Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbandono

Numero di risultati: 6 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245415
Grazia Deledda 6 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Poi mi prese un senso di rabbia contro la mia incertezza: mi avanzo, sento l'acqua penetrarmi nelle orecchie, negli occhi, nelle narici; mi abbandono e apro la bocca e bevo come se bevessi del veleno. L'istinto mi portava su; sentivo le mie membra agitarsi tutte, e bevevo e gemevo; finchè mi sembrò che tutto l'interno del mio corpo si riempisse di un liquido nero e amaro, e un'ombra mostruosa mi travolse.

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Se io non apro, penso, il nano è ben costretto a riprendersi Ia bambina: e se la lascia lì, io posso con testimonianze accusarlo del suo abbandono: quindi se la riprenderà. Ma fu un momento: riaprii subito: però non feci entrare l'uomo. Mentre riaccostavo dal di fuori la porta gli accennai di tacere, di seguirmi; egli stava incerto; io lo presi per un lembo del mantello e lo trassi con me fino alla porta del mio creditore. Il vecchio marinaio non faceva più la guardia sotto il fanale; all'avvicinarsi dell'uomo s'era ritirato, forse per avvertire in casa che la creatura arrivava. Infatti la porticina del corridoio era aperta, con un barlume di luce in fondo: io picchiai, senza abbandonare il mantello dell'uomo, che sembrava un po' impaurito ma non cercava di allontanarsi; e subito riapparve iI vecchio: ci venne incontro, disse qualche cosa. Qualche cosa che doveva essere molto rassicurante perchè il nano non esitò ad aprire il suo mantello e a dare al vecchio un involto bianco.... Mi ritrovai solo nella strada, appoggiato al muro della casa del mio creditore. Mi pare che piangessi. Non so, ero tutto agitato; mi pareva di dovermi spaccare e cadere a pezzi per terra.

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Un senso angoscioso di abbandono mi vinceva. Dunque, neppure il delitto valeva ad avvicinarmi, a mescolarmi agli uomini: dunque ero destinato a vivere come le lucciole, in silenzio, nell'ombra, spandendo invano la muta luce del mio amore. Mi alzai; mi parve di rivedere la testa di Fiora; era un punto rosso, una finestra illuminata della sua casa. Subito mi diressi a quella volta: inciampavo fra I'erba, piu ubriaco di quando m'ero sollevato dal ciglio della strada: ma giunto alla siepe mi accorsi che qualcuno aveva rimesso a posto i rami e chiuso il varco con dei rovi. Allora fui ripreso da un senso di rabbia, però misto a dolore e a un desiderio morboso di castigo. Strappai di nuovo i rami, i rovi, riaprii il varco e penetrai nei campi di lei. Mi ero tutto graffiato: sentivo le mani umide di sangue. Attraversai il campo di frumento, il campo di fave. Non cercavo di nascondermi: anzi di tanto in tanto mi fermavo, aspettando che qualcuno mi vedesse e credendomi un ladro mi sparasse contro una fucilata. Sarei morto felice quella notte. Ma nessuno appariva; neppure la morte mi voleva. Attraversai la vigna. La vigna era in fiore: e tutta vibrante di lucciole. Oh solo con la musica si potrebbe esprimere la dolcezza e lo spasimo di quell'attimo quando io mi fermai in mezzo ai filari e d'un tratto mi trovai avvolto come da una rete di fili luminosi. Erano le lucciole; e il profumo della vigna pareva emanasse da loro. mi passò il desiderio di morire; guardai in su e mi parve che gli occhi delle stelle rispondessero al mio sguardo. Qualche cosa si slanciava dall'anima mia in alto, in alto, come un zampillo di fontana, e ricadeva su di me rinfrescando l'arsura del mio cuore selvaggio. Desiderai di vivere, di amare, di