciugò ancora una volta la testa bagnata di un sudore freddo. Poi, intinta la penna nella boccetta del cloro, passò leggermente colla punta di metallo sulla coda del numero fatale, aggiustò coll'inchiostro il numero e la lettera ... e vi gettò subito molta sabbia sopra, colla furia spaventata dell'omicida, che cerca di nascondere le tracce del sangue… "Dio, Dio ... " balbettò, alzandosi, colle membra rotte e indolenzite, come se avesse voltata la grossa pietra di un sepolcro. Anche il far male è una grossa fatica per chi non c'è avvezzo. Tornò presso la cassa, rimise tutti i mandati a posto, stracciò il suo biglietto di visita in cento pezzetti, che buttò nel cestino, ma poi si abbassò a raccoglierli tutti, se li cacciò in tasca, chiuse bene ... e uscí sulla ringhiera a respirare dell'aria. Il Martini aveva detto alle tre, ma entrò in ufficio alle due, con passo rotto e frettoloso. Il Pianelli, che aveva già preparato un prospetto di cassa, gli andò incontro di nuovo con aria di compassione dicendo: "O bravo ... ." L'amico, pallido come un morto, non seppe nascondere una forte agitazione che imbarazzava il suo contegno e i suoi movimenti. Aveva lasciato all'alba il letto della sua povera morta, dopo una notte passata in ginocchio ad assistere agli strazi di una lunga e dolorosa agonia. La sua povera Emilia non voleva morire a venticinque anni! Si era attaccata colle braccia lunghe e stecchite al collo del suo Arturo e non finiva mai di chiamare fra i singhiozzi della morte la sua piccola Teresa. Sono notti spaventose che ti portano via la vita: un pezzo di noi se ne va con chi muore. Era partito subito la mattina, lasciando la sua morta in mano ad alcuni parenti e si preparava ora a tornare per riportarne a Milano il corpo. Il commendatore, uomo di cuore e discreto, non fece difficoltà, anzi gli diede licenza per una settimana, ma, tiratolo un momento in disparte, gli disse sottovoce: "Però ha fatto regolare consegna al Pianelli?" "Ieri non ho avuto tempo. Son tornato anche per questo." "Male! Non vorrei che avesse dei dispiaceri. Ho sentito delle voci ... Basta, non perda tempo, e non si esponga a certi pericoli ... Se vuole che mandi il Miglioretti ... ." "Grazie, vedrò ... ." Il Martini uscí dall'ufficio del commendatore col cuore un po' inquieto. Carattere delicato e scrupoloso, quel semplice rimprovero gli bruciava sul cuore come un carbone acceso, e, se un gran dolore piú crudele non avesse occupata e riempita di sé tutta la sua esistenza, sarebbe bastato questo dubbio per amareggiargli la vita. Il Pianelli, fingendo che alcuno lo chiamasse allo sportello, andò a sedersi al suo posto, prese la penna e si pose a copiare una tabella. Copiò, copiò forse dieci minuti una lunga fila di numeri, materialmente, in forza di quell'abilità automatica che acquista la mano di chi scrive molto, che sa andare da sé e quasi ragionare da sé anche quando il cervello è assente. Il Martini aprí la cassa grande, di cui aveva lasciato la chiave, e chiuso in un freddo silenzio, che si poteva interpretare come lo stato d'animo d'un uomo che ha il cuore irrigidito, mosse e rimosse molte carte e molti valori. Poi passò alla cassa piccola, che aveva lasciato nelle mani dell'aggiunto. Il Pianelli si mosse, quasi per uno scatto interno, e disse: "Veda se tutto è in ordine." "Non c'è dubbio ... " balbettò freddamente il Martini. Il Pianelli tornò al suo posto e riprese a scrivere, a scrivere. Ma gli occhi vedevano rosso. Il Martini seguitava a rovistare, a muovere carte, a riscontrare, sempre chiuso nel suo cupo, insopportabile silenzio. Pareva un uomo incontentabile, o non mai abbastanza soddisfatto. L'altro scriveva sempre i suoi numeri infiniti color sangue, col cuore duro come un sassolino, sempre in attesa d'un giro di chiave che chiudesse per sempre al buio il documento della sua miseria. Quell'insistenza eccezionale, in un uomo che aveva mostrato il giorno prima di fidarsi cosí pienamente di un amico, gli diceva già che anche la buona fede del compagno era stata preventivamente scossa da una voce misteriosa, insidiosa, da quella stessa voce, che da due giorni andava seminando il discredito e la diffidenza. Passò ancora un quarto d'ora, che al Pianelli parve un secolo. Finalmente il Martini, con una voce velata che si sentiva preparata con suprema fatica, domandò: "Si ricorda, Pianelli, quanto abbiamo pagato al capomastro Inganni?" "Io credo tremila ... " esclamò il Pianelli, saltando in piedi e correndo con una premurosa sollecitudine verso il compagno. "Mi risulterebbero meno ... ." "C'è il mandato, veda ... ." "Lo vedo ... " disse il Martini con un filo di voce, abbassando gli occhi e cercando di frenare il tremito da cui furono prese le sue mani. "Perché?" chiese il Pianelli con voce stridula, quasi di sfida. "Nulla, scusi ... , avrò sbagliato io." Il Pianelli voltò dall'altra parte la faccia. Poi disse: "Vedremo alla fine del mese ... ." "Scusi ... " tornò a dire il Martini, mentre andava facendo dei piccoli conti sull'angolo di un cartone disteso sul banco. "Non le pare?" tornò a chiedere il Pianelli, nascondendo in parte la faccia colle mani nell'atto che egli fece per accendere un sigaro. Il Martini gettò la penna con un movimento disperato. Riprese il mandato, lo agitò tra le dita, e fatta una mezza girata per la stanza, curvo nelle spalle sotto il peso della disgrazia e del tradimento, si fermò al tavolo del Pianelli, lasciò cadere il mandato, vi pose un dito, vi picchiò sopra tre volte coll'unghia, senza poter parlare, collo spavento dipinto nel suo viso d'uomo morente. Cesarino finse di non capire. Voltò e scosse due volte il capo, coll'aria di chi domanda una spiegazione, ma le orecchie parevano due pezze rosse e la pelle fina e lucida del viso si stirò sugli zigomi irritati. La bocca gli si riempí di saliva amara. Il Martini, con uno sforzo estremo, appoggiandosi colla mano a una sedia, poté soltanto soggiungere: "Pianelli, per carità, anche lei è padre di famiglia ... ." "Che cosa?" osò ancora una volta chiedere col suo cipiglio di ragazzetto insolente lord Cosmetico. "Abbia pietà, Pianelli. Sono un povero uomo anch'io ... ." "Che cosa?" "Perdoni ... " balbettò ancora una volta il Martini. "So bene che io sono il solo mallevadore della cassa: ma speravo di avere in lei un amico ... ." "Martini, per carità ... " scoppiò tutto a un tratto a dire Cesarino, che non poté piú resistere al doloroso invito dell'amicizia. "Per carità ... , per i miei figliuoli ... , per la sua bambina ... , per la sua povera Emilia, non mi tradisca. È vero, fu il bisogno, l'insidia de' miei nemici. Fra due ore avrà il denaro ... " "Aspetto fino a stasera. Il commendatore mi ha già rimproverato d'aver abbandonato la cassa senza una regolare consegna. Ho promesso per questa sera di rendergli i conti." "Fino a stasera almeno." "Se il commendatore non vorrà, non insisterò ... ." "Stasera prima delle otto ... " "A casa mia?" "Dove crede ... , vado subito a Melegnano in cerca di mio suocero. Non mi comprometta." "Non sono io che la comprometto, per amor di Dio ... ." "Ho dei nemici che mi vogliono male. Abbia pazienza ... , non mi faccia fare una cattiva figura." "Vede che io soffro non meno di lei. Vengo da un letto di morte e mi fa trovare un tradimento ... ." "Lei ha ragione; sono un miserabile ... Ma non mi tradisca. Se non trovo il denaro per questa sera, le rilascerò una dichiarazione ... e mi ammazzerò." "Cerchi di salvare il suo onore ... " disse ancora il Martini, mentre il Pianelli, preso in furia il soprabito e il cappello, usciva rapidamente dall'ufficio.

Chiudeva il libro, tenendovi dentro l'indice, recitava un gloria colle labbra, abbassando un poco la testa fino a toccare col naso il velluto cremisi della sua Via al Cielo , tornava a rialzare il capo, a riaprire gli occhi sereni e buoni verso l'altare. Che avesse ragione Paolino? La Pardi non stava mai tranquilla, e, piú di una volta, da vero diavolo tentatore, cercò di far ridere Beatrice sul conto di quel bellissimo suo cognato in redingotto. Dio, che bellezza!… Beatrice una volta le fece segno di finirla. La diavolessa s'inginocchiò in terra e si raccolse in una fervida preghiera. Il Signore stava per discendere in mezzo agli innocenti. I ragazzi del coro cominciarono un soave: O sacrum convivium , a sole voci, che richiamò la mente di Demetrio dalle strane divagazioni in cui cominciava a perdersi. Stese in terra il suo fazzoletto di cotone, fresco di bucato, s'inginocchiò e strinse l'anima sua a pensieri piú casti e religiosi. "C'è una grande Provvidenza al di sopra delle nostre tegole, delle nostre miserie e della nostra presunzione, e soltanto chi la nega è indegno di meritarsela. "È questa fede nella forza superiore che sorregge il povero zoppo nel momento che perde il suo bastone, che trae a riva il naufrago nell'atto che la sua barca sta per affondare, che versa la consolazione nella lampada del cuore. "Tu fa il bene per il bene e lascia che Dio aggiusti il conto. Dio è un ricco cassiere che non scappa mai. "Non è l'arte del saper vivere che fa, ma il viver bene, anche sbagliando. "Il bene che tu fai nella buona intenzione e nella carità del prossimo non si perde mai. Se hai speso tutto il tuo denaro per isfamare gli infelici, se ti sei spogliato quasi ignudo per vestire gli orfanelli, se hai asciugato le lagrime della vedova ... ." Demetrio alzò un momento la testa e lanciò un'occhiata ancora a quella donna, che spiccava sopra il fondo marmoreo del pulpito ... "Se hai fatto del bene, ringrazia Dio che ha voluto procurarti le occasioni e t'ha preferito al ricco e al potente. "Non invidiare dunque la fortuna del tuo vicino, salva il tuo credito intatto per l'eternità, e non lasciarti deviare dalle concupiscenze." "Zio Demetrio, è adesso che Arabella diventa un tabernacolo?" chiese Naldo pian pianino con una voce commossa. Arabella aveva nel cuore il suo Signore e se lo teneva ardente e stretto colle mani. Tutto l'essere suo era una fiamma, una soavissima fiamma d'amore, che s'irradiava visibilmente attraverso le rosee carni e alla nebbia del velo. Beatrice sentí gli occhi riempirsi di lagrime, e con quegli occhi lucenti andò a cercare gli altri figliuoli quasi per trarli anch'essi nella dolce comunione degli spiriti. Demetrio, che s'era tolto Naldo in braccio perché potesse vedere piú bene, sentí a quello sguardo correre una scintilla per tutto il corpo, e gli parve che la chiesa si riempisse di fiammelle e di frantumi di vetro. "Che cosa era venuto a dire quel benedetto