Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbandono

Numero di risultati: 42 in 1 pagine

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Il codice della cortesia italiana

184209
Giuseppe Bortone 3 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
  • UNICT
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E quando si è sicuri dei propri sentimenti e dei sentimenti dell'altro, che tenga dietro un sapiente abbandono: sapiente, perchè mi par bello, oltre che suggestivo, che ci sia sempre, nel cuore, un cantuccio recondito in cui l'altro s'industri di veder chiaramente. Imperdonabile leggerezza sarebbe, per i giovani, andare al matrimonio senza che ciascuno avesse, in precedenza, fissato a se stesso un programma di vita coniugale. So bene che il nuovo stato provvederà da sé a consigliare, caso per caso, a suggerire, ad imporre anche; ma è pur bene che una linea generale di condotta ci sia già nei propositi dei coniugi futuri. Punto di partenza, nel programma di vita coniugale, deve essere un grande spirito di tolleranza; senza di questo, non valgono separazioni e divorzi: la catena delle esperienze pietose sarà eterna!

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Ho gia detto che nulla è piú antipatico e piú ridicolo dell'affettazione; dunque, bisogna evitarla nelle lettere, esponendo il nostro pensiero con naturalezza: naturalezza che si potrebbe chiamar « abbandono » nelle lettere familiari e d'amicizia, e « semplicità » nelle altre. La convenienza - dipendendo, piu che da altro, dal buon senso, dal tatto di chi scrive - si acquista con l'esperienza e con l'educazione dello spirito e delle buone maniere. Nelle lettere familiari e d'amicizia, una introduzione semplice e viva e una chiusa buona e affettuosa: tra l'una e l'altra, le notizie e, in genere, quel che abbiamo da dire, non con un ordine stringato, ma tuttavia senza andate e ritorni. È permesso qualche poscritto, che consente di tornare un momento su ciò che s'è detto, o di colmare una lacuna. Le lettere d'affari possono essere svariatissime, dalla commissione alla raccomandazione: requisiti principali, l'ordine, la chiarezza, la brevità: principalissimo, la gentilezza. Alcune lettere di questa categoria richiedono un tatto speciale: quelle, per esempio, con cui si dànno o si chiedono informazioni. In tal caso, bisogna scrivere secondo che la coscienza suggerisce e in termini prudenti, perché la piú piccola parola inconsiderata può pregiudicare moltissimo una persona o una istituzione. Si mettono fra le lettere dette di convenienza quelle che alcune circostanze speciali della vita obbligano a scrivere: lettere di condoglianze, di congratulazioni, di ringraziamento, di scusa. Le prime son le piú difficili. Esse si propongono di consolare. Tutto vi è delicato: la scelta del momento in cui si scrive, le parole che si usano, i sentimenti che si esprimono. E il complesso di questi diversi elementi dipende dalle relazioni fra mittente e destinatario. Se chi scrive è buon amico di colui cui la lettera è diretta, prende parte veramente al suo dolore: in tal caso, il cuore guiderà certamente la penna e farà dire delle cose delicate e consolanti. Se, invece, col destinatario, non si hanno che relazioni di società, gentili senza essere amichevoli, si andrà meno avanti nella intimità del dolore, si limiterà a dare l'assicurazione della propria simpatia. Il difficile, in parecchi casi, è di restare discreto, evitando di cadere nella freddezza, che è quasi un'offesa, come quando si scrive « condoglianze » su una carta da visita, o di profondersi in effusioni inverosimili. Ora, non si cadrà in questa mancanza di gusto se si è mossi da sentimenti, elevati e generosi; se, in una parola, si ha del cuore. Non vi possono esser regole per questa specie di lettere, il cui merito principale consiste nell'adattarsi al carattere delle persone e delle circostanze. Il dolore colpisce cosí diversamente le anime! Alcune quasi vi si adagiano; e, per queste, il miglior modo di condolersi è parlare della perdita patita. Altre, al contrario, mettono come del pudore a chiudere il loro dolore in fondo al cuore, e non amano sentir ricordare da altri l'oggetto amato e perduto: per queste, sarà opportuno scivolare sui ricordi dolorosi e guardarsi dal tentar di consolare un dolore inconsolabile. Insomma, nulla vale, per l'ispirazione, come la sincerità del sentimento. Per conto mio, quando si tratti di condoglianze e di congratulazioni, alla lettera preferisco il telegramma. Le altre lettere di questo gruppo debbono anch'esse, come quelle di condoglianza, essere scritte al momento opportuno; ossia non appena si può, dopo l'avvenimento che è la causa: nascita, matrimonio, onorificenza, favore ricevuto, offesa fatta. E anche qui la disposizione con cui prendiamo la penna è la guida migliore; il buon gusto farà evitare gli eccessi che, in parecchi casi, sono l'indifferenza o la effusione iperbolica. Che diremo, in ultimo, di quel tal generino di lettere qualificate « anonime »? Inviarne per far delazioni, maldicenze, calunnie, o per destare sospetti, è peggio che appiattarsi dietro a un muro per tirare una fucilata al viandante: è l'atto piú malvagio e piú vile, che mette l'autore al bando dell'umanità. Non bastano, poi, il contenuto e la forma: ci sono anche le forme, dalle quali altresí si giudica della buona educazione, della gentilezza, della finezza di modi di chi scrive. Non si partecipano i saluti di altri che ai propri pari e agli amici; eccezionalmente, agli sconosciuti e ai superiori; a questi si possono presentare soltanto i saluti dei genitori o dei parenti. Né s'incarica un superiore di salutare un inferiore; come il superiore eviterà di affidare all'inferiore i suoi saluti per qualcuno. Non sono convenienti i poscritti nelle lettere di riguardo; in nessun genere di lettere, per far proteste d'amicizia o per congratularsi. Se si affidano lettere ad amici perché cortesemente le recapitino ad altri, si consegnano aperte: gli amici si affretteranno a chiuderle. La carta dev'esser semplice, ma non ordinaria: la bianca è la migliore. Non dev'esser profumata. Non si scrive alle persone di riguardo su carta intestata o su cartoncini. La busta deve essere della medesima qualità e del medesimo colore del foglio. Dev'esser buono l'inchiostro: leggibile la calligrafia. Si lascia sempre un centimetro di margine laterale; né si rimandano alla pagina successiva i saluti. Non si cominciano le lettere col pronome Io né con un gerundio. Sono aboliti i qualificativi sperticati: ricordare che l'illustre è molto piú dell'illustrissimo e si può dare soltanto a pochi. Sul rovescio della busta è prudente scrivere il cognome e il recapito del mittente sia per ricordarlo a chi si scrive sia perché si sappia a chi restituire il messaggio nella eventualità che non si trovi il destinatario. Ecco i recapiti, con la forma diretta e indiretta, da usare con le varie categorie di personaggi: Al Sommo Pontefice: Alla Santità di - Santo Padre - Voi, a Voi, di Voi, Santità, Santo Padre. Ai Cardinali: Eminenza reverendissima - Eminenza - Voi, Eminenza - Di Voi, Eminenza. Agli Arcivescovi e Vescovi: Eccellenza - Voi, Eccellenza - A voi, Eccellenza. Non sappiamo se ai membri della Costituente sarà data la vecchia qualifica di Onorevole. L'Eccellenza ai Ministri, ai Prefetti, ecc. non è ormai che un ricordo e, per alcuni, una nostalgia piú o meno pungente. Quanto alla chiusa, secondo i casi: devozione filiale, devotissimo suddito, devoti ossequi, con devozione, devotissimo, ossequi, con devozione affettuosa, con affetto devoto, obbligatissimo, gratissimo, cordialissimi saluti, ecc. Scrivendo, poi, a persone di riguardo e alle signore, i pronomi e i possessivi vanno scritti con la maiuscola: Lei, La, Sua, ecc. Usa scrivere con la maiuscola anche i pronomi indiretti, incastrati in altre parole: scriverLe, salutarLa. In alcun Paesi, le qualifiche dei mariti sogliono prenderle anche le loro signore. In Italia, no. Nell'Italia meridionale - evidente avanzo di spagnolismo - usa dare comunemente il « don » e il « donna ». Se c'è ancora chi prende gusto a darlo o a sentirselo dare - ma nel meridionale - poco male, per quanto anche la legge sia intervenuta a disciplinare quest'uso. Normalmente, il « don » si dà soltanto agli ecclesiastici, anche davanti al cognome, e ad alcuni nobili. La data in cima al foglio, a destra: da Siena, a' 30 di maggio del 1945, il vocativo in mezzo, o al principio del rigo; se seguíto da punto, lettera maiuscola da capo; se da virgola, si prosegue, anche se da capo, con lettera minuscola. Si tenga presente che i numeri romani, hanno già il valore di ordinali; quindi, si scrive 30, ma con cifre arabe; III con numeri romani. In fondo alla lettera, è ridicolo mettere il caro o il carissimo con i « propri » saluti: secondo i casi, aff.to, aff.mo, dev.to, dev.mo: servitore, mai servo, che vuol dire schiavo. Nelle lettere familiari, meglio il possessivo: in quelle di riguardo, meglio a Lei, dev.mo, ecc. In queste, si suol anche ripetere il recapito in fondo al foglio, a sinistra. Non è corretto firmare con le iniziali o con sigle illeggibili. Scrivendo ad amici, basta il nome e l'iniziale puntata del cognome; o questo solamente. Non è corretto inviare lettere non sufficientemente affrancate. Il francobollo si attacca diritto, in cima a destra; il recapito deve avere tutte le indicazioni precise: sul rovescio della busta, il cognome e il recapito di chi spedisce; e questo sempre, facendo poco affidamento sulla memoria o sulla cura di colui a cui si scrive. Quando si desideri una risposta da persone con le quali non si sia in confidenza, unire il francobollo. Mi par quasi superfluo ricordare che non si scrive direttamente alle piú alte Autorità; ma alle persone loro specialmente addette, o agli uffici.

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Pagina 65

Passa l'amore. Novelle

241652
Luigi Capuana 2 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Intanto vi abbandono tutti alla maledizione di Dio!.... Giacchè io credo in Dio più di voi, signora baronessa che vi confessate due volte al mese e date questo bell'esempio ai figli vostri! Figli?... Figlie?... Io non ho più nessuno!... Nè moglie!... Nessuno!... Esco di qui coi soli vestiti che ho indosso.... Non voglio altro!... E il giorno che mi porteranno la notizia: - Il vostro palazzo è crollato; Dio Io ha scosso dalle fondamenta e vi ha seppellito tutti - quel giorno farò cantare un Te Deum!... Non metterò il lutto!... - Barone, per carità! - tornò a supplicare la baronessa. - Voscenza scusi; non si ragiona in tal modo!... Feliciano aveva pronunciato queste parole con tono dimesso ma così ironico, che il barone fece atto di slanciarglisi contro per schiaffeggiarlo come un ragazzo. Mariangela dètte uno strillo, la baronessa si mise a gridare, quasi la minacciata fosse lei; Rosaria si piantò davanti al fratello per fargli scudo col corpo, alzando la bruna testa dai lineamenti duri, aggrottando le sopracciglia, stringendo le labbra carnose. E fu il segnale della gran rivolta! Parlavano, strillavano, urlavano assieme, aggirandosi per la stanza, senza sapere quel che volessero, nè quel che facessero, mentre il barone in mezzo a loro continuava a ripetere frasi scomposte, con le braccia in alto, sventolando il foglio della citazione come segnale di minaccia e di gastigo; e la baronessa in piedi su la predella del seggiolone di noce, piangente, sperduta, urlava: - Barone! Figli miei!... Figli miei! Tutta la pazzia dei Zingàli parve si fosse scatenata improvvisamente, rompendo la lunga compressione, sconvolgendo quei cervelli squarciando quelle gole con orride grida, agitando quei corpi in una terribile convulsione di atteggiamenti, di mosse, di gesti furibondi, che avrebbero fatto scappare le persone fermatesi nella via ad ascoltare maravigliate, se fossero salite su, spinte dalla curiosità o dal desiderio di dar soccorso, giacchè si capiva che lassù accadeva qualcosa d'insolito e di triste. Poco dopo, le grida cessarono, la gente si disperse; e gli scarsi rimasti videro uscire il barone don Pietro-Paolo, vestito di nero, con l'abito abbottonato e un gran mazzo di carte sotto braccio. Nessuno osò domandargli che cosa era stato. Si scoprirono rispettosamente, e il barone rispose al saluto con la consueta sua affabilità.

Pagina 110

Ma, appena varcato il portone, la scala mal tenuta cominciava a dare un'idea dello stato di abbandono dell'edifizio caduto in mano di parecchi creditori del duca. Non avendo potuto mettersi d'accordo per spartirselo, essi vi tenevano un amministratore unicamente per esigere i fitti dei piani, senza mai farvi le più necessarie riparazioni. A una parete esterna del bugigattolo del portone stava affissato, da anni, il cartello con la scritta: Da vendere, in grosse lettere perchè desse nell'occhio anche dei passanti. Il portiere però, che sonnecchiava colà tutta la giornata, aggobbito sur una seggiolaccia, non aveva mai visto entrare qualcuno che mostrasse curiosità di visitare il palazzo con l'intenzione di comprarlo. E così esso prendeva sempre più l'aspetto di un edificio pieno di malinconia, dove potevano rifugiarsi soltanto persone disgraziate che volevano nascondere in quegli stanzoni, sformati da tramezzi e da accoltellati, la loro modesta esistenza. Il primo piano, diviso in tre appartamenti, era occupato da un sarto scarso di clienti, e dalle famiglie di un barbiere e di un cappellaio che avevano le botteghe ai due lati del portone. Il Salone egiziano dell'uno non giustificava affatto il pomposo titolo della tabella e la dozzina di cappelli a cencio, lavati, smacchiati e messi ad asciugare al sole nelle forme, indicava a che cosa si riduceva il mestiere dell'altro. Al piano nobile, la pensione Garacci, senza tabella, senza nessun altro segno che la indicasse, teneva spalancata notte e giorno la porta dell'anticamera, per comodo dei pensionati, la maggior parte impiegati, professori, pretori, giudici di tribunale e anche Commessi viaggiatori. I tre usci, uno di faccia e due ai lati, avrebbero dovuto restare sempre chiusi in ossequio della scritta incollata accanto al cordoncino del campanello e che raccomandava quella precauzione ai pensionanti sbadati. Dovevano essercene parecchi di questi sbadati, perchè ogni volta che io andavo a trovare il mio vecchio professore di filosofia teoretica nel buco, com'egli filosoficamente lo chiamava, dove la signora Garacci lo aveva relegato, in fondo a un corridoio buio, stretto ingombro di bauli e di arnesi smessi, trovavo l'uscio socchiuso, e spesso potevo inoltrarmi fino in fondo senza incontrare la sudicia donna di servizio che avrebbe dovuto fare la pulizia della camera.

