Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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L'ANNO 3000

677894
Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Spesso il massaggio è associato alla corrente elettrica, dinamica o nervea, e a speciali abbassamenti o innalzamenti di temperatura; per cui è possibile nello stesso individuo di portare su tutta la superficie del corpo od anche soltanto sopra un centimetro quadrato della sua pelle una data quantità di moto, di calore e di elettricità, diversamente associati e diversi nell'intensità e nel tempo. Nel Ginnasio in singoli riparti si studia l'equitazione, il nuoto, la lotta, il salto, la corsa, il velocipedismo; insomma tutti gli esercizii dello sport. Un'intiera sezione è dedicata all'idroterapia igienica e curativa, e chi volesse comparare i metodi usati nell'anno 3000 con quelli rozzi e primitivi del secola XIX potrebbe persuadersi dei grandi progressi, che aveva fatto questo ramo dell'igiene. Il Ginnasio è nello stesso tempo una scuola e una palestra. Nella scuola si accettano i fanciulli e i giovanetti, che dopo esser stati visitati da un medico sono consigliati a seguire un dato metodo di ginnastica, che si adatta alla loro età e alla loro costituzione. Dopo un certo tempo possono chiedere di essere sottoposti ad esame e ricevono un attestato, che li dichiara egregi o mediocri cavallerizzi, nuotatori, lottatori, ecc. In questi tempi ogni uomo si crederebbe disonorato, se giunto ai vent'anni non sapesse nuotare, cavalcare, correre, saltare, lottare. La forza muscolare ben esercitata ha fatto quasi del tutto scomparire dalla terra il nervosismo, la nevrastenia e tutti i malanni fisici, che avevano tanto tormentato uomini e donne dalla fine del secolo XIX fino al secolo XXI. Ogni anno si danno due o tre grandi feste atletiche, nelle quali gli allievi e i dilettanti del Ginnasio fanno bella mostra di sè. Sono feste solenni, alle quali prende viva parte di curiosità amorosa tutta la popolazione e vi assiste sempre anche il Pancrate coi suoi quattro grandi ministri.

LA GENTE PER BENE

678055
Marchesa Colombi 1 occorrenze
  • 1893
  • F. A. Brockhaus - A. Asher e C.- Veuve Boyveau - Ernesto Anfossi
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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E, al momento di dirlo, quelle esitazioni, que' contorcimenti, quel ridere scemo, quasi che il fare una manifestazione d'affetto ai genitori fosse cosa buffa, quegli straordinari abbassamenti di voce e tutto il corredo di smorfie, con cui i fanciulli sogliono guastare le più care scene di famiglia, lo sanno loro, signorini miei, come si traducono in lingua parlata? * Che ragazzi egoisti! Come sono freddi pei loro genitori! Tutto quello che fanno è una formalità compiuta per forza, e non hanno neppur abbastanza delicatezza per non farsi scorgere. Triste solennità per que' genitori! E triste idea, soggiungo io, che danno quei fanciulli della loro educazione! Vi sono poi fanciulli soprammodo disgraziati, che non hanno più mamma o non hanno più babbo. Ed altri la cui sventura è più grande ancora: li hanno perduti entrambi. È un parente, un'istitutrice, che tiene il luogo di que' poveri cari. Allora, a quel parente, a quell'istitutrice, debbono gli stessi riguardi che avrebbero dovuto a' genitori. Se è una sola persona che veglia su di loro, debbono ingegnarsi a farle da sè stessi qualche improvvisata che le rallegri i giorni solenni; poichè, naturalmente, non debbono farsi consigliare da lei. Allora non vi sarebbe più improvvisata possibile. In tal caso, un lavoretto semplice che sappiano eseguir bene, qualche fiore, poche parole scritte, venute schiettamente dal loro cuoricino, anche con qualche errore, non importa, ecco quello a cui debbono attenersi. Pregare un maestro oppure un conoscente che scriva per loro una lettera, sarebbe quanto dire alla persona a cui fanno omaggio, la quale conosce troppo la loro capacità per essere ingannata: * "Badi, non ci avevo proprio nulla nel cuore. Non ho trovato una parola per lei, ho dovuto farmela prestare da altri." Dolorosa novella questa, e tutt'altro che fatta per allietare un giorno solenne. Alle volte però si possono recitare de' versi ed è certo un pensiero grazioso, sebbene difficilmente i versi possano essere scritti dal bambino che li dice. Ma bisogna che siano scritti appositamente per quella circostanza; o, quanto meno, che il fanciullo, leggendoli in qualche buona raccolta, li abbia compresi perfettamente, e vi abbia trovato l'espressione dei propri sentimenti per la persona alla quale vuol dirli. Ma è assai difficile trovare in un libro i versi che si adattino precisamente a' sentimenti, a' rapporti sociali, alle qualità, alle circostanze d'una persona. Una allusione fuor di proposito basta a metter in ridicolo chi li dice, ed anche la persona a cui sono rivolti. Io conobbi, anni sono, una bambina, che non aveva più mamma, povera gioia! Il suo babbo occupava una alta situazione, ed era sempre assorto in gravi lavori. L'educazione della piccina era affidata ad una vecchia signora nubile, buona senza dubbio, come lo sono tutti quelli che prendono cura de' bambini, ma d'aspetto tutt'altro che avvenente, di modi rigida, rigorosa, punto espansiva, austera nel suo vestire che era sempre nero o color tabacco. Una mattina, giocando con un calendario che stava sul camino, la piccola Gemma vide che quel giorno era San Gaudenzio. L'onomastico della sua governante, che si chiamava Gaudenzina. Cosa fare? Non lo aveva saputo prima, ed omai il babbo era andato allo studio, e non c'era speranza che rientrasse fin all'ora del pranzo. Tuttavia la bimba era compresa del suo dovere, e si sarebbe fatto uno scrupolo di non fare un complimento alla governante. Nel suo imbarazzo pensò di andare in cucina a consultare la cuoca. * Se tu volessi andar a prender de' fiori, Margherita... insinuò la Gemma colla voce supplichevole. * Sie! De' fiori ai ventidue di gennaio; dove li prendo? * Allora, aiutami a pensare cosa debbo fare per la signorina; (la signorina era l'appellativo con cui si soleva nominare la severa governante, che non era mai discesa alla famigliarità di lasciarsi chiamare col suo nome). Fu un'ardua questione. La cuoca cominciò col proporre alla bimba di fare un sonetto. La