Paolino?" Nell'uscire di chiesa egli provò una dolce vertigine, come se il profumo di tutti quei fiori lo avesse soavemente inebbriato, o fosse veramente disceso anche in lui uno spirito santo a rischiarare le povere pareti della sua vita interiore. Mamma, figliuoli e amici s'incontrarono di nuovo davanti la chiesa in mezzo al gran bisbiglio della gente che usciva. I bambini saltarono al collo di Arabella, si baciarono, fecero un lieto chiasso. Beatrice col viso ancor fresco di lagrime venne lei per la prima a stendere la mano al cognato e disse qualche parola per avviare la pace, parola che Demetrio non afferrò. "Sí, sí, sí ... " egli seguitava a ripetere, e rideva di quel riso che non esce dalla bocca e par che indurisca le mascelle. Sentiva anche lui una punta come quella d'un bastone schiacciato tra una costola e l'altra. "Sí, sí, sí ... " tornò a dire in seguito a qualche cosa che Beatrice gli domandò e di cui non arrivò ancora a prendere il senso. Quel gran sole di fuori lo abbagliava, lo stordiva; scosse il capo per togliersi d'addosso la vertigine, e gli parve, fra tanti veli bianchi che lo circondavano, di trovarsi perduto in mezzo a una nuvola. Scambiati i saluti e i complimenti coi Grissini, colla Pardi, col Bonfanti, la nostra brigatella, coi ragazzi davanti in crocchio, si avviò verso il centro. Lo zio Demetrio voleva pagare a tutti la colazione al caffè Biffi in Galleria. I ragazzi parlarono tutti insieme (c'era anche Ferruccio) saltando intorno all'Arabella, che col Signore in corpo mandava la contentezza attraverso alla nuvola bianca del suo velo. Demetrio camminava a fianco di Beatrice, distaccato, sui ciottoli, per lasciare tutto il marciapiede a lei; e pareva soltanto occupato a curar le carrozze, che sbucavano da tutte le parti. "Che bella giornata!" disse egli dopo un bel tratto, alzando gli occhi e facendo un mezzo giro sulle gambe. "Bello essere in campagna!" osservò Beatrice. "Proprio davvero ... Guardate alle carrozze!" Camminarono un altro poco in silenzio. Demetrio una volta si specchiò in una vetrina e non si riconobbe subito. Non era abituato a portare il cilindro e a far da cavalier servente a una bella signora. Beatrice osservò per conto suo che la cerimonia non poteva essere piú commovente, che pareva un giardino la chiesa. "Proprio davvero!" esclamò Demetrio, mentre si domandava in cuor suo se non era il momento di buttar fuori il nome di Paolino e di tirare il discorso sul famoso argomento; ma appunto in quel momento uscí una carrozza da una delle vie laterali e lo zio corse a prendere Naldo. Beatrice si trovò a fianco di Arabella, che si attaccò al braccio della sua bella mammetta. "Ho pregato tanto anche per te, mamma." "Brava." In quel benedetto crocevia della piazza del Duomo, da dove si irradiano gli omnibus e i tram, lo zio prese per mano anche Mario e gridò alle donne: attente alle carrozze! Pareva il capitano che salva la nave dagli scogli, e gli deve esser passata questa idea nella mente. Entrarono nella Galleria. Non c'era molta gente in quell'ora mattutina — lo zio osservò che l'orologio in cima all'arco segnava le otto e mezzo. — Il bel mosaico del pavimento, quasi sgombro, spiccava in tutta la nitidezza de' suoi marmi e de' suoi arabeschi nel chiaro riverbero che il cupolone di vetro, tocco dal sole, sbatteva nel vasto ambiente, sui cristalli dei negozi, sui globi, sugli ori delle ditte, sugli stucchi delle pareti liscie come specchi, su tutto ciò che poteva prendere e rimandare la luce in un giuoco di luci. Una fresca arietta volava attraverso ai bracci dell'edificio, che pulito e splendido, si preparava a una nuova giornata della sua vita rumorosa ed elegante. Beatrice, che da molti mesi non poneva il piede in quel magnifico salone pubblico, sollevò con un sospiro un monte di meste ricordanze, ma si lasciò subito prendere dalla curiosità delle belle botteghe, dove brillavano i gioielli, le porcellane, i ventagli, gli specchi e le avrebbe fatte passar tutte, se i ragazzi non avessero reclamato. Oltre la fame, Demetrio voleva esser all'ufficio per le nove. Entrarono subito al Biffi che rimesso a fresco da poco tempo con stucchi nuovi, specchi nuovi, velluti nuovi, pareva un pezzo di paradiso. Sedettero a un tavolino presso uno dei grandi cristalli che dànno sull'ottagono, da dove si può vedere il vasto piazzale pubblico, con tutte le botteghe in giro, con sopra la tazza immensa e trasparente della cupola, un vero barbaglio per chi ci va una volta tanto. Beatrice si rimirò subito nello specchio di fronte, badò a sedersi bene, lieta in cuor suo — senza dirlo a sé stessa — perché i camerieri s'erano voltati tutti al suo entrare. Al Biffi era venuta l'ultima volta col povero Cesarino la vigilia di Natale, ma s'era angustiata per un ufficiale di cavalleria, che non aveva mai cessato di fissarla come se avesse voluto bruciarla cogli occhi. Cesarino finí coll'accorgersene e nel tornare a casa l'aveva fatta piangere. "Pren ... prendete un caffè e latte?" domandò Demetrio, guardando in terra. "Un caffè e panna, volentieri" rispose Beatrice. "Allora, uno, due, tre, quattro, cinque e sei caffè e panna," disse al cameriere, contando col dito teso gl'invitati, "del pane e quattro paste ... ." E sedette in faccia a Beatrice, senza accorgersi che tre o quattro camerieri in fondo alla sala sbirciavano, ridendo sotto i bei baffi, il redingotto e il cilindro ancor nuovo fiammante. Mentre si aspettava, lo zio, che aveva il cuore contento, prese un'orecchia di Naldo tra le dita e la tirò. Poi si voltò a guardar fisso in faccia all'Arabella, come se pretendesse una risposta a una domanda che non aveva fatto. Guardò in alto il cupolone, e una volta l'orologio del caffè che confrontò col suo: quella donna la vedeva in ombra davanti, la sentiva presente, la pensava, ma non avrebbe osato guardarla per paura ... Paura di che? Lo sa Dio ... Finalmente arrivò un gran vassoio pieno di chicchere, di panetti, di paste dolci e lo zio ebbe a occuparsi a distribuire, a versare, a far le parti giuste. A Beatrice offrí una bella veneziana fresca e siccome essa esitava ad accettare: "Andiamo, andiamo," disse con una certa furia screanzata, "che sciocchezze!" E nel dir queste parole sentí di nuovo una vampa di fuoco pigliargli il corpo, salire al collo, alle orecchie, alla radice dei capelli. Per fortuna capitò che Ferruccio lasciasse cadere un cornetto intero di pane nella chicchera. Ciò sollevò l'ilarità di tutti, anche di Beatrice, anche del sor Demetrio, e il tempo passò presto. Invece di chiamare il cameriere, il signor zio andò al banco a pagare, cosa che non si usa piú in un caffè rispettabile, e serví anche questo a divertire quei bravi giovinotti. "Bisogna che io me ne vada ... finite con comodo" tornò a dire. "Ci rivedremo piú tardi, stasera ... ." I ragazzi gridarono: "Riverisco, zio, riverisco ... grazie." Egli uscí in fretta in fretta, senza capire ciò che gli diceva la cognata. Aveva bisogno d'aria ... Passò davanti al cristallo, guardò nel caffè, vide un gruppo di gente, ma vide annebbiato, salutò colla mano, e col suo passo di bifolco che cammina nel molle, traversò verso Santa Margherita, portato come un pezzo di legno galleggiante dalla corrente dell'antica abitudine, non piú chiaro a sé stesso di quel che sia un pezzo di legno. Una sola parola con un senso umano, uscí da quel garbuglio di sentimenti che egli portò all'ufficio, e prese nel fondo del suo silenzio la cadenza di un bastone che picchia addosso a un sacco di cenci. Questa parola, ch'egli ripeté cento volte nel breve tratto di strada fino alla porta del Demanio, era il nome del suo migliore amico: Ah, Paolino! Ah, Paolino!

Il Caramella si guardò un momento intorno e, tirando con una insolita affabilità il signor fittabile (lo giudicò subito per tale) in un andito piú scuro, abbassando le palpebre sugli occhi, prese a dire sottovoce: "L'è sempre la storia che el pesce grosso el mangia el piscinin. Il signor qui ... il mio capo ... sa ... il cavaliere ... il commendatore ... " e indicava un uscio dietro di sé, movendo il pollice dietro la spalla "l'è una brava persona, ma el g'ha il suo lato debole, ghe piacciono un poco le donnette ... Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra ." Il Caramella citò il testo con grande serietà. "Pare che tra lui e il Pianelli ci fosse un qui pro quo , mi capisce? a proposito di una sua cognata, alla quale il qui ... (e indicava l'uscio) el ghe faceva, pare, gli occhi del gatto. Io poi non so, la contano in mille maniere, ci sarebbe stato di mezzo anche un braccialetto, per conseguenza; ma chi le sa queste cose?.. il ... qui intendeva di pagare il conto, il Pianelli non ne voleva sapere, e, tira molla , se ne son dette un sacco in ufficio, che non ci sta nemmeno per la dignità del funzionario. Il Pianelli gridava come un disperato, avrà avuto le sue ragioni: l'altro, naturale, si è o non si è superiori, e detto fatto el me ciappa la penna, el te me scrive al Ministero, e in quattro e quattr'otto te me lo confezionano a Grossetto nel napoletano. Conosco da un pezzo il Pianelli e, dininguardi! so come la pensa: è un po' ostinato anche lui nelle sue idee, ti e mur , ma metterei la mano nel fuoco, figurarsi! Ma intanto chi ha avuto ha avuto. Questa l'è la favola, caro el mio signore." Il Caramella strinse le labbra, cacciò indietro le gomita, aprí le mani come due ventagli e lasciò che "quel signore" tirasse lui la morale della favola. Paolino, a intendere queste novità, rimase un momento a bocca aperta, coll'aria goffa del campagnolo che vede per la prima volta il santo Duomo. Balbettò qualche monosillabo, e, tirando la parola colle corde, dimandò: "Questa cognata, è forse ... ." "Dev'essere una donna del buon tempo. Prima ha fatto ammazzare il marito, adesso fa perdere l'impiego al cognato. Ci dicono la bella pigotta ... ." "La bella ... ." "L'è sempre la storia del cherchè la fam . Questi uomini hanno passata l'età del giudizio e devono aver cambiati anche i primi denti: ma ha cominciato Adamo a sbagliare il primo bottone (e sí che non era vestito) e sarà sempre cosí." Il Caramella cominciava a ridere del suo riso amaro di critico incontentabile, quando un altro squillo di campanello lo chiamò nella stanza del commendatore. "Vado, mi chiama il qui…" disse e sparí. Paolino discese per la seconda volta le scale, non vedendo davanti a sé che una nuvola bianca, col passo vacillante del convalescente che esce per la prima volta di casa dopo un mese di febbre. Colla testa grossa, incapace di