Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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STORIE ALLEGRE

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Collodi, Carlo 2 occorrenze

Gigino guardò in viso la Veronica, e abbassando la voce domandò: "Hai saputo forse qualche cosa? ... ". "Di che?" "Del cappello ... " "Cioè?" "Dunque non sai nulla? ... Meno male ... Che cosa, dunque, dicevi?" "Dicevo che lei sarebbe capacissimo di mettersi in testa un cappello a tuba e di andare magari a farsi vedere da tutti! ... " "Sicuro che ci anderei." "Ma non pensa ai fischi e alle risate dei monelli di strada?" "Dimmi, Veronica, che hai saputo per caso qualche cosa? ... " "Di che?" "Meno male: non hai saputo nulla! ... Dicevi dunque?" "Dicevo che i ragazzacci di strada sono anche impertinenti ... e non so se si contenterebbero soltanto di ridere e di fischiare." "E che vuoi tu che mi facessero di peggio?" "Chi lo sa! Potrebbero alzare le mani e sentirsi il pizzicorino di lasciar cadere sul suo cappello qualche solennissima latta ... " "Latta? ... E che roba sono le latte?" "Sono quei colpacci a mano aperta affibbiati per celia o per davvero sul cappello degli altri." "E se qualche ragazzaccio si pigliasse la confidenza di sciuparmi il cappello, tu credi che io non ne avrei il coraggio? ... " "Il coraggio di far che cosa?" "Di scappare e di andar subito a raccontarlo alla mamma? ... Per tua regola, io non ho paura di nessuno." "Lo so che lei è dimolto coraggioso: tant'è vero che la sera, quand'è entrato a letto, vuol sempre la candela accesa. Guai a lasciarlo al buio!" "Che cosa c'entra la candela col coraggio? Il coraggio è una cosa, e la candela è un'altra: ne convieni? E poi devi sapere che il mio maestro di ginnastica ha promesso fra sei o sett'anni d'insegnarmi la scherma ... e quando saprò la scherma ... allora, te lo dico io, non avrò più paura di nessuno. Ma insomma, Veronica, me lo fai questo piacere, sì o no?" Gigino, mi dispiace a doverlo dire, aveva un altro difetto, comunissimo del resto a molti ragazzi, quello, cioè, che quando cominciava a chiedere una cosa, non la finiva più, fino a tanto che non l'aveva ottenuta. E a furia di ripetere e di pigolare la medesima cosa diventava così noioso e così seccatore, da sfondare lo stomaco. Prova ne sia che la Veronica, pur di levarsi di torno quel tormento, prese dispettosamente il goletto, e tagliatone un pezzo e ricucitolo alla meglio con pochi punti, lo ridusse adattato al collo del suo padroncino. Chi più beato, chi più felice di Gigino? Ballando e saltando corse a rinchiudersi nella sua camerina, e lì tanto fece e tanto annaspò, che finalmente poté guardarsi nello specchio col suo nuovo goletto intorno al collo. Ma il nuovo goletto era così alto e così duramente insaldato, che il povero figliuolo sentiva tagliarsi la gola! Non poteva più abbassare la testa: non poteva voltarsi né di qua né di là: pareva proprio un impiccato. Eppure quel giuccherello era contento, tanto contento, che sarebbe difficile figurarselo! La sua prima idea fu quella di chiedere alla mamma il solito permesso per andare dal solito cartolaro a comprare le solite penne: ma poi, tornandogli in mente la gran disgrazia toccata all'infelice cappello a tuba, pensò meglio di scendere giù nel giardino. Se non foss'altro, scansando il pericolo d'incontrare i monelli di strada, si sarebbe levato il gusto di farsi vedere dal giardiniere, dalla moglie del giardiniere e dal loro bambinetto. Appena arrivato sulla porta del giardino, il primo a venirgli incontro fu Melampo, un grosso cane da guardia, che cominciò subito a guardarlo male e a ringhiare, come se avesse voluto mangiarlo. "Che cos'ha Melampo?" gridò Gigino al figliuolo del giardiniere. "Che forse non mi conosce più? Non riconosce il suo padrone?" "Come vuol che faccia a riconoscerlo, con codesto golettone che gli fascia tutta la gola? ... Lo creda, sor Gigino, duro fatica a riconoscerlo anch'io ... Da ieri a oggi, l'è così imbruttito ... con rispetto parlando!" "Imbruttito? ... Sarebbe a dire? ... " "Lo creda, sor Gigino, la mi pare un galletto, quando gli hanno tirato il collo ... Che gli è venuto forse un tumore, Dio ci liberi tutti?" "È meglio che me ne vada, senza risponderti ... se no, te ne direi delle belle" masticò Gigino fra i denti: e si avviò verso il pergolato. Ma costretto a camminare a testa alta e non potendo vedere dove metteva i piedi, inciampò dopo pochi passi in un secchione pieno d'acqua lasciato per dimenticanza nel mezzo, e cadde lungo disteso sulla ghiaia del viale. E la sua caduta fu così divertente, che alcune galline, le quali stavano beccando lì dintorno, invece di fuggire spaventate, cominciarono a sbattere le ali e a fare coccodè coccodè , tale e quale come se ridessero di genio alla vista di quel ragazzo così buffo per il suo golettone insaldato. Basti dire che fra quelle galline, ve ne fu una che, nello sforzo del gran ridere, scodellò senza avvedersene un bellissimo ovo fresco. Gigino, come potete immaginarvelo, tornò a casa tutto mortificato, e c'è da compatirlo! Se col suo goletto avesse messo di buon umore solamente il ragazzo del giardiniere, pazienza! Ma far ridere anche le galline, è troppo! Veramente, è troppo!