Gemma non sapeva cosa fosse un sonetto. * Un sonetto, come quello lungo lungo, che ha recitato lo scorso Natale al babbo, spiegò la cuoca. * Quella era una poesia. * Ebbene, una poesia è un sonetto. Ne faccia uno e lo reciti questa sera alla signorina. * Ma io non so farlo. * Se scrive sempre!... * Sì, ma non so come si fa a far le poesie. So soltanto copiare. * Ne copii una da un libro. Ne ha tanti! Era un'idea. La bimba la trovò subblime, e la proposta fu approvata alla piccola unanimità da quell'ingenua assemblea. La Gemma si mise a sfogliare con gran sussiego il suo libro di lettura, ed a leggerne tutte le poesie. Non ne capiva gran cosa. Ce n'erano di quelle che parlavano della patria: comprese vagamente che non facevano al caso suo. Poi c'erano delle favole: La cicala e la formica; La rana ed il bue; Il cane e la fonte. Ti pare che una di queste possa andare? domandò alla cuoca. La cuoca trovò che quelle storie di bestie erano fatte per raccontarsi dalle governanti a' bambini, e non dai bambini alle governanti. * E proprio per la signorina non dicono niente, soggiunse. La Gemma continuò a cercare. Finalmente trovò una poesia che le parve messa là per lei. Non la capiva tanto bene, poverina: aveva appena sette anni, e non capiva molto chiaramente neppure la prosa; figurarsi poi i versi! Ma quelli erano dedicati ad una signora, e le pareva ben chiaro che le facessero de' complimenti. La Gemma cominciò a copiarla colla sua più bella scrittura. Vi sciupò un quinterno di carta, con cui la cuoca fece un rogo per nascondere la cosa anche al padrone. Giacchè la grande impresa era riuscita senza il suo concorso, bisognava serbare l'improvvisata anche a lui. La sera giunsero parecchi conoscenti che andavano a fare la partita alle carte col babbo della Gemma e la governante, e quando quella signora fu seduta fra loro, cogli occhiali d'argento e con un bel vestito color tabacco, nuovo per la solennità della circostanza, la Gemma si fece innanzi tutta trionfante colla poesia scritta in mano, mentre la cuoca dalla porta faceva capolino, per godere anche lei di quel trionfo dovuto in gran parte alla sua pensata. Una salva di elogi accolse la bimba. * Come! La Gemmolina era riescita da sè sola a combinare quella gentilezza? Era una meraviglia. E dove l'aveva copiata? Nel libro di lettura? Ma che idea luminosa! * Via, leggila tu stessa la tua poesia, disse la signorina. Sarà più accetta a me, e la sentiranno tutti. Incoraggiata così, la Gemma aperse la carta, fece un bell'inchino, e cominciò a leggere: Bella, sul fior degli anni, Cinta d'allegri panni, Sopra un sentier di rose, Tu vai movendo il piè: Tutte le belle cose Hanno una vita, un palpito Un'armonia per te. La signorina color tabacco aveva varcata la cinquantina, e non era per nulla superiore a questa disgrazia. Lascio pensare come accogliesse il complimento della bimba, ed in che imbarazzo mettesse il babbo di lei, col suo risentimento. La povera Gemmolina non capiva nulla di quel cambiamento di contegno a suo riguardo. Lei non aveva mai pensato se la signorina fosse bella o brutta, giovane o vecchia. Una idea simile viene di rado ai bambini circa i loro superiori. Io aveva una mamma bellissima, e non lo seppi che tardi, dopo la sua morte, sentendolo dire, ripensandoci, ed osservando i suoi ritratti. Si dice: «La mamma è bella» si reagisce contro quelli che fanno il cattivo scherzo di dire: «La tua mamma è brutta.» Ma non si pensa mai a renderci ragione d'una cosa nè dell'altra. Mi ricordo di un servitore che s'aveva in casa, il quale era d'una bruttezza proverbiale. Si diceva: Brutto come Tommaso per dire l'ultima espressione del brutto. Ma era tanto buono e carezzevole coi bimbi! Io lo adorava; lo colmavo di carezze e di baci; e quando udivo dire che Tommaso era brutto mi mettevo a piangere, e protestavo che era bello, con una convinzione, ed una fede che avrebbe smosso i monti. Mi ricordo pure di una maestra che ebbi più tardi, la quale, poveretta, era gobba, ed aveva il naso schiacciato. Mi pareva un prodigio di bellezza: era la mia ammirazione. Mi sforzavo di tenere alta una spalla, e mi schiacciavo il naso contro i cristalli delle finestre, nella speranza di rassomigliarle. La Gemmolina era nella stessa ignoranza su quell'argomento; a lei per complimento tutti dicevano che era bella, e le era sembrato giusto di dirlo anche lei alla persona a cui voleva fare un complimento. E, ad un tratto, il babbo aveva interrotta la sua lettura; la signora s'era ritirata nella sua camera in collera: un silenzio glaciale era succeduto a tutte le gentilezze che l'avevano accolta un momento prima, ed il babbo aveva finito col mandarla a coricarsi col cuoricino serrato. * Ma perchè? domandava alla cuoca. * Perchè il sonetto diceva che la signorina è bella. E la signorina è rimasta male perchè è brutta. * È brutta? ne sei sicura, Margherita? Fu un triste episodio per la povera Gemmolina. Ora è una piccola mammina di vent'anni; e leggendo questi ricordi della sua infanzia, si ricorderà d'insegnare alla sua creaturina, quando sarà in grado di capir qualche cosa, a non recitar mai complimenti, quando non comprenda bene cosa voglion dire. Anche tra fratellini e sorelline si debbono scambiare saluti, auguri nelle circostanze speciali, e dimostrazioni d'affetto. - - - Loro poi, miei piccoli lettori, dovranno cercare d'essere i primi a far atto di cortesia verso le loro sorelline. Un uomo, anche in erba, deve essere sempre gentile e deferente verso una signora, anche se è una sorella, e se porta la gonnellina corta. Ed alle amiche delle loro sorelline debbono volgere il saluto loro pei primi; debbono cedere i posti migliori, e, quando cominceranno a farsi grandicelli, a dieci, dodici anni, non le tratteranno più col tu come si usa tra bimbi. Andando fuori di casa in compagnia, senza darsi l'aria buffa di piccoli galanti, nè offrirsi di portare gli scialletti, i panieri, gli ombrellini delle ragazze, cercheranno di compiacerle se loro li pregano con discrezione di portarli. E, se volessero caricarli in modo, da render loro faticosa la strada ed impossibile di divertirsi e correre, dovrebbero scusarsi con buon garbo, offrendosi però di consegnare quegli oggetti al servitore o alla bambinaia. - - - E, poichè ho accennato alle persone di servizio, debbono ricordarsi, miei piccoli lettori, * le piccole lettrici sono comprese, * che i primi giudici della educazione dei padroni sono i servitori. Li stiano a sentire quando discorrono in anticamera colla cameriera dei loro piccoli amici: * E così come va, Teresita? Si trova bene in questa casa? * Così, così, veda (cameriera e servitori si danno, sempre del lei). Per la signora, è come servire la Madonna, il signore, lui, non dice mai nulla. Ma i bambini, che tempesta! * Non sono buoni? * Punto. E che mala grazia! «Teresita questo; Teresita quello; Va; vieni; fa.» Comandano come sultani; e mai una buona parola.