concepire, traversò Milano e si trovò per miracolo o per misericordia di Dio sulla porta del cugino in San Clemente. "Non c'è" disse la portinaia. "Va e viene come un tramvai." "Non va piú all'ufficio?" "Io non so: non ha piú ore." Paolino guardò la facciata della casa, come se cercasse un consiglio alle finestre, e, non avendo piú nulla a fare, tornò alle Cascine. Che viaggio! Chi si raccapezzava? Demetrio, l'impiego, il commendatore, la bella pigotta , la scena in ufficio, erano altrettanti fantasmi che si mescolavano e si connettevano con lo strano contegno del cugino, col suo ostinato rifiuto, colla sua calcolata freddezza, che faceva un vivo contrasto coll'entusiasmo del primo giorno, quando s'era parlato per la prima volta al Numero Cinque in piazza Fontana e che s'era vuotato il primo bicchiere alla salute della sposa. Demetrio oggi non voleva bere piú del suo vino, rifiutava di assistere ad un'intima cerimonia di famiglia, non si lasciava piú vedere alle Cascine, non apriva la bocca sulla sua disgrazia. Nemmeno Beatrice pareva informata di questa dolorosa faccenda. E la storia di questo braccialetto? che opinione aveva la gente di questa donna? aveva essa ammazzato il primo marito?.. che ... che ... diavoleria?.. Che Demetrio fosse innamorato anche lui? non pareva possibile, dal momento che l'innamorato era quell'altro ... Ma potevano essere innamorati tutti e due. Niente di strano, dal momento che s'era innamorato anche lui alla distanza di quattro miglia. O santi Apostoli! e come la chiamavano a Milano? La bella pigotta ? che villania, che scherzo, che scempiaggine! Che tutto quello che era accaduto fin qui fosse uno scherzo di cattivo genere? ch'egli fosse la burletta di quella donna, la quale dopo aver ammazzato un marito volesse sposare un altro per ... O che pensieri! diventava matto a immaginare queste atrocità?… "Carolina, Carolina" disse, entrando in casa col cappello sul cucuzzolo, cogli occhi strabuffati, col passo dell'uomo che ha perduto il centro di gravità. "Carolina." "Che cosa c'è? che cosa è accaduto?" esclamò la sorella, lasciando cadere una matassa di filo che stava dipanando dall'arcolaio. "Vieni di sopra ... ." "Vengo, santa Maria! ma che cosa è accaduto?" "Taci, non far scene. Chiudi l'uscio" disse Paolino quando furono in camera. Gettò il cappello sul letto, sedette anche lui sul letto, si asciugò col fazzoletto la testa. "Ti senti male? parla, in nome di quella benedetta Madonna" pregava la buona sorella, a cui tremavano le gambe in prevenzione. Paolino, dopo aver soffiato come un mantice, cominciò a raccontare quel che aveva udito a Milano, di Demetrio, del commendatore, di Beatrice, del braccialetto; e, quando gli parve di aver detto tutto, si abbandonò senza fiato sul cuscino. "È tutto qui?" esclamò Carolina, alzando le mani al cielo. "Credevo che ti avessero rubato il portafogli. Si vede che sei cresciuto sempre in mezzo alle oche. Che caso! Si sa, una bella donna dà sempre da parlare alla gente. Potrebbe essere anche Sant Orsola e ci sarà sempre la lingua che si diverte a mettere male. Che importa a te se a Milano la chiamano come la chiamano? è tutt’invidia che parla." "E il braccialetto?" "Il braccialetto sarà un regaluccio di un adoratore. L'ha forse accettato? Caro mio, se non volevi questi fastidi dovevi contentarti di sposare una donna come le altre ... ." "Sei qui colle tue sciocchezze" saltò su a dire Paolino, con un tono aspro e dispettoso, non volendo concedere che la sorella potesse aver ragione su questo argomento. "Vuoi la donna bella? e allora non bisogna pretendere che la gente si strappi gli occhi dal capo per farti piacere. Il mio povero parere te l'avevo dato ... ." "Vuoi finire di fare la Perpetua?" "Ecco il pagamento d'essermi occupata tanto di te. Non parlo piú." "Ma se ... ." "Non parlo piú, sta sicuro, anima mia." "Tu vuoi sempre ... ." "Amen, non mi intrigherò piú." E coll'animo punto e addolorato la povera donna scese in cucina a preparare il pranzo. Quando mai qualcuno in quarant’anni l'aveva chiamata Perpetua? Alle Cascine essa era la mamma, la provvidenza, la consigliera ascoltata da tutti e non c'era grosso fastidio in una casa, di cui ella non sapeva sciogliere i gruppi e trovare il capo come in una matassa di filo. Doveva essere proprio lui, Paolino, il suo cuore, il suo cucco, a chiamarla Perpetua! Paolino non era piú il buon ragazzo di una volta: quella donna l'aveva stregato e cambiato di bianco in nero. Sempre inquieto, distratto, stizzoso, rabbioso, insofferente e svogliato negli affari, freddo fin nelle cose di religione, sarebbe stato peggio naturalmente andando avanti. Quel giorno che la signora Beatrice fosse diventata la padrona di casa, il posto della povera Carolina doveva essere dopo la serva, per non dire dopo la scopa. Questi malinconici pensieri passavano come uno stormo di corvi nell'animo suo, mentre colla mestola in mano davanti al camino aspettava, cogli occhi tuffati nella pentola, che la minestra finisse di cuocere. A tavola i due fratelli mangiarono di poca voglia e quasi senza parlare. Né, per quanto si voltassero nel letto, ciascuno per le ragioni sue, riuscí la notte a togliersi di dosso le spine che la bella rosa aveva seminato nelle lenzuola. Demetrio intanto seguitava a vendere. Non restava quasi piú che il letto per dormire, qualche sedia, i pochi vasi, le gabbie. Le erbe, le lunghe tredescanzie, le piccole edere, i bei ciuffetti di musco languivano di sete, s'impoverivano nella polvere, essiccavano di malinconia come il loro padrone. La valigia era preparata. Non potendo portare con sé anche i compagni della sua solitudine, pensò di dare la libertà ai canarini, rendendo cosí felici dal fondo della sua tristezza quelle piccole creature. Collocò le tre gabbie sul davanzale della finestra, cogli sportelli aperti verso lo spazio e sedette ad aspettare che i canarini si sprigionassero da loro stessi. Giovedí, che in questi ultimi giorni s'era attaccato al padrone, venne a sedersi accanto, col muso in aria, cogli occhi vaganti ora verso lo zio, ora verso le gabbie. La giornata di fin di luglio si avvicinava al suo tramonto. Lunghe e taglienti lame d'oro immobili nell'aria immobile mandavano nel lento spegnersi del crepuscolo un chiarore caldo come un riverbero di rame infocato, mentre dai tetti neri e bruciati esalava la vampa di una gran giornata di sole. Era arrivato il tempo di andarsene. Sentendo ogni giorno, quasi ogni ora, quasi ogni minuto diminuire le ragioni della vita, nel tedioso ozio forzato che somigliava all'inerte agonia di un condannato a morte, Demetrio anticipava di qualche giorno la sua partenza anche per sottrarsi alle insistenze di Paolino, che gli scriveva continuamente delle cartoline enigmatiche. Strada facendo, avrebbe potuto fermarsi un paio d'ore a San Donato dov'era sepolta la sua povera mamma, per dirle addio, o a rivederci, per attingere un po' di forza davanti all'erba che la ricopriva. Gli sorrideva anche l'idea di una fermata a Genova al cospetto del mare che non aveva mai veduto, nella speranza di far morire nell'immensità dello spettacolo i suoi piccoli pensieri e i suoi piccoli dolori. Chi sa se avrebbe potuto vivere lontano dal suo paese, tra gente sconosciuta, in un mestiere ingrato, vedovo (non c'è altra parola), vedovo per sempre di quella donna, che aveva suscitate e sconvolte tutte le forze piú oscure e piú chiuse della sua esistenza? Fu ridestato da un vivissimo cinguettío. Qualcuno dei canarini era già uscito dalla gabbia e stava sulla soglia dello sportellino, davanti all'aria vuota, in atto di curiosità e di trepidazione. Altri, agitati da una voglia quasi convulsa, saltavano di legno in legno, arruffando le piume, girando il collo, spiando coll'occhietto piccolo e rubicondo attraverso ai ferri, come se non si fidassero delle cose. Il loro padrone soleva tutte le volte che apriva gli sportelli avvicinare le imposte e piú d'uno aveva dato della testa nel vetro, come la dànno gli uomini di buona fede nelle piú trasparenti illusioni. Si capisce come non si fidassero troppo. Fu Giallino il primo, un novello che Demetrio proteggeva piú degli altri con qualche parzialità, che dopo aver sollevato il becco alla grande aria del cielo, dopo aver gridato di gioia, sollevò le ali ... ma ebbe paura. Il suo cuoricino batteva con precipizio: due volte tentò abbandonarsi, ma la paura del vuoto, spaventoso anche per lui, lo tenne aggrappato al legnetto. Amoretto, colle penne miste di verde, gli diede quasi una spinta. Demetrio sentí un frullo d'ala, guardò attraverso ai ferruzzi e scorse Giallino ansante e spaurito nella conca di un tegolo. "Ingrato anche tu ... " mormorò sorridendo. Amoretto gli tenne dietro e andò a posarsi sul cappello di ferro di un fumaiolo. Il Marchesino — cosí chiamato per il suo garbo — saltò sulla gabbia e volò di qua e di là per la stanza, seguíto dagli occhi di Giovedí, finché venne a posarsi sulla spalla del padrone. Demetrio lo prese delicatamente nel palmo, lo fece saltare sul dito e presentandolo a Giovedí, cominciò a dire: "Dunque si parte tutti quanti dimani. Mandiamo avanti questo signore a preparare gli alloggi? ... " E dopo aver accarezzato il canarino sulle ali, sporse la mano nel vuoto e gli diede la libertà. L'uccellino con un volo frettoloso e sgomentato andò a cadere sulla gronda di un tetto. La femmina lo seguí, gli volò d'appresso e sulla gronda si concertarono sul da fare. Qualche altro era già partito senza dir nulla. Le nubi d'oro cominciavano a scolorire. Sempre seduto in faccia alla finestra, Demetrio contemplava le gabbie vuote, assorto, immerso nel malinconico silenzio di quelle piccole case deserte, velando gli occhi d'una riflessione piena di mestizia. Si sentiva malato ancora, d'un male che non è febbre, ma che filtra come una febbre ghiacciata nelle midolle delle ossa. Giovedí, posata una zampa sul ginocchio, fece sentire ch’egli era lí. "Sí, tu ci sei, tu non vai via senza di me, tu sei fedele fino alla morte: tu vuoi bene a chi ti ha fatto un po' di bene!" La bestia rispondeva socchiudendo gli occhi, attraverso ai quali brillava un lume di tenerezza. Demetrio gli strinse il muso nelle mani e seguitò anche lui a parlargli cogli occhi, carezzandolo. Il silenzio dei tetti spopolati penetrava il cuore. Al chiaror sanguigno era succeduta una luce languida di un azzurro verdognolo, in cui svanivano, come piume di un immenso ventaglio, strisce lunghe di cirri bianchi e altissimi. L'uscio si aprí lentamente. Amor di Dio! era lei ... Era proprio