Pagina 182

Cavalleria rusticana

243468
Giovanni Verga 1 occorrenze

Io non ti abbandono, se tu non mi metti colle spalle al muro. Ma te l'ho detto: voglio essere padrone di fare quel che mi pare e piace. Sinora, grazie a Dio, catena al collo non ne ho.

Pagina 31

Cosima

243798
Grazia Deledda 2 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Pagina 68

Pagina 83

Documenti umani

244476
Federico De Roberto 2 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Pagina 156

Domani, la desolazione sarà entrata in questa casa; domani, la vita ricomincerà ad ordire la tela delle sue più dolorose difficoltà intorno ai miei cari, che io abbandono, vilmente. Del mio coraggio che cosa ne avete voi fatto?... Ma, nell'abiezione in cui sono caduto, un barlume di nobiltà mi era rimasto finora; ed io avrei voluto - vedete - scomparire per sempre senza che nessuno sospettasse la miseria mia, senza che voi la sospettaste! senza aver l'aria di mendicare la vostra pietà! senza farvi sentire le mie grida ed il mio pianto!... Del mio orgoglio, della mia dignità, che cosa ne avete voi fatto?... No, no: è più forte di me; voi mi ascolterete, voi leggerete questa confessione, queste pagine su cui, silenziose, grosse, roventi, cadono di tratto in tratto le mie lacrime. Le lacrime di un uomo! le lacrime di chi non ha pianto fra i disinganni più amari, fra i dolori più atroci! è una cosa molto triste, ditelo: non è vero?... "Se voi sapeste quello che io ho sofferto! Se sapeste i torrenti di tristezze che hanno allagato il mio cuore! Se sapeste di che forza ho dovuto armarmi per sostenere questa feroce battaglia della vita; quante volte ho disperato, quante volte il vento della pazzia ha soffiato sulla mia fronte! Solo, senza un aiuto, senza il conforto neanche di una chimera, con la certezza che tutto è invano, io ho saputo resistere e persistere! Nelle strette del bisogno, fra l'ostile indifferenza del volgo, fra l'invidia, la doppiezza, la malvagità degli altri, dubitando di tutto e di tutti - primo di me stesso - io ho saputo compiere quello che gli uomini nominano il Dovere - e si limitano a nominare soltanto.... Ed avevo conseguita la pace, la meta più sospirata! il porto invocato durante le tempeste! ed avevo composto in un'urna le ceneri ben fredde delle mie illusioni.... quando voi siete venuta.... Non lo negate: siete stata voi! "Ah! io ero curioso, io ero interessante; bisognava vedere com'era fatto questo filosofo, questo anacoreta, quest'essere a parte, di cui nessuno fra quelli che vi circondavano aveva potuto ancora darvi un'idea! Bisognava provare su di lui la sottile magia dei vostri profumi, la dolcezza del vostro sorriso, la melodia della vostra voce, la soavità della vostra mano!... E quando, già preso dalle prime vertigini, egli tentava di sfuggirvi, e qualcosa, nei suoi sguardi, domandava pietà per lui, bisognava ancora strapparlo ai suoi rifugi, trascinarlo nel vortice che vi si aggira dintorno, legarlo ben forte a voi invocando il suo appoggio, l'aiuto della sua amicizia!... E quando, smarrito, incapace di resistervi più, egli tentava di soffocare il grido che stava per rompergli dal petto, bisognava ancora fargli perdere quel resto di ragione, bisognava ubriacarlo con l'assenzio della speranza, come la spia ubriaca il colpevole per strappargli la confessione del delitto!... "Ma che colpa ho io commesso! Perchè infliggermi questo gastigo? Che cosa ho io fatto a voi, od ai vostri?... Dicono che la gelosia sia un orribile tentatore, un truce consigliere; no, non lo credete! dite a tutti che non è vero! Ecco: il rispetto tremante, l'angoscia paurosa che io provo dinanzi a voi, si ridestano in me, sempre, alla presenza dell'uomo che voi amate. Ah! il sorriso di Dio si è posato su di lui! Scorgerlo da lontano mi fa battere il cuore! Io vorrei baciare la traccia dei suoi passi! Non lo sapete? Io l'ho difeso, a rischio di qualcosa di più della mia vita - a rischio del mio onore - quando un pericolo lo ha minacciato! Io, io stesso, l'ho ricondotto a voi, una volta che egli stava per isfuggirvi, ve ne ricordate?... Io vorrei soltanto spaccare il suo petto, strappargli il cuore dal petto, rompere il suo cuore, per farvi vedere, disgraziata, che mai! mai! mai! egli vi ha portata nel cuore!... Io vorrei soltanto scavare i suoi occhi, squarciare il suo cervello, per vedere che cosa nei suoi sguardi, che cosa nelle sue parole vi ha parlato per lui!... "E voi credete di conoscere l'amore? Oh, povera ignorante, che cosa ne sapete voi? Che cosa sapete dei ruggiti feroci che finiscono in pianto? dei mortali languori che sono un tripudio immortale? dell'ora che comprende la Eternità? delle parole che sono baci, dei baci che sono marchi roventi, del tormento che è delizia ineffabile? Chi avrebbe potuto farvi soltanto sospettare tutto questo? Avete voi incontrato soltanto un'Anima sul vostro cammino? Che pietà! che pietà! Io conosco tutta la vostra miseria! Io conosco tutte le prove per cui voi siete passata, tutti i vostri smarrimenti, tutte le vostre cadute. Sentite: vi sono delle infamie nella vostra vita. Ah, io non studio le mie espressioni; non me ne resta più il tempo! Io conosco tutti quelli che voi avete voluti: quale nausea invincibile! Venite qui, vicino, molto vicino, che nessuno possa sentire: sapete come essi parlano di voi? sapete come vi chiamano?... E quando io ho taciuto, compreso d'un infinito rispetto, pauroso di offendervi perfino col pensiero, voi avete riso!... E quando io ho pianto, ed i miei occhi gonfii ed arrossiti hanno tradito le mie mute angoscie, Voi avete riso!... E quando finalmente io sono caduto in ginocchio, stanco, stremato, febbricitante, mortalmente colpito, e quando ho pregato, ho supplicato, ho gridato, mi sono trascinato per terra, mi sono morse le mani, voi avete riso!... La mia vendetta! la mia vendetta! La vendetta che io ho vagheggiata, che io ho sognata nelle notti dell'incubo! Vedervi caduta nel fango, perduta per sempre, non conservare della donna che il nome! Vedervi trascinare al mio lato, supplicante, miserabile, indegna, e pagarvi e respingervi.... "Signore, che cosa ho detto? Compassione, compassione di me! O Madonna, per l'amore che vi ho portato, per l'amore che vi porto, perdonerete voi il bestemmiatore? Non v'accorgete che io vaneggio? Non v'accorgete che io sono un pazzo, un povero pazzo moribondo, doppiamente lamentevole e degno di pieta? O Madonna misericordiosa, avrete pietà di me? Perchè non mi farete ancora la carità che io vi chieggo? Infine, sono molto esigente? Che cosa imploro da voi? che mi tolleriate, che vi lasciate adorare, che mi lasciate respirare nella vostra aria, umile come uno schiavo, fedele come un cane, muto come una cosa! Oh, no! io v'inganno! non mi credete! non è possibile! la tenerezza trabocca dal gonfio mio cuore; sgorga dagli occhi in lacrime non più amare, dolcissime! irrompe dalle labbra con parole susurranti, carezzanti, più dolci delle lacrime! O vaga, o bella, o gentile, o soave, o sogno della mia morente giovinezza, o sorriso di poesia, o amor mio immortale, conosci tu i nomi con cui ti ho chiamata nella solitudine delle mie notti? Sai tu che nessuna, nessuna! ha mai sentito quei nomi da me?... Bisogna credere, non è vero, alle parole di chi muore! Ed io ti giuro, per te! che il mio cuore è rimasto vergine; che tra i fatali esperimenti della vita una cura gelosa ha fatto la guardia del mio cuore; che tu, tu sola, mi sei entrata nel cuore!... Come a lungo ti ho aspettata! Io sapevo che tu dovevi apparire. Quando la natura è stata in festa, quando il profumo dei fiori, come un incenso, è salito nel cielo clemente, e la gioia ed il tripudio hanno visitato le povere anime umane, io sono rimasto solo, ad aspettarti! Quando i tappeti delle foglie morte si distendono al suolo, ed invitano le coppie innamorate a vagare sotto le cupole d'oro dei boschi, tenendosi per mano, bevendo gli ultimi aliti del sole agonizzante, io sono rimasto solo, ad aspettarti! Le notti che il vento geme, che la pioggia scroscia, che il freddo sferza, quando è così buono riscaldarsi sopra un seno adorato, io sono rimasto solo, ad aspettarti! Non hai tu dunque mai sentito avvincerti lievemente, come da un essere invisibile? Erano le mie braccia che si protendevano verso di te! Non hai tu mai sentito sfiorarti la bocca, come da una invisibile foglia di rosa? Erano le mie labbra, che si avanzavano verso le tue! Non hai tu mai sentito un tepore penetrarti tutta, come una fiamma invisibile? Era l'anima mia, che se ne andava verso di te!.... Come a lungo ti ho aspettata! Avevo perfino perduto la speranza di incontrarti mai! Ma tu sei apparsa, ed ecco: i geli si sono distrutti, i veli funerei si sono strappati, le fredde ceneri hanno dato nuove vampe. O miracolosa, tale è la potenza del tuo sguardo! O deliziosa, vieni! vieni con me! lascia che il mondo dica; che cosa c'importa del povero mondo? Dimentica il mondo; dimentichiamolo entrambi; la vita comincia appena oggi per noi! Vieni, vieni con me! Vieni dove so io, dove è luce, armonia ed esultanza!... "Ah!... l'ora batte, fredda, monotona, spietata, ed ogni colpo mi picchia qui, sul cervello! Il giorno odiato già spunta; un canto risuona per la via.... Ho sognato ancora! ed il risveglio così crudele! Ma è forse tua colpa se il sogno non si converte in realtà? No, povero amore, la colpa non è tua. La colpa è di un Altro, o di nessuno! La colpa è della vita assurda, della sorte cieca, della disdetta fatale che pesa su noi tutti! Di resistere ancora io non mi sento la forza. Ho finalmente bisogno di oscurità e di silenzio. Ma ora, quando l'istante non è più lontano, ascoltami: io voglio dirti l'ultima mia parola, la parola che ti accompagnerà dovunque, la parola che tu più non scorderai. Se il voto di un morente val pure qualcosa, per la gioia che mi hai dato, per il male che mi hai fatto, ora e sempre, sii benedetta."................ ...................

Pagina XX

Il marito dell'amica

245018
Neera 8 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
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Pagina 110