soffrire, di darmi tutto, di diventare un uomo pur io davvero, di parlare senza parole e di ringraziare Dio di avermi fatto nascere, di farmi soffrire. Allora continuai ad andare verso il punto illuminato, ma a misura che mi avvicinavo, il chiarore pareva alzarsi sopra di me per sfuggirmi anch'esso e non lasciarsi raggiungere. Era una finestra alta, munita di inferriata: forse la finestra della cucina, forse della camera di lei. Io non sapevo. Forse là dentro si chiacchierava, forse un cane nell'aia abbaiava. Io non sentivo nulla. Tutto era buio nel resto della casa e la porticina dell'aia era chiusa. Rimasi alcuni momenti immobile attaccato al muro sotto la finestra: sentivo iI cuore battermi, ma null'altro. Poi mi prese il pazzo desiderio di afferrare quel lembo di luce, come una bandiera da una vetta: mi slanciai, una, due volte; d'un tratto la luce si spense, e mi parve di averla spenta io. Tornai indietro, nella vigna; e anche laggiù non trovai più la luminosità di prima. Tutto era diverso, tutto scuro. Camminai fino a trovarmi davanti alla casa colonica. Dalla parte della facciata le piccole finestre dell'unico piano sopra il terreno, e i due grandi portoni, tutto era chiuso: l'odore del fieno, del letame, delle bestie, si mescolava al profumo della notte. Toccai tutti e due i portoni, sempre più meravigliato che nessuno apparisse: mi sembrava di sognare, di essere morto e che fosse la mia anima a errare in cerca di un rifugio. E mi dispongo ad allontanarmi, quando nel prato a fianco della casa vedo un quadrato di luce, come una finestra aperta sull'erba un'ombra vi si disegna: è la testa di lei! Oramai la riconosco così bene, anche nella sua ombra. Di volo sono là: e vedo una piccola finestra illuminata, e la figura di lei che vi si affaccia immobile, più scura della sua ombra. Dapprima non parve badare a me. Mai come in quel momento avevo sentito lo spasimo di non poter gridare. Mi misi sul quadrato di luce sull'erba, in modo ch'ella potesse vedermi: ella restava immobile. Allora mi slanciai fin sotto la sua finestra, con l'intenzione di andare a sbattermi, a sfracellarmi contro il muro; ma io non avevo toccato questo, ch'ella, d'un botto, certamente spaventata, chiuse la finestra. Di nuovo tutto fu buio. Ma io non potevo andarmene così. Mi buttai a terra, trassi il taccuino, trassi i fiammiferi: scrissi alcune righe pazze, dove confessavo il mio delitto, il mio pentimento, il mio desiderio di perdono; e sotto il mio nome. Staccai il foglietto e l'avvolsi intorno a un sassolino che lanciai alla finestra. Il vetro si ruppe; parve ingoiarlo. Io aspettai ancora, ma nessuno apparve. Allora me ne tornai al paese e di là in casa della zia, alla quale feci conoscere la mia volontà ma anche la difficoltà di coltivare il terreno. Occorrevano dei denari: dove trovarne se lei non ne aveva? Lei non ne aveva, nè era donna capace di procurarsene. Invano io la lusingavo. "È un bel posto, con aria buona, con acqua buona. Venite a vederlo: vi piacerà. Verrete a stare con me: là potrete allevare tutte le bestie che vorrete. Saremo come in paradiso. Fabbricheremo una casetta e sarà piena di sole, di aria. Vendete questa casa, per procurarci i soldi.,, Ella si mise a ridere, lei che non rideva mai. E il suo riso mi ricordò quello di Fiora, quando le avevo proposto di sposarla. Mi venne desiderio di ammazzare la zia. D'altronde riconoscevo ch'era un'idea ingiusta, la mia, a pretendere che ella vendesse la sua vecchia casa alla quale era attaccata come un'anima al suo corpo. Può essere brutto e vecchio quanto volete, questo corpo; la sua anima non lo abbandona volentieri! Questa ragione non mi impediva