Beatrice, un poco accesa per la fatica del salire. Era lei nel suo velo grande cascante sulle spalle, nel quale spiccavano i bei colori del viso ovale, la bianchezza del collo e la grandezza degli occhi. Giovedí, conosciuta la padrona, le corse incontro, spiccando salti di gioia, abbaiando, piagnucolando e tornò verso Demetrio, soffiando nella polvere, gonfiando le nari, leccandogli i piedi. "Che ... che miracolo?" mormorò Demetrio, alzandosi e rimanendo immobile colla mano appoggiata alla sedia. "Siete a Milano?" "Sí, per questa notte ... Son venuta a prendere Arabella che fa gli esami dimani. Ma devo prima parlarvi." Beatrice trovò Demetrio molto abbattuto e invecchiato, e lui s'umiliò al cospetto di una signora che pareva cresciuta di nobiltà nell'eleganza degli abiti nuovi e signorili. "Che cosa è accaduto?" chiese ella per la prima, mentre abbracciava con una rapida occhiata la povertà della stanza in disordine e la valigia fatta e pronta sopra la tavola. "Che cosa?" chiese distrattamente Demetrio fingendo di non capire il senso della domanda. "Sono venuta apposta anche per questo, e non voglio partire senza conoscere la verità." "Quale verità? sedetevi." Demetrio mandò avanti una sedia, dove Beatrice si pose a sedere, mentre egli tornava ad appoggiarsi colla vita alla tavola. "Paolino aveva bisogno di parlarvi, è venuto a Milano, andò a cercarvi all'ufficio e ha sentito ... " "Che cosa?" chiese con un filo di voce Demetrio, abbassando gli occhi. "Ha sentito che avete avuta una brutta scena col cavaliere in seguito alla quale siete stato licenziato. È vero?" "Non licenziato" mormorò languidamente con un tenue sorriso. "O vi hanno traslocato in un paese lontano: è vero? Perché non avete seguíto il mio consiglio? Avete forse voluto difendermi troppo ... e v'è capitato male." "Troppo? non si difende mai troppo una povera donna insidiata, calunniata" esclamò Demetrio con un tono vibrato e caldo di voce. "Voi non ne avete nessuna colpa." "Povera me, come sono disgraziata!" scoppiò a dire Beatrice, portando in fretta e furia il fazzolettino agli occhi. "Paolino è tornato a casa tutto fuori di sé, ha fatto una scena colla Carolina, vuole che io gli spieghi questo mistero del braccialetto, suppone non so quali tradimenti ... Che gli devo dire, per amor di Dio? Questo matrimonio si doveva fare in agosto e invece s'è scoperto che non si potrà fare prima dell'inverno: anche questa circostanza aiuta a rendere Paolino inquieto e di malumore. Scrivetegli voi, per carità, o lasciatevi vedere una volta. Voi solo potrete dimostrargli che io non ho avuta nessuna colpa in tutta questa scena dolorosa, dissiperete tutti i suoi sospetti, distruggerete le calunnie della gente cattiva." "Io?" esclamò Demetrio come se parlasse a sé stesso. Appoggiato colle mani alla tavola, fissò uno sguardo gentile e carezzevole su quella povera donna, che aveva ancora una volta tanto bisogno di lui: e provò in fondo al cuore ancora una volta una vanitosa compiacenza, un soave orgoglio di sé. Per un bizzarro ritorno d'impressioni gli venne in mente la prima volta ch'egli s'era incontrato in Beatrice, in casa sua, nel salotto elegante, e che la povera donna, dall'alto del suo trono di cartapesta, aveva disprezzato i consigli d'un galantuomo: quante cose da quel giorno in poi! quante mortificazioni, quanta pazienza, quanta rassegnazione c'era voluto per non perdere i frutti di una buona intenzione! Chi aveva vinto? La gente che giudica all'ingrosso poteva credere che avessero vinto gli altri, cioè i potenti e i fortunati; ma il suo cuore, davanti a quella bella creatura che piangeva e supplicava, seduta innanzi a lui nella luce blanda d'un tramonto di estate, esultava ancora nella coscienza di un trionfo appassionato, che Dio non concede né ai potenti, né ai fortunati. Beatrice non era salita per la seconda volta alla modesta soffitta per consolare le malinconie di un abbandonato: ma veniva come una regina a mendicare consolazione e consigli a un vecchio e dimenticato romito. Di chi la vittoria dunque? Ecco quello che passò rapidamente e senza ordine nel suo cuore, mentre Beatrice finiva di piangere. Il signor Paolino, nell'estasi della sua fortuna, alla vigilia di un ineffabile godimento, non aveva saputo resistere all'insidia del male. Una parola sinistra, una voce in aria, raccolta nell'anticamera d'un ufficio, era bastata come una goccia d'aceto a corrompere il latte della sua felicità; il sospetto, la diffidenza, l'ingiuria si mescolavano già ad un amore tutto fatto di bisogni e di ciechi desiderii, a un amore che non resiste alle prove dure e tiranniche della vita. Se un povero impiegatello destituito e traslocato, che aveva dovuto vendere il letto per mettere insieme i denari del viaggio, avesse in quel momento ritirata la mano dalla testa di quella donna: avesse — obbedendo a una ruvida istigazione dell'invidia e della passione — rifiutata una spiegazione a un uomo che non la meritava piú, che cosa sarebbe stato di Beatrice e de' suoi figliuoli? che cosa sarebbe stato di Paolino? Questa paurosa apprensione egli lesse bene negli occhi lagrimosi di Beatrice, quando si alzarono verso di lui quasi in atto di invocare misericordia. Se egli fosse stato un uomo cattivo ... ma che cattivo? se egli fosse stato soltanto una persona rispettabile come il suo superiore, o un galantuomo dei soliti sul genere di Paolino, avrebbe ben saputo trarre da questo gruppo di circostanze almeno l'interesse dei suoi sacrifici. È bene o male essere un po' diversi dagli altri? "Beatrice" disse, distaccandosi dalla tavola e avvicinandosi due passi. Si fermò davanti a lei in una attitudine tranquilla di padre indulgente e amoroso, e, lasciando sgorgare l'onda delle parole secondo l'ispirazione del cuore, soggiunse: "Io scriverò al signor Paolino, non solo per difendere la vostra innocenza e per risolvere tutti gli equivoci che possono essere nati, in mezzo a tante ciarle; ma gli dirò anche quanto si faccia torto e quanto divenga indegno di voi con delle diffidenze, che ingiuriano una donna onesta non meno delle insidie di chi la tenta coi piccoli regali." Beatrice, scossa dal suono vibrato con cui Demetrio pronunciò queste parole, alzò gli occhi e stette a sentire senza battere palpebra. Le fece subito piacere l'energia con cui suo cognato prometteva di difenderla. Era venuta apposta per avere in lui un valido avvocato difensore. Guai se Paolino si fosse intiepidito e avesse mandato a monte ogni cosa! che avrebbe dovuto fare co’ suoi tre figliuoli? e la vergogna, e le ciarle della gente, e la nuova miseria piú grande se non piú spaventosa della vecchia? Ecco cosa dicevano i suoi occhi, mentre Demetrio, fisso alla linea ancora luminosa del lontano tramonto, colle mani giunte, quasi appoggiate alla bocca, con una visibile tensione di tutti i nervi, seguitava: "Gli dirò che non vi merita, perché non ha avuto fede precisamente in ciò che voi avete di piú prezioso e di piú nobile, la vostra onestà. Questo sentimento, questa preziosa eredità, voi, anche povera, la lascerete in dote alla vostra Arabella" il nome della fanciulla fu come un gruppo che fermò un istante il discorso "e il signor Paolino non ci ha creduto. Anch'io, è vero, ho diffidato una volta, anch'io ho accolto leggermente le voci della malizia, ma erano diverse circostanze, e non vi amavo ... allora ... come dice di amarvi quest'uomo che vi manca di rispetto ... ." Beatrice aprí un poco la bocca a un fiato di sorpresa. Perché si corrucciava tanto suo cognato? Demetrio si accorse anche lui d'essersi lasciato trasportare un po' troppo. Si fermò, abbassò gli occhi verso di lei, stentando le parole, che si sprofondavano nella gola, parlando insomma attraverso al singhiozzo: "Gli scriverò," disse, "gli scriverò dimani da Genova ... Addio, state bene ... Aggiusterò tutto: addio!.. siate felice ... ." Beatrice, quasi sollevata da lui, s'alzò lentamente senza togliere gli occhi dal viso di suo cognato, che, dopo averla commossa in modo straordinario, si commoveva anche lui fino alle lagrime, e diceva parole strane, agitando la mano nervosa e smarrita davanti alla bocca, tremando in tutta la persona magra e rannicchiata come un uomo che cerca di fuggire da un tremendo disastro. Che aveva quel povero uomo? che fosse ancora ammalato? che gli rincrescesse di partire e di lasciare la sua gente? Furono tre o quattro questioni, che si presentarono insieme in quel momento all'intelletto non sublime della povera donna, che, abituata a vivere di sé, incapace di supporre mali lontani diversi dai suoi, e pur sentendosi cagione delle lagrime di Demetrio, stava lí in piedi, vittima anch'essa della sua meraviglia, lontana ancora molti passi dalla verità, incapace di andarle incontro. "Voi partite dimani? È proprio vero? È per causa mia che vi tocca di partire?" chiese con un naturale tremito di voce. "Non per causa vostra ... È il destino cosí. È forse meglio per me ... ." Rimasero un altro mezzo minuto l'uno in faccia all'altra senza poter parlare, egli combattendo una estrema e violenta battaglia colle sue lagrime, essa quasi stordita dal suo stesso non capire. Seguitava ad interrogare quel poverino cogli occhi grandi, incantati, senza un'idea chiara di quel che desiderasse sapere da lui, ma agitata da un senso misterioso di pietà e di paura. Demetrio con la faccia piú stravolta che rallegrata da un sorriso d'uomo malato, agitò ancora la mano nel vuoto, come se cercasse di ravvivare un discorso rimasto spezzato. "Che cosa avete, povero Demetrio?" A questa dimanda e piú che alle parole al suono intenerito della voce, come se tutta la vita gli rifluisse nel cuore, affascinato e tratto dalla sua stessa debolezza e da una vertigine soave, si abbandonò verso quella tenera compassione di donna, come un bambino impaurito, che corre a rifugiarsi nella gonna della madre. La stanza si riempí della luce ch'egli aveva negli occhi, in cui guizzavano le scintille del crepuscolo; la pregò ancora una volta, sigillando la bocca colle dita, di compatirlo, di andar via: la spinse anzi un poco verso la porta, allungando il braccio e la mano con cui teneva nervosamente stretta la piccola mano di lei, si attaccò, per non andare in terra, alla sponda della sedia, vi si rannicchiò, vi si rimpicciolí sopra, e gridando piú che pronunciando: "Andate via ... per carità ... " lasciò irrompere senza piú nessun freno quel torrente amaro di dolori, che lo rendevano cosí debole e vile. A uno scoppio cosí improvviso di lagrime, dalle quali usciva una confessione non