Pagina 163

Alla mattina, mezzo svestita, entrava in camera di Maria e le buttava al collo le braccia nude, lasciandole sulla pelle l'odore di verbena de' suoi lavacri; sedeva famigliarmente sul letto, trattenendo le sottane che le cadevano, col busto slacciato, nel suo abbandono impudico di donna grassa, assonnata ancora, cogli occhi un po' rossi. Talvolta prendeva un pettine di Maria per lisciarsi i capelli o si provava un corpetto di lei, davanti allo specchio, e dappertutto lasciava una traccia del suo profumo molle e sensuale. Quando era uscita, Maria apriva la finestra; si lavava la faccia, il collo, le mani, nauseata e irritata, con un morso di gelosia nel cuore. All'asciolvere era un altro supplizio. Sofia si divertiva a punzecchiare suo marito, chiamandolo freddo e insensibile, convalidando l'argomento con allusioni scabrose, mettendo arbitra l'amica. Una volta Sofia era in vena di civetteria; prese dal piatto una ciliegia e scherzando, ridendo, colle sue moine vezzose volle per forza che Emanuele la mettesse in bocca e, siccome resisteva, si levò di scatto e andò a sedersi sul bracciuolo della poltrona dove egli stava seduto, continuando l'assalto. Tutti i giorni vi erano scene di questo genere, insopportabili, grottesche. Emanuele sembrava impazzirne. Non potevano quasi mai trovarsi soli. Emanuele, timido, non osava chiedere a Maria cosa alcuna che potesse comprometterla. Nei rari momenti di libertà egli le diceva una parola sola: Mi ami? come se non potesse crederlo - e la guardava, aspettando. Una sera, abbracciandola stretta nel vano di una porta, le mormorò colla voce di un moribondo che implora un sorso d'acqua: Vieni... Non disse dove, non disse quando. Vieni, era l'anelito del suo cuore che soffriva, spoglio di ogni riflessione e di ogni calcolo. Vieni, parola sublime, senza senso, uscita dalle labbra di un uomo schiettamente innamorato. Scettico per temperamento e per teoria, Emanuele in pratica non conosceva la vita; da tale contrasto risultava l'ingenuità delle sue manifestazioni in una passione che provava per la prima volta. Questo era che commoveva tanto Maria. Essa aveva cercato invano per lunghi anni di portare i tesori del suo amore a quel cuore malato, ed ora, quando meno lo aspettava il cuore malato si metteva a battere, sorgeva, viveva, ed erano le sue lagrime che avevano compito il miracolo; era dal suo tenero affetto che germogliava tardivo l'affetto di lui; così Maria sentiva questo legame duplicato da una tenerezza quasi materna, fatta d'orgoglio e di pietà. Lei sola poteva farlo felice; lei sola ne aveva il diritto per tutte le lagrime e per tutti i dolori che le era costato quell'uomo. Dalle confidenze di Sofia, sapeva che Emanuele non dormiva più con sua moglie. Si era fatto portare un letto da campagna nel suo studio, col pretesto di veglie prolungate; infatti, fino a notte tarda, si scorgeva il lume attraverso le imposte socchiuse. Quando il silenzio era profondo, Maria appoggiata al davanzale della sua finestra, teneva fissi gli occhi su quel lume. Un rettangolo di giardino divideva le due finestre esternamente; all'interno vi stava di mezzo tutto l'appartamento. Dopo che egli le aveva detto vieni, sembrava a Maria che quel lume la chiamasse, con una dolce e tacita insistenza, invitandola col suo bagliore tranquillo. Altra volta, quando Emanuele chiedeva il primo bacio, ella non aveva esitato; ma portava allora una grande arme con sè, la propria innocenza. Ora la situazione era affatto cambiata; Maria sapeva ciò che Emanuele voleva. Nell'aria buia della notte, nessun rumore veniva a interrompere l'aspra battaglia ch'ella combatteva da sola, al davanzale della sua finestra; ma nel breve orizzonte dove sembrava alitare il respiro della città addormentata, una visione di fantasmi sfilava sorridendo con aria di scherno. Erano donne graziose, facili fanciulle, spose senza scrupoli; tutte la guardavano compassionevolmente attonite e meravigliate della sua solitaria follia - ed essa guardava loro, riconoscendo volti noti, amiche colle quali si era trovata nelle conversazioni, in casa, in chiesa; signore educate che parlavano di morale a proposito di tutto - e passavano, pudicamente ravvolte nelle cortine dell'alcova matrimoniale, nel bianco velo sparso di fior d'aranci, seguite dalla turba degli amanti discreti e prudenti. In un momento di chiaroveggenza quasi magnetica, Maria scorgeva i misteri di tutte quelle finestre chiuse; i mille misteri risolvertisi in uno solo, antico come il mondo, eterno come la giovinezza; il mistero delle città e delle selve, dell'uomo e della natura, il solo perchè dell'universo. - E dal fondo delle viscere le sorgeva una violenta protesta contro i rigidi principii che inceppavano il suo amore. Eccomi - mormorava colle braccia tese nell'oscurità, coll'occhio fisso sul punto luminoso - sono donna e ti amo; vengo a te. - Sì, sì, vengo - continuava a dire a bassa voce movendo appena le labbra - aspettami Emanuele, mio amore, mia gioia, dolor mio. Si mosse, come una sonnambula, a passi brevi o tremanti, sentendosi paralizzata dalle anche in giù, e tutto il corpo diaccio. Si fermò un minuto davanti allo specchio, un solo minuto. Era pallidissima, cogli occhi grandi, cinti di violetto; strinse le labbra, commossa; a Emanuele piacevano i suoi occhi così. Aveva un paio di stivaletti che scricchiolavano; li levò e si pose le pianelle. Nell'aprire l'uscio, una corrente d'aria le spense il lume. Dovette brancicare al buio, urtandosi contro i mobili, debole così da reggersi appena. Quand'ebbe riaccesa la candela, sulla soglia dell'uscio, esitò. Aveva nel petto un rodìo, come se due mostri ignoti si contendessero a colpi di zanna il suo cuore. Uscì finalmente, attraversando in punta di piedi il gabinetto dalla tappezzeria verde-mare, attiguo alla stanza di Sofia. Sul divanuccio c'era l'abito che Sofia aveva spogliato quella sera, lungo, disteso, colle maniche ancora gonfie e il corpetto che sembrava tiepido nella lieve evaporazione delle carni contenute. Maria, nel passare, lo smosse e l'abito cadde bruscamente per terra, con un fruscìo secco, come di risata sardonica. Al gabinetto seguiva il salotto, tutto ingombro di poltrone, di tavoli e di ninnoli eleganti, con due specchi altissimi, posti di fronte, che riflettevano simultaneamente la figura spettrale di Maria. Ella ne ebbe quasi paura e abbassò gli occhi, rifuggendo dal guardarsi, con un aumento di tremore nelle gambe e quel diaccio per tutto il corpo che le dava l'impressione di sentirsi irrigidire. Due camere ancora la separavano dallo studio di Emanuele; in una di queste, molto ampia, nuda, con un guardarobe altissimo, ella c'era stata appena una volta. Non ricordava bene se l'uscio era a destra od a manca; alzava il lume, per vedere meglio, quando un respiro robusto di persona dormente la inchiodò nel mezzo della stanza, sbigottita. La bambinaia dormiva su un lettuccio, dietro un paravento, colle coltre di filugello giallo tirata sugli occhi, o accanto a lei, la culla di Guido biancheggiava, nello sfondo latteo delle trine, sospese e drappeggiate intorno. Maria pose una mano davanti alla fiamma e guardò, al di sopra della luce smorzata, trattenendo il fiato. La faccia del piccino, tutta rosea nella cornice ricamata della cuffietta, riposava in attitudine di una pace profonda, colle palpebre serrate che gettavano un'ombra sulle guancie; in fondo al piumino di seta celeste usciva uno de' suoi pieducci, nudo, e fra questi due estremi il piccolo corpo ravvolto nelle coperte si alzava e si abbassava con un movimento regolare, di una placidezza beata e sana. Dall'altra parte, l'uscio spalancato scopriva l'incerto nereggiamento di un corritoio, attraversato da una striscia sottilissima di luce che sfuggiva da una fessura dell'uscio di Emanuele. Maria era come impietrita, con un senso di soffocazione penoso e opprimente che le serrava la gola. Volse gli sguardi, lenti, dalla culla all'uscio, sempre colla mano alzata contro la candela, ascoltando. Sentì le forze che le venivano meno; e quel ghiaccio rigido delle membra fondersi sotto una fiamma invadente, che partita dalle guancie, dopo esser salita ratta alla fronte discendeva, stendendosi per tutto il corpo, frustandola colla reazione di una vergogna improvvisa. Non posso - mormorò, quasi per giustificarsi, con un terrore angoscioso - non posso! E ripeteva, senza saperlo, le parole che Emanuele stesso aveva dette a lei, una volta. Rifece la via percorsa, senza voltarsi indietro, con ondeggiamenti da ubbriaca.

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Abbandono gli studi che «mi furono tanto graditi, i miei classici mi «vengono a noia; ch'io vegli o ch'io dorma «non penso che a voi.» Felice di avergli strappato uno slancio di vero amore, Maria trovava la forza di ragionare a sua volta; ed era lei che parlava di doveri, di pura e di semplice amicizia. In queste alternative egli fu leggermente indisposto; aveva delle fatiche straordinarie di professione, delle noie, delle seccature infinite; il suo scetticismo tornava a galla; imprecava alla vita. E Maria a consolarlo con tutte le tenerezze della donna innamorata. Ma quell'amore non bastava ad Emanuele perchè egli non credeva all'amore. I suoi sogni giovanili si erano dileguati davanti a un convincimento, sempre crescente, che l'amore non è altro che illusione. Tolta la necessità materiale di unirsi ad una donna, il giovane scettico non vedeva, non sentiva altro. L'affetto appassionato di Maria se, qualche volta, riusciva a scuoterlo e a commuoverlo, gli lasciava però sempre lo sgomento di una grande aberrazione. Nei momenti più dolci, quando la fanciulla gli dava l'anima negli sguardi e sembrava implorarne la pietà, presso a cedere, una voce inesorabile gli mormorava all'orecchio: Anche questo non è altro che illusione. - E, si rifaceva freddo, non volendo essere trascinato in quel tumulto di palpiti e di desideri, non volendo soffrire, non volendo amare - amando tuttavia, debolmente, per impulso di lei e per la viltà del cuore che si faceva, a sua insaputa, alleato dei sensi. Una volta, la lettera che Maria trovò in fondo al vecchio vaso terminava con queste parole, che la gettarono in un turbamento indicibile: «un vostro bacio sarebbe il miracolo che muta l'inferno in paradiso.» Nelle sue lunghe ore solitarie, Maria doveva averlo provato il desiderio di un bacio, del primo bacio d'amore, che non sapeva, ma supponeva differente da tutti; mille volte questo desiderio doveva esserle salito dalle labbra allo sguardo; e nei colloqui della sera, sotto la blanda luce della lucernetta, un'attrazione invincibile doveva trascinarla verso la bocca di Emanuele, il disegno della quale, puro e gentile, spiccava con un fresco incarnato sulla barba bionda. È certo che non esitò. La stessa sera, quando Emanuele venne a congedarsi, ella gli fece un piccolo cenno, puntando l'indice nella direzione di una scaletta che egli doveva salire per recarsi in camera: poi si salutarono, freddi in volto, comprimendo i battiti del cuore. Trascorsero alcuni minuti durante i quali Maria tendeva l'orecchio al suono smorzato dei passi che si allontanavano; e intanto accomodava i guanciali sulla poltrona del padre, con un tremito nelle gambe, colle mani fatte di ghiaccio. Ascoltò ancora - nessun rumore. Egli era là. La scaletta si rizzava, ripida, parcamente illuminata nei gradini inferiori; buia in alto. Maria attese un richiamo, cercando cogli occhi nella semi oscurità, sperando di vederlo subito. Nulla. Guardò allora angosciosamente in alto dove i gradini si perdevano nelle tenebre fitte, Non un cenno, non un bisbiglio; ma nel silenzio di quell'ombra c'era una vertigine che l'attirava. Fece ancora qualche passo, smarrita, finchè un respiro affannoso le venne incontro e due braccia possenti la presero attraverso le reni. Il corpo di Maria si piegò come un giunco, abbandonandosi, provando l'impressione di una ferita acutissima. Sotto la dolcezza dell'amante ella sentiva fremere, repressa, una brutalità ignota. Eppure mentre tremava in quella violenta rivelazione, mentre un senso nuovo, quasi doloroso, si destava in lei dal bacio di Emanuele, una tenerezza struggitrice, un bisogno di darsi, di sacrificarsi le faceva mormorare: «ti amo, ti amo!» Al che egli non rispondeva altro che stringendola maggiormente, con un rantolo nelle fauci. Ed ora, coricata su quel letto straniero, cogli occhi aperti nella oscurità di una camera ignota, Maria rivedeva quella scaletta, risentiva quel primo bacio al quale molti altri erano seguiti di poi senza cancellarne la profonda impressione. Sostò per poco, ondeggiando col pensiero in un periodo di deliziosi incanti, durante il quale i giorni volavano in una continua ricerca di furberie e di astuzie per stringersi in un amplesso rapido, per ripetersi che si amavano. Nelle lettere, Emanuele diceva ancora che bisognava combattere una passione insensata, le chiedeva scusa per aver turbato co' suoi ardori la casta tranquillità di lei; le prometteva di frenarsi, di soffrire, di non chiederle più nulla. Un solo istante però distruggeva tutte queste saggie teorie. Così nel cuore di Maria ardeva sempre la fede, alimentata dai giovanili entusiasmi e dall'immenso amore. Ad onta delle sue letture, ella, dotata di molto idealismo, era rimasta ignorante sulle verità materiali dell'esistenza; come un cieco che abbia studiato a perfezione il meccanismo della vista, ma che non vede. Istintivamente sentiva che nell'amore di Emanuele per lei c'era qualche cosa che non poteva capire, differente dalle sensazioni sue proprie; ma che cosa fosse preciso non cercava. Non era curiosa, non era maliziosa. Quando la bocca di Emanuele così piccola, così gentile, le dava nel buio quei baci virili che la sorprendevano e la turbavano, ella rimaneva per poco sotto l'assillo di una curiosità indeterminata, che svaniva poi nei tranquilli colloqui intorno alla lucerna, allora che il giovane professore, calmo, colla sua voce monotona, rispondeva alle controversie del padre; e l'impressione violenta svaniva per lasciar posto a una idealità piena di dolcezza. Maria non pensava neppure che vi potesse essere un pericolo per lei in quell'amore. Era cresciuta con un principio di morale, non bigottamente ristretta, ma di una conclusione rigida e inflessibile. A' suoi occhi, l'abbandono completo di una donna, quando non fosse reso legittimo, metteva capo a una vergogna incancellabile. Certe parole grosse, brutte, ch'ella aveva udite per caso, le sembravano applicabili a tutte le donne che cedono; e nei momenti di maggior debolezza, il ricordo di quelle parole le faceva salire alla fronte una fiamma di vergogna. L'uomo ha un altro, diverso e vasto campo in cui esercitare la virtù; egli ha le virtù cittadine, politiche, patriottiche e guerriere; ha l'onestà della carica che occupa e dei commerci che intraprende. La donna non ha che questa povera, modesta virtù del resistere, che cresce nell'ombra, spoglia di gloria, quasi sempre inapprezzata. Non importa; Maria aveva fede in essa; sperava che Emanuele avrebbe superati gli ostacoli che li dividevano e si sarebbero alfine sposati. Si voltò dolorosamente nel letto; la successione delle idee che le presentava in quadri spiccati le scene principali nella sua vita, l'aveva condotta ad una scena ch'ella non poteva ricordare senza sentirsi dare un tuffo nel sangue. Sempre la tetra casa, l'abbandono, la miseria e suo padre morto - questa la cornice. Nel mezzo, lei, disperata, folle, abbracciata come un naufrago ai ginocchi di Emanuele... A questo punto, con tutte e due le mani, prese il guanciale e se lo pose sul volto, premendo, non trovandosi abbastanza nascosta nelle tenebre, desiderando nascondersi a sè stessa in un bisogno di annientamento; ma anche soffocata dal guanciale vedeva gli occhi di Emanuele senza lagrime intanto che la sua voce misurata le diceva: Non posso farti mia. E l'amava, sì, l'amava; ma non aveva la fede che ispira, non aveva il coraggio che spinge alla lotta, non si sentiva la forza di darle la sola prova d'amore che un uomo possa dare ad una donna onesta: soffrire con lei, lavorare per lei... E dopo tanti anni, lì, in quella camera che apparteneva a lui, su quel guanciale dove egli aveva forse appoggiata la testa sognando di un'altra, i singhiozzi della povera donna scoppiarono alti, irrefrenati.