… * Ah! da noi poi è differente. Tutto quel che domandano è per favore, per ogni servizio: «Grazie, Giannotto.» * Quelli sono bambini per bene! Glì altri no; hanno capito, miei piccoli lettori? Dappertutto c'è da ìmparare. Ma badino; si parla ancora. Vogliamo ascoltare dell'altro? Chissà che ci sia ancora qualche cosuccia di buono. È la Teresita che riprende: * I padroncini della Caterina sono buoni. * Oh! quelli poi sono troppo buoni. Li ha visti mai, Teresita, a passeggio? Si figuri che vanno a braccetto della Caterina come fosse la loro mamma. * Ah! È per questo poi che la Caterina non li rispetta, e gli dà del tu. * Ma che le pare, rispettarli? Sono sempre in cucina, frugano nei piatti, le fanno dei dispettacci, e se ci arrivano, siedono alla tavola della servitù. * Allora si capisce che la Caterina li tratti da pari a pari. È l'opposto de' miei che sono d'un'arroganza.… Io ho il mal vezzo di risponder brusca qualche volta, ed allora, sentirli come saltano! «E che i padroni sono loro, e che io sono una serva, e che mi si paga perchè debba obbedire....» * Oh! qui da noi di queste parole non se ne sentono. Anch'io, veda, ho un po' il vizio di risponder male. Ed allora bisogna sentire con che pace e con che serietà mi dicono: «Siate un po' più cortese, Giannotto. La mamma ne avrebbe dispiacere se sapesse che ci fate uno sgarbo.» La gli vada a voler male a bambini educati a quella maniera! La lezione è completa, signorini miei. Cerchino di imitare i padroncini di Giannotto: evitino gli errori di quelli della Caterina e della Teresita, e si comporteranno benissimo colla gente di servizio. - - - In tutte le case dove c'è o c'è stato un bimbo, si vede una sediola d'un'altezza straordinaria, stretta stretta, con due bracciolini, e qualche volta anche una sbarra a saliscendi dinanzi per assicurare dalle cadute la personcina minuscola che ci si deve sedere. Quel mobiluccio, che i Toscani chiamano seggiolotto, è il trono del bimbo. Finchè si mette a tavola inalberato su quel piccolo trono, il bimbo regna sul mondo; ma, appena ne discende, appena adotta una sedia comune, fosse pure per starvi in ginocchio, perchè seduto non arriverebbe col nasino sopra la tavola, allora è il mondo che regna su lui. Allora non è più permesso pigliare il cucchiaino in mano dalla parte che si mette in bocca; nè cacciar le manine sul piatto; nè accarezzare in viso i convitati, nè buttare le posate ed il pane per terra; nè canticchiare o parlare tra sè: nè esprimere ad alta voce la propria opinione sopra un argomento qualunque, mentre i commensali parlano di tutt'altra cosa. È assolutamente proibito di far qualsiasi commento sulla figura o sul vestire o sul contegno delle persone; un errore in cui i bambini cadono ispessissimo. Una volta c'era in casa di mia sorella, a pranzo, una buona e rispettabilissima signora la quale era affetta da un grosso neo sulla punta del naso. Una mia nipotina, che non aveva ancora due anni e parlava appena, impressionata da quella sporgenza insolita, allungò il ditino traverso la tavola, ed accennando quel naso disgraziato, disse: * Ci-gno-a ha bibì. La supponeva una malattia, ed aveva la buona intenzione di compiangerla. Ma che mortificazione avrebbe risparmiata a noi tutti, se non avesse manifestato così apertamente la sua opinione! Un'altra manìa dei bambini è di sindacare la distribuzione che fa la mamma nel piatto pei loro fratellini, e di annunciare tutti i piatti appena entrano in sala da pranzo, come fossero personaggi importanti. * La minestra! Mamma, mi permetti ch'io non mangi minestra? * Oh! Gigi non mangia minestra? Neppur io. * Neppur io allora! E la mamma deve interrompere ogni discorso, trascurare gli ospiti e le persone della famiglia, per metter fine a quel battibecco. Alle frutta poi: * La crema! Mamma, a me darai i geroglifici di cioccolatte! * Anche a me. * No, l'ho detto prima io. Nel loro profondo egoismo, sono persuasi che il pranzo è fatto unicamente per loro. La questione è soltanto di sapere chi reclamerà primo i bocconi migliori. A tutti gli altri commensali debbono bastare gli avanzi. E questo spettacolo disgustoso di egoismo e di avidità, che merita così poco gli onori del bis è ripetuto quasi ad ogni servizio. Ma i miei piccoli lettori, se pure, eccitati dall'olezzo inebbrianti di qualche piatto favorito, sono caduti in tali sconvenienze, arrossiscono ora nel rileggere qui a sangue freddo le loro parole. Vorrebbero, senza dubbio, alla prossima occasione comportarsi in modo che i loro parenti non abbiano a rimanerne male. Ebbene, si persuadano che la loro parte non è nè difficile, nè sacrificata. La mamma non si mette a mangiare di nulla, se non ha servito prima i suoi figliuoli, questo lo sanno. Ma debbono pur sapere e tenere per certo, che quello che lei mette loro davanti è calcolato da lei nella giusta proporzione delle loro facoltà digestive. Debbono persuadersi che per le loro liti, per le loro piccole opinioni personali sul servizio, non mette conto d'interrompere un discorso, e neppure di occupare un minuto l'attenzione della compagnia. Quando non sono in famiglia non prenderanno mai l'iniziativa per dare il buon appetito. Basterà che lo diano piano ai loro genitori. Se sono interrogati parlino, senza alzar la voce tanto da sbalordire, e senza abbassarla in modo assurdo. Non si restringano ai monosillabi sì e no. Se una persona li interroga, vuol dire che quel discorso è adatto alla loro intelligenza e capacità, e vi possono prender parte liberamente. Non reclamino mai nulla: non prendano il bicchiere colle mani tanto unte da toglierne la trasparenza; si ritirino quando la mamma lo dice, senza aver domandato di farlo prima, senza