meno impreveduta che imbarazzante, il volto di Beatrice si offuscò forse per la prima volta in vita sua di una nuvola di cupa tristezza. Sulle prime non osò credere; si sforzò anzi di non capire ciò che diventava sempre piú evidente, cioè che Demetrio l'amava. Si guardò intorno, come se cercasse di orizzontarsi in quel mondo di affezioni e di afflizioni nuove che il piangere di Demetrio andava suscitando vicino a lei. Si chinò un poco verso il meschino, provò a parlare, ma che cosa doveva dire? Avrebbe voluto che ciò non fosse, gliene rincresceva: che poteva fare lei? quando aveva dato un motivo a questo uomo di credere? All'urto di queste varie questioni, che balzavano e cozzavano nella sua testa, sentí anch'essa una gran voglia di piangere, come una fanciullina che, uscita troppo lontana da casa sua, si trova còlta dalla sera e comincia a temere di perdere la strada. Si sarebbe detto che la violenta necessità di non mostrarsi dura e cattiva coll'unico uomo che le aveva fatto tanto bene, spremesse quanto c'era di buono, di caritatevole, di delicato nel suo cuore. Provò un forte soffocamento di respiro, il petto le si gonfiò, il cuore cominciò a battere con immenso dolore, come se qualche cosa si rompesse in lei, come se in questo primo sforzo intelligente della sua vita, dalla bambola uscisse la donna. Certo qualche cosa di vivo e di caldo sgorgava da quel patimento. "Perdonatemi, Beatrice, sono malato, non so piú quello che mi dico e quello che mi faccio. Sono quattro mesi che soffro cosí, senza parlare mai con nessuno: e sarei partito cosí, senza piú vedervi, se voi non venivate quassú a cogliermi in un momento di malinconia." Demetrio parlava senza alzare la testa dalle mani. "Per amore dei vostri figliuoli, che ho amato come se fossero miei, non fate nessun conto delle mie parole, non dite niente, dimenticatevi anche voi ... Non ricordate se non quel po' di bene che ho voluto ai figli di Cesarino ... Andate via ... ." "Io non potrò mai dimenticare quello che avete fatto per me ... " provò a dire la donna, con una voce che risonò anche al suo orecchio in un tono piú caldo e diverso dal solito. "Avete detto bene: è il destino ... Abbiate pazienza, Demetrio." "Sí, sí, sí!" esclamò Demetrio, sollevando la testa e sporgendo sulla sedia le due mani giunte, come se volesse rinnovare una preghiera. "Sono uno sciocco ... lo so: addio, non vogliatemi male." E cercò di sorridere per togliere al discorso quanto vi poteva essere di penoso e d'imbarazzante per lei. "Abbiate pazienza ... " ripeté meccanicamente Beatrice, avviandosi verso l'uscio, tremando, stentando il passo, come se due forze contrarie si disputassero la sua pigra volontà. Sulla soglia si fermò, chinò la testa quasi contro lo stipite, soffrendo della sua ignoranza che non le suggeriva nulla da dire, nemmeno una parola di cortesia e di carità verso un uomo che aveva sacrificato tutto per lei, il suo pane, la sua pace, la sua libertà, il suo cuore, soffrendo in silenzio, senza chiedere mai nulla per sé. Si fece improvvisamente pallida ... Demetrio, accovacciato, piú che seduto sulla sedia, la contemplava coll'avidità con cui il morente segue l'ultima striscia di lume che tremola nella sua pupilla. Poi chinò un poco la testa. La credeva partita ... Beatrice, appoggiata colla mano all'uscio, si volse ancora una volta e con una voce ancora piú commossa esclamò: "Mi perdonate, Demetrio? vi ricorderete ancora dei miei figliuoli? volete che vi mandi Arabella? Il Signore compenserà le vostre buone intenzioni ... , fatevi coraggio: non datemi questo rimorso di sapere che, mentre io sono felice, voi soffrite tanto. Scrivete qualche volta e se possiamo fare qualche cosa per voi ... ." Di mano in mano che ella parlava, lasciando che le parole uscissero naturalmente, egli sentiva ritornare il calore della vita e il senso delle cose. Nella luce quasi estinta del crepuscolo, Demetrio vide avanzarsi di nuovo quella donna e sopraffarlo colla grandezza della di lei persona. Una mano si posava sulla sua testa, da cui scese un brivido a invadere il corpo. Sentí ancora un bisbiglio confuso di parole, e un'onda tiepida che lo travolgeva: e credette che fosse arrivato l'ultimo momento della vita. Quando si rivegliò, si trovò steso in terra ai piedi della sedia. Un raggio di luna, entrando dalla finestra aperta, disegnava sull'ammattonato i graticci delle gabbie vuote. Quando Beatrice venne via dalla casa di Demetrio era quasi buio, e, camminando tra la gente, si sentí come sola e perduta in una grande città. La scena straziante a cui aveva assistito, la miseria di quella stanza lassú, l'abbattimento fisico e morale del cognato, l'idea del castigo che, per cagion sua, se non proprio per colpa sua, cadeva addosso al povero disgraziato, la paura che Paolino tirasse da tutto ciò un pretesto per non mantenere la sua promessa e la lasciasse sulla strada, lei e i figliuoli, questi furono gli spaventi che l'accompagnarono a casa. Una volta arrivata e chiusa dentro, sentí anche lassú il doloroso silenzio d'una casa abbandonata che si sfascia. Della poca roba salvata dalle mani dei creditori, parte era andata alle Cascine, parte giaceva in disordine accatastata ai muri. Di intatto non rimanevano che la stanza da letto, dove avrebbe dormito forse per l'ultima volta in compagnia di Arabella, che, finiti gli esami, doveva seguire la mamma a Chiaravalle. La ragazza, che in questo matrimonio della mamma rappresentava una parte passiva di silenziosa protesta, andava cercando una scusa per rimanere a Milano presso i Grissini, o in collegio presso le monache, che d'estate conducono le allieve al mare. Ma il signor Paolino si lamentava già della mancanza della figliuola, e non era il momento di disgustarlo anche in una piccola cosa. Che brutta notte passò per l'ultima volta nel suo letto grande la vedova! Arabella, quantunque provasse un piccolo brivido nelle ossa, quando entrò a occupare il posto del suo povero papà, tuttavia, vinta dal sonno facile della sua età, verso le undici si addormentò. Ma la mamma contò tutte le ore e tutti i quarti senza poter raccogliere un'ombra di sonno. Troppe cose uscivano dal cuore, come il sangue cola da una fresca ferita. Ma piú ancora che il cuore, la testa andava mulinando e annaspando pensieri sopra pensieri, reminiscenze, casi sopra casi, immagini scomparse da un pezzo, risuscitando morti e vivi, avvicinando le cose piú secondarie, con tal precipizio, che piú di una volta si sollevò dal cuscino e si passò la mano sulla fronte. Quella testa, cosí poco abituata a riflettere, soffriva sotto la matassa delle cose che il destino le imponeva di dipanare. Ella lesse e rilesse, si può dire da capo, tutto il libro della sua vita. Si rivide fanciulla in collegio a Lodi, presso le Dame inglesi, non fra le prime, e nemmeno fra le ultime della sua classe; da Lodi tornò a Melegnano ancora a tempo per godere gli ultimi raggi della fortuna di suo padre; fu per alcuni anni una corte bandita. Prima che venissero i giorni tristi, eccola a Milano a braccio di Cesarino. Il suo noviziato di sposa fu pieno di care novità e di dolci sorprese. Cesarino, quantunque facile a irritarsi e di gusti difficili, non aveva mai risparmiato sacrifici, perché sua moglie facesse una buona figura nella società. Agli anni felici erano seguiti i mesi della espiazione. Ricordò il primo incontro con Demetrio, il piangere, il soffrire ch'ella aveva fatto sotto il suo bastone. In casa era la miseria e la fame; di fuori il fallimento di suo padre, l'insidia dei protettori, le trappole delle false amiche. Essa aveva vissuto piú in quei pochi mesi che in tutti gli anni prima. Ed ora, mentre stava per tirare il fiato e ricomporre la sua fortuna, ecco una nuova tribolazione. Quantunque Paolino parlasse soltanto del braccialetto e del cavaliere, era evidente che il contegno scontroso e freddo del cugino aveva fatto nascere in lui il sospetto che anche Demetrio avesse del fuoco al cuore. Forse tra lor due s'erano già dette delle parole vive, e nulla era di piú naturale che Paolino s'ingelosisse e mandasse a monte il matrimonio. Ella dunque era chiamata a scegliere tra questi due uomini, ossia non era piú nemmeno il caso di scegliere. Il suo destino non poteva essere che uno solo, quello di salvare un pane ai suoi figliuoli. Era dover suo di dimostrare a Paolino che mai aveva pensato a Demetrio, che nessuno gli era stato al mondo piú antipatico e piú odioso ... In questa lotta di due uomini, per non dire di due ombre, si mescolava nei brevi sopori della fantasia un'altra ombra, quella di Cesarino, che pareva quasi contento che tutto andasse a monte senza che Beatrice, immersa nel superficiale dormiveglia delle ore mattutine, potesse afferrarne il motivo. Sentí Arabella che parlava in sogno. Suonavano in quella tre ore a San Lorenzo. La bambina, che si era addormentata sopra una paurosa sensazione, e che continuava anch'essa ne' suoi sogni a leggere il piccolo libro della sua vita, a un certo punto balzò a sedere sul letto, esterrefatta, e gridò: "No, papà, no, papà ... Mandate via quel cane ... Mandate via quel cane ... ." "Arabella, che hai? che cosa dici?" dimandò la mamma, balzando anch'essa a sedere sul letto, stringendo la ragazza nelle braccia. Questa si lasciò prendere e cercò un rifugio nel seno della mamma. I cuori di quelle due donne battevano e balzavano insieme sotto i colpi della paura. Rimasero abbracciate fino alla mattina, tremando insieme e sospirando lo spuntar del dí. Beatrice pensò che gli spaventi d’Arabella derivassero da qualche bisogno che la pover'anima del suo Cesarino avesse nel mondo di là, e invitò la figliuola a togliersi subito dalle lenzuola per andare insieme fino al cimitero a pregare e a salutare ancora una volta il papà prima di lasciar Milano. Demetrio aveva fatto porre un piccolo sasso sulla fossa, approfittando di quello stesso che era servito per papà Vincenzo e che, passato il termine decennale, egli avrebbe dovuto rimettere pagando di nuovo il posto. Nel bisogno di fare qualche economia, sperò che il buon vecchio non se ne avrebbe avuto a male, e fece collocare la pietra con le altre parole sulla fossa del suo figliuolo prediletto, compiendo cosí quell'opera di misericordia e di perdono, che era cominciata per lui quasi trent'anni prima. Le due donne stavano ancora vestendosi, quando una forte scampanellata le fece trasalire. Chi poteva essere a quell'ora? Beatrice si fece il segno della croce e andò a dimandare all'uscio. "Sono io, il Berretta ... " disse la nota voce del portinaio. "Che cosa c'è?" dimandò aprendo la porta. "M'avete fatto un tal spavento!" "C'è abbasso un signore che desidera parlare a lei, sora Beatrice." "Un signore? non vi ha detto il suo nome?" "No, o forse non ho capito." "Non lo conoscete?" "Non mi è faccia nuova: pare un po' esaltato. Gli deve essere accaduta una disgrazia…" "Ditegli che veniamo subito abbasso ... " soggiunse Beatrice con un tremito nella voce. S'era ridotta quasi ad aver paura dell'aria e andò a immaginare che fosse qualche altra disgrazia. Quand'ebbero finito di vestirsi, madre e figlia discesero quelle benedette scale, forse per l'ultima volta. Arabella pareva una candela. Sotto il portico, a’ piedi dei gradini, passeggiava un signore grasso, che, al veder la signora Pianelli, le andò incontro colla furia d'un uomo disperato. Beatrice riconobbe in lui il signor Melchisedecco Pardi, il marito della bella Palmira, e capí dalla sua faccia smorta e stravolta che aveva poco dormito anche lui. Anche lui, come Demetrio Pianelli, come Paolino delle Cascine, era un'anima in pena per grazia di una donna, perché questi benedetti uomini, grandi e grossi, che sembrano a vederli i padroni del mondo, basta toccarli con un dito sul cuore e si smontano come le macchinette. I coniugi Pardi stavano una mattina facendo colazione, quando la donna di servizio consegnò alla signora una lettera arrivata allora allora dalla posta. Le lettere, lo ricordiamo, da qualche tempo in qua erano diventate gli spauracchi del signor Melchisedecco, il quale, sebbene, dopo la scena che abbiamo visto, non avesse piú motivo di lagnarsi di sua moglie, pure non poté nascondere un certo cipiglio, intanto che Palmira dava un'occhiata alla soprascritta. Ma questa volta fu un cipiglio inutile. Palmira, spinta la lettera verso di lui, cosí come era arrivata in tavola, gli disse: "Leggi tu." Secco, un po' mortificato d'essersi lasciato cogliere in diffidenza e in gelosia, crollò il testone, alzò le spalle e mormorò, mentre ripuliva il piatto con una mollica di pane: "Che bisogno?" "No, leggi. Dici sempre che io sono la donna dei misteri ... ." "Che cosa ho detto?" "Non è necessario parlare. Apri, guarda dunque." "Se è per capriccio tuo ... ." Il buon Pardone confuso e quasi commosso per questo straordinario attestato di confidenza, aprí la lettera, che veniva da Milano, mentre cogli occhi buoni carezzava quella sua cara traditora. "È la signora Pianelli che ti scrive" disse, dopo aver scorsa superficialmente la lettera. "Oh!" fece Palmira senza alzare gli occhi dal piatto con un tono di freddezza glaciale. "Che cosa vuole la signora delle Cascine?" "T'invita al suo matrimonio per giovedí mattina." "Che onore!" declamò Palmira, corrugando la fronte in uno sforzo come di concentrazione, che ella procurò di nascondere con un altro sforzo dei muscoli, mentre cercava di schiacciare nei palmi una noce contro un'altra. "Se accetti, dice che manderà la carrozza a prenderti mercoledí sera, perché tu possa assistere alle presentazioni e a un piccolo trattenimento ... ." "Anche la carrozza! vuol proprio farmi morire d'invidia! Conosci tu il suo Paolino?" "Non ho questo bene." "Una pertica con in cima un gran pomo d'Adamo." Palmira rise ella per la prima d'una ilarità sfrenata ed eccessiva, sforzandosi di coprire un altro movimento del cuore e seguitò: "Per sposare di questi lampioni non vale la spesa di andare fuori del dazio. Di lampioni è pieno Milano." Secco rise lui di gusto questa volta alla pittura del sor Paolino, e in cuor suo si consolò d'essere qualche cosa di piú d'un lampione. Lo spirito mordace e pittoresco di Palmira aveva sempre avuto il merito di piacere al buon fabbricante di nastri, sorto anche lui dal popolo, a cui piacciono i paragoni semplici e coloriti. Confrontando in mente la bella e pacifica signora Pianelli, che egli aveva conosciuto a Cernobbio e alle feste del Circolo Monsù Travet , nella sua beata e pacifica compostezza, colla sua faccia rotonda di bambocciona, a quest'altra donnina magra e spiritosa, che rosicchiava davanti a lui un amaretto con una delicata nervosità, il buon Pardone non poté a meno di fare anche lui il suo paragone. "Non basta" pensò "che una donna sia bella e prosperosa come una gallina. La bellezza va e viene e, in quanto a peso, vale di piú un cannone. Ciò che dà vita e illuminazione a una donna è lo spirito. Una donna senza spirito" seguitò nella sua pigra fantasia di buon ambrosiano, "è come un caffè buono, ma freddo." Secco non sarebbe stato capace di mettere in carta queste idee, ma le espresse cogli occhi, con cui avvolse teneramente la sua cara traditora, soffiando il ridere dalle ganasce gonfie, mentre ripensava al paragone della pertica con in cima un pomo d'Adamo. "Che ne dici, dunque? debbo accettare?" "Direi di sí. Se t'invita è segno che ha gusto d'avere anche te." "Non ne ho nessuna voglia" soggiunse Palmira, continuando a schiacciar noci, senza far altro che tormentare la pelle delicata delle sue manine da contessa. Ma forse aveva bisogno di quel tormento fisico per schiacciarvi dentro un pensiero piú duro e piú aspro. "Se non c'è motivo, non bisogna mai disgustare la gente" raccomandò il buon negoziante, rompendo con un colpo solo delle sue mani grassoccie e forti due belle noci, che mise in venti frantumi sul piatto di Palmira. "Non ho nemmeno un vestito adatto" seguitò a dire Palmira, come se si compiacesse di porre degli ostacoli ai propri passi. "Per questo siamo in un Milano ... ." In questi discorsi la colazione finí. Secco si alzò, accese una grossa pipa di ciliegio e andò in fabbrica, in mezzo al movimento de' suoi duecento telai, che mandavano un chiasso di cento pettegole. Quando l'uscio fu chiuso sull'onda sonora che entrò a invadere il salotto, Palmira afferrò con furia la lettera rimasta aperta sulla tavola, la scorse in furia con uno sguardo freddo e lucente, mordendosi le labbra sottili, avvicinò le prime e le ultime parole di ogni riga, traendone un senso che era sfuggito al suo segretario; si contorse quasi su se stessa come una foglia secca, e mormorò qualche cosa, che andò a morire negli abissi imperscrutabili della sua coscienza di donna vana e capricciosa. Si alzò, accese una sigaretta e, tolto dal caminetto un giornale di mode, andò a rannicchiarsi in una poltroncina posta sotto la finestra che dà sul Naviglio, cogli occhi apparentemente fissi alle belle signore del figurino, ma in realtà perduti in una contemplazione lontana molto piú bella e affascinante. Dalla fabbrica arrivava ancora fino a lei, per quanto smorzato, il continuo tric-trac, che assordava, intontiva le orecchie e l'anima, e sul quale tesseva anch'essa le sue giornate tutte d'un colore, trascinandosi dietro la vita lunga ed uguale come un nastro ordinario, senza una emozione, tediata, piena, gonfia della sua stessa fortuna di agiata borghese, sempre in lotta o colla tenera bontà di suo marito, o colle tentazioni de' suoi pensieri. Era piú felice forse quando lavorava di là, in fabbrica, e che poteva almeno sfogare l'umore, tirando uno zoccolo nella schiena a qualcuno. Per quanto non invidiasse né il temperamento, né il "lasciatemi stare" di Beatrice, per quanto non credesse alle sue massime di donna pacifica, doveva però confessare, con un piccolo risentimento d'invidia, che quella bambocciona era piú fortunata di lei. Anche un Paolino qualunque, che abbia cavalli, carrozza, una stalla piena, tre o quattro cascine popolate di oche e di galline, è qualche cosa di piú allegro e di piú vario che il passare la vita in una vecchia e quasi lurida casa del Terraggio, colla prospettiva del Naviglio melmoso, che manda su ogni sorta di malanni, nel perpetuo stordimento di una fabbrica che fila nastri e noia, noia e nastri. Quel che rispondesse a Beatrice non si sa: sembra però che vincessero la tentazione, il capriccio e la curiosità, perché il mercoledí, un'ora prima di sera, una carrozza di tipo campagnuolo, a due cavalli, si arrestò davanti alla fabbrica del signor Melchisedecco Pardi. Palmira partí sola alla volta delle Cascine. Secco arrivò appena a tempo per sporgere il capo dalla finestra dello studio e a gridare: "I miei complimenti; portami i confetti." La sera andò a far la solita partita a tresette ai Tre Scanni ed ebbe un monte di carte belle. In una mano sola accusò undici punti, e due volte di seguito i tre assi. "Caro lei, lo faccio arrestare" saltò su a dire il signor delegato Broglio, della vicina Sezione di Sicurezza, che non mancava mai al solito tavolino. "Questo si chiama rubare e non vincere. Faccio presto, sa: ho le mie guardie in via Lanzone e lo butto in cella a passare la notte." "Allora sí, povera signora Palmira ... " disse il compagno che vinceva col fortunato mortale. Secco rideva, soffiando la contentezza dalle gote gonfie, e picchiando con tremendi colpi le carte sul tappeto verde. "Fortunato nel giuoco, sfortunato in amore." "Tre assi ... " accusò per la terza volta il signor Pardi, chiudendo gli occhi e appoggiandosi coi gomiti grassi alla tavola per ridere in equilibrio. Il delegato, che perdeva già la terza partita, mormorò: "Tre assassini!" e, volgendosi al ragazzo dell'osteria, gli disse: "Guarda se c'è un agente lí di fuori ... ." Il Pardi tornò a casa piú tardi e piú caldo del solito. Entrò nell'andito buio al lume di un cerino e prese le lettere, che trovò nella cassetta ai piedi della scala. La donna di servizio uscí col lume e, mormorata la buona notte, se ne andò, lasciandolo solo nella deserta camera nuziale. Al di sotto della calda allegria che suscitava il Valpolicella dei Tre Scanni , la vista di quel letto vuoto a man sinistra destò uno strano sentimento o presentimento di malinconia, come se Palmira non fosse andata per un giorno a divertirsi a uno sposalizio, ma gliela avessero portata via morta. Era anche questo un effetto del bicchiere, che eccitava in quel buon uomo linfatico e grasso i pensieri patetici, che fanno piangere, mentre gli altri ridono e cantano volentieri quando li rischiara un po' di lumen luminis . Fece passare alcune lettere; buttò in disparte le solite fatture, gli avvisi commerciali, e si fermò a contemplare una piccola busta, attratto da una scrittura grossa a spina di pesce, che gli parve di riconoscere. Stando in piedi col cappello tondo quasi sugli occhi, il sigaro spento in bocca e il bastone sotto il braccio, ruppe la carta e lesse su un biglietto di visita del cavalier Lanzetti le seguenti parole: "Dimani scade la nostra cambiale; non si potrebbe rinnovarla? Gli affari