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L'ambiente tiepido del concerto, la melodia dei suoni, la corrente sensuale che aveva dischiuso tanti sorrisi, e accese tante scintille negli sguardi procacemente ricambiati; tutta quell'onda l'onda di mollezza, di abbandono, quel profumo di gentile peccato diffuso in ogni atomo, l'aveva momentaneamente prostrata. Nella oscurità della carrozza, scorgeva la massa nera formata dal corpo di Emanuele, a un breve tratto da lei; i loro abiti si toccavano. Come mai i loro pensieri non si sarebbero incontrati? - Non ho veduto al concerto la Guidobelli - disse improvvisamente Sofia. - Si capisce - rispose Emanuele - poiché si trova già da cinque o sei giorni sul lago, nella villa di Ormani. - È contento il marito? - chiese Sofia con una vocetta squillante. - Contentissimo. Fra un mese al più saranno divisi legalmente. La cosa parve naturale a Sofia, ed anche al professore, che aggiunse: - Egli ha già pronto il conforto. - La Rina Lucci, non è vero? - Si dice. - Dovrà allora abbandonare il suo capitano. - O tenerli entrambi. Il silenzio si rifece su queste parole. La carrozza andava avanti lentamente, nelle vie semi buie dei sobborghi lontani dal centro. Tratto tratto un fanale sull'angolo di una viuzza o al di sopra di una bottega gettava nell'interno un rapido sprazzo; fu in uno di questi momenti che Maria vide lo sguardo di Emanuele rivolto su di lei e ne provò un senso di tormento che tradusse rincantucciandosi più ancora nel buio. La sua gran calma era messa a una dura prova, nè ella stessa avrebbe saputo dire se più temeva la vittoria o la sconfitta. Giunta a casa si fermò a discorrere con Sofia cinque minuti, in piedi, tra due usci. Sofia le disse che il giorno dopo doveva andare ancora a trovare il suo bambino, che sarebbe tornata subito, e appena appena fosse rimesso in salute l'avrebbe condotta anche lei a trovarlo. Non glielo voleva mostrare brutto, giù di ciera... Le mamme sono molto civette... La salutò, baciandola sulle guancie, e poi sul punto di allontanarsi: - Ah! mi dimenticavo; domani è il mio giorno di ricevimento; sarò a casa per l'ora delle visite, senza alcun fallo, ma se capitasse qualcuno, te ne prego, fa gli onori e scusami presso i miei amici. E scusami tu pure. Sotto l'apparente volubilità, l'accento di Sofia aveva qualche cosa di incerto, come un pensiero nascosto a stento nell'onda delle parole; Maria, nel salutarla di nuovo, sentì che le tremava la mano e si ritirò turbata da mille dubbi strani, inverosimili, malcontenta di una posizione dove tutto era mistero. Emanuele amava Sofia? Sofia gli sarebbe rimasta a lungo fedele? Sapeva ella qualche cosa del passato di lui? Egli si curava dell'avvenire di lei? Da qual parte stava la virtù? Chi soffriva più dei due?... Chi mentiva meglio? Queste e altre domande fluttuarono per alcun poco nella mente di Maria, confuse alle impressioni del concerto, all'attitudine spavalda di Bandini e a quella indifferente di Emanuele; ma tutte insieme non erano di natura tale da tenerla desta; al contrario le pesarono e le si aggravarono addosso finché trovò pace in sonno greve, senza sogni. All'indomani, era un bel mattino primaverile e gaio, il terzo da che Maria si trovava a Milano. Aprendo la finestra le parve di sentire un'onda di profumi che venissero a darle il buon giorno. Maria li respirò a lungo, sentendosi rinascere nella purezza dell'aria fresca. Appoggiata al davanzale, mentre respirava gli olezzi del sambuco e delle glicinie fiorite, le veniva in mente il suo meraviglioso giardino delle Estancias, dove tutta la flora americana pompeggiava nel massimo sviluppo, dov'ella aveva trovato la pace, dove tanti cuori di persone ignoranti e buone l'avevano amata sinceramente - e si domandò se era tornata nella sua patria per rivedere una vana amica e un amante infedele. Dovette pur confessare a sè stessa che la speranza di incontrarsi con Emanuele l'aveva spinta al lungo viaggio; e perchè la speranza non aveva oramai ragione di essere, poichò il passato era irrevocabilmente distrutto, a che restare? Da un alto ramo della glicinia si staccò una fogliolina lilla, attraversando lo spazio: roteò un istante portata da una folata di vento, leggera, iridescente, bagnata nei vapori biondi del mattino che la facevano scintillare come un ame tista, poi cadde a piombo sul viale, dove fu presto confusa nell'umida e grigia uniformità della sabbia. - Così è! - mormorò Maria a fior di labbro; e si staccò dalla finestra, tranquilla, ma con una punta di malinconia in fondo al cuore. Nella cameretta che le avevano assegnata e che serviva prima di studiolo, c'era una libreria. Maria incominciò a guardare distrattamente il titolo dei libri, quasi tutti romanzi e poesie, finchè la colpì il cartoncino di un piccola volume; quel cartoncino era giallo, con dei mazzi di rose rosse, somigliante a nessun altro; antico, puerile nelle sue aspirazioni di eleganza; aveva i tagli dipinti in color lacca e un nastrino verde, succinto, pendeva dal mezzo delle pagine. Ella sentì un palpito alla vista di quel libro, lo prese tremando; era Puschin, uno di quelli che aveva letti in compagnia di Emanuele, uno de' suoi più simpatici. Lo strinse nelle mani come un amico, e si pose a sfogliarlo febbrilmente, quasi dalle carte ingiallite potessero uscire fresche e vitali le illusioni d'una volta. Rilesse: «Le procelle delle passioni rinfrescano, rinnovellano, maturano i cuori di vent'anni e fanno loro produrre splendidi fiori e frutti; ma nell'età provetta e infeconda il ravvivamento degli affetti, non genera che doglia e pianto, simili alle piogge d'autunno, che sfrondano i boschi.» «Felice colui che si alza dal banchetto della vita prima di vedere il fondo del bicchiere. » E rimase col libro aperto, abbandonato sui ginocchi e sovr'esso gli occhi immobili pieni dì lagrime. Fu bussato all'uscio timidamente. Maria si alzò. Era la cameriera che veniva a chiederle se le occorresse la sua opera prima della colazione. - La colazione? - domandò Maria trasognata - Quante sono le ore? - Le dieci e mezzo. Il padrone è già nella sala da pranzo. Il padrone! Maria aveva dimenticato che la. sua amica non c'era, che il padrone sarebbe stato solo con lei. - No - rispose in modo reciso - non vengo a colazione. Favorite dire al mio domestico che si tenga pronto. Esco. Uscì difatti quasi subito, seguita da Pablo.

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Sofia si gettò nella poltrona con un abbandono di donna vinta; la poltrona cigolò, prima che il sorriso di Bandini fosse finito. La contessa e Nina Menni avevano impegnata una discussione sopra Sarah Bernarhdt, Nina assicurava che la Bernarhdt piace molto agli uomini; la contessa negava, in base alla propria esperienza, sostenendo che gli uomini amano le donne grasse. Intanto Bandini, audacemente, mormorava qualche parola nell'orecchio a Sofia. Maria fingendo di accomodare i fiori nelle giardiniere, non li perdeva di vista, finchè Bandini con una sveltezza di prestigiatore fece scivolare il suo piccolo portafogli dietro il guanciale sul quale Sofia appoggiava le spalle. - Le donne magre - strillò Nina Menni - hanno sempre fatto impazzire gli uomini. Che ne pensa il signor Bandini? - Noi uomini - disse Bandini , accompagnando la frase con una profonda occhiata da sfinge - amiamo la donna che ci ama. Un fremito sottile agitò le spalle di Sofia. - Ve ne andate di già? - chiese, vedendo le signore in piedi. Poco dopo uscì anche Bandini, trionfante, riempiendo il vano della porta colla sua aitante persona, dopo avere stretta la mano a Sofia in un modo speciale. Le due amiche si trovarono di fronte, sole. A Maria pesava assai il secreto che aveva scoperto e se non fosse stato il dubbio di peggiorare le cose con una risoluzione precipitata, avrebbe voluto prendere Sofia nelle braccia e scongiurarla di troncare ogni relazione con quel bellimbusto vanesio e insolente. - Hai veduto le mie amiche? - disse Sofia - amiche per modo di dire, perché non ve n'è una sola che io ami come amo te. - Lo spero bene. - Quelle signore non ti sono piaciute? - Sarò schietta. No. - E a me neppure. - Oh scusa... allora perchè le ricevi? - Mio Dio come si fa? Bisogna pur conoscere qualcuno. - Scegli meglio. - Scegliere! E chi scegliere? Dove? Se tutta la società è uguale! Si alzò e fece qualche passo, stringendo la mano, pendente lungo le pieghe della gonna. Maria sospettò che nascondesse così il portafogli di Bandini. Era agitata, nervosa; andò un momento nella sua camera e poi riapparve, sempre colla mano stretta fra le pieghe dell'abito; si avvicinò al tavolino, allo stipo, alla caminiera, toccando i vasi, i libri, con un fare che voleva parere svogliato e che tradiva invece una forte preoccupazione. Alla fine tornò a sedere, rassegnata. Il portafogli non era piú nella sua mano. - La signora Bonamore - riprese Maria, seguendo con una calma apparente il filo del discorso - non deve vedere di buon occhio la signora Guidobelli... - Lo credo. È la sua rivale. - Prima che tu venissi, ne parlava come di una relazione poco onorevole... - Già, perchè le ha rubato l'amante. - L'amante? - Sì, quello che aveva prima del cugino, che le è antipatico e le serve solamente negli interregni, come facente funzione. - Tutto ciò è molto brutto. - Ma! Sofia si strinse nelle spalle; prese, dal tavolino accanto una sigaretta, l'accese e incominciò a fumarla lentamente, cogli occhi distratti, rivolti al soffitto. - Infine tu sei amica della signora Guidobelli? - Come la sono di tutte, e di nessuna... - E la inviterai alla festa insieme alla signora Bonamore? - Perchè no? Sono donnine simpatiche, eleganti; dove vanno loro si traggono sempre dietro un codazzo di uomini. - Ma intimamente, tu le stimi? - Che domanda curiosa! Sei sempre la stessa. Come si fa a conoscere così bene le persone da sapere se si debbano stimare o no? - Ammesso che non è facile, vi sono tuttavia dei segni esterni che possono servire di guida; e poichè tu stessa narri le avventure galanti di queste signore... - Ma sono cose che si vedono tutti i giorni, che non hanno nessuna importanza. Si capisce proprio che hai vissuto in un deserto. Sofia diventava sempre più nervosa, acre; la voce le usciva dalla gola, con un sibilo acuto. Si seccava immensamente. Maria non si sgomentò; vedeva la crisi vicina e le moveva incontro coraggiosamente. Oramai si comprendevano. In quella battaglia coperta giuocavano la loro amicizia; o ne uscivano insieme abbracciate o diventavano nemiche per sempre. - Mia cara Sofia, quando una donna che ha un marito buono, onesto, leale, si lascia trascinare da frivole apparenze di passioni... - La signora Bonamore è vedova - interruppe Sofia seccamente. - Ed anchè la signora Guidobelli?... E Nina Menni ?... - Sì, sì, anche quelle, è vero. - Sofia era al massimo grado dell'eccitazione nervosa. - Ebbene, sono tutte così, che farci? È una marea che sale, sale sempre, ci avvolge, ci stringe, ci soffoca. Essa parte dai luoghi più turpi, attraversa la società equivoca, serpeggia nel mondo elegante, arriva fino alle donne oneste... ne siamo innondate addirittura. Difendersi è inutile. È come quando si cammina in mezzo al fango. Sulle prime si evita di fare la più piccola macchia, poi ci si adatta ad averne qualcuna, ma solamente sul tacco degli stivaletti; il fango cresce e ne abbiamo fino alla caviglia; un bel momento ci accorgiamo che esso è spruzzato anche sull'abito.... Ah! in fede mia, ciò stanca; e allora... Gettò la sigaretta, e si rovesciò sulla poltrona, accesa in volto, con le tempie che le battevano forte. Maria, tranquilla, ripetè: - Allor ? - Scusa sai? - si rizzò sulla vita, un po' dura - mi fai dei discorsi così strani... Se non ti dispiace parliamo d'altro. - Come vuoi. La calma severa di Maria suscitò nell'altra una specie di rimorso e di vergogna, per cui soggiunse con accento più dolce. - Della festa che darò e che mi preoccupa molto, del mio bambino, di... - Sì - interruppe Maria, afferrando questo soccorso inaspettato - parlami di tuo figlio. Non me lo hai ancora descritto. È biondo? nero? - Biondo, cogli occhi neri. I capelli di suo padre, gli occhi miei. La bocca non c'è che dire, anche quella è tutta di Emanuele. Hai osservato la bocca di mio marito? A questa improvvisa domanda il volto di Maria si contrasse dolorosamente; ma Sofia non ne fece caso, gettandosi a capo fitto nel nuovo argomento, felice di essere sfuggita all'argomento di prima. Continuò: - Ciò che mi incanta è la sua intelligenza. A undici mesi, figurati, balbettava mamma; e mi conosceva, e mi tendeva le sue manine, così... Uno dei passati giorni, quando stava molto male, vegliai molte ore alla sua culla. La nutrice, intanto, dormiva. Io sola lo avevo in custodia e guardando quel visino fatto pallido dalla febbre, quel corpicciuolo dimagrato, un pensiero atroce mi attraversò la mente. Mi figurai che fosse morto. Morto, mio Dio!... Sofia, volubile, si abbandonava adesso colle sue smanie solite ai trasporti dell'amor materno; e, sincera sempre, null'altro sentiva in quel momento che una ineffabile tenerezza. - Oh! se morisse davvero... Io non sono molto pia, no, credo poco... Non so precisamente quello che credo: ma allora mi rivolsi al Dio delle madri. Egli deve esistere, e gli chiesi a qualunque costo la vita del mio bambino. Piangeva. - Egli te l'ha concessa - disse Maria. - Sì. - E - le prese la mano con dolcezza somma, guardandola negli occhi, - non ti chiese a sua volta il patto? - No davvero - mormorò Sofia, sorridendo attraverso le lacrime. - Eppure, nell'istante che fra te e Dio si dibatteva la vita di tuo figlio, dimmi, non saresti stata disposta a concedere qualunque cosa? - Oh! senza dubbio. - Tu dunque sentivi che questa creaturina appena nata esercitava su di te un potere che supera tutti gli altri? Presso quella culla hai dimenticata la società, il mondo... se quella marea montante, se quel fango di cui parlavi poco fa, fosse salito a macchiare la coltre del tuo bambino, a coprirlo, a soffocarlo non ti saresti slanciata in suo aiuto? - Maria!... - Non avresti voluto, per lui, essere pura d'ogni colpa, monda perfin d'ogni sospetto? Erano, entrambe, immensamente commosse. Maria col volto presso il volto dell'amica, mormorava accentuando appena: - Non avresti voluto annientare ogni pensiero che non fosse nobile e santo? Distruggere qualunque traccia di debolezza? Fuggire le tentazioni, che ti rapiscono a lui?... Si guardavano negli occhi, dritto, fino in fondo, come due pantere in lotta. Sofia sentiva la propria debolezza e cedeva, vinta, spossata dalle emozioni. In quel mentre entrò la cameriera: - Il signor Bandini manda a prendere il portafogli che ha dimenticato qui. Sofia, senza muoversi, tese la mano; prese il portafogli, lo aperse e stracciò il primo foglietto - non abbastanza rapidamente che Maria non potesse leggervi un sì, scritto a grossi caratteri tremanti, con matita rossa; poi lo rese. Appena la cameriera fu uscita, le due amiche caddero nelle braccia l'una dell'altra; Sofia in preda a una convulsione di nervi, singhiozzando sulla spalla di Maria.

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Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

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Grazia Deledda 6 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Poi mi prese un senso di rabbia contro la mia incertezza: mi avanzo, sento l'acqua penetrarmi nelle orecchie, negli occhi, nelle narici; mi abbandono e apro la bocca e bevo come se bevessi del veleno. L'istinto mi portava su; sentivo le mie membra agitarsi tutte, e bevevo e gemevo; finchè mi sembrò che tutto l'interno del mio corpo si riempisse di un liquido nero e amaro, e un'ombra mostruosa mi travolse.