esitazioni, nè malumori, nè lagnanze. Evitino di fare qualsiasi rumore colla bocca nel mangiare; non mettano il tovagliolo in istato di fare schifo a vederglielo disteso dinanzi. Tengano la forchetta dalla mano sinistra, il coltello dalla destra; prendano il pane ogni volta che devono metterlo in bocca staccandone soltanto il pezzettino necessario; non posino mai le posate sporche sulla tovaglia; se si cambiano ad ogni servizio le lascino sul piatto; se sono in case di grandissima confidenza dove non si cambiano, le posino sul reggi-posate. Si rassegnino a lasciar le salse nel piatto, malgrado le tentazioni della gola, che vorrebbe asciuttarlo col pane come se l'avesse leccato il gatto. A questo modo pranzeranno bene, figureranno bene e non faranno indigestioni vergognose. Non c'è cosa più umiliante che il dover scontare ogni pranzo con un citrato di magnesia, come fanno, purtroppo, parecchi signorini di mia conoscenza, i quali nutrono una tale tenerezza pel loro piccolo stomaco, da non sapergli rifiutar nulla, anche quando i suoi desideri sono smodati. - - - Altre volte un ragazzo, levandosi da tavola si metteva a farne il giro domandando a ciascun commensale se avesse pranzato bene. Era imbarazzante pei ragazzi il rivolgere pei primi la parola a persone che conoscevano poco, o non conoscevano affatto. Ed era seccante per ogni individuo interpellato, che si trovava nella necessità d'inventare un complimento nuovo ad ogni bambino che veniva, e differente da tutti quelli detti dagli altri commensali. Supposto sei ragazzi che facessero a dodici convitati la stessa domanda invariabile: «ha pranzato bene?» le dodici immaginazioni dei convitati dovevano fornire la bellezza di 72 (dico settantadue) risposte variate sull'unico tema: * Sì, ho pranzato, benissimo. * Perchè, naturalmente, una persona educata non può pranzare in casa d'altri senza il superlativo assoluto. Se poi gli invitati non erano gente molto immaginosa, si correva il rischio di udire - Ha pranzato bene? - Benissimo, grazie; e tu? - Anch'io, grazie. In tutto 216 frasi, da mandar a monte la digestione d'uno struzzo o d'un elefante. E però, visti e considerati tutti gli inconvenienti sovraesposti, quel viaggio d'esplorazione intorno alla tavola in cerca dell'esatta misura d'appetito d'ogni convitato, fu abolito alla grande unanimità. - - - Alle volte accade che un ragazzo si trovi in salotto quando le persone di servizio introducono una visita, e la lasciano per andar ad avvertire la signora che deve riceverla. In tal caso è ben difficile che il visitatore, o la visitatrice, lasci al bambino l'imbarazzo di prendere la parola. Gli parla, ed il bambino non ha che rispondere. Dato però che il visitatore non facesse quel primo passo, tocca al piccolo padrone di casa a farlo, sacrificando la sua timidezza al dovere d'ospitalità. Si avanzerà, ad ogni modo, verso il nuovo venuto, e se questi non dice nulla, gli darà il buon giorno, e lo pregherà d'accomodarsi. Da parte d'un bambino è sempre meglio che si limiti a dare il buon giorno o la buona sera; perchè questo obbliga soltanto ad una risposta analoga. Vi sono persone che non amano discorrere coi bambini; questo non fa il loro elogio, ma vi sono. Risponderanno: buon giorno; grazie: sarà finita. Mentre invece, se il bimbo domanda «Come sta?» si richiede la risposta circa la propria salute, ed il ricambio della domanda, a cui il bimbo deve poi rispondere alla sua volta. Senza contare che al bambino, il quale non è in grado di comprendere nè di compatire la sofferenza di chicchessia, è affatto assurdo di esporre il nostro stato di salute. All'entrare della persona che deve ricevere la visita, il bambino si ritirerà, limitandosi a domandarne il permesso. In tutte le case però si ricevono visite, relativamente di confidenza, alle quali i bambini possono assistere per qualche tempo. Allora, come in tutte le circostanze, non debbono parlare colle persone adulte se non sono interrogati. Quando però una prima interrogazione li ha invitati a discorrere, non debbono obbligare il visitatore o la mamma a farli continuare il discorso a forza di domande, come se recitassero il catechismo. Dovranno prender parte alla conversazione, senza parlar troppo nè forte, ma senza soggezione ridicola, nè interruzioni nè silenzi assurdi, finchè il discorso sia esaurito. E non entreranno in un secondo argomento se non vi sono di nuovo invitati da una domanda diretta. Se i visitatori hanno con sè dei bambini, i piccoli padroni di casa si metteranno accanto a loro dopo aver salutato i loro parenti, ed avvieranno il loro discorso in modo da poterli invitare a giuocare; ma con naturalezza, e senza che appaia o un'abitudine imparata, o un effetto della noia, che provano a stare colle persone che sono nella sala. Vi sono bimbi che, chiamati in sala per una visita, vi accorrono tutti ansimanti, investono i visitatori ad uno ad uno con un: «Come sta?» a bruciapelo come se dicessero: «O la borsa o la vita!» e prima che l'ultimo interpellato abbia pagata la sua imposta a quella curiosità simulata, si voltano ai bambini e dicono colla stessa precipitazione: * Andiamo a giocare. Bisogna invitare il piccolo visitatore a giocare, ma senza fretta, e senza scortesia verso la gente che è in sala. E quando il bimbo ha detto di sì, il padroncino di casa deve rivolgersi a chi accompagna il suo giovine amico e domandare se permette che il ragazzo vada con lui a giocare. Una volta poi ottenuto il permesso, bisognerà lasciare la scelta dei giochi agli ospiti; e qualunque sia quello che scelgono, cedere a loro la parte più piacevole. È superfluo il dire che un bambino educato non deve mai nè domandare un giocatolo nè accettare un dono qualsiasi da un altro bambino, e neppure rispondere: «Se la mia mamma e la tua lo permettono accetterò» come fanno taluni, per avere la coscienza d'aver agito bene, senza tuttavia rinunciare affatto alla speranza del dono. Bisognerà rispondere: * Ti ringrazio; ma sai pure che i bambini non possono nè fare nè ricevere doni. * E se la mia mamma lo permette? potrebbe insistere l'altro. * La tua mamma lo permetterebbe sicuro per non fare una scortesia alla mia mamma ed a me; ma non bisogna metterla in questa necessità. E per nessuna insistenza non deve cedere e prestarsi a quella parte ridicola di giungere