sono stagnanti, e m'è mancato anche il baritono. Potrei intanto offrirle un palco per tutta la stagione." E piú sotto, conficcato nel piccolo angolo rimasto libero: "Per sua norma, Altamura è a Milano già da una settimana. L'ho saputo soltanto ieri." Tornò a leggere da capo: "Dimani scade la nostra cambiale, ecc.." E piú sotto: "Per sua norma, Altamura ... ." Gli occhi del signor Pardi si sollevarono e andarono a guardare, senza fermarsi troppo, il posto del letto a mano sinistra. Collocò il bastone sulla tavola, vi pose sopra il cappello, e data una rapida e paurosa occhiata alla porta, tornò a leggere la terza volta il biglietto, avvicinandolo piú che poté alla fiamma della candela. Lo buttò sulla tavola con una espressione di schifo. Era una trappola: ci voleva poco a capirla. L'egregio cavalier Lanzetti — oggi sono cavalieri anche gl’impresari e i suggeritori — avendo bisogno estremo che la cambiale fosse rinnovata, cercava di farsi dei meriti, inventando un Altamura a Milano, mentre Altamura cantava a Madrid, e la Gazzetta dei Teatri annunciava la sua prossima partenza per Montevideo. "Un cantante che fa la stagione a Madrid non passa da Milano per andare in America, caro signor cavaliere dalle cambiali insolvibili. Sarà per un'altra volta. Io ti posso regalare anche tre cambiali, ma non voglio che tu mi creda cosí gambero da bevere ... da ritenere che il signor Altamura è a Milano già da una settimana ... ." Il Pardi rideva con sé stesso, movendo tre o quattro passi nella stanza, fermandosi a rimirare con attonita attenzione la gamba di una sedia, stringendo nelle dita in un fascetto solo i peli dei baffi e del piccolo pizzo di barba; poi girava sui tacchi, dava un'altra occhiata di volo al letto ... Palmira non era quasi mai uscita di casa tutto quel tempo. Da qualche mese in qua si mostrava docile, discreta, savia, tollerante. Lettere non ne riceveva piú, e nemmeno giornali, dopo la gran burrasca di quel giorno che l'aveva còlta sulla porta della Posta. Essa non voleva nemmeno andare alle Cascine, al matrimonio della signora Pianelli, per non fare la spesa di un vestito nuovo: era stato lui a cacciarla via, perché prendesse una boccata d'aria, povera diavola ... Stava ancora concludendo il suo ragionamento che già la mano aveva aperto, operando per conto suo, un cassettone, in alto, dove Palmira teneva i fazzoletti, le gioie d'uso, le lettere, il borsellino. Quando si accorse di commettere una stupida ed inutile indiscrezione, spinse e chiuse con violenza, intascando sbadatamente la chiave. Non era il caso di credere che prima di andare alle Cascine, Palmira avesse a incontrarsi con ... qualcuno. Impossibile. Come poteva sapere questo qualcuno che il matrimonio della signora Pianelli era fissato pel giovedí mattina, e che il signor Paolino avrebbe mandata la carrozza a prendere Palmira il mercoledí? Ad ogni modo bisognava sempre supporre che Altamura fosse a Milano, mentre la Gazzetta dei Teatri dava per certo che egli aveva accettata una scrittura per l'America del Sud, dove i mariti non fanno complimenti e piantano fior di coltelli nel cuore ai Trovatori . Che diavolo gli passava mai per il capo? Ecco in qual maniera un uomo può esser felice per tre assi a tresette, e cinque minuti dopo diventare il piú disperato degli uomini per l'ombra di un'idea. Frugando nelle tasche della giacca, per una morbosa inquietudine e quasi curiosità delle mani, vi trovò una chiavetta. Da qual parte questa chiave? Non si ricordava già piú. Stette a guardarla con grossi sopracigli, finché gli venne in mente ch'era la chiave del cassettone. Aprí di nuovo il cassetto in alto, cercò, frugò, trovò una lettera, corse presso la candela. Era la lettera della signora Beatrice ch'egli aveva aperta e letta a Palmira, un gentile invito e non altro, a meno di credere che anche Altamura fosse stato invitato alle Cascine ... Ma se Altamura non era a Milano, non poteva essere nemmeno alle Cascine. Se era in America, non poteva essere in Italia. È vero che per poter dire che un uomo canta in America bisognerebbe essere là a sentirlo, ma d'altra parte, per credere la metà di quel che gli passava per il capo, bisognerebbe ammettere che l'uomo è una bestia feroce, e la donna la madre delle bestie feroci, che il mondo è una tana di tradimenti, che non c'è piú né legge, né fede, e che gli assassini di strada sono i piú galantuomini, perché almeno mettono a rischio la pelle. In queste riflessioni spasmodiche, colle quali il povero geloso procurava di assopire i suoi sospetti, cominciò a svestirsi. Si levò la giacca, che appese al solito chiodo, e caricò l'orologio. Portò l'orologio all'orecchio per sentirne i battiti: lanciò uno sguardo disperato all'altra parte del letto. Era mezzanotte. Palmira doveva essere arrivata da cinque ore almeno alle Cascine. Finite le presentazioni e il trattamento dell'acqua dolce, a quest'ora forse dormiva insieme alla sposa ... Coll'orologio in mano, cogli occhi fissi al quadrante, col panciotto slacciato sul petto, il Pardi seguiva ansiosamente il movimento quasi invisibile dell'indice, come un dottore che conta i battiti di un moribondo. Se fosse stato sicuro di poter trovare il Lanzetti al Biffi, dove andava di solito, sarebbe uscito a cercarlo. Non era ancora deciso se uscir di casa, o se buttarsi a dormire in santa pace, che, rimessa la giacca e col cappello sugli occhi, passava in fabbrica a far qualche cosa per ingannare il tempo. Non si dorme con un ferro rovente che t'infila il cuore. Entrato nel vasto camerone, dove stavano schierati in due grossi corpi i suoi duecento telai con una stretta corsía nel mezzo, ombre grandi e grottesche svolazzarono su per i muri al passare della candela. A mezzo della corsía, che metteva al bugigattolo dello studio, si fermò, e, premendo coll'unghia l'orlo e le croste della candela, tornò a rifare il suo ragionamento, mescolandovi ancora la geografia, la Gazzetta dei Teatri e la probabilità che il mondo sia una tana di ladri e di assassini. La testa, ridiventando pesante, piombava di nuovo sul petto, e nell'ombra della notte, nella fredda e livida compagine de' suoi duecento telai che l'avviluppavano come in una rete dura di ferro e di nodi scorsoi, un'accusa cupa e solenne, sviluppandosi dal fondo piú cieco della sua vita, saliva con un gran turbamento del sangue fino alla sede del pensiero. Che fossero già d'accordo? Che si trovassero già abbracciati in un sicuro nascondiglio? Si può diventare ubbriachi pel sangue che va alla testa. L'alba trovò il signor Pardi curvo sui mastri e sul libro campionario, assopito, piú che addormentato, in una dolorosa stanchezza, col corpo mezzo intirizzito dal fresco delle ore mattutine. Alzò la testa. Se avesse potuto guardarsi in uno specchio e vedere il colorito scialbo, i capelli duri e arruffati, l'occhio cinericcio e spento, avrebbe creduto d'essere molto malato. Tuttavia la luce chiara e onesta del sole che entrava rubicondo per le sei grandi finestre, sbattendo sui congegni bruniti dei cilindri e dei pettini, dissipò molti dei fantasmi che lo avevano assalito la notte. Rilesse ancora una volta il biglietto del cavalier Lanzetti, cercò e ritrovò nel cassetto segreto della scrivania la raccolta della Gazzetta dei Teatri , ch'egli leggeva attentamente dal marzo in poi, interessandosi al movimento di tutto il personale mimico-lirico- danzante del paese, e ritrovò facilmente una notizia, già segnata con matita rossa, che diceva: "Il celebre Altamura accettò per l'agosto un lauto impegno al teatro dell' Opera di Montevideo, dove l'esimio artista ha lasciato indimenticabili impressioni nell'intelligente colonia dei nostri connazionali. Auguriamo al nostro illustre amico larga messe di allori e di pesetas ." "Anch'io" mormorò il Pardi, associandosi di cuore all'augurio. "Ecco la prova stampata della bugia che farò scontare al cento per cento al signor Lanzetti." Intascò il giornale, accese il sigaro, che gli teneva alla mattina il posto del caffè nero, e, mentre le operaie cominciavano a entrare in fabbrica, uscí coll'intenzione di trovare in qualche buco l'impresario e di farsi spiegare l'intreccio di quest'opera buffa. Non erano ancora sonate le sette, quando, venendo per la via stretta di San Simone, nella corrente rumorosa dei muratori e degli operai, che ogni mattina inondano Milano, sbucò nel largo crocevia del Carrobio, già vivo e agitato come deve essere il cuore di una città grande piena di affari e di interessi, che non ha troppo tempo per dormire. Sapeva che i Pianelli abitavano in Carrobio, anzi si ricordò d'aver veduto Palmira uscire da una porta presso il droghiere, quel giorno che i coniugi Pardi s'erano trovati col tempo in burrasca, seduti, l'uno in faccia all'altra, nel medesimo tramvai. I piedi, che non sempre ragionano male come il cervello procura di far credere, ve lo portarono diritto. "Abitano qui i signori Pianelli?" chiese al portinaio. "Abitavano" rispose il Berretta, tenendo sollevata una scopa in mano come un campanello. "Però c'è la signora Beatrice. In quanto al signor Cesarino, saprà bene che ... ." "La signora è in campagna?" "Oggi è a Milano. È arrivata ieri a prendere la figliuola che deve fare gli esami." "Ieri, va bene: ed è partita" seguitò a dire il Pardi, sforzandosi di correggere gli spropositi di fatto che diceva il sarto. "No, no, è a Milano" confermò il Berretta. "Ha qui ancora quasi tutta la roba." "Che c'entra? deve sposarsi stamattina." "Ah ... io non so." "Insomma, c'è o non c'è?" "Chi?" domandò il Berretta, che si lasciava stordire per poco, sollevando gli occhi in faccia a questo signore grasso, che pareva in collera. "Avete detto che la signora Pianelli è a Milano" riprese a dire il signor Pardi colla pazienza di un professore, che torna a spiegare un problema astruso. "Sí, diavolo! le ho portata ieri sera l'acqua per lavarsi la faccia." "Fate il piacere di andar su e ditele ... " il Pardi pescò nel taschino del panciotto quei cinque soldi che occorrono per far correre un uomo "ditele che c'è un signore che desidera parlar con lei subito subito." "Vado in un momento." Secco si lasciò cadere coll'abbandono pesante dell'uomo stanco su di una sedia e si appoggiò al tavolo, in mezzo ai ritagli e alle filaccie, nella luce miope e sonnolenta che mandano a Milano le finestre dei portinai, senza pensar nulla di preciso, ma ripetendo solo con una espressione sforzata e quasi di sprezzo: "fare gli esami!" frase che, caduta come un ciottoletto negli addentellati dei suoi discorsi interni, urtava e guastava il meccanismo del raziocinio. Il Berretta tornò a dire che la signora Beatrice, dovendo uscire per alcune spese, sarebbe venuta dabbasso tra cinque minuti. Il Pardi non rispose, e dopo aver guardato il portinaio con un'aria di compatimento, come se il Berretta non sapesse quel che veniva a contare, si raccolse, si appoggiò colle braccia sui ginocchi e procurò di non pensar piú nulla, finché non fosse uscita questa signora Beatrice. Avesse dovuto aspettare non cinque minuti, ma cinquanta secoli, non sarebbe uscito di lí senza aver parlato coll'amabile sposina. Il portinaio venne a contare delle storie in cui entrava ancora Cesarino, il solaio, la trave, la mano ... che so io? tutte parole che non arrivavano fino alle orecchie di quell'uomo immerso fino ai capelli in una profonda oscurità, e che sentiva sé stesso come un sacco imbottito di stoppa. Di fuori il Carrobio mandava i suoi gridi, i suoi strepiti, i suoi rombi di carri pesanti, accalorandosi nella vita crescente della giornata. Dalla porta entravano e uscivano uomini, donne, ragazzi. Chi consegnò una chiave, chi ritirò una lettera, una donnicciuola in cuffia si lamentò del gatto, che andava sempre davanti al suo uscio ... che era una sporcizia. Un fornaio lasciò tre panini sul tavolo del sarto e se ne andò urtando nei vetri col cavagno. Nella corte strideva a brevi intervalli il manubrio della pompa, con un tonfo di roba pesante; risonavano voci di donne, piagnistei di bambini ... Tutti questi particolari, occuparono, distrassero un momento la sua attenzione durante il buon quarto d'ora che la signora Pianelli si fece aspettare. Erano sottili ricami sopra un fondaccio senza colore. La vita esterna arrivava onda morta fino al suo capo, ma non aveva la forza d'entrarvi. Se avessero gridato al fuoco, se la casa fosse crollata alle sue spalle, il signor Pardi non si sarebbe mosso di lí prima d'aver veduto e parlato colla signora Pianelli. Se essa era arrivata il giorno prima a Milano, come poteva aver invitato Palmira a prender parte alle presentazioni di famiglia? Che il matrimonio fosse andato a monte? "È qui" disse finalmente il Berretta, che stava in sentinella per farsi vedere degno dei suoi cinque soldi. Il Pardi si alzò di scatto e corse a incontrarla ai piedi della scala. Lo spingeva un'ultima speranza: che non fosse lei. Beatrice Pianelli, pallida, un po' abbattuta in viso, scendeva col suo passo tranquillo, tenendo raccolto un lembo del vestito. "È lei?" esclamò colla sua voce chiara e armoniosa. "Se mi avesse detto il nome ... Mi rincresce di averla fatta aspettare." Pardi salí un gradino e le si collocò davanti col pugno stretto, come se si preparasse a una lotta, tremando visibilmente in tutto il corpo, e pure sforzandosi di mostrarsi educato e gentile in mezzo agli aculei della sua sofferenza. "Scusi: Palmira ... ." "Che cosa?" "Non è qui?" "No" rispose Beatrice con candore. "Non è oggi il giorno che lei deve sposarsi?" "No" essa tornò a dire con semplicità, con una nota cantata. "Ma allora ... ." Si dominò. Voltò la testa indietro verso la corte per dar tempo al respiro, alzò una mano mezza chiusa, come se volesse continuare un'argomentazione impossibile. "Difatti il matrimonio si doveva fare in agosto, e se era possibile anche in fin di luglio. Ma non fu possibile, perché c'è un articolo di legge che lo impedisce." "Ah! un articolo di legge ... " ridisse il Pardi adoperando la frase già fatta, tanto per dire qualche cosa, e per tenere avviato il discorso, per non lasciarla scappare quella donna, volendo sapere da lei il resto, e non trovando in tutto il suo vocabolario, in quel momento, due altre parole per tirare innanzi la conversazione. "Scusi ... , lei non ha scritto la settimana scorsa a Palmira una lettera?" "No." "Ma sí!" gridò il Pardi, agitando e allungando la mano verso Beatrice. "Non si ricorda piú." "Che lettera?" "L'ho vista, l'ho letta io ... una lettera ... ." Beatrice raccolse il pensiero a riflettere. "Una lettera con cui lei invitava Palmira alle Cascine ad assistere al suo matrimonio per stamattina." "Non è possibile, caro lei." "Ah! non è possibile?" Secco, come se le forze lo abbandonassero del tutto, discese all'indietro il gradino e piombò sulle gambe, alzando le braccia grosse, congiungendo i due pugni collo sforzo di chi si attacca a una gronda e fa leva sui muscoli per non cadere dall'altezza di un tetto. Beatrice, non ancora vicina all'idea che dava al signor Pardi un'aria cosí stravolta, lo interrogò cogli occhi curiosi. Non era possibile ch'ella avesse invitato Palmira, l'amabile, la maligna, l'invidiosa Palmira, a una festa di famiglia. "Però" prese a dire il Pardi con l'affanno di chi ha lo stomaco rotto dalla nausea, "però ella ha mandato una carrozza a prenderla ... ." "Quando?" "Ieri, ieri sera. Oh, per Dio, l'ho vista io ... ." Il Pardi s'infuriò contro quella stupida donna, che non capiva nulla, e che stava ad osservarlo con gli occhi d'una bambola. Beatrice s'impaurí, entrò nell'idea, capí che Palmira ne aveva fatta una delle sue, divenne smorta, balbettò qualche parola a fior di labbra, e finí col dire: "Scusi, io non so proprio niente ... ." "Mi perdoni ... " disse il Pardi, allentando a poco a poco le braccia e chinando la testa sul petto, piegando il collo robusto e le larghe spalle al peso enorme che scendeva lentamente a comprimerlo. "Mi perdoni ... " balbettò. Colla mano irritata tastò qua e là sul corpo, finché trovò la tasca del fazzoletto, lo strappò fuori, lo strinse nel pugno come un cencio, lo compresse due volte nell'angolo degli occhi, schiacciandolo poi sulla bocca quasi per strozzarvi un grido, e, tirandosi ancora un passo indietro per lasciar passare Beatrice, tornò a dire: "Mi scusi tanto ... ." Beatrice discese gli ultimi gradini, e nel passar davanti a quell'uomo, che pareva fulminato, lo guardò con un senso di sincera e paurosa compassione. Avrebbe voluto salvare Palmira o la buona fede di suo marito. Ma per la seconda volta in poche ore si vergognò della sua povertà di spirito. Si sentí incapace, troppo ignorante delle battaglie della vita. Fece un piccolo saluto colla testa, scappò piú che non uscisse sulla strada, e col cuore pieno di dolori e di spaventi si mescolò al vivo movimento della città, che copre col suo frastuono le piccole e le grandi tragedie degli uomini. Arabella l'accompagnava in silenzio. Il cuore della fanciulla, ancora pieno delle brutte visioni della notte, non pigliava parte alla vita esteriore della città, che essa traversò come un'ombra sdegnosa e corrucciata. Il matrimonio della mamma, quel dover accettare, tacendo, un destino cosí contrario alle sue previsioni, e, oltre a questo, un senso confuso, dirò cosí, di gelosia che nasceva in lei col pensiero del suo povero papà, misto a un altro senso di ripugnanza e di antipatia per un uomo che doveva benedire come un benefattore, tutto ciò la rendeva triste d'una malinconia taciturna e irritata, che rendeva alla sua volta taciturna e irritata la mamma. Non si scambiarono quattro parole, cammin facendo: e tra una parola e l'altra ciascuna passò una fitta matassa di pensieri, che si attaccavano al passato e all'avvenire, ai vivi e ai morti, che sono la storia sacra dell'anima nostra. Una volta sola la ragazza uscí a dire improvvisamente, come conclusione di una riflessione compiutasi nella sua testa: "Di', mamma, se tu sposi il signor Paolino, non potrei io restare collo zio Demetrio?" La mamma non rispose nulla, ma di lí a un poco le si gonfiarono di lagrime gli occhi. Giunsero cosí al cimitero. Arabella, già pratica del sito, ritrovò subito il piccolo monumento. Mentre la mamma, inginocchiata sulla terra sabbiosa del viale, sfogava il suo pianto nelle mani giunte, Arabella perdevasi lontano cogli occhi verso un cielo lontano, che andava coprendosi di nuvoloni bianchi di temporale. Il soffio fresco che mandavano quelle nuvole dissipò a poco a poco come dolce lavacro quell'ultima nebbia di sogni cattivi che era negli occhi, e la compassione amorevole, la compassione che scalda il cuore e che fonde tutto, la trasse piú vicina alla sua mamma, che poco fa aveva conturbata colle sue parole. Pensò che la poverina non sapeva ancora com'era morto il papà e perché avesse voluto morire cosí: e in questa sua coscienza sentí su quella donna inginocchiata a' suoi piedi una superiorità morale, quasi una forza fisica di consolarla, di dominarla. Si accostò, le prese la testa tra le mani, la baciò sui capelli, col fazzolettino aiutò ad asciugare le molte lagrime che le bagnavano il viso, ma senza piangere essa, senza parlare. E rimase cosí un quarto d'ora, nel silenzioso e lento abbandono del dolore che non pensa, nell'aspro ed energico godimento della vita che soffre. Si mossero piú consolate e piú in pace. Nell'uscire, quando furono sul ponticello che traversa il canale, un uomo mal vestito, consunto dalla miseria, stese il cappello, supplicando con una nenia, in cui le parole si spezzavano come singhiozzi. Sui piedi trascinava due scarpe non sue, color della polvere, rigide nelle rughe e nelle infossature, sulle quali cascavano a brandelli certi calzoni flosci, mal sostenuti da un corpo sconnesso e febbricitante. Era il maestro Bonfanti. Un'altra malattia gli aveva dato l'ultimo colpo. Tocco da paralisi nelle dita e nella lingua, egli non poteva piú né sonare, né cantare, e tanto per trascinarsi vivo alla sepoltura, stendeva il cappello ai passanti, sulla porta dei cimiteri, scrollando la sua febbre intermittente, sonnecchiando tra un'Avemaria e l'altra sulle sue artistiche reminiscenze. A quell'uomo, che aveva sempre tenuta alta la bandiera del classicismo, discepolo del Pollini, quasi amico del Thalberg, non restava nemmeno la forza di lamentarsi, e la figura stessa andava ogni giorno scomparendo nel pelo selvatico della barba e nella sordidezza della povertà. Arabella si attaccò stretta stretta al braccio della mamma, quando riconobbe nel vecchio pezzente il suo buon maestro di pianoforte, e le parve che il cuore le cascasse nel petto. Il Bonfanti andava raccontando a furia di singhiozzi la sua dolorosa storia, agitando colla mano paralizzata il cappello, come se lo sventolasse per l'allegria. Gli buttarono una moneta d'argento, lo salutarono colla mano, e partirono in fretta. Tornarono in città a braccetto, sempre in silenzio, ma non piú in collera come prima. Purtroppo di miseria ce n'è per tutti, e chi si lamenta della sua fa torto un poco a quella degli altri.

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