di serbare astio alla zia e alla sua casa. Eppure questa parve cominciare ad esercitare un triste fascino anche su di me. Nei tempi dopo il ritorno dal "Platano,, , non uscivo mai: tutto al più continuavo ad andare a fare qualche spesa, per conto della zia, in una drogheria all'angolo della strada, dove questa s'incrocia con un'altra più larga tutta bianca di sole e di polvere con gli sfondi perduti uno nell'azzurro dei monti l'altro nell'azzurro del mare. Rientravo a casa stordito da quell'attimo di luce, di calore; e mi sembrava di rientrare in una grotta, tanto la nostra abitazione era diaccia e ombrosa. Solo nel cortiletto cadeva il sole, a picco, ma spariva presto, lasciandovi un tepore chiuso, fermo: i muri rivestiti di verde odoravano di musco, e a questo profumo un po' triste e voluttuoso si mischiava l'odore bestiale dei conigli. Io me ne stavo là, seduto su una cassa rovesciata, e pensavo continuamente alla mia avventura. A volte chiudevo gli occhi e mi pareva di essere ancora nella vigna in fiore: un misterioso senso di attesa mi si risvegliava nel cuore e lagrime di tenerezza mi bagnavano gli occhi. No, tutto non poteva essere finito così. Allora riaprivo gli occhi e prendevo il taccuino per scrivere ancora a Fiora; ma non potevo: non potevo più neppure scrivere il suo nome. Mi pareva di essere diventato muto anche dentro di me: non potevo esprimere la mia angoscia, la mia stessa impotenza. Eppure aspettavo sempre; non sapevo che cosa, ma aspettavo. E io che avevo commesso il delitto avevo l'impressione di subire un'ingiustizia, perchè mi si negava il diritto, il modo di ripararlo, o almeno d'espiarlo con un castigo qualsiasi. Solo per amore di Fiora ed anche per quel senso di attesa che mi faceva sperare mio malgrado, non andavo a denunziarmi. Ma a giorni si ridestava in me una sensualità feroce: mi pareva di aver diritto alla donna ch'era stata mia, che doveva essere ancora solamente mia. Era come se fossi stato io il violentato e pretendevo una riparazione. Ma tutte queste tempeste si sbattevano entro di me, inutilmente, come in un vulcano chiuso: fuori dovevo sembrare un po' idiota, e nessuno si curava di me, neppure la zia, che pensava solo al mio benessere materiale come a quello delle sue bestie. Eppure bastava che una foglia, un fiore, una piuma calda di sole cadessero dal muro, davanti a me, per commuovermi: li prendevo fra le dita, li esaminavo, ne sentivo l'odore, il colore: le bestie, no, non le toccavo e non le amavo; ma quelle piccole cose mute e vagabonde mi piacevano; si rassomigliavano a me: e odoravo a lungo i fiori, fino ad appassirli, e li baciavo pensando a Fiora. Una cosa sola mi aiutava a vivere, fra tanta desolata solitudine: il sonno. Dormivo a lungo: e mi abbandonavo al sonno come ad un vizio, non perchè mi portasse l'oblio, ma perchè mi gettava in una esistenza fantastica che si univa in qualche modo alla mia avventura. Nell'addormentarmi mi pareva di essere ancora davanti ai portoni chiusi della casa colonica: li toccavo uno dopo l'altro, poi andavo a mettermi sotto la finestra di Fiora. Inciampavo e mi svegliavo di soprassalto. Ma poi mi riaddormentavo e sognavo. Invariabilmente, i sogni mescolavano la mia vita nell'Istituto con la mia avventura. Mi ritrovavo nel giardino della villa coi compagni: andavo in cerca dell'istitutore e lo trovavo con Fiora: ma questa mi sorrideva, di sopra la spalla di lui, e bastava tanto per farmi svegliare tutto in sudore e singhiozzante. Quell'angoscia notturna era la mia salvezza; poichè mi costringeva a piangere e nel pianto si scioglieva il mio dolore.

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