in sala ad esporre le sconvenienti domande: * Mamma, sei contenta ch'io offra questo? * Mamma, mi permetti di accettar quello? Se un bambino va colla famiglia a far una visita, osserverà le regole che ho già accennate riguardo al saluto, ed alla conversazione. Se nella casa dove va non vi sono bambini, e gli tocca di assistere a tutta una serie di discorsi che non comprende e non lo interessano, dovrà rimanere composto e non dare il menomo segno di noia. Convengo che questo è difficile. Mi ricordo ancora certe discussioni interminabili a cui dovevo assistere nella mia infanzia, tra la mia povera mamma ed una vecchia baronessa inferma, che non aveva nessun bambino in casa, e teneva in sala tre enormi cani barboni. Si parlava sempre di quitanze, ipoteche, usufrutto, capitale ed interesse. Avevo imparate a memoria quelle parole, e qualche volta mi sorprendevo a canticchiarle mentre giocavo colla bambola, ma mi erano oscure come il Pape satan Aleppe, he mi ha tanto fatto pensare, ed impaurita nei miei primi anni di scuola. Un giorno dopo aver assistito un'ora a quei discorsi inesplicabili, ed essermi fatto dire parecchie volte, di non dimenare una gamba, di non strappar la frangia del mio paltoncino, di non strofinare i nastri del cappello, di non agitarmi sulla sedia, di non fare assolutamente nessuna cosa, ridotta all'immobilità d'una piccola statua mal posata e punto artistica, sentii che la mia pazienza era completamente esaurita; e tentai di porre fine a quel supplizio, ricorrendo all'atto più incivile che possa fare una ragazzina per bene; dissi coll'accento strisciante della noia: * Mamma, andiamo? Vedo ancora, dopo tanto, tanto tempo, la vampa di rossore che salì al volto della mia cara e bella mammina. Si rizzò senza parlare. Era tanto educata, e sapeva che un rimprovero, fatto a me in presenza alla vecchia signora, avrebbe fatto capire meglio l'idea inurbana, che avevo implicitamente espressa: «Mi annoio mortalmente in sua compagnia.» Ma la baronessa non aveva bisogno che le si mettessero i punti sugli i Si alzò a stento, prese le mani della mia mamma nelle sue, e disse: * Sì; va, povera Nina. Anche u devi annoiarti, così giovane e bella, a passare tanto tempo con una vecchia; sono egoista quando ti prego di venire. Perdonami, cara la mia figliola; sono inferma e sola. Ma non ho più molto da vivere; avrò presto finito di annoiarti. Ed il suo povero volto, tanto rugoso, si raggrinzava, e le tremavano le labbra e la voce. Piangeva! La mia mamma non rispose, aveva gli occhi gonfi. La baciò, le strinse la mano, ed uscì tutta rossa e mortificata, come se quella villania l'avesse fatta lei. Non mi disse nulla. Non una parola di rimprovero. Capì che ero già castigata. Oh se lo ero! Pochi giorni dopo si disponeva ad uscire, senza avermi detto nulla. * Non mi vuoi con te, mamma? le domandai. * No, vado dalla baronessa. Chinai il capo avvilita. Era la mia punizione. Venivo espulsa dalla casa di quella venerabile amica di mia madre. La baronessa morì pochi mesi dopo, senza che l'avessi più riveduta. Ma passarono gli anni, mi feci donna, e non ho mai dimenticata quella scena dolorosa. Ed anche ora, quando ci penso, sento al cuore la stretta di un rimorso. Non si affligge impunemente una vecchia buona! D'allora non mi accadde mai piú di dimostrare la noia che provavo in compagnia. Tuttavia, debbo confessare che la risentivo ancora e spesso. Ma per evitare alla mia buona mamma un dispiacere, come quello che le avevo dato una volta, cercavo di non farmi scorgere. Quando mi trovavo con parecchi altri ragazzi, si aveva l'abitudine di raccontar fole. Si ripetevano quelle udite altrove, o se ne inventava, se ci pareva di poterci mettere un po' di costrutto. Per lo più era un'illusione dell'amor proprio; ma infine.... Mi venne l'idea di scacciar la noia de' lunghi silenzi miei, e dei lunghi discorsi degli altri che non comprendevo durante le visite, preparandomi in mente le fole che dovevo dire. La prima volta che mi provai, fui stupita quando la mamma si alzò per uscire. Mi pareva d'esser rimasta pochissimo in quella casa, e la fola era tutt'altro che finita. Consiglio questo rimedio contro la noia, ai miei piccoli lettori. Oltre il vantaggio di non offendere nessuno, s'impara a fantasticare ed a far castelli in aria, e questa è una ginnastica che sviluppa l'immaginazione, ed avvezza alla solitudine, ed al silenzio. Mi ricordo d'aver fatto da bambina dei castelli in aria, che, interrotti e ripresi, hanno durato parecchi giorni; e ne serbo ancora memoria come di cari avvenimenti. Li creavo a modo mio. Il mio spirito non poteva esserne contrariato, e vi si manteneva sereno. E la serenità di spirito dà la pace al cuore e rende buoni. Ed il mio volto esprimeva la soddisfazione interna; e quelle persone, se fossi stata ad ascoltarle, coi loro discorsi m'avrebbero dato noia, credevano d'aver parte alla mia soddisfazione, e ne erano contente, ed io più di loro. Sovente da tutte quelle contentezze risultava l'offerta di qualche chicca, la quale certo non poteva che aumentarle. - - - Quando vien fatto ad un ragazzo un invito perchè rimanga a pranzo, o a cena, o a passare qualche giorno in campagna presso una famiglia che non è la sua, non deve mai scusarsi con quei complimenti comuni e convenzionali: * Non vorrei dar disturbo; * Grazie! non posso accettare; * Sarebbe indiscrezione se accettassi, ecc. Il bambino non è padrone di sè. Non può disporre da sè, se accetterà o no l'invito; e però, è inutile che si dia l'aria di rifiutarlo. Dovrà limitarsi a mostrarsi molto lusingato dell'invito, rimettendosi al genitori, o a chi per loro, perchè decidano in proposito. Sia che accetti o rifiuti, non deve mai, nè colle persone che lo hanno invitato, nè coi ragazzi della famiglia ripetere le discussioni avvenute in casa, circa l'invito; nè le osservazioni, nè i commenti uditi. Può darsi che la mamma dica: * No. In quella casa non si avvezzano abbastanza bene i ragazzi. Non voglio che i miei si vizino al cattivo esempio. Questo lo dirà nell'intimità, col proprio marito, e, di comune accordo, troveranno una scusa plausibile per non accettare l'invito senza offendere le persone, cortesi ed ospitali, che l'hanno fatto. Ma guai se un ragazzo indiscreto avesse il cattivo pensiero di ripetere a' suoi piccoli anici quell'osservazione! Basterebbe a far nascere un diavolìo, a mettere la discordia fra due famiglie, a screditare sè stesso e l'educazione che ha ricevuta. Quand'anche dal ripetere una parola udita, non dovessero risultare altri danni che quello di fare un po' ridicolo il piccolo relatore, sarebbe sempre abbastanza per consigliarle a non ripetere mai, se non i discorsi sui quali ha potuto acquistare la certezza che le stesse persone, da cui li udì, non esiterebbero a farli dove lui li ripete. Anche a questo proposito l'infanzia della piccola Gemma mi offre un esempio. Usciva coll'istitutrice per andar in una famiglia dove spessissimo la trattenevano a pranzo. * Se invitano la Gemma a pranzo, posso lasciarla? domandò l'istitutrice prima di uscire, al babbo della bambina. Il babbo che s'annoiava di non averla a tavola, rispose: * Se le fanno molte istanze, la lasci, altrimenti veda di ricondurla. Infatti la signora che andavano a visitare, disse alla bimba: * Mi fai il regalo di rimanere a pranzo, Gemmolina? * Il babbo ha detto che se mi fanno molte istanze posso restare, ripetè quella pettegolina, senza saper neppure cosa volesse dire fare delle istanze. e istanze reclamate a quel modo le furono fatte; sfido io! Ma l'istitutrice rimase male, ed il babbo pure quando lo seppe, al vedere rivelato così, che in famiglia s'era quasi contato su quell'invito, e si erano prese anticipatamente delle disposizioni in proposito. Sono cose che tutti fanno, ma non si dicono mai. Rimanendo ospite in casa d'altri, un bambino educato dovrà mettersi in ischiera coi bambini della famiglia, obbedire come loro, alzarsi, coricarsi, mangiare, studiare, giocare, passeggiare, alle ore fissate pe' suoi piccoli compagni. Soltanto, se quelli si permettono qualche indisciplinatezza o qualche capriccio, allora si guarderà bene dall'imitarli. Andando in giardino, si ricorderà sempre che i frutti ed i fiori non sono proprietà della sua famiglia, e però non gli è permesso toccarli. Trovando qualche mammola, qualche ciclamino, o fragole selvatiche, o altre cose che, siccome vengono naturalmente dalla terra, non si considerano proprietà esclusiva di nessuno, le potrà cogliere ed offrire alla mamma, alla sorella, alla zia, all'istitutrice de' suoi ospiti. Ma deve ricordarsi pure che le persone educate e gentili, accolgono con apparente soddisfazione e con ringraziamenti anche una cosa di cui non sanno che farne, per puro riguardo a chi l'offre. Per cui si guarderà bene dall'insistere sulla stessa offerta, com'è pur troppo una noiosa abitudine dei bambini, che, se vedono una signora gradire un fiore, seguitano a portargliene piene le mani, pieno il grembiulino, obbligandola a caricarsi d'un fascio di fieno. A tavola poi dovranno osservare le stesse regole che ho indicate pel pranzo in casa propria; ed anche con maggior scrupolo, perchè una sconvenienza commessa in casa d'altri, acquista maggior gravità. Fuori dalla loro famiglia, se appena non sono più piccolissimi, non saranno serviti nel piatto dalla mamma nè da altri. Passerà il piatto di mezzo davanti a loro come davanti agli altri commensali, e dovranno servirsi da sè. Prendano un po' di tutto, accettando il pezzo che vien più comodo, e non istiano a fare una scelta accurata da piccoli ghiotti, facendo aspettare il vicino. E si servano sempre con misura, in modo da non lasciare avanzi sul piatto. Dimentichino addirittura le parole: "Non mi piace" come se non esistessero, perchè, con quelle, sembra che vogliano fare un rimprovero ai padroni di casa d'aver fatto servire una cosa che non ha la fortuna d'incontrare il loro gusto. Se vi sono bambini di casa, i piccoli invitati si ritireranno da tavola quando si ritirano loro, altrimenti aspetteranno di riceverne un ordine diretto. Uscendo da una casa dove sono stati a pranzo, i bambini, come tutti gli invitati, sono tenuti ad un ringraziamento ai padroni di casa. Ma sono caldamente pregati di non cercare di fornir complimenti imitati da qualche signore o signora, per far il ragazzo di spirito ed attirar l'attenzione. Riescirebbero soltanto ad apparir pedanti, pretenziosi e ridicoli. Si limitano a dire: Tante grazie e buona sera, o qualche cosa di simile; ma molto simile, perchè i bambini, nuovi al mondo, non si rendono ben conto del valore delle parole, non sanno quello che va detto, e quello che non va, e facilmente sbagliano. Conosco un ragazzino di sette anni e mezzo che, uscendo da una casa dove era stato a pranzo, disse al padrone di casa, coll'aria di un giudice supremo che decreta un'assolutoria: * Votre dîner a été bon. Je vous remercie. * Aveva la cattiva abitudine di parlar francese anche in compagnia. Tutti risero di quello strano complimento, e lui si credette il bambino più spiritoso dei due mondi, mentre l'ilarità generale era nata dalla grottesca figura che faceva erigendosi lui, così piccino, a giudice culinario; e dichiarando implicitamente, che non avrebbe ringraziato se il pranzo non gli fosse sembrato buono. - - - Alla scuola, in collegio, gli stessi doveri che si praticano in casa verso i genitori si debbono praticare verso i maestri; agli stessi obblighi di civiltà a cui si è tenuti in società verso i conoscenti, si è tenuti verso i compagni. Nulla è più scortese che quel saluto gettato là dall'uscio della classe, con una cadenza da lezione obbligatoria, che è purtroppo il saluto generale degli scolari ai maestri: * Riverita, signora maestra! E si va in fretta a far quel saluto, e si grida tutte in coro, qualche volta tra piccoli scoppii di risa soffocate, e poi, via correndo, come se si dicesse * Là! anche questa è fatta. "J'étais enfant; j'étais petit; j'étais cruel;" Tout homme sur la terre, où l'âme erre asservie, Peut commencer ainsi le récit de sa vie. Così dice quel grande de' grandi che è Victor Hugo. E dice il vero. Se sapessero i ragazzi quanto sono crudeli verso quel maestro dal quale fuggono così, senza una parola affettuosa! Quel maestro vive per loro. Oh! se si voltassero indietro a vedere com'è triste, quell'essere solo in una scuola deserta! Il saluto al maestro deve essere fatto con calma, accostandosi alla cattedra. Non si deve però sporgere la mano, nè domandare un bacio. Una scuola si compone di trenta o quaranta scolari, spesso di più; sarebbe indiscrezione e da stupido imporre ad una persona quaranta strette di mano o quaranta baci. Nulla è più villano che il mettere in caricatura i propri maestri, anche quando non se ne possono avvedere. Io aveva questa pessima abitudine. Quando mi riusciva d'impadronirmi della cuffia e della tabacchiera d'una vecchia maestra di disciplina, e d'imitarne il portamento ed i modi, le mie compagne si divertivano straordinariamente. E che applausi! Che ammirazioni! Io credeva di fare qualche cosa di molto spiritoso, ed una volta non seppi resistere al desiderio di mettere a parte la mia famiglia di quel mio talento peregrino, e dei miei trionfi. * Ebbene, di che cosa ridete? domandò la mamma. * Ma della signora maestra. * E che cosa ha di ridicolo la maestra? * È vecchia. * E poi? * E poi.... non altro. * E allora cosa c'è da ridere? Infatti cosa c'era da ridere? Ero stata cattiva, incivile, e stupida per giunta. - - - Un ragazzo che entra per la prima volta in una scuola, o in un collegio, è dolente per la famiglia lasciata; è timido in quell'ambiente nuovo, ed ha bisogno d'essere consolato, incoraggiato. Invece per lo più, appena esce alla ricreazione, si vede venir incontro due o tre monelli (o monelline), i più impertinenti nella scuola, che gli fanno subire un interrogatorio goffo, indiscreto, brutale. * Come ti chiami? I tuoi parenti sono ricchi? Cosa fa il tuo babbo? L'abito di uniforme lo hai già fatto? È fine? Il mio è dei più belli del collegio. E questo era il tuo abito da passeggio? Di seta ne avevi? E di velluto? E via di questo passo un piccolo inventario della guardaroba sua e della sua mamma, poi delle abitudini di famiglia; se si va in campagna, e se la campagna è bella, ed un mondo di calcoli insulsi e volgari, a cui i bambini non dovrebbero nemmanco pensare. E, quel che è peggio, l'accoglienza che gli si fa è misurata sul grado dell'agiatezza della famiglia, che si desume dalle risposte del ragazzo. Per poco che un ragazzo sia perspicace, sente l'intenzione dei piccoli inquisitori, e, se il suo animo non è più che leale e candido, s'induce a mentire per evitare delle umiliazioni. Ho conosciuta una bambina, figlia di un mercante di mobili, che si fece passare, durante i tre anni di collegio, per figlia di un possidente. Otto anni dopo la rividi; eravamo due giovinette. Sua madre pregò il mio babbo di lasciarmi andare a passar alcuni giorni a Vercelli con sua figlia. La poveretta si fece di brace e non appoggiò l'invito. Mio padre non accettò. Pochi giorni dopo mi scrisse confessandomi d'aver mentito la sua condizione in collegio, perchè s'era accorta che esser figlia di gente che aveva bottega era la cosa più vergognosa che si potesse immaginare nella nostra stupida aristocrazia da collegiali. Dopo otto anni duravano ancora le funeste conseguenze di una volgare abitudine da scolarette. Un altro fatto anche più disgraziato. Il mio nonno molte volte, mentre era fuori con me, mi aveva fatta entrare in un botteghino, dove si provvedeva di carta, inchiostro e tutto quanto gli occorreva per lo studio. In quel botteghino, oltre la donnetta che serviva al banco, vedevo spesso una ragazza lunga, allampanata, timida, che non osava guardarmi, e si faceva di brace se la guardavo io. Quando fui in collegio, un bel giorno vidi entrare in classe un'esterna, che riconobbi subito per la figliola del botteghino, sebbene lei, tutta vergognosa, fingesse di non conoscermi. Allora, sempre dietro quella falsa idea che i bottegai fossero bassa gente e l'avere bottega fosse cosa umiliante, da vergognarsene, mi venne l'ispirazione generosa di avvertire tutte le esterne che la mamma di quella ragazza aveva un botteghino da cartolaio nella contrada del collegio; e che si guardassero bene dall'andare là a provvedere i quaderni, ed i fogli da compiti, e le penne. Avrebbero potuto incontrarvi la ragazza, che ne sarebbe stata mortificata... Era tanto timida... bisognava risparmiarle un'umiliazione. Le mie compagne, grulle quanto me, seguirono il generoso consiglio. Ed io era soddisfatta di me, ed un po' gloriosa dell'opera mia. Nel segreto del mio cuore mi aspettavo se non un ringraziamento, da quella ragazza, troppo timida per essere espansiva, uno sguardo di riconoscenza, una stretta di mano, un cenno qualunque che mi provasse che non era ingrata. Invece mi parve che diventasse ancora più selvatica, e che, quando per caso incontravo i suoi occhi, mi guardassero con un'espressione di malevolenza. Ne concepii una triste idea del suo carattere, che non sentiva gratitudine per la squisita delicatezza del mio tratto, e tra me e le compagne se ne parlava con indignazione. Ve ne furono alcune che dissero: * «Meriterebbe che s'andasse tutte quante a comperare quaderni e ogni cosa nel suo botteghino, per mortificarla!» Ma io, clemente, le pregai di non farle subire un castigo così severo. Una mattina quella selvaggia entrò in iscuola più rossa e timida del solito, e passò alla cattedra a consegnare una lettera alla maestra; poi, nel rasentare i nostri banchi da convittrici per andare al suo fra le esterne, che era più indietro, mi volse un'occhiata addirittura di sfida. Io pensava che a questo mondo «si è più sovente puniti di una buona azione che d'una cattiva»; pensavo che a «far bene si trova male» ed altre riflessioni sull'ingratitudine umana, quando la maestra, dopo aver letta la lettera, domandò alle esterne se era vero che avevano tutte cessato di provvedersi di quaderni alla bottega Tale dei tali. i udirono vari sì male articolati, timidi, soffocati, poi una, la più ardita, si alzò e rispose francamente. * Sissignora. * Perchè? * Ma... perchè ora che viene a scuola con noi la figlia della... cartolaia, non volevamo mortificare una nostra compagna andando a comperare... non si sarebbe potuto fingere di ignorare che la sua mamma ha una bottega.... Io trovai quell'esterna indelicata d'aver detto tutto questo alla presenza della poveretta, ma arrossii di modesto orgoglio al pensiero che quella gentilezza l'avevo immaginata io, e m'aspettavo un po' confusa che la maestra cercasse l'origine della cosa, e mi lodasse pubblicamente.... Invece ella diede sulla voce all'esterna. * Ma che bisogno c'è di ignorare che la sua mamma ha una bottega? Perchè volete che se ne debba mortificare? Ne avete più di grullerie da mettervi in testa? Quella buona signora ha cercato apposta un negozio nella contrada, per aver la pratica della scuola, e mi scrive lagnandosi di averla perduta, e domandandone il perchè. Sapete che la vostra stramberia la mette in tali imbarazzi da farle quasi chiudere il negozio? È una crudeltà quella che avete fatto, oltre ad essere una sciocchezza. Il commercio, sia grande che piccolo, non ha mai fatto torto a nessuno.... E faccio grazie del resto della predica, che è facile immaginarsi. - - - Ai balli da bambini, i piccoli padroni di casa debbono sacrificarsi un pochino, ballando a preferenza con quelli che, o per essere troppo piccini o troppo timidi, rimangono trascurati. Alle volte vi sono bimbi che non sanno ancora ballare, ma al vedere quel movimento insolito, all'udire la musica, sono invasi da una grande smania di prender parte all'agitazione generale. I parenti li trattengono perchè non vadano ad impacciare le figure danzanti; e loro, se sono docili, obbediscono a malincuore; se sono indisciplinati fanno dei capricci; ad ogni modo, invece di divertirsi si trovano contrariati ed infelici. Un po' di abnegazione da parte dei piccoli padroni di casa, che tratto tratto li vadano a prendere, e, tenendoli per le manine li facciano saltare in giro, dando loro l'illusione di ballare come gli altri, basterebbe ad evitare ogni guaio. E la gioia di vedere quelle piccole creaturine col visetto infiammato, la bocchina aperta in un riso tripudiante, e gli occhietti scintillanti di piacere, darà a quei buoni figlioli un largo compenso pel piccolo sacrificio che fanno. È così bello il sentire che abbiamo in noi la facoltà di rendere qualcheduno felice! Ed è così triste veder piangere quei cari piccolini che non sanno ancora nulla della vita! Quest'inverno andai più volte ad un ballo settimanale pei bambini, dove c'era sempre una povera fanciulletta inferma. Aveva sette anni e stava ancora in braccio alla bambinaia; non poteva nè camminare nè moversi, e parlava con fatica. Ed era una cosa commovente e cara vedere alcune giovinette che appena avevano cessato di ballare, non dimenticavano mai d'andare un momento a farla discorrere, a portarle un confetto, un fiore. Al buffet ra una nobile gara a chi prenderebbe prima il gelato da offrire alla piccola inferma; e bisognava vedere con che buon garbo glielo facevano pigliare, * perchè non poteva fare da sè * e come le parlavano di cose serene senza mai alludere alla sua disgrazia. Debbono avere un bel cuore ed una buona mamma le bambine che sanno, nella foga d'un divertimento, comportarsi a questo modo. Udii una bellissima e giovane mamma, che esortava la sua bambina ad imitarle. * Se ci vai, le diceva, se ti fai forza per vincere la tua timidezza * perchè non ti farei il torto di credere che sia ripugnanza o mala voglia, * più tardi ti troverai contenta di pensare che quella povera bimba malata si ricorderà di te, e ti vorrà bene, perchè sarai stata cortese con lei e l'avrai aiutata con qualche buona parola a dimenticare che non può muoversi e divertirsi come le altre. La bambina esitava sempre; crollava le spalline, faceva delle smorfiette un pochino sprezzanti, un pochino altere. Ah! lei non sapeva, poverina, cosa fossero malattia, privazioni, sofferenza. Chissà forse che nel suo piccolo cervello inconsapevole sentisse una certa vanità del proprio benessere, della propria bellezza, e credesse di umiliarsi accostandosi a quella bimba disgraziata e sdegnasse di farlo. Allora la bella e buona mammina fece il viso serio e disse: * Io t'ho dato un consiglio, t'ho detto quello che sarebbe tuo dovere. Pensaci e fa come il cuore ti dice. Non voglio farti far nulla per forza. Ma mentre parlava era triste, e poco dopo, non trovandola più accanto a me, guardai in giro e la vidi inginocchiata presso la bimba malata che la faceva discorrere e la divertiva. Le mamme buone fanno come Gesù Cristo; predicano colla parola e coll'esempio, ed i bambini, fortunati loro! non hanno che imitarle. - - - Una delle cose che incontra più resistenza presso i fanciulli è l'adempimento dei doveri religiosi. Non è il caso di discorrere qui del grado di devozione che possono avere, e tanto meno di discutere sulla maggiore o minore utilità delle pratiche religiose in rapporto alla loro età, ecc. Le modeste frivole convenienze sociali, che formano il tema di questo modesto e frivolo libriccino, s'insuperbirebbero troppo di vedersi un momento innalzare al grado d'una questione religiosa; e le famiglie mi direbbero, con ragione, che sono uscita dalla linea di demarcazione che mi ha tracciata il titolo del mio lavoro. Del resto, parlo ora ai fanciulli; e, per loro, il sistema adottato dalla loro famiglia per educarli è sempre il migliore. Se la mamma, il babbo, o chi per loro, crede bene di condurli in chiesa, qualunque sia la disposizione del loro spirito, debbono starci con un contegno rispettoso e tranquillo. Non borbottino all'orecchio di chi li accompagna, non urtino col gomito i fratellini o gli amici, non sussurrino fra loro, non ridano, non si voltino a guardare qua e là: e quando si cantano salmi o litanie non strillino come matti per il piacere di cantare, se sanno d'aver la voce stonata, come è frequente nei bambini, che metterebbe la confusione nel coro. E qui debbo far punto. Sento dire che il mio lavoro non è destinato specialmente ai bambini. Tutt'alpiù, è permesso loro di occupare le poche pagine che ho scritte fin, qui nel libro scritto per le loro sorelle, le loro mamme, ed anche un poco pei loro babbi. Che farei, miei piccoli amici? Per ora dobbiamo lasciarci. Ma lo faccio con rincrescimento. È vero, le loro mamme li guideranno assai meglio di me. Ma ciò non toglie che avrei voluto farlo un po' più lungamente anch'io. Non ne ho forse il diritto, io la bisnonna centenaria di parecchie generazioni? Forse un giorno riprenderò questo lavoro, lo amplierò, lo completerò, e ne farò un volume a parte, dedicato unicamente all'infanzia, ai volti rosei, alle testine bionde, che Dio le benedica! Intanto, quando, parlando alle mamme, avrò ancora, per inciso a parlar di loro, saranno le ore meno faticose, le più care di questo lavoro, arduo per me, e forse seccante per chi lo legga. Purchè non riesca inutile affatto, sarà già qualche cosa.

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