A dirla schietta, lo scimmiottino non aveva l'ombra della fame: ma tentato dalla sua gran ghiottoneria, rispose abbassando gli occhi e facendo finta di vergognarsi: "Un bocconcino lo mangerei volentieri ... ". Alfredo sonò il campanello d'argento, e il servo portò in tavola un cestino pieno ricolmo di bellissime pesche. Lo scimmiottino non le mangiò, ma le divorò in un baleno. Dopo le pesche, vide presentarsi un canestro di ciliegie così grosse, così mature e così rilucenti, che facevano venire l'acquolina in bocca soltanto a guardarle. Pipì se le sgranocchiò tutte, a tre e quattro per volta: ma non volendo passare per uno scimmiottino ineducato, lasciò nel canestro i nòccioli, le foglie e i gambi. Quando si sentì pieno fino agli occhi, allora si alzò da tavola, e fatta una bella riverenza, disse al padroncino di casa: "Arrivedella signor Alfredo: scusi tanto l'incomodo e mille grazie della sua cortesia." "Addio, Pipì. Fa' buon viaggio, e tanti saluti a casa." Lo scimmiottino si avviò per andarsene: ma in quel mentre vide entrare il cameriere con un paniere di frutta, che mandavano un odorino da far resuscitare un morto. "E quelle che frutta sono?", domandò, tornando due passi indietro. "Quelle son nespole del Giappone", rispose Alfredo. "Le avevo fatte preparare per la tua cena di stasera." Pipì rimase un po' pensieroso: e poi disse: "Pazienza!". E fattosi un animo risoluto, si avviò di nuovo per partire. Giunto però sulla porta di sala, si trattenne alcuni minuti. Quindi, volgendosi al giovinetto, gli chiese: "Scusi, signor Alfredo, che ore sono?" "Mezzogiorno preciso." "Mezzogiorno? ... A dir la verità, mi pare un po' tardi per mettersi in viaggio." "Tutt'altro che tardi. Ti restano ancora sette ore di giorno chiaro, e in sette ore si fa dimolta strada." "Ha ragione e dice bene. Dunque arrivedella, signor Alfredo, scusi tanto l'incomodo e mille grazie della sua cortesia." E questa volta partì davvero. Ma dopo un quarto d'ora Alfredo se lo vide ricomparire in sala, tutto ansante e trafelato. "Che cosa c'è di nuovo?", gli domandò il giovinetto. "C'è di nuovo", rispose Pipì, "che questo sole sfacciato mi dà una gran noia e mi fa abbarbagliare gli occhi. Non potrebbe, di grazia, prestarmi un ombrellino di tela da pararmi il sole?" "Volentieri." Alfredo chiamò il cameriere: e il cameriere portò subito un grazioso parasole, dipinto con grandi fogliami di bellissimi colori azzurri e verdi. Pipì prese l'ombrellino, l'aprì, e cominciò a girare intorno alla stanza, dando continuamente delle lunghissime occhiate al canestro delle nespole giapponesi. "Amico mio", disse allora Alfredo, "se indugi un altro poco, farai notte senza avvedertene, e ti toccherà a viaggiare al buio." "Io di giorno non so camminare", rispose Pipì. "O non sarebbe meglio che partissi questa sera dopo cena?" "Padronissimo di fare come credi meglio." E nel dir così, Alfredo lasciò balenare in pelle in pelle un risolino canzonatorio, che pareva volesse dire:" Caro il mi' ghiottone! Ho bell'e capito qual è il tuo debole: lascia fare a me, che ti domerò io!". Quando fu l'ora della cena, Pipì, senza nemmeno aspettare di essere invitato, andò a sedersi alla tavola dov'era seduto Alfredo: ma questi pigliando un tono di voce serio e padronale, gli disse: "Che cosa fate costì?" "Vengo a cena anch'io." "Le persone che vengono alla mia tavola, le voglio veder vestite decentemente. Andate subito a mettervi la giubba." "Io ... con la giubba ... non so mangiare. La giubba non me la metto." "Allora ritiratevi là, in fondo alla sala, e contentatevi di assistere alla mia cena." Quando Pipì si accorse che Alfredo diceva sul serio, si dette a piangere e a strillare: e piangendo e strillando scappò dalla stanza: ma dopo poco tornò. Quando rientrò nella stanza, aveva la sua giubbettina infilata e tutta abbottonata, come un piccolo milorde. "Così va bene", disse Alfredo. "Mettetevi ora a sedere, e buon appetito!" Il canestro delle nespole fu portato in tavola. Inutile starvi a dire che, dopo un quarto d'ora, il canestro era vuoto, e lo scimmiottino era pieno, da non poterne più. "Ora poi me ne vado davvero", disse alzandosi da tavola con grandissima fretta. Ma nel mentre che stava armeggiando per levarsi di dosso la giubbettina, il cameriere si presentò in sala con un magnifico vassoio di melagrane. "Che odorino!", gridò Pipì, annusando e lasciando gli occhi sul vassoio delle frutta. "O quelle melagrane per chi sono?" "Erano per la tua colazione di domani. Ma ormai tu parti, e le mangerò io." "Io ... partirei volentieri, ma di notte non so camminare. O non sarebbe meglio che partissi domattina, dopo fatto colazione?" "La tua camerina è già preparata. Buona notte." La mattina dopo, all'ora di colazione, lo scimmiottino si presentò puntualmente vestito con la giubba di panno nero: ma il signor Alfredo, dopo averlo squadrato da capo ai piedi, gli disse con accento vivace e risentito: "Chi vi ha insegnato a presentarvi alla tavola di un gentiluomo, senza scarpe ai piedi e senza fazzoletto al collo? Andate subito a mettervi le scarpe e la cravatta." Pipì, confuso e mortificato, cominciò a grattarsi la testa e il naso, e piagnucolando disse: "Ih ... ih ... ih ... le scarpe mi fanno male ... e il fazzoletto mi serra la gola. Piuttosto voglio andar via subito ... voglio tornarmene a casa mia." "Levatevi dunque dalla mia presenza." Pipì si avviò mogio mogio verso la porta della sala: ma prima di uscire, si voltò per dare un'ultima occhiata al vassoio delle melagrane. Poi se ne andò. "Questa volta è partito davvero", disse Alfredo tutto afflitto. "E me ne dispiace. Gli volevo bene a quello scimmiottino. Che cosa dirà la mia buona fata, quando saprà che l'ho scacciato? Eppure, era lei che me l'aveva fatto capitare fin qui, proprio in casa, consigliandomi a prenderlo per mio segretario e per mio compagno di viaggio! ... Ma oramai quel che è fatto, è fatto, e ci vuol pazienza." Mentre Alfredo parlava in questo modo fra sé e sé, gli parve che fosse bussato alla porta della sala e nel tempo stesso si udì una vocina di fuori che disse: "Signor Alfredo, che mi ha chiamato?" "Chi è?", gridò il giovinetto rizzandosi in piedi. "Sono io." La porta si aprì e comparve lo scimmiottino. Aveva in piedi le sue scarpettine scollate e portava la testa ritta e impalata, perché il fazzoletto da collo, moltissimo inamidato, gli segava terribilmente la gola. A quella vista inaspettata, è impossibile immaginarsi l'allegrezza di Alfredo. Andò incontro a Pipì, lo abbracciò, lo baciò, gli fece un mondo di carezze, come si farebbero a un carissimo amico, dopo vent'anni di lontananza. Giurarono di non lasciarsi mai più e di fare insieme questo gran viaggio intorno alla terra. Il bastimento sul quale dovevano imbarcarsi, era aspettato di giorno in giorno. Finalmente il bastimento arrivò. La sera della partenza, Alfredo e Pipì pranzarono insieme, come erano soliti di fare. E durante il pranzo parlarono di mille cose, dissero un visibilio di barzellette, e risero e stettero allegrissimi come due ragazzi alla vigilia delle vacanze autunnali. Alzatisi da tavola, Alfredo disse guardando l'orologio: "Il bastimento parte a mezzanotte. Dunque abbiamo appena un'ora di tempo per dare un'occhiata ai bauli e per vestirci tutti e due in abito da viaggio". In cinque minuti io son pronto, disse Pipì, e ballando e saltando entrò nella sua camerina. E quando fu lì, cominciò subito a levarsi la giubbettina di panno nero per infilare una piccola giacca di tela bianca; invece delle scarpine calzò un paio di stivaletti a doppio suolo, e invece del solito cappello si ficcò in testa un elegante berrettino di seta celeste. Poi andò a guardarsi allo specchio: ma nel mentre che se ne stava tutto contento, pavoneggiandosi e facendo con la bocca e con gli occhi mille versacci grotteschi, sentì un piccolo rumore, come se qualcuno di fuori si arrampicasse per salire fino alla sua finestra di camera. Da principio ebbe una gran paura: ma, fattosi coraggio, aprì la finestra e vide ... vide due zampe che lo abbracciarono stretto intorno al collo e intese una voce soffocata dalla consolazione e dalla gioia, che mugolava teneramente. "Oh mio povero Pipì! ... Finalmente ti ho ritrovato."

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