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Se io non apro, penso, il nano è ben costretto a riprendersi Ia bambina: e se la lascia lì, io posso con testimonianze accusarlo del suo abbandono: quindi se la riprenderà. Ma fu un momento: riaprii subito: però non feci entrare l'uomo. Mentre riaccostavo dal di fuori la porta gli accennai di tacere, di seguirmi; egli stava incerto; io lo presi per un lembo del mantello e lo trassi con me fino alla porta del mio creditore. Il vecchio marinaio non faceva più la guardia sotto il fanale; all'avvicinarsi dell'uomo s'era ritirato, forse per avvertire in casa che la creatura arrivava. Infatti la porticina del corridoio era aperta, con un barlume di luce in fondo: io picchiai, senza abbandonare il mantello dell'uomo, che sembrava un po' impaurito ma non cercava di allontanarsi; e subito riapparve iI vecchio: ci venne incontro, disse qualche cosa. Qualche cosa che doveva essere molto rassicurante perchè il nano non esitò ad aprire il suo mantello e a dare al vecchio un involto bianco.... Mi ritrovai solo nella strada, appoggiato al muro della casa del mio creditore. Mi pare che piangessi. Non so, ero tutto agitato; mi pareva di dovermi spaccare e cadere a pezzi per terra.

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Un senso angoscioso di abbandono mi vinceva. Dunque, neppure il delitto valeva ad avvicinarmi, a mescolarmi agli uomini: dunque ero destinato a vivere come le lucciole, in silenzio, nell'ombra, spandendo invano la muta luce del mio amore. Mi alzai; mi parve di rivedere la testa di Fiora; era un punto rosso, una finestra illuminata della sua casa. Subito mi diressi a quella volta: inciampavo fra I'erba, piu ubriaco di quando m'ero sollevato dal ciglio della strada: ma giunto alla siepe mi accorsi che qualcuno aveva rimesso a posto i rami e chiuso il varco con dei rovi. Allora fui ripreso da un senso di rabbia, però misto a dolore e a un desiderio morboso di castigo. Strappai di nuovo i rami, i rovi, riaprii il varco e penetrai nei campi di lei. Mi ero tutto graffiato: sentivo le mani umide di sangue. Attraversai il campo di frumento, il campo di fave. Non cercavo di nascondermi: anzi di tanto in tanto mi fermavo, aspettando che qualcuno mi vedesse e credendomi un ladro mi sparasse contro una fucilata. Sarei morto felice quella notte. Ma nessuno appariva; neppure la morte mi voleva. Attraversai la vigna. La vigna era in fiore: e tutta vibrante di lucciole. Oh solo con la musica si potrebbe esprimere la dolcezza e lo spasimo di quell'attimo quando io mi fermai in mezzo ai filari e d'un tratto mi trovai avvolto come da una rete di fili luminosi. Erano le lucciole; e il profumo della vigna pareva emanasse da loro. mi passò il desiderio di morire; guardai in su e mi parve che gli occhi delle stelle rispondessero al mio sguardo. Qualche cosa si slanciava dall'anima mia in alto, in alto, come un zampillo di fontana, e ricadeva su di me rinfrescando l'arsura del mio cuore selvaggio. Desiderai di vivere, di amare, di soffrire, di darmi tutto, di diventare un uomo pur io davvero, di parlare senza parole e di ringraziare Dio di avermi fatto nascere, di farmi soffrire. Allora continuai ad andare verso il punto illuminato, ma a misura che mi avvicinavo, il chiarore pareva alzarsi sopra di me per sfuggirmi anch'esso e non lasciarsi raggiungere. Era una finestra alta, munita di inferriata: forse la finestra della cucina, forse della camera di lei. Io non sapevo. Forse là dentro si chiacchierava, forse un cane nell'aia abbaiava. Io non sentivo nulla. Tutto era buio nel resto della casa e la porticina dell'aia era chiusa. Rimasi alcuni momenti immobile attaccato al muro sotto la finestra: sentivo iI cuore battermi, ma null'altro. Poi mi prese il pazzo desiderio di afferrare quel lembo di luce, come una bandiera da una vetta: mi slanciai, una, due volte; d'un tratto la luce si spense, e mi parve di averla spenta io. Tornai indietro, nella vigna; e anche laggiù non trovai più la luminosità di prima. Tutto era diverso, tutto scuro. Camminai fino a trovarmi davanti alla casa colonica. Dalla parte della facciata le piccole finestre dell'unico piano sopra il terreno, e i due grandi portoni, tutto era chiuso: l'odore del fieno, del letame, delle bestie, si mescolava al profumo della notte. Toccai tutti e due i portoni, sempre più meravigliato che nessuno apparisse: mi sembrava di sognare, di essere morto e che fosse la mia anima a errare in cerca di un rifugio. E mi dispongo ad allontanarmi, quando nel prato a fianco della casa vedo un quadrato di luce, come una finestra aperta sull'erba un'ombra vi si disegna: è la testa di lei! Oramai la riconosco così bene, anche nella sua ombra. Di volo sono là: e vedo una piccola finestra illuminata, e la figura di lei che vi si affaccia immobile, più scura della sua ombra. Dapprima non parve badare a me. Mai come in quel momento avevo sentito lo spasimo di non poter gridare. Mi misi sul quadrato di luce sull'erba, in modo ch'ella potesse vedermi: ella restava immobile. Allora mi slanciai fin sotto la sua finestra, con l'intenzione di andare a sbattermi, a sfracellarmi contro il muro; ma io non avevo toccato questo, ch'ella, d'un botto, certamente spaventata, chiuse la finestra. Di nuovo tutto fu buio. Ma io non potevo andarmene così. Mi buttai a terra, trassi il taccuino, trassi i fiammiferi: scrissi alcune righe pazze, dove confessavo il mio delitto, il mio pentimento, il mio desiderio di perdono; e sotto il mio nome. Staccai il foglietto e l'avvolsi intorno a un sassolino che lanciai alla finestra. Il vetro si ruppe; parve ingoiarlo. Io aspettai ancora, ma nessuno apparve. Allora me ne tornai al paese e di là in casa della zia, alla quale feci conoscere la mia volontà ma anche la difficoltà di coltivare il terreno. Occorrevano dei denari: dove trovarne se lei non ne aveva? Lei non ne aveva, nè era donna capace di procurarsene. Invano io la lusingavo. "È un bel posto, con aria buona, con acqua buona. Venite a vederlo: vi piacerà. Verrete a stare con me: là potrete allevare tutte le bestie che vorrete. Saremo come in paradiso. Fabbricheremo una casetta e sarà piena di sole, di aria. Vendete questa casa, per procurarci i soldi.,, Ella si mise a ridere, lei che non rideva mai. E il suo riso mi ricordò quello di Fiora, quando le avevo proposto di sposarla. Mi venne desiderio di ammazzare la zia. D'altronde riconoscevo ch'era un'idea ingiusta, la mia, a pretendere che ella vendesse la sua vecchia casa alla quale era attaccata come un'anima al suo corpo. Può essere brutto e vecchio quanto volete, questo corpo; la sua anima non lo abbandona volentieri! Questa ragione non mi impediva di serbare astio alla zia e alla sua casa. Eppure questa parve cominciare ad esercitare un triste fascino anche su di me. Nei tempi dopo il ritorno dal "Platano,, , non uscivo mai: tutto al più continuavo ad andare a fare qualche spesa, per conto della zia, in una drogheria all'angolo della strada, dove questa s'incrocia con un'altra più larga tutta bianca di sole e di polvere con gli sfondi perduti uno nell'azzurro dei monti l'altro nell'azzurro del mare. Rientravo a casa stordito da quell'attimo di luce, di calore; e mi sembrava di rientrare in una grotta, tanto la nostra abitazione era diaccia e ombrosa. Solo nel cortiletto cadeva il sole, a picco, ma spariva presto, lasciandovi un tepore chiuso, fermo: i muri rivestiti di verde odoravano di musco, e a questo profumo un po' triste e voluttuoso si mischiava l'odore bestiale dei conigli. Io me ne stavo là, seduto su una cassa rovesciata, e pensavo continuamente alla mia avventura. A volte chiudevo gli occhi e mi pareva di essere ancora nella vigna in fiore: un misterioso senso di attesa mi si risvegliava nel cuore e lagrime di tenerezza mi bagnavano gli occhi. No, tutto non poteva essere finito così. Allora riaprivo gli occhi e prendevo il taccuino per scrivere ancora a Fiora; ma non potevo: non potevo più neppure scrivere il suo nome. Mi pareva di essere diventato muto anche dentro di me: non potevo esprimere la mia angoscia, la mia stessa impotenza. Eppure aspettavo sempre; non sapevo che cosa, ma aspettavo. E io che avevo commesso il delitto avevo l'impressione di subire un'ingiustizia, perchè mi si negava il diritto, il modo di ripararlo, o almeno d'espiarlo con un castigo qualsiasi. Solo per amore di Fiora ed anche per quel senso di attesa che mi faceva sperare mio malgrado, non andavo a denunziarmi. Ma a giorni si ridestava in me una sensualità feroce: mi pareva di aver diritto alla donna ch'era stata mia, che doveva essere ancora solamente mia. Era come se fossi stato io il violentato e pretendevo una riparazione. Ma tutte queste tempeste si sbattevano entro di me, inutilmente, come in un vulcano chiuso: fuori dovevo sembrare un po' idiota, e nessuno si curava di me, neppure la zia, che pensava solo al mio benessere materiale come a quello delle sue bestie. Eppure bastava che una foglia, un fiore, una piuma calda di sole cadessero dal muro, davanti a me, per commuovermi: li prendevo fra le dita, li esaminavo, ne sentivo l'odore, il colore: le bestie, no, non le toccavo e non le amavo; ma quelle piccole cose mute e vagabonde mi piacevano; si rassomigliavano a me: e odoravo a lungo i fiori, fino ad appassirli, e li baciavo pensando a Fiora. Una cosa sola mi aiutava a vivere, fra tanta desolata solitudine: il sonno. Dormivo a lungo: e mi abbandonavo al sonno come ad un vizio, non perchè mi portasse l'oblio, ma perchè mi gettava in una esistenza fantastica che si univa in qualche modo alla mia avventura. Nell'addormentarmi mi pareva di essere ancora davanti ai portoni chiusi della casa colonica: li toccavo uno dopo l'altro, poi andavo a mettermi sotto la finestra di Fiora. Inciampavo e mi svegliavo di soprassalto. Ma poi mi riaddormentavo e sognavo. Invariabilmente, i sogni mescolavano la mia vita nell'Istituto con la mia avventura. Mi ritrovavo nel giardino della villa coi compagni: andavo in cerca dell'istitutore e lo trovavo con Fiora: ma questa mi sorrideva, di sopra la spalla di lui, e bastava tanto per farmi svegliare tutto in sudore e singhiozzante. Quell'angoscia notturna era la mia salvezza; poichè mi costringeva a piangere e nel pianto si scioglieva il mio dolore.

Pagina 84

Il romanzo della bambola

245636
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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E rimase lì, in un completo abbandono di sè stessa, come morta anche lei, per giorni, settimane, mesi, anni, chi sa?

Pagina 73

In Toscana e in Sicilia

245805
Giselda Fojanesi Rapisardi 1 occorrenze
  • 1914
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Finalmente, giunti in su un ripiano, si trovarono dinanzi alla torre bruna, antica, lasciata là in abbandono, e chissà a quale scopo eretta, allora nido d'uccelli notturni. - Ci siamo! - esclamò l'Anna con un grido soffocato di sodisfazione - Ci siamo! Avanti, il più è fatto: cercate il cerro grosso e storto.... Ve ne rammentate?... - E col lanternino illuminava in giro, uno dopo l'altro, i tronchi degli alberi. Bussolino poteva appena reggersi in piedi. - È questo? No? Quest'altro? Neppure! Via, guardate, cercate di rammentarvi, per 'un perder tanto tempo - abbadava a dire la donna con foga, esaltandosi e scuotendolo quasi con rabbia, come per vincere in lui quella specie di letargia prodotta dal terrore. Erano arrivati quasi in cima al burrone profondo che circondava il ripiano in mezzo al quale ergevasi paurosa, la torre. - Eccolo - disse ad un tratto Bussolino, con un fil di voce - eccolo, è questo. La donna emise un grido rauco di trionfo. - E ora contate dieci passi in avanti: uno, due, tre.... qui, qui ha da essere il tesoro, qui, 'un pò fallire, su, ecco la vanga, forza, scavate.... - E messo il lanternino in terra, si allontanò un poco per scrutare a traverso le tenebre, per ascoltare se le giungesse all'orecchio nessun rumore. Intanto aveva introdotta la mano destra nella saccoccia del grembiale, e a Bussolino parve di sentire uno scricchiolio secco, tanto che si voltò di botto verso di lei terrorizzato: - Chi c'è, che è stato? - O che volete che sia stato? Niente. Su, principiate a scavare e spicciatevi - diceva la donna sotto voce, concitata.... E Bussolino incominciò, tremando, avendo appena la forza d'introdurre la vanga nel terreno duro, calcandola a fatica col piede, per levare a palate la terra che gittava lì intorno per averla pronta a riempire dopo la fossa. Ogni tanto si fermava per asciugarsi con la manica della camicia, il sudorino freddo che gli rigava giù giù la fronte e le gote, anelante, trafelato, come se non fosse stato quello il suo mestiere, e si voltava a guardar l'Anna che, un passo dietro di lui, tendeva gli orecchi, e teneva gli occhi spalancati, trattenendo quasi il respiro, sulla buca, che man mano ingrandiva, mentre l'uomo andava dicendo, scorato: - Niente! niente! - come se volesse persuaderla a desistere, a dimettere il pensiero di cercare. Ma lei, inesorabile, implacabile, col viso duro e feroce: - Avanti, avanti, scavate, scavate.... Alla fine, la vanga urtò e s'intese un suono di coccio. L'Anna, a quel rumore, cacciò un urlo selvaggio, subito represso, che fece trasalire Bussolino. - Siete arrivato, siete arrivato! c'è una pentola di certo; fate piano per non romperla e sparpagliare quello che c'è dentro: girategli intorno, intorno, adagio, adagio, adagio.... così! E pareva un orribile uccellaccio di rapina, piegata in avanti, con gli occhi grifagni smisuratamente aperti, e il naso adunco come un becco di sparviero, che stesse per piombare sulla preda. Allorchè vide la pentola quasi del tutto scoperta e Bussolino sempre più chinato, che stava per smoverla, allora ritrasse con un movimento rapidissimo la mano che aveva tenuta sempre nella tasca del grembiale e, abbassandosi, in un baleno fu sul disgraziato, che le offriva la nuca scoperta, nella quale ella conficcò con quanta forza aveva, un lungo coltellaccio affilato che entrò profondamente..... La lotta fu breve, ma terribile: il povero assassinato stava per stramazzare a bocca avanti sulla pentola, ma la megera infame, ebbe la forza di tirarlo indietro, e quando lo vide steso a terra, senza movimento, aiutandosi con le mani e coi piedi, trascinò il cadavere fin sull'orlo del burrone e con un ultimo calcio lo fece rotolare giù, in fondo al precipizio, buttandogli dietro la vanga. Poi tornò di corsa alla fossa, illuminata dal lanternino, vi scese con precauzione, ne tolse la pentola, che sentì pesantissima e fuggì via a traverso il bosco, tenendosi la preda fra le braccia, stretta contro il petto. La sparizione di Bussolino fu notata dopo quindici giorni e il corpo sfracellato venne scoperto da alcuni boscaioli che tagliavano legna. I Tattanella caddero in sospetto, furono arrestati, ma le prove mancarono e vennero rimessi in libertà. Il marito bensì, per un altro misfatto, fu di nuovo cacciato in galera, dove morì, e la moglie diventò l'Annaccia, la ladra terribile, che metteva lo spavento intorno per un lungo tratto di campagna, finchè un giorno, non si sa come, sparì anche lei, nè più si vide, con gran sollievo delle buone massaie, le quali dicevano che il Signore s' era mosso a compassione delle loro preghiere e l'aveva fatta portar via sulle corna del diavolo, in anima ed in corpo.

Pagina 63

L'indomani

246443
Neera 3 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
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Pagina 211

Con mano inconscia slacciava i ganci dell'abito, allentava i nastri, cedendo a una sensazione misteriosa di abbandono, con dei brividi a fior di pelle, la bocca assetata, arida, le braccia aperte disperatamente. Incapace a reggersi, piegava il capo sopra un guanciale, su una spalliera di poltrona, su tutto ciò che poteva darle l'illusione di una carezza. Perduta nelle immagini d'amore scioglieva i capelli, e, attorcigliandoseli sul volto, ne aspirava l'aroma giovanile, gemendo il proprio nome «Marta, Marta!», che la notte raccoglieva e agli echi deserti della campagna ripeteva «Marta, Marta!» Il tempo passava ancora, finchè l'eccitazione passando, la lasciava sfinita, con le membra rotte, gli occhi pesti e vacillanti. Tuttavia non andava a letto. Aspettava. Alberto la trovava quasi sempre distesa sul divano, pallida come cera, inerte. E la rimproverava; le diceva: «Dovevi coricarti, dovevi dormire.» Ella non rispondeva nulla. Barcollante terminava di svestirsi, con dei brividi nelle ossa, e si cacciava sotto le lenzuola. Ma quando suo marito avvicinandosele mormorava: «Andiamo, via....» tutto il suo corpo si irrigidiva, si gettava indietro. - Le donne - concludeva Alberto, voltandosi dall'altra parte » non si arriva mai a comprenderle. E Marta, sotto le coltri, piangeva.

Pagina 83

Pagina 99

Il drago. Novelle, raccontini ed altri scritti per fanciulli

246697
Luigi Capuana 2 occorrenze
  • 1895
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
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Pagina 126

E i quarti d'ora passavano, con gran noia di Dino che avrebbe preferito un altro genere di gastigo, anche più grave, a quella solitudine e a quell' abbandono. Volevano lasciarlo lì tutta la giornata? Che fare? Come occuparsi? Un'idea gli sorse a un tratto, lusinghiera, tentatrice, che lo fece sorridere di compiacenza. — Perchè no? Si sedette a uno dei tavolini, prese la penna, la intinse e cominciò a fare gravemente tutte le firme che mancavano; se non che, invece del nome del direttore, metteva il suo, scarabocchiato alla peggio. Si fermava per osservare l'effetto che faceva quel: Il Direttore Dino Marsà e rideva con risolino malizioso, e riprendeva a firmare. Esauriti tutti i fogli di quel tavolino, passò all' altro, poi al terzo; e quando più non ebbe fogli da firmare, guardò attorno, rammentandosi che alle pareti erano affisse alcune stampe con le parole: Il Direttore, anch'esse senza la firma necessaria, e appose un DINO MARSÀ pure in calce a quelle stampe. Quando si fu accertato che non c'era altro da firmare, si stese su la poltrona, socchiudendo gli occhi, assaporando il piacere di quella nuova discoleria che gli aveva mutato in godimento inaspettato la segregazione dai compagni e la prigionia. ***

Pagina 151

La ballerina (in due volumi) Volume Primo

246969
Matilde Serao 2 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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Pagina 109

Carmela Minino taceva: e oppressa dai suoi pensieri di miseria e di abbandono, oppressa dall'ambiente, abbassava la faccia dietro la grama veletta nera del suo cappello. - Poggioreale! Poggioreale - gridarono dalla minuscola stazione del cimitero i due ferrovieri. E quasi immediatamente, con un gran rumore di sportelli battuti, il piccolo treno si vuotò tutto, mentre pel viale saliente al largo ingresso inferiore del cimitero, un flutto di gente si avviava, portando i suoi pacchetti di cerei, le sue corone di canutiglie, di semprevivi, di fiori freschi. Attorno all'ampio cancello una quantità di omnibus, di calessi, di char-à-bancs, di biroccini, stazionava, coi cavalli senza cavezza, la testa immersa in un sacco di crusca, coi cocchieri che fumavano la pipa, seduti di traverso sulle loro serpi, alcuni aggruppati, altri in cerca di qualche osteria dei dintorni, dove mangiare un boccone, aspettando i passeggieri che dovevano ritornare dal loro lugubre pellegrinaggio. Sotto il cielo basso e bigio, in quel tetro giorno di novembre, il camposanto di Napoli che occupa una delle sue più belle e più amene colline, quella di Poggioreale, conservava il suo aspetto d'immenso e florido giardino signorile: e i suoi cespuglietti di fiori vivaci che circondano le tombe e le sue siepi di bosso e di mortella che dividono gli ombrosi viali dai campi pieni di lapidi e i boschetti di alberi dove da mattina a sera cinguettano gli uccellini, gli alberi alti che ombreggiamo le sue cappellette, le sue chiesette, i suoi più grandi monumenti, gli conservano, in ogni stagione questo grandioso aspetto di parco aristocratico, qua e là interrotto da piccoli edifici, ora vezzosi, ora pomposi. Non solo nel giorno della commemorazione dei morti, ma sempre vi lavorano giardinieri, sotto la direzione di qualcuno che ama quel camposanto teneramente, e le più belle rose di Napoli vi crescono e i meravigliosi crisantemi, di ogni tinta, ne smaltano persino le aiuole dei poveri e in tutte le stagioni pare che vi sorrida dolcemente la primavera dei morti. Tutto l'anno il camposanto di Poggioreale ha un aspetto, nella sua florida solitudine, raccolto, non triste; mentre in quel giorno, coi suoi viali neri di gente, con tutte le porte delle sue cappelle, delle sue chiese, dei suoi grandi monumenti aperte da cui escivan chiarore di cerei, canti liturgici e odore d'incensi, misto a quello dei fiori freschi, il suo aspetto, sempre, non era triste, ma singolare, ma bizzarro, come di una strana fiera mortuaria, come di una mai vista pompa funebre, in un parco vastissimo, percorso da una folla immensa e svariata. L'ampio viale onde Carmela Minino, insieme con gli altri, saliva alle alture del cimitero ove sono le chiese più belle e i monumenti funerari più ricchi e più artistici, era murato e sulle mura vi eran delle lapidi cementate, le più antiche, con date di trenta o quarant'anni: la ballerina ne lesse due o tre ed ebbe un moto d'indifferenza. Che mai eran quelle donne, quei bimbi, quegli uomini che essa non avea mai conosciuti? Nulla a lei e, forse, nulla a nessuno di costoro che salivan con lei: quaranta, cinquant'anni sono troppi, perchè mi morto possa esser più niente a nessuno. Qua e là, ora che cominciavano i prati fioriti di rose, di cinerarie, di tutti que' fiori bigi, lilla, violetti che par che Iddio faccia nascere nell'autunno per esser di accordo con la stagione e con le tombe dei morti, gruppetti di due o tre persone si agitavano intorno alle pietre mortuarie, infisse semplicemente nella terra e, ripulitele, amorosamente, vi depositavano le corone novelle e infiggevamo, nella terra i cerei che ardevano nel giorno, con certe linguelle di fiamma esili e pallide, e qualcuno s'inginocchiava, pregando, senza, curarsi di chi passava; e un singhiozzo, ogni tanto, rompeva l'aria, sulle tombe più recenti, singhiozzi scoppianti da donne vestite di nero, austeramente velate, mentre da tutte le cappelle, da tutte le chiese grandi e piccole, da ogni maestoso monumento escivano i canti del De profundis e della Libera e scintillavano, nel fondo di pietra, le candele accese e si dilatava l'odore dell'incenso, nell'aria. Carmela Minino, disfatta, sentendo sul suo corpo e sulla sua anima tutto un insopportabile peso di dolore, quasi non poteva avanzare più passo: un desiderio folle la travolgeva, di gittar via, quella corona, di buttarsi sulle erba, sui fiori, faccia a terra, e di sciogliersi in lacrime, fino a che la morte l'avesse sorpresa, colà! Ma, a un tratto, il monumento elevato ad Amina Boschetti le apparve innanzi, quasi magicamente. Sorgeva in un quadrivio pieno di alberi, alti e folti, pieno di odorati cespugli di fiori: aveva dirimpetto la cappella magnatizia dei principi di Sansevero: da un lato la chiesa votiva per la morte della giovanissima duchessa di Noja; ma il tempio eretto alla memoria della ballerina era più ampio, più ricco, più bello delle due chiese patrizie. Aveva un'architettura schiettamente egiziana, imitante una delle antiche tombe faraoniche, tutto in granito oscurissimo e in lucido basalto grigio: le due porte, di un massiccio e puro artistico bronzo cesellato, erano schiuse: intorno intorno a quelle possenti, gravi e larghe masse di granito, girava un giardino fiorito, chiuso a sua volta da un cancello di bronzo. Guardandolo di lontano, il tempio egizio costruito per chiudere la leggiera salma della danzatrice, pareva tozzo, goffo, come sempre appariscono queste architetture, anche laggiù, fra il Nilo e il deserto. Ma come vi si avvicinava, le linee si sviluppavano, si ingrandivano, diventavamo imponenti, maestose. E bastò questo solo suo aspetto grandioso e calmo, per dare un sussulto di coraggio a Carmela Minino; bastarono le due semplici parole, in bronzo dorato, scritte sul sommo della porta: AMINA BOSCHETTI, perchè mia novella forza la ringagliardisse. Man mano che ella si accostava a quella magnifica forma di tempio, dove la fortuna, la ricchezza e la potenza della sua madrina, ricevevano la consacrazione del trionfo anche dopo la morte, una esaltazione facea balzare l'anima di Carmela, asciugandone, disseccandone tutte le lacrime, gonfiandole di tenerezza, ma di tenerezza superba, il suo piccolo cuore. Fu senza dolore, con un senso singolarissimo e inesplicato a lei, che ella entrò nel tempio egizio, segnandosi piamente. Il tempio era riccamente adorno per la commemorazione di Amina Boschetti: dal soffitto pendevano quattro massiccie lampade d'argento, sospese a grosse catene di argento, dove bruciava l'olio votivo: quattro alti e adorni candelieri di argento sopportanti i grossi cerei accesi erano collocati innanzi al breve altare funebre, disposto sotto la lapide che murava la salma. Tutto il tempio, intorno, spariva, sotto le corone fresche di fiori rarissimi: ve ne erano, di fiori, sparsi per terra, sul basalto: e la lapide ne era coperta. Un prete, assistito da due altri, in ricchi paramenti dai colori mortuari celebrava la decima o la duodecima messa funebre, colà, e come egli era venuto dopo gli altri, altri sarebbero venuti dopo lui, sino alle tre pomeridiane: e due chierici spandevano incenso dagli incensieri di argento. Due camerieri in livrea, appartenenti alla casa del banchiere Schulte, colui che aveva, per dieci anni della sua vita, adorato la leggiadrissima danzatrice, che le avea dato la sua fortuna e che, fedele oltre la morte, in un miscuglio singolare di amore, di misticismo e di cinismo, le dava tutte le pompe più ricche del culto religioso, stavano in fondo al tempio, muti, immobili; il loro padrone era venuto presto colà e tutto era stato disposto secondo i suoi ordini, sotto i suoi occhi, e tutti quei fiori li aveva portati lui, ed egli stesso aveva pregato per un'ora, lì dentro, incapace di dimenticare, incapace di consolarsi. l due camerieri presero silenziosamente dalle mani di Carmela Minino la corona di fiori, per deporla presso l'altare: - Sulla pietra, sulla sua pietra - ella mormorò, supplice, tremante di una emozione che non era solo dolore, anzi quasi non era dolore. Poi, quando la corona andò ad appoggiarsi a metà della lapide marmorea, sul posto dove giaceva, dietro la fredda pietra, il freddo cuore della incantevole Amina, la sua figlioccia, si piegò sovra un inginocchiatoio di legno scolpito, dal cuscino di velluto rosso, dove, un'ora prima, era venuto a pregare Otto Schulte e chiuso il volto fra le mani mentre il prete orava, pronunziando le parole tetre, tristi, dolenti, ploranti, della messa per i defunti, mentre il grido dell'anima cristiana che, giunta davanti all'Eterno suo giudice, domanda misericordia esciva dalle labbra dei suoi coadiutori, invece di pregare, Carmela Minino vide innanzi agli occhi della sua immaginazione colei che era sepolta dietro quel marmo, colei per cui era stato eretto quel tempio ricchissimo, colei per cui ardevano quelle lampade e quei candelabri, per cui olezzavano quei fiori, per cui pregavano il Signore quei sacerdoti. E vide una figura esile e lieve, un paio di occhi larghi, bruni, pensosi e ridenti insieme, un sorriso sopra una bocca deliziosamente espressiva, un fascino emanante da ogni atto gentile, un fascino di bellezza, di grazia, di giovinezza, di poesia, qualche cosa di trasvolante tra i veli candidi, fra lo scintillio dei corsaletti ricamati d'oro, qualche cosa, di fugace, di alato, d'inafferrabile che facea palpitare e fremere non solo gli uomini giovani ma i vecchi, non solo gli uomini ma le donne: Amina Boschetti! Fra la luce, innanzi ai teatri zeppi e semioscuri, ella appariva, sottile come uno stelo, con la sua piccola testa carica di capelli bruni, e non toccava terra nelle sue gonne simili a una nuvola e i suoi piccoli piedi calzati di seta rosa non toccavan terra e appena appena parea ricamassero delle cifre posate fra i fiori, sulle aiuole. Ella sorrideva dagli occhi e dalle labbra, danzando, mentre il suo corpo pieghevole si arrotondava allo slancio lievissimo: ella danzava, senza che mai quel sorriso, quel lampeggio degli occhi venissero meno, per la fatica: ella danzava, così, come se null'altro ella fosse venuta a fare, sulla terra. E veramente, la sua irresistibile perizia, veramente la delizia di quella danza facevano delirare le platee: e dal loggione dove il popolo si ammassava nelle serate classiche alle poltrone d'orchestra dove si raccoglieva la nobiltà napoletana, il nome di Amina Boschetti era acclamato come quello di una trionfatrice. La coprivano di fiori, di doni, di gioielli: le offrivano i loro cuori e le loro fortune: ed ella tutto accoglieva, sorvolando su tutto, sapendo che i fiori, i gioielli, i cuori, le fortune, eran fatti per lei, perchè i suoi piedini calzati dalle fini scarpette di raso rosa vi facessero in mezzo una gaia danza. Ella aveva ville a Portici e a Posillipo, palazzi a Napoli, mobili sontuosi, equipaggi ricchissimi, vesti e pietre preziose degne di una sovrana; e la sua lieta giovinezza spensierata rideva di tutto ciò: ed ella dava in cambio tutta la poesia della sua bellezza, tutta la poesia della sua danza, sorridendo ai sogni di amore e di piacere. Così, nella sua infanzia, Carmela Minino l'aveva vista, ammirata, amata, come se Amina Boschetti avesse in sè qualche cosa di divino: così la povera figliuola della rammendatrice di maglie, la figliuola di Bettina Minino, aveva volto gli occhi pieni di ammirazione trepida e devota alla fata delle danze. Tutti quei deliri, tutte quelle acclamazioni, tutti quei gioielli, tutto quel denaro che la gente gittava innanti alla danzatrice adorabile, non sembravano, alla oscura piccola corifea, che un omaggio naturale, giusto, dovuto a quel leggiadrissimo idolo. La messa, funebre quasi finiva, mentre alte risuonavano le parole latine d'implorazione del sacerdote, sotto la volta granitica del tempio egizio. Ma Carmela Minino che, pure, era una, umile e pia cristiana, ancora non pensava a pregare per l'anima della sua madrina. Ora, si rammentava come la bella danzatrice era entrata nella sua piccola vita, piena di ombre, di tristez- ze, di miserie! si rammentava di essere stata condotta, un giorno, due giorni, varie volte, in quel grande palazzo della Riviera di Chiaia, dove Amina Boschetti viveva fra la ricchezza del lusso e dell'arte, e in quell'amena, fresca villa di Portici, posta fra gli orti, i giardini e il mare: sua madre rammendatrice di maglie di seta, aveva servito la Boschetti, quando costei era una semplice ballerinetta di quarta fila, e, più tardi, quando la ballerinetta era diventata una stella fulgida, la povera rammendatrice, assai misera per mancanza, di lavoro, andava a raccogliere le vecchie maglie che la Boschetti gittava via, gli scarpini di raso rosa che la Boschetti metteva una volta soltanto, e di questi doni, facili alla prodigalità, della grande artista delle danze, Bettina Minino faceva un piccolo commercio. Allora, Carmela Minino aveva dieci anni, due grandi occhi neri e dei bei capelli neri, non pareva che dovesse diventare bruttina come era, poi, più tardi, di- venuta pur conservando il dono dei belli occhi e dei bei capelli. Ogni tanto, Amina Boschetti passava nella sua anticamera, dove Carmela si rannicchiava in un angolo; la carezzava lievemente, passando, nelle sue ampie vesti di lana bianca che avevan del peplo greco e da cui si ergeva la seducente testina. - E falla ballare, falla ballare - rispondeva familiarmente la Boschetti, quando la sua vecchia rammendatrice sospirava, parlando di sua figlia. - E se è brutta, Eccellenza? - Speriamo di no. - E se si perde l'anima e il corpo a teatro? - Chi si perde, si ritrova - replicava, ridendo, la Boschetti. Ciò finì con questo: che la Boschetti dava venticinque lire il mese, per vari anni, a Bettina Minino, perchè la sua figliuola, potesse imparare il ballo. Ohimè, la piccola Carmela mancava di grazia, di brio, di leggerezza, nella danza: studiava molto, si stancava enormemente, era obbediente, sommessa alle osservazioni del maestro, tentava del suo meglio, ma non arrivava a conquistare quelle qualità necessarie ad una ballerina. Anche, verso i sedici anni, invece di fiorire come tutte le giovinette, deperì. La sua carnagione si fece bruna e opaca, le linee s' indurirono ai pomelli, al mento; le labbra s'impallidirono. Forse mangiava poco: forse, ballava troppo: forse mancava d'aria e di luce, in quella stanza del vico Paradiso; ma la sua gioventù fu sfiorata, restandole solo quei begli occhi un po' tristi, ma pur fieri, che, del resto, hanno le napoletane più brutte, quei bei capelli, che, anche, sono un pregio assai comune, a Napoli. - Signora mia, è brutta, è brutta - diceva, piagnucolando, ogni tanto, Bettina Minino alla sua benefattrice. - Pazienza! Così non si perderà - rispondeva, sorridendo la Boschetti. E per la sua protezione, solo per questo, Carmela Minino era entrata nel corpo di ballo di San Carlo: ma nell'ultima fila, con due lire e cinquanta ogni sera di ballo, con l'obbligo di fornirsi del basso vestiario, scarpette, coturni, maglie di seta, gonnellini di velo, coll'obbligo di venire ben pettinata o di farsi pettinare dal parrucchiere del teatro, con tanti obblighi, tutti costosi, che riducevano a nulla le due lire e cinquanta serotine. Era, anche, una grazia, particolare, perchè a San Carlo non volevano brutte ballerine, anche nell'ultima fila, perehè Carmela ballava così e così, sovra tutto mancava di sorriso, sempre con quel viso senza gioventù e gli occhi malinconici. Con il poco guadagno della madre, con le venticinque lire il mese del sussidio Boschetti, meno male, si tirava avanti, quando Amina Boschetti morì... Ora, la messa era finita e il prete secondato dai due coadiutori, benediceva con l'acqua santa il tumolo, cioè la lapide. E invece di pregare per colei che dormiva da sei anni l'eterno sonno della morte, dietro quel macigno di granito, Carmela Minino pensava alla morte di Amina Boschetti. Ella l'aveva vista ballare, l'ultima volta, in un ballo grandioso, di carattere egizio: Le figlie di Cheops. Le due figliuole del Faraonide eran rappresentate da una bellissima mima, alta, formosa, Assunta Mezzanotte, che poi, più tardi, doveva tentare con minor fortuna il teatro di prosa, e l'altra figliuola, la sorella, la rivale, era Amina Boschetti. Non so per quante sere, nelle vesti orientali, con l'ibis d'oro fermante i capelli bruni sulla fronte, carica di gioielli antichi, Amina Boschetti aveva ballato, e più che ballato, sceneggiato e drammatizzato quel ballo delle Figlie di Cheops: e non so quale storia d'amore vincitore e vinto, fra le due sorelle, conduceva la minore Faraonide, la danzatrice, alla morte. Nell'ultima scena, ell'appariva in una festa sacra, bella di una ieratica bellezza fatale, coverta di ori e di gemme preziose, con un sorriso inebbriato ed inebbriante sulle labbra, con qualche cosa di folle negli occhi scintillanti. Così la Faraonide Amina Boschetti imprendeva una sua danza religiosa insieme a uno serpente: a un serpente pitone, sacro alle deità egizie, che ella si avvolgeva alle braccia, al corpo, scherzando, giuocando con esso, accostandosene lietamente e follemente la testa al volto, gittandolo via, ghermendolo, agitandolo intorno a sè, in volute bizzarre. Poi, l'affanno delle danze cresceva, cresceva, i capelli della danzatrice si scioglievano sulle spalle, ella girava come folle, come convulsa, fino a che, appuntando la testa del serpente sul suo petto nudo, si faceva mordere, cadeva, moriva, fra il terrore di tutti. In questo ballo, in quest'ultima scena, Amina Boschetti esciva dal limite della danzatrice felice, vaga e spensierata: ell'assumeva un aspetto drammatico e il pubblico ne aveva un effetto più profondo e più alto. Quattro giorni dopo la chiusura del San Carlo, quattro giorni dopo l'ultima trionfale rappresentazione delle Figlie di Cheops, non ancora trentenne, in piena beltà, in pieno trionfo, Amina Boschetti moriva nel suo palazzo della Riviera di Chiaia, in pochi minuti per la rottura di un aneurisma. Niuno sapeva che ella fosse malata al cuore: forse, lo sapeva ella sola. E nella limitata intelligenza di Carmela Minino, la esaltazione dell'adorazione che ella portava ad limina Boschetti, la induceva oltre i confini della piccola anima popolana, la slanciava in pieno sogno. Quel tempio, quegli argenti, quei fiori, quegli incensi, quelle preghiere, quel culto d'amore e di lusso grandioso che oltrepassava il tempo, che oltrepassava la morte, non dicevano l'imperio della grande maga, ancora, sempre? Non era Amina Boschetti indimenticabile, indimenticata, come una suprema parvenza di poesia? Nessuna ne aveva preso il posto nella fervida ammirazione del pubblico e tutta una folla la rimpiangeva, ogni volta che una nuova ballerina appariva sulle scene del San Carlo: nessuno ne aveva preso il posto, nel cuore di colui che l'aveva amata. Nessuno, nulla, nè il tempo nè gli eventi avrebbero potuto prenderne il posto nella oscura vita, di Carmela Minino, la corifea. Colà, sola, innanzi a quella tomba, piegate le ginocchia innanzi a un diletto nome scritto sulla pietra, nell'ardore che le bruciava le vene, Carmela Minino promise, giurò, alla sua madrina morta, di fare sempre quello che ella aveva voluto la sua figlioccia facesse: promise, giurò di continuare quel mestiere duro, faticoso, pieno di pericoli, pieno di tristezze, che appena le dava il pane, che la lasciava mesi intieri senza lavoro, che la esponeva alle delusioni, alle amarezze, ai dileggi di tutto l'orribile mondo teatrale, che la teneva fra il disonore e la miseria e che, infine, l'avrebbe portata, chi sa, all'elemosina, all'ospedale: che importava? Ella aveva voluto così: e Carmela s'inchinava ancora una volta, ebbra di obbedienza, ebbra di devozione, oltre la tomba, sino alla morte e oltre la morte. Anzi, nella sua febbre di amore e di sacrificio, Carmela dimenticò completamente di pregare. Con la familiarità religiosa comune ai cuori semplici napoletani, con la empietà ingenua dei cuori passionali , ella era certa, certa, che il Signore aveva perdonato ad Amina Boschetti tutti i suoi peccati. La corifea rientrò in Napoli verso le cinque. Quasi annottava. Questa volta, per trovarsi più presto in Via Paradiso, alla Pignasecca, voltò dalla Stazione per la regione settentrionale di Napoli, Via Cirillo, Via Foria. Quando fu presso il Museo Nazionale, la pioggia cominciò a cader fitta fitta. Temendo pel suo vestito, pel suo cappello, per le scarpe, ella si rifugiò nella Galleria Principe di Napoli, dove centinaia di altre persone, senza ombrello, o con qualche vecchio ombrello consunto, aspettavano che finisse di piovere. Si faceva tardi, per Carmela. La pioggia diminuiva ed ella discese la scalinata della Galleria verso via Toledo; guardando innanzi a sè, ella scorse un elegantissimo coupé signorile fermo innanzi al grande arco della Galleria. Sul marciapiede, piegato verso lo sportello, nascondendone il vano, un signore parlava alacremente e attentamente ascoltava chi era dentro la vettura. Malgrado che le volgesse le spalle e che avesse cambiato vestito, Carmela riconobbe subito il Conte Ferdinando Terzi. Ella si fermò un istante sugli scalini, guardando verso il coupé, cercando timidamente di scorgere chi vi si trovasse dentro. Oh ella sapeva bene, Carmela, che Ferdinando Terzi nascondeva e mal nascondeva, una perigliosa e violenta relazione con una giovane signora dell'aristocrazia, a cui Emilia Tromba faceva o da paravento o da diversivo: sul palcoscenico se ne parlava, fra le ballerine che spettegoleggiavano sugli amori e sui vizi del mondo aristocratico, in cui spesso hanno delle rivali, e Carmela conosceva il nome e il volto giovanile, pensoso e dolce di colei che si diceva, amasse follemente Ferdinando Terzi. Ma pioveva ancora e fra le penombre del crepuscolo, il velo sottile della pioggia, nel giro largo e lento che Carmela Minino fece intorno alla piccola carrozza signorile, non giunse a distinguere nulla. Lentamente, la ballerina si allontanò lungo il marciapiede opposto, andando verso la sua casa: si voltò solo, sotto ombrello, due o tre volte, a guardare indietro. Il coupé era sempre fermo, Ferdinando Terzi - le pareva a Carmela - si era sollevato, guardandosi intorno, per diffidenza: poi si era curvato di nuovo, a discorrere. Ma in quell'ora, con quel tempo, lontano dal centro aristocratico di Napoli, fra le oscurità del crepuscolo che si facea sera, sotto la pioggia, chi potea, lassù, riconoscere Ferdinando Terzi e il coupé della marchesa.... chi, se non l'occhio umile ma acuto di una poveretta che ritornava dal cimitero, a piedi dalla ferrovia, tutta molle di umidità, senz'aver pranzato, anelando alla sua stanzetta solinga e a un po' di cibo? Fu più in là, verso piazza Dante, che una voce amabile interruppe il cammino di Carmela. Sulla soglia di uno dei grandi magazzini inglesi di Gutteridge, un giovanotto l'aveva interpellata: - Oh signorina Minino, buonaseral non mi salutate, neppure? - Buonasera, buonasera - ella mormorò, interdetta, fermandosi e pentendosi subito di essersi fermata. - Entrate un poco, signorina - soggiunse il giovane, liberando l'entrata. - No, non posso, signor Gargiulo, ho fretta. - Sempre così! E donde venite, sempre simpatica, sempre così simpatica e così cattiva, con me? Da una prova di ballo? - A quest'ora? - ella mormorò, senza badare ai complimenti. - Io vengo dal camposanto. - Scusate - disse Garginlo, interdetto. - Andate a casa? Posso accompagnarvi, un poco? - No, no, grazie, badate al vostro lavoro. - Oh, è già sera, non verrà più nessuno, dico a un compagno di supplirmi alla cassa. Permettete? - Nossignore, buonasera, signor Gargiulo - concluse lei, in fretta licenziandosi. Il giovane cassiere rimase un po' interdetto: ma lo stesso sorriso un po' fatuo gli restò sulle labbra, mentre guardava allontanarsi la ballerina. Egli era alto e magro, con un viso olivastro e un po' di baffetti bruni a cui teneva molto, accarezzandoli spesso: portava i capelli neri tagliati a spazzola sulla fronte e non mancava di una certa linea di eleganza, nella sua magrezza. Parlava con sovrabbondanza, come tutti i commessi di negozio, con uno spolvero di false buone maniere, con le unghie lunghe e accurate e un brillante al mignolo: vivente maluccio col suo stipendio di cassiere, ma sempre ben vestito, con quella ricercatezza speciale dei giovani commessi, amatore dello smoking e frequentatore accanito di teatri e di balletti borghesi. In teatro andava gratuitamente, per mezzo di un giornalista suo amico, specie a San Carlo: e, talvolta, con l'amico era andato ad aspettare l'uscita delle ballerine dopo lo spettacolo. Colà aveva visto passare, varie sere, Carmela Minino sola: le aveva diretto qualche parola, così, per far anche lui il corteggiatore di una ballerina. - Lascia fare - gli aveva mormorato l'amico giornalista. - È brutta ed onesta. - Ne sei certo - Certissimo. Sono otto o dieci, ancora zitelle, a San Carlo, fra cui la Minino. - Allora, sarebbe un bel guaio per me. - Naturalmente. Niente altro. Ma sempre che la incontrava, Roberto Gargiulo si avvicinava a Carmela, le faceva dei complimenti vivaci e delle allusioni poco velate. Ella rispondeva poco o nulla, si schermiva alla meglio, si allontanava,. Pure, Gargiulo che aveva fatto qualche conquista, nel monduccio borghese ove si aggirava, pensava che se avesse voluto, con una corte assidua, con qualche regaluccio, Carmela Minino avrebbe finito per amarlo. Conveniva a lui, però, insistere, poichè la ballerina era onesta, affrontare certe conseguenze, portare la catena di una relazione simile? Chi sa... più tardi... forse... e intanto, ogni volta che ella gl'impediva di continuare i suoi discorsi, egli conservava il suo sorriso fatuo, di seduttore che non vuole insistere. Carmela affrettava il passo, verso via Pignasecca, aveva crollato le spalle, lasciando Roberto Gargiulo. Egli non le dispiaceva e non le piaceva, ma ella adoperava con lui le armi di difesa abituali di una donna che ha paura dell'amore e paura del peccato. Credendosi anche più brutta di quello che era, una istintiva, selvatica diffidenza le veniva contro ogni accenno di corte; ella supponeva sempre un inganno maschile, una trama, per farla cadere nel peccato, per burlarsi di lei, subito dopo. Vagamente, nella sua coscienza di povera serva sociale, di povero atomo, senza forza e senza coraggio, ella sentiva che, un giorno o l'altro, questo sarebbe accaduto: ma con tutte le cure quotidiane ella respingeva da sè questo avvenimento, ciecamente respingendo chiunque avesse potuto rappresentarlo: adoperava le più puerili e le più inani armi di difesa, fuggendo le conversazioni, fuggendo i contatti, evitando ogni occasione, facendosi anche più rustica e più sgraziata. Oh non molti la corteggiavano, mal vestita, sempre sola, sempre danzante nelle ultime file, senza un gioiello, senza un fiore nei capelli, ma ogni tanto qualcuno, Roberto Gargiulo o don Gabriele Scognamiglio, il cav. Gabriele Scognamiglio, il ricco farmacista, consuetudinario di San Carlo, che abitava in piazza della Pignasecca, o il figliuolo del direttore del palcoscenico, qualcuno di questi la perseguitava per due o tre giorni, per una settimana, dicendole sempre le stesse cose, volendo tutti la medesima cosa, ingannarla, cioè, pensava lei, condurla al peccato, per piantarla subito. No, no. Ella li scoraggiava, facendosi vedere sempre più sgraziata, a occhi bassi, troncando i discorsi, fuggendo, quasi sempre. - Buonasera, donna Carmelina! - disse una voce d'uomo, mentre ella sbucava sulla piazza della Pignasecca. - Ecco l'altro - mormorò fra sè, Carmela. - Buonasera, cavaliere. Era don Gabriele Scognamiglio, il ricco farmacista, celibe impenitente, famoso donnaiuolo: un uomo che aveva già i suoi cinquantacinque anni, ma che portava la sua barba bianca bene tagliata e profumata, quasi sempre in marsina, la sera, pulito, svelto, che sapeva parlare alle donne, brutale, del resto, nel fondo del suo animo, freddo e calcolatore. - Donna Carmelina, volete venire a pranzo con me, a Frisio, stasera? - Grazie, cavaliere, ho già pranzato. - Allora, andiamo insieme al cafè concerto, donna Carmelina, che ne dite? Dopo mezzanotte, si cena... - Buonasera, buon divertimento, cavaliere - diss'ella, allontanandosi. - Siete proprio una scema, donna Carmelina, ve ne pentirete! - esclamò lui, ridendo, chiamando una carrozza per andare a pranzo. Ah, quando fu in casa, nella stanza al quarto piano, piena di umidità, Carmela Minino fu presa da una stanchezza mortale. A forza si trascinò sino al tavolino per accendere il lume a petrolio; e per forza se ne andò in cucina, ad accendere un po' di fuoco, per cucinarsi un paio di uova, che aveva in casa: niente altro, perchè sarebbe morta di fame, anzi che discendere quei quattro piani a comperarsi qualche altra cosa. Moriva di fatica, di lassitudine morale, di segreta tristezza: e mangiando quel poco di cibo, sopra un angolo nudo del suo tavolino, alla luce fumosa della sua lampada, pensò, sì, di essere una scema, come aveva detto don Gabriele Scognamiglio. Ma non se ne pentì, in quella sera.

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La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247405
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Pagina 66

Nel sogno

248199
Matilde Serao 2 occorrenze

Pagina 13

Pagina 21

Una peccatrice

249836
Giovanni Verga 5 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
  • UNICT
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Pagina 112

Passeggiavano da quasi cinque minuti in silenzio, quando una signora, abbigliata con gusto squisito, appoggiandosi con il molle e voluttuoso abbandono che posseggono solo le innamorate o le spose nella luna di miele, al braccio di un uomo, anch'esso molto elegante, passò loro dinanzi e lo strascico della sua lunghissima veste sfiorò i calzoni del giovane alto e bruno che stava a diritta, il quale non sembrò accorgersene. - La bella donna! - esclamò il suo compagno, un giovane biondo, come per rompere quel silenzio, che durava da un pezzo. L'altro, istintivamente, alzò il capo e guardò la signora, che, o naturalmente, o per l'istinto della donna, avea volto a metà il viso verso di loro, parlando con l'uomo che l'accompagnava. Il bruno sembrò esaminarla di un lungo sguardo dalla piuma del suo cappellino, che scherzava coi ricci dei suoi magnifici capelli cadenti sin quasi sulle sopracciglia, alla punta del suo piccolo piede, chiuso in stivaletti di seta nera, che allora, forse per la più squisita civetteria, l'ampia guarnizione della veste lasciava scoperto sino al basso di una gamba sottile e ben modellata. - Sì, molto bella! - diss'egli, come rispondendo a sè stesso. E malgrado che tentasse immergersi di nuovo nei pensieri che lo tenevano sì preoccupato un momento innanzi, due o tre volte alzò gli occhi a fissare la veste, che ancora strisciava lontana sulla sabbia del viale. Alla porta ella montò nella carrozza che l'aspettava, e partì. - Ella non dev'essere siciliana; - ripigliò il bruno, che si chiamava Pietro. - Chi te lo dice? - Tutto: il suo genere d'eleganza, la sua andatura... il modo stesso con cui accolse la tua esclamazione. - L'ha udito dunque! - mormorò il biondo, arrossendo come un collegiale. - Raimondo, amico mio, sarai sempre un ragazzetto su questo argomento. Credi dunque che quando una bella donna ti passa dinanzi badi ad ascoltare le sciocchezze che le sussurra un imbecille qualunque sotto il naso? - Ma quest'imbecille può anche essere un amante... e allora... - E allora ragion dippiù per ascoltare ciò che si dice di lei, quale impressione desta passando, per poi fare un presente all'innamorato delle tue osservazioni (se sono favorevoli però, bada!) sotto il pretesto di riderne; presente che deve rendere innamorato quel povero allocco per dieci gradi dippiù. Raimondo rise dell'osservazione; e ambedue proseguirono a passeggiare in silenzio. All'ingresso del giardino si separarono, colla tacita promessa, data nella più tacita stretta di mano, di rivedersi l'indomani. Noi cercheremo di delineare questi due personaggi, dei quali uno è destinato ad avere la maggior parte negli avvenimenti che verranno in seguito. Pietro Brusio, l'uno dei due (ricorriamo al pseudonimo per questo come per quasi tutti i nostri personaggi, viventi ancora la maggior parte e molto conosciuti) è, come abbiamo accennato, un giovanotto alto; di circa 25 anni; alquanto magro, ciò che non impedisce che abbia delle belle forme, le quali sarebbero più eleganti, se avesse il segreto, come l'hanno molti, di saperle fare spiccare; ha i capelli assai radi, di un castagno molto più chiaro di quello dei suoi pizzi e dei baffi; pelle bruna; occhi piccoli e vivissimi; labbra alquanto grosse e sensuali; narici larghe e dilatantisi sempre più alla minima aspirazione del suo carattere impetuoso; piedi e mani piccolissime in rapporto alla sua statura. Nell'assieme figura energica e maschia, che può avere anche i suoi riflessi di bellezza, messa sul suo piedistallo, nella sua giusta luce, al suo posto insomma. È un giovane quale se ne incontrano molti in Sicilia: sangue arabo in vene andaluse: orgoglioso come un Cyd egli non dissimula menomamente le sue pretensioni di superiorità, che nulla sembra autorizzare nel suo esteriore. Vivo ed impetuoso come tutti i meridionali, egli scenderebbe sino alla lotta di piazza pel minimo sguardo un pò dubbio che s'incrociasse col suo. Natura generosa del resto, elevata, con molte aspirazioni al superiore, troppo nobile forse per trovarsi in contatto colla società del giorno senza risentirne gli urti, egli passa colla maggior facilità dall'estrema confidenza nella sua stella, nel suo avvenire (poichè egli avea dato due o tre drammi al teatro di Siracusa, dei quali si era parlato il giorno dopo soltanto, o non si era parlato affatto) allo scoraggiamento massimo, alla disillusione più completa di tutti quei sogni rosati, che pur riempiono un gran vuoto, rispondono ad un gran bisogno in quell'età in cui il cuore e l'immaginazione vivono anch'essi la loro vita. Il compagno che gli passeggiava allato è molto più piccolo; biondo, piuttosto grasso; uno di quei caratteri che non servono sovente ad altro che a far spiccare una individualità superiore a cui si accompagnano, di cui sentono e subiscono l'influenza come un satellite. Raimondo, il biondo, ha però il merito di essere come il compimento del carattere infiammabile, sovente del soverchio, del suo amico. Egli non ha la superiorità d'ingegno di lui, ma molta maturità di giudizio, ciò che lo fa ragionare calmo ed assennato, ed impedisce a Pietro di commettere mille pazzie, poichè Raimondo ha la voce dolce ed insinuante ed il carattere conciliativo; sembra infine che l'ardente carattere dell'amico suo subisca a sua volta l'influenza della pacata indole di lui. Entrambi appartengono a due buone famiglie di Siracusa. Raimondo è già laureato in medicina da quasi un anno, e Pietro studia legge per studiare qualche cosa che non gli rendesse soltanto strette di mano dei comici, che per altro si misuravano dal numero dei rinfreschi offerti e mai rifiutati, e qualche applauso, assai freddo, della platea, che avea il valore di un biglietto gratis. Abbiamo insistito, forse di soverchio, su questi dettagli fisici e morali, d'uso per alcuni, per noi resi indispensabili dalla necessità, che abbiamo peculiare, di far sentire, diremmo, i caratteri che presentiamo prima di agitarli nelle scene di un racconto intimo. Scopriamo sin dal principio il meccanismo, per non attirarci la taccia, poscia, di aver fatto agire delle marionette, da chi non ne vedesse il filo motore ch'è il cuore. Cinque giorni dopo, all'ora solita, noi incontriamo i due amici, che passeggiano, colla stessa sbadataggine, sotto gli alberi de Rinazzo; l'uno, il biondo, chiacchierando quasi sempre solo; il suo compagno col capo basso e le mani dietro le reni. - Mio caro, - diceva il biondo, guardando l'amico negli occhi in aria di malizia, - risponderai almeno questa volta a quella piccina? - Io? - rispose bruscamente Pietro, come destandosi di soprassalto, - e perchè fare? - Bella risposta! che pure non avrebbe avuto l'opportunità, di venir fuori oggi, se tu l'avessi data a te stesso il giorno, o piuttosto la sera, che ti venne in mente di accalappiare colle tue commedie quella poveretta. - Credo che tu abbi ragione in quanto alla risposta; e che tu dica una bestialità, ciò che fai spessissimo, in quanto a quello che mi vai cantando di accalappiamenti e di poverette... - Pietro... - Lasciami tranquillo, ti dico!... Ci credi sul serio dunque che a quest'ora Maddalena, la piccina, come la chiami, pianga e si disperi perchè non le scrivo più, perchè la sera, onde aspettarla sotto il verone, non rischio più di farmi gettare delle immondezze sul capo da qualche serva maligna, che finga di non vedermi, e perchè non do più lo spettacolo ai vicini, che si mettono ad origliare dietro le imposte, di quelle freddure che si ricantano sempre sullo stesso tuono: buona sera; come stai? mi ami sempre? non quanto me... ecc. ecc. poichè le varianti sono pochissime!! ln fede mia che ne ho abbastanza di tali amori da quindici anni!!.. se mi avesse permesso di salire un momento sulle scale... pazienza!... - Sì, Pazienza per altri otto giorni! la sarebbe finita come tutte le altre... Eppure ti assicuro che se tu l'avessi veduta piangere come io l'ho veduta; se ella ti avesse abbracciato i ginocchi come li ha abbracciati a me, per indurti ad andarla a vedere, a scriverle almeno... se tu avessi udito le parole ch'ella mi diceva!... - Parola d'onore! - esclamò sghignazzando Pietro, - che tu ne sei innamorato cotto. Va, Raimondo, amico mio, tu farai il tuo cammino, coi tuoi ventidue anni, i tuoi capelli biondi, e il tuo volto fresco e roseo. Il biondo prese quegli scherzi come li prendeva sempre, dalla parte che lasciano ad un uomo di spirito, ch'è quella di riderne pel primo, e riprese: - Se così fosse, confessa che mi saresti molto obbligato di averti sbarazzato di una noia, senza i ritornelli soliti di traditore, Iddio è giusto, ecc. Pietro ne rise esso pure, e strinse con effusione la mano del suo amico. - Sentimi, caro Raimondo; - diss'egli alquanto gravemente; - io non son di quelli che dicono: fo così perchè così fanno gli altri. Mi sento troppo superiore a questi altri per seguirne l'esempio. A diciott'anni è permesso credere ancora all'amore, alla fedeltà, alla donna tipo, eroina, come impastocchiano gli sfaccendati nei romanzi... A ventiquattro (è desolante quello che dico, ma non è men vero) si è scettico come lo scetticismo, quando cento volte si sono ascoltate le più appassionate proteste, fatte colle lagrime agli occhi, dalla donna che ha in saccoccia la lettera del rivale. - É curiosa! - interruppe Raimondo. - Che cosa? - Come ti hanno guastato i romanzi di Sue; tu, accannito avversario dell'esagerazione della scuola francