Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbassamento

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Stamani, prima di venir qua, va- do da lei; la trovo a letto con la febbre, una tosse da spaccar le co- stole, un cataplasma sul petto, e tale abbassamento di voce da non poter pronunciare una sillaba. Il medico dichiara che, se non se- guono altri malanni, fra due o tre settimane potrà cantare. Io in- tanto sono spacciato. Senza la Carlottina vanno in fumo quattro pezzi sopra otto, i più belli; e poi Mirate, che mi ha accompagnato sin qua, giura di non aprir bocca se non può cantare il terzetto della Lucrezia e il duetto dell' Elisir d'amore Così perdo anche O sì per voi già sento ch'egli dice da Dio. Rimandare il con- certo è impossibile. I giornali, aggirati dagli altri maestri di canto, i quali vedono di mal occhio la mia scuola gratuita, mi sono tutti contrari: la lira mi bistratta, la gazzetta mi stritola, il Sior An- tonio Rioba mi canzona. Domani sarebbe già troppo tardi. Gli azionisti..". "Li chiami azionisti! Vorrai dire i contribuenti alle spese della scuola. Quanti sono ora?". "Sarebbero ottantasei, impegnati con la firma a dare sei svanzi- che l'anno; ma di ottantasei, indovini, maestro, quanti hanno pa- gato. Sedici, sedici soltanto, e dopo quante sollecitazioni! Pensare che se avessero pazienza di aspettare che gli allievi diventassero tutti cantanti le azioni guadagnerebbero il cento per cento, a dir poco. Invece me le rimandano accompagnate da sarcasmi o da contumelie. Insomma, un concerto con i miei sette scolari basta a mettere in luce la verità, a sbugiardare i giornalisti, a confondere gli altri maestri di canto, a moltiplicare gli azionisti..". "Bastasse almeno a pagare i tuoi debiti!" soggiunse il maestro Chisiola, sorridendo con tristezza. "Debiti ne ho parecchi, maestro; ma, per dire il vero, ci penso poco. A me basterebbe poter pagare la pigione delle due stanze ove tengo la scuola, e il nolo del pianoforte e della musica. Conti- nuerei volentieri, come faccio da due mesi, a mangiare una volta al giorno pesce comperato dal friggitore e polenta annaffiata di un solo quartuccio di vino". "Povero amico mio, vittima del setticlavio! Dimmi alla fine come posso aiutarti". Lo Zen, che sapeva come la propria domanda avrebbe sorpreso e addolorato il maestro, esitò un momento, poi rapidamente rispose: "Permettendo alla signorina Nene di cantare questa sera, in luogo della Carlotta". Il vecchio nonno si rannuvolò. Guardava in faccia lo Zen tacen- do, come se nuove idee, nuovi timori gli confondessero la mente. Fece per rispondere, ma la parola parve troncata da un altro pen- siero triste. Già la nipote, durante le ultime due settimane, lo aveva turbato nelle sue aspirazioni e nelle sue consuetudini, poiché dian- zi si era andato via via persuadendo che nulla avrebbe alterato mai la serena pace della casetta e dell'orto; e come egli, presso alla fine de' suoi giorni, sentiva l'anima schiva da ogni agitazione mondana, così sperava dovesse essere nel cuore della giovane, la quale non conosceva ancora la vita. L'istinto dell'affetto gli figurava il primo passo nella via della vanità quale una voragine, in cui sarebbe pre- sto scomparsa l'esistenza solitaria e felice della fanciulla e di lui. Fece uno sforzo sopra di sé e, aperto l'uscio, chiamò: "Nene". Appena la ragazza fu entrata, il vecchio continuò con voce tre- molante, e interrompendosi spesso per respirare: "Senti, mia cara, l'amico Zen ti chiede un favore, una cosa che non hai fatto mai si- no ad ora, e che ripugna certo alla tua indole delicata e restia. Vor- rebbe che tu cantassi in un concerto questa sera, in compagnia di alcuni suoi discepoli, fra i quali il così detto Mirate, per sostituire Carlottina Bianchi, improvvisamente ammalata". "Signorina Nene, dica di sì" interruppe lo Zen: "la mia vita è nelle sue mani". "Sì, canterò" rispose la fanciulla, calma e sicura, senza nemmeno badare allo Zen, che gongolava e le baciava le mani. A un tratto il basso profondo, picchiandosi la fronte, si rivolse al vecchio: "Maestro, mi scordavo un incarico ricevuto or ora dal tenore, qui sulla porta. Desidera farle sapere che la richiesta di matrimonio fu un brutto imbroglio del soprano, nostro collega nella cappella, quell'usuraio lurido, indegno di appartenere all'onorato corpo dei cantori di San Marco. Egli sperava di combinare il negozio per certe sue ragioni d'interesse, mentre all'incontro Mirate è innamo- rato matto di un'altra: non mi ha detto di chi". La notizia fu di qualche sollievo al vecchio: la fanciulla invece l'accolse con altera incredulità. Avvicinatasi ai nonno per di dietro, gli diede un bacio sui capelli bianchi, bisbigliandogli: "Vedo che la mia risoluzione ti affligge. Perdonami. Sarebbero proprio riescite inutili tante tue cure per insegnarmi a cantare, se dovessi continuar tutta la vita a gorgheggiare con gli usignuoli dell'orto. Vedrai, mio buon nonno, che ti farò tanto onore". Nene conosceva i pezzi che doveva eseguire. Bastò una prova ra- pida in casa del maestro Chisiola, il quale, scordandosi un poco delle ubbie di prima, dava volentieri qualche savio suggerimento, e non sapeva vincere una certa compiacenza nell'ascoltar la nipote. Dopo finito un rondò del Cimarosa, rinzeppato di agilità e di trilli, il vecchio non poté trattenersi dall'esclamare: "Brava". Lo Zen farneticava di giubilo. Anche l'organista, tondo, sbarbato, un faccione da corcontento, súonava con ardore, non ostante alle sue mani rattrappite nell'uso quotidiano della piccola tastiera del- l'organo, e cercava i pedali, che non c'erano, pestando sul pavi- mento. Il concerto ebbe luogo in una sala offerta allo Zen per mezzo del famoso soprano, che tutti maledivano, ma che, lesto e ficchino com'era, o per via di prestiti o per altri servizi, si rendeva quasi sempre indispensabile. Stretta e lunga, la sala pareva un ampio corridoio, male illuminato da poche lampade ad olio pendenti dal soffitto basso, ove avevano lasciato dei larghi cerchi di filiggine. Prima delle otto già era quasi piena di un pubblico vario: impiega- ti, bottegai con le loro mogli e figliuole; bellimbusti amici di Mi- rate con alcune ragazze un po' scollacciate, qualche prete con le sorelle vecchie vestite di bruno; né mancavano parecchi signori della nobiltà, senza le dame, qualcuno cioè di quegli ultimi sedici azionisti, che continuavano a pagare la loro quota. I giornalisti ed i maestri di canto stavano in piedi, nel fondo, ammiccandosi, par- landosi nell'orecchio, indicando l'uno all'altro le più belle fanciul- le, e ridendo, ghignando alle barzellette ed ai motti di questo o di quello. Nene sembrava propriamente bella. I capelli rossi abbondanti, ti- rati alti sul capo e ornati di fiori candidi; il roseo fine del volto, in cui spiccavano le labbra coralline e gli occhi celesti; il collo di ne- ve; la persona non alta, ma formosa; sopra tutto quella sua nuova espressione di fermezza e di contentezza, le davano un aspetto singolare ed attraente. Il vecchio nonno, che aveva voluto per forza trascinarsi fin là, e s'era messo a sedere nella stanza destinata ai cantanti, presso al- l'uscio, il quale conduceva al palco rialzato di due gradini, non si saziava di guardar la nipote; e quando, durante i pezzi in cui can- tava e dopo la cadenza, scoppiavano gli applausi lunghi, ripetuti, fragorosi, ed era chiesto con entusiasmo il bis dagli occhi del nonno scorrevano giù per le guance le lagrime. Poi abbraccia- va la nipote, dicendole tra i singhiozzi: "Nene, mia cara Nene, come sono contento di te!". Finito il concerto ed uscito il pubblico, in una svolta buia delle scale, scendendo, Mirate circondò col braccio sinistro la fanciulla alla cintola e, tenendole con la mano destra il mento, le diede un vigoroso bacio sulle grosse labbra, che rimasero aperte e fidenti.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

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Garibaldi, Giuseppe 2 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

Dopo un mese avrei potuto fare glicemie ad occhi chiusi, ma non sembrava che il nostro fosforo facesse alcun effetto; solo uno dei conigli reagiva all' estratto di chelidonia con un abbassamento della glicemia, ma dopo poche settimane gli venne un grosso tumore al collo. Il Commendatore mi disse di operarlo, io lo operai con acre senso di colpa e veemente ribrezzo, e lui morì. Quei conigli, per ordine del Commendatore, vivevano ciascuno nella sua gabbia, maschi e femmine, in stretto celibato. Ma venne un bombardamento notturno che, senza fare molti altri danni, sfondò tutte le gabbie, ed al mattino trovammo i conigli intenti ad una meticolosa e generale campagna copulatoria: le bombe non li avevano spaventati per nulla. Appena liberati, avevano subito scavato nelle aiuole i cunicoli da cui traggono il nome, ed al minimo allarme abbandonavano a mezzo le loro nozze e ci si rifugiavano. L' Ambrogio ebbe pena a recuperarli ed a richiuderli in gabbie nuove; il lavoro delle glicemie dovette essere interrotto, perché solo le gabbie erano contrassegnate e non gli animali, e dopo la dispersione non fu più possibile identificarli. Venne Giulia tra un coniglio e l' altro, e mi disse a bruciapelo che aveva bisogno di me. Ero venuto in fabbrica in bicicletta, non è vero? Ebbene, lei quella stessa sera doveva andare subito fino a Porta Genova, c' erano da cambiare tre tram, lei aveva fretta, era una faccenda importante: che per favore la portassi in canna, d' accordo? Io, che secondo il maniaco orario sfalsato del Commendatore uscivo dodici minuti prima di lei, l' attesi girato l' angolo, la caricai sulla canna della bicicletta e partimmo. Circolare per Milano in bicicletta non aveva allora nulla di temerario, e portare un passeggero in canna, in tempi di bombe e di sfollamenti, era poco meno che normale: qualche volta, specie se di notte, accadeva che estranei domandassero questo servizio, e che per un trasporto da un capo all' altro della città ti ricompensassero con quattro o cinque lire. Ma Giulia, già di regola piuttosto irrequieta, quella sera comprometteva la stabilità dell' equipaggio: stringeva convulsamente il manubrio contrastando la guida, cambiava di scatto posizione, illustrava il suo discorso con gesti violenti delle mani e del capo che spostavano in modo imprevedibile il nostro comune baricentro. Il suo discorso era in principio un po' generico, ma Giulia non era il tipo che si tiene i segreti in corpo ad intossicarlo; a metà di via Imbonati usciva già dal vago, e a Porta Volta era in termini espliciti: era furiosa perché i genitori di lui avevano detto di no, e volava al contrattacco. Perché lo avevano detto? _ Per loro non sono abbastanza bella, capisci? _ ringhiò, scuotendo il manubrio con ira. _ Che stupidi. A me sembri abbastanza bella, _ dissi io con serietà. _ Fatti furbo. Non ti rendi conto. _ Volevo solo farti un complimento; e poi lo penso proprio. _ Non è il momento. Se cerchi di farmi la corte adesso ti sbatto per terra. _ Cadi anche tu. _ Sei uno scemo. Dài, pedala, che si fa tardi. In Largo Cairoli sapevo già tutto: o meglio, possedevo tutti gli elementi di fatto, ma talmente confusi e dislocati nella loro sequenza temporale che non mi era facile cavarne un costrutto. Principalmente, non riuscivo a capire come non bastasse la volontà di quel lui a tagliare il nodo: era inconcepibile, scandaloso. C' era quest' uomo, che Giulia mi aveva altre volte descritto come generoso, solido, innamorato e serio; possedeva quella ragazza, scarmigliata e splendida nella sua rabbia, che mi si stava dibattendo fra gli avambracci impegnati nella guida; e invece di piombare a Milano e farsi le sue ragioni, se ne stava annidato in non so più quale caserma di frontiera a difendere la patria. Perché, essendo un "gòi", faceva il servizio militare, naturalmente: e mentre così pensavo, e mentre Giulia continuava a litigare con me come se fossi stato io il suo don rodrigo, mi sentivo invadere da un odio assurdo per il rivale mai conosciuto. Un gòi, e lei una gôià, secondo la terminologia atavica: e si sarebbero potuti sposare. Mi sentivo crescere dentro, forse per la prima volta, una nauseabonda sensazione di vuoto: questo, dunque, voleva dire essere altri; questo il prezzo di essere il sale della terra. Portare in canna una ragazza che si desidera, ed esserne talmente lontani da non potersene neppure innamorare: portarla in canna in Viale Gorizia per aiutarla ad essere di un altro, ed a sparire dalla mia vita. Davanti al 40 di Viale Gorizia c' era una panchina: Giulia mi disse di aspettarla, ed entrò nel portone come un vento. Io mi sedetti ed attesi, lasciando via libera al corso dei miei pensieri, sgangherato e doloroso. Pensavo che avrei dovuto essere meno gentiluomo, anzi, meno inibito e sciocco, e che per tutta la vita avrei rimpianto che fra me e lei non ci fosse stato altro che qualche ricordo scolastico e aziendale; e che forse non era troppo tardi, che forse il no di quei due genitori da operetta sarebbe stato irremovibile, che Giulia sarebbe scesa in lacrime, e io avrei potuto consolarla; e che queste erano speranze nefande, un approfittare scellerato delle sventure altrui. E finalmente, come un naufrago che è stanco di dibattersi e si lascia colare a picco, ricadevo in quello che era il mio pensiero dominante di quegli anni: che il fidanzato esistente, e le leggi della separazione, non erano che alibi insulsi, e che la mia incapacità di avvicinare una donna era una condanna senza appello, che mi avrebbe accompagnato fino alla morte, restringendomi ad una vita avvelenata dalle invidie e dai desideri astratti, sterile e senza scopo. Giulia uscì dopo due ore, anzi, eruppe dal portone come un proiettile da un obice. Non occorreva farle domande per sapere come era andata: _ Li ho fatti diventare alti così, _ mi disse, tutta rossa in viso e ancora ansimante. Feci il mio miglior sforzo per congratularmi con lei in modo credibile, ma a Giulia non si possono far credere cose che non si pensano, né nascondere cose che si pensano. Ora che era sollevata dal suo peso, e allegra di vittoria, guardò diritto negli occhi, vi scorse la nube, e mi chiese: _ A cosa stavi pensando? _ Al fosforo, _ risposi. Giulia si sposò pochi mesi dopo, e si congedò da me tirando su lacrime dal naso e facendo minuziose prescrizioni annonarie alla Varisco. Ha avuto molte traversie e molti figli; siamo rimasti amici, ci vediamo a Milano ogni tanto e parliamo di chimica e di cose sagge. Non siamo malcontenti delle nostre scelte e di quello che la vita ci ha dato, ma quando ci incontriamo proviamo entrambi la curiosa e non sgradevole impressione (ce la siamo più volte descritta a vicenda) che un velo, un soffio, un tratto di dado, ci abbia deviati su due strade divergenti che non erano le nostre.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

"Comprendo da cosa deriva questo brusco abbassamento della temperatura," disse, "attraversiamo uno strato di sottili ghiaccioli. Brutto segno: porterà una nevicata." "Tò!" esclamò O'Donnell. "Non vi sembra che ci stiamo abbassando?" "Infatti è vero. Questo freddo repentino tende a restringere l'idrogeno, ma appena saremo usciti da questo strato, il sole tornerà a dilatarlo e noi a salire." Il vascello aereo si abbassava lentamente, ma doveva essere cosa di breve durata. Ben presto il barometro avvertì gli aeronauti che i trovavano a 3000 metri di altezza, mentre prima si erano sempre tenuti a 3500. Quell'abbassamento permise di osservare meglio la grande isola che si stendeva sotto di loro. Si distinguevano perfettamente le abitazioni sparse sul bordo delle grandi boscaglie, gli abitanti che cercavano di correre dietro all'aerostato, credendolo forse un gigantesco uccello di nuovo genere, data la sua forma così differente dai soliti palloni, e si udivano nettamente le loro grida di stupore. Alle tre pomeridiane O'Donnell e l'ingegnere scorsero, come annidata sulle sponde di una baia, San Giovanni, la capitale dell'isola. Per alcuni istanti poterono vedere il palazzo dell'assemblea, la dogana, le fortificazioni e le numerose graves che si estendevano per lungo tratto fuori dalla città, poi non videro più che una massa biancastra poiché il vento li spingeva verso nord, ossia in direzione delle baie di Trinità e Bonavista. Alle tre e quaranta minuti si libravano sopra il capo Fuels, avvistando l'isola del Fuoco, e pochi minuti più tardi l'aerostato abbandonava l'isola, filando sopra l'oceano Atlantico, le cui onde si urtavano con profondi muggiti, coprendosi d'un immenso manto di candida spuma." "Addio terra!" esclamò O'Donnell. "D'ora innanzi non vedremo che acqua." "Purché il vento non cambi direzione," disse l'ingegnere. "Potrebbe spingerci verso il nord e fors'anche ricondurci verso l'America." "Dove ci porta ora?" "Diritti al grande banco. Non vedete laggiù, verso l'est, quei punti neri? Sono le navi occupate nella pesca ai merluzzi." "E lontano però il grande banco" "Vi giungeremo fra un paio d ore, se la nostra velocità, che è ora di quaranta miglia, non diminuisce." "Si pescano dappertutto i merluzzi, intorno all'isola?" "Sì, specialmente quando i pesci cominciano a lasciare il banco per cercare un altro cibo. In primavera i merluzzi si radunano in grandi masse nei dogger-banks delle coste di Islanda, nei fiorden della Norvegia e nei golfi dell'Irlanda, poi si dirigono tutti insieme verso Terranova. È in questa stagione che dalle coste della Norvegia, della Francia, dell'Inghilterra e dell'Olanda partono vere flottiglie di pescatori, i quali, cosa sorprendente davvero, qui vengono senza bisogno di carte e di strumenti necessari a fare il punto, seguendo, direi quasi, una traccia secolare. Si calcolano fino a seimila navi che tutti gli anni vengono impiegate nella pesca del prezioso pesce." "Devono pescarne una quantità immensa." "Dai 35 ai 40 milioni." "E chi per primo s'accorse della riunione dei merluzzi su questo grande banco?" "Caboto lo aveva notato; poi un altro ardito navigatore italiano, il fiorentino Giovanni da Verrazzano, che prese possesso di Terranova nel 1525 in nome di Francesco I re di Francia e che poco dopo cadde sotto le lance e le scuri degli indigeni; poi Cartier, lo scopritore del fiume San Lorenzo." "Si pescano anche nel San Lorenzo?" "No, i merluzzi non penetrano mai nei fiumi, anzi si tengono lontani dalle foci." "Terminata la stagione sul grande banco, si radunano altrove?" "No, si disperdono, scompaiono e non si vedono più per il resto dell'anno. Si ignora dove vadano a svernare durante la stagione fredda, ma pare che si tengano in acque assai profonde. Ma ecco le prime barche da pesca, O'Donnell, aprite bene gli occhi, e non vi dispiacerà di aver fatto una volata sopra il grande banco di Terranova.

Ma a che cosa si deve questo brusco abbassamento di temperatura?" "Forse a qualche grande uragano che si è scatenato nelle regioni settentrionali." rispose l'ingegnere. "Non durerà molto, O'Donnell e domani tornerà a fare caldo." "Lo credete?" "Sì, questa corrente non tarderà a scaldarsi sotto questi climi ardenti" "Che il pallone scenda ancora? " "Non lo credo; tuttavia veglieremo a turni." Cenarono con un po' di carne conservata e una scatola di tonno, misurandosi l'acqua. Poi O'Donnell si sdraiò presso Simone, che continuava a russare, mentre l'ingegnere vegliava, seduto sul suo materasso, che si trovava a prua. Durante quel primo quarto d'ora di guardia non accadde nulla. Solamente il pallone, il cui idrogeno continuava a condensarsi perché la corrente d'aria restava sempre fredda, discese ancora di oltre cento metri. A mezzanotte O'Donnell rilevò l'ingegnere. Diede uno sguardo intorno, un altro all'oceano, che brontolava a soli trenta metri di distanza, poi si sedette a prua, fumando una sigaretta. Erano già trascorse le due ore, e cominciava a socchiudere gli occhi invitato dal leggero dondolamento dell'aerostato, quando tutto ad un tratto la navicella subì una scossa violenta. Si volse rapidamente e ritto sulla poppa vide il negro, coi capelli irti, gli occhi luccicanti come quelli degli animali notturni, le braccia in aria. "Simone!" esclamò "Che cosa fai?" Il pazzo emise un grido rauco: "II mostro! ... il mostro!" esclamò con voce strozzata. L'irlandese si avventò su di lui, ma era troppo tardi. Il povero pazzo preso chissà da quale terrore, fece atto di fuggire e mise i piedi nel vuoto. O'Donnell emise un grido: "Mister Kelly!" Poi mentre il pallone, scaricato del peso di Simone, s'innalzava, egli, senza badare al pericolo che stava per affrontare, si precipitò nell'oceano dietro al pazzo. L'ingegnere, svegliato di soprassalto, udì due gridi e due tonfi, poi più nulla. L'aerostato, bruscamente alleggerito di quei due corpi, che pesavano centoquaranta chilogrammi, trascinava Kelly con rapidità vertiginosa attraverso le alte regioni dell'atmosfera!

"Questo abbassamento di temperatura deriva dalla nostra elevazione. Guardate il barometro: siamo già a 3700 metri." "Che il pallone voglia scappare nella luna?" "Si fermerà. Non dubitate." "Più si sale, più aumenta il freddo?" "Sì e l'aria diventa talmente rarefatta da uccidere gli imprudenti che osano salire troppo in alto." "E per quali cause?" "Per la diminuzione della tensione dell'ossigeno, che a quelle altezze non penetra più nel sangue e di conseguenza nei tessuti in quantità sufficiente a mantenere le combustioni vitali nel loro stato di energia normale. All'altezza in cui ci troviamo, già il vostro polso deve avere ottanta battiti al minuto, e dovete provare un principio di nausea." "Infatti provo un certo malessere, Mister Kelly." "Se la salita continuerà, il vostro ventre comincerà a gonfiarsi, sentirete la faccia in congestione e proverete anche qualche vertigine. Più su vi è la morte, ma noi non toccheremo quella zona mortale." "Lo spero, Mister Kelly, se non per me, per voi. Ditemi: vi sono stati degli aeronauti che hanno osato spingersi fino a quella zona?" "Sì e alcuni non sono più ridiscesi vivi. I primi che si slanciarono arditamente negli spazi celesti per verificare fino a quale altezza l'aria era respirabile per l'uomo, furono Robertson e Lhoêst, i quali nel 1803 riuscirono a raggiungere, a quanto sembra, i 7000 metri. Si disse allora che a Robertson era gonfiata la testa a tal segno da non potersi più mettere il cappello; ma io la ritengo una frottola. Nel 1804 Gay-Lussac tocca pure 7000; prova nausee, vertigini e un principio di soffocamento; ma ridiscende vivo. Darral e Bixio nel 1850 toccarono anche loro i 7000 metri. Nel 1850 Gaisher e Coxwell affermarono di aver raggiunto i 10.000 metri. Il primo svenne; ma il secondo, quantunque non potesse far uso delle mani perché il freddo intenso gliele aveva assiderate, riusciva ad afferrare coi denti la corda della valvola di sfogo, obbligando il pallone a ridiscendere. Io però sono d'opinione che non abbiano raggiunto quell'altezza, e così pensano pure molti aeronauti. Se si fossero spinti tanto in alto, non sarebbero ritornati a terra vivi. La più drammatica e più terribile ascensione fu quella dello Zenith, che costò la vita a due giovani e audaci aeronauti, a Croce-Spinelli, un italiano naturalizzato francese, ed a Silvel. Già nel 1874, incoraggiati e aiutati dalla Società Francese di Navigazione Aerea, avevano fatto una prima ascensione, raggiungendo i 7300 metri. Il 15 Aprile 1875 partivano sull'aerostato lo Zenith, in compagnia di Tissandier, un aeronauta che aveva eseguito già oltre venti ascensioni. L'aerostato, continuamente scaricato dalla zavorra che portava, s'innalzava rapidamente verso le solitudini gelate delle grandi altezze. Il freddo li intirizzì, le nausee sopravvennero, le vertigini li colsero; ma continuarono intrepidamente a salire. A 8000 metri Croce-Spinelli e Silvel, malgrado respirassero di frequente l'ossigeno che avevano portato con loro, caddero; ma Tissandier resiste ancora e continuò le sue osservazioni. A 8600 metri lo Zenith s'arrestò, poi ridiscese; ma portava con sé due cadaveri: Croce- Spinelli e Silvel erano morti! Che cosa ne dite, O'Donnell?" L'irlandese, che fino ad allora gli stava seduto a sinistra, a cavalcioni d'una panchina del battello, non diede alcuna risposta. L'ingegnere si volse verso di lui e lo vide accasciato su se stesso, come se fosse stato improvvisamente colto da uno svenimento, o da un sonno irresistibile. Guardò a poppa e vide il negro Simone che pareva pure addormentato. "Diavolo!" esclamò. "Dove ci troviamo?" Gettò uno sguardo sul barometro: segnava 4300 metri. "È troppo," mormorò. "Ancora poche centinaia di metri più in alto, e questi uomini, non abituati alle ascensioni, dormiranno per sempre. Afferrò le due corde che mettevano capo alle valvole di sfogo e diede uno strappo. Tosto in alto si udirono degli scoppiettii e all'intorno si sparse un acuto odore di idrogeno. "Basta," disse mezzo minuto dopo. "È troppo prezioso per consumarlo." Il Washington, benché appena salassato, discendeva lentamente nelle regioni più respirabili. In dieci minuti toccò i 3600 metri e colà giunto arrestò la sua discesa. O'Donnell aprì gli occhi, sbadigliando come un orso che non dorme da una settimana. "Che vi pare della disgraziata sorte toccata a Croce-Spinelli e a Silvel?" gli chiese Kelly, con un sorriso leggermente malizioso. "Silvel! Croce-Spinelli! ... " esclamò O'Donnell, guardando l'ingegnere con due occhi strabuzzati. "Ma siete uno stregone voi, che indovinate i miei sogni?" "Avete sognato, O'Donnell?" "Sì, di palloni, di ascensioni di un certo Tissandier e ... Ma perché ridete?" "Perché non avete sognato nulla di tutto ciò, ma l'avete udito dalla mie labbra e vi siete addormentato mentre io vi narravo quella drammatica ascensione." "Mi sono addormentato, io!" "Sì, O'Donnell, ma per effetto dell'altezza del Washington e Simone, che comincia solamente ora ad aprire gli occhi, vi teneva compagnia. Come vi sentite?" "Benissimo: anzi ho una fame da lupo." "Buon segno," disse Kelly, ridendo. "Con la discesa scompaiono repentinamente i disturbi pericolosi cagionati dalle eccessive altezze." "Dev'essere così, signor Ned; ma si vede che le ascensioni non sono fatte per me, né per Simone. Che ne dici, negrotto mio?" Il negro si limitò a sbadigliare in tal modo da correre il pericolo di slogarsi le mascelle, mostrando due file di denti da fare invidia a un coccodrillo dell'Africa equatoriale.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il tenente e il fiociniere, un pò sconcertati, ritornarono alla loro dimora, inquieti assai a causa di certi brutti nuvoloni che si alzavano rapidamente da nord e che promettevano un'altra abbondante nevicata e un maggior abbassamento di temperatura. E le loro inquietudini non errarono. Erano appena al riparo, che un vento furioso cominciò a soffiare sul campo spingendo innanzi a sè i nembi di ghiacciuoli sottili come aghi che, cadendo, producevano un rumore quasi metallico, mentre nelle alte regioni turbinavano fiocchi di neve di una grossezza inverosimile. Koninson turò ermeticamente tutte le finestre della capanna ed alimentò la gran lampada per mantenere nell'interno un certo calore. Dopo un magro pasto e una fumata, si avvolsero nelle coperte mentre al di fuori l'uragano continuava a ruggire, ammonticchiando qua e là enormi ammassi di neve. La notte fu cattiva. Più volte il tenente si svegliò e porse ascolto ai ruggiti del vento ed agli scricchiolii del campo di ghiaccio che talvolta pareva fosse diventato il fondo d'una caldaia in ebollizione e più volte, a rischio di compromettere il suo naso, tentò, ma invano, di guardare ciò che accadeva all'esterno. Riaddormentatosi per la decima volta, dopo un tempo che stimò non troppo lungo si risvegliò con un certo malessere che non sapeva spiegare. Respirava con fatica e attorno al capo gli pareva di avere un cerchio di ferro che sempre più si stringesse. Si guardò intorno. La lampada, che poco prima ardeva benissimo, era moribonda, quantunque fosse piena d'olio. Pareva anzi che si dovesse spegnere da un istante all'altro. Guardò Koninson e lo vide agitarsi e respirare affannosamente. - Cosa sta per succedere? - mormorò con qualche ansietà. Tese l'orecchio. Non udiva più gli scricchiolii dei ghiacci; solamente gli pareva che in distanza rombassero delle detonazioni molto sorde. - Koninson! Koninson! - gridò. Il fiociniere agitò le braccia, sbadigliò a lungo mostrando le mascelle solidamente armate di aguzzi denti e apri gli occhi. - Tenente! - rispose. - Provi qualche cosa tu? - Si, signor Hostrup. Mi pare che il mio capo giri e che i miei polmoni funzionino molto male. Tò! Che cos'ha la lampada che pare voglia spegnersi? Eppure io l'ho riempita per bene. - Mi assale un dubbio, Koninson. - E quale mai? - Che noi siamo sepolti. - Sepolti! E come? Che il campo di ghiaccio ci abbia inghiottiti senza stritolare la capanna? Sarebbe un bel caso, signor Hostrup. - Ma poco allegro, fiociniere. Fortunatamente credo che non siamo sotto il banco ma sopra. - Ed allora chi ci avrebbe sepolti? - La neve. - Infatti, signor Hostrup, mi pare che l'aria cominci a mancare. La lampada che si spegne, i nostri polmoni che si affaticano e le nostre teste che girano, sono segni belli e buoni per farci credere che non c'inganniamo. - Proviamo ad uscire, finchè ci rimane qualche altra boccata d'aria. Koninson, che non si trovava bene fra quell'aria viziata, levò la pelle che chiudeva l'entrata e si trovò dinanzi ad una massa di neve che pareva dovesse elevarsi quanta era alta la capanna. Si provò i rasparla, ma non ne venne a capo: il freddo intenso l'aveva ridotta in solidissimo ghiaccio. - Hum! - esclamò. - La faccenda diventa seria, signor Hostrup. Siamo come murati e molto bene, a quanto pare. - Eppure bisogna uscire, Koninson, e senza perder tempo. - Proviamo ad aprire il buco che serviva d'uscita al fumo. - Proviamo, fiociniere. Sta saldo che io mi arrampico su di te. Koninson si piantò presso la lampada, colle gambe aperte e la testa curva e il tenente gli saltò agilmente sulle spalle. Strappò il pezzo di pelle che chiudeva l'apertura per impedire alla neve di entrare e di spegnere la lampada, ma si trovò in presenza di un blocco di ghiaccio che resistette a tutti i suoi sforzi. - Siamo proprio sepolti! - disse con ira. - E dunque, cosa facciamo? Sento che l'aria diminuisce rapidamente. - Non ci resta altro che aprire una galleria. - Ne avremo il tempo? - Te lo dirò più tardi. Affrettiamoci, mio povero amico, che gli istanti sono preziosi. Saltò a terra, afferrò un solido coltellaccio, e intaccò febbrilmente la neve che ostruiva l'uscita, mentre Koninson si poneva a lavorare ai suoi fianchi armato d'una scure. La neve, a causa del freddo eccessivo, aveva acquistato una durezza estrema, ma non poteva resistere ai colpi disperati dei balenieri, si staccava in larghi pezzi che venivano subito gettati nell'interno della capanna. Ma l'aria veniva sempre meno ed era da prevedersi che sarebbe completamente mancata prima del termine del lavoro. Già la lampada non mandava più che una fioca luce e i polmoni dei balenieri funzionavano furiosamente senza riuscire ad empirsi. Koninson, specialmente, di quando in quando provava dei capogiri e si sentiva mancare le forze. Avevano scavato quasi un metro di ghiaccio, quando il povero giovane che impallidiva sempre più si arrestò, lasciando cadere la scure. - Signor tenente! - mormorò con voce semispenta. - Io ... io ... non ne posso più ... - Coraggio, Koninson! - balbettò Hostrup che consumava i suoi ultimi resti di forza, menando coltellate furiose contro la crosta di ghiaccio. Il fiociniere tentò di rimettersi al lavoro, ma gli fu impossibile e si accasciò rantolando. In quell'istante la lampada si spense e una profonda oscurità regnò nella capanna. Il tenente emise un urlo di rabbia. - Bisognerà ... morire ... qui dentro!.. - rantolò, stringendo i pugni. Aveva perduta ormai ogni speranza e all'estremo di forze stava per cadere a fianco del fiociniere, quando un pensiero gli balenò nel cervello. Fece appello alla sua energia, si precipitò verso un angolo della capanna, afferrò il primo fucile che trovò sotto mano, l'armò rapidamente e puntandolo in alto fece fuoco. Alla detonazione formidabile che fece tremare le pareti staccando larghe croste di ghiaccio, Koninson si rizzò sulle ginocchia balbettando: - Signor ... Hostrup! ... Il tenente non rispose. Ritto in mezzo alla capanna, col capo in aria, gli occhi fissi sulla volta, colla bocca sbarrata, pareva che attendesse qualche cosa. Un leggero fischio si fece udire e subito dopo i due poveri balenieri, che poco prima si credevano perduti, respirarono dapprima stentatamente e poi a pieni polmoni. Koninson gettò un formidabile "oh!" di soddisfazione, mentre il tenente, malgrado il freddo, si tergeva il sudore che gli bagnava la fronte. - Avete aperto un foro con una palla? - chiese Koninson, accendendo la lampada. - Sì, fiociniere, e, come vedi, è stata una eccellente idea. - E venuta proprio a tempo, signor Hostrup. Mille grazie! Ah come respiro! - Respira più che puoi, poichè il buco potrebbe turarsi da un momento all'altro. - Scaricheremo ancora i fucili. - Purchè non ci crolli addosso la capanna. Credo che faremo bene ad aprirci una galleria e sbarazzarci del ghiaccio e della neve che ci seppelliscono. - Mano alla scure, adunque, signor Hostrup. Ora mi sento forte come un gigante. Non perdettero tempo; dopo due ore di accanito lavoro raggiungevano la superficie del campo, sul quale si erano stesi oltre tre metri di neve, che il freddo intenso aveva convertito in solidissimo ghiaccio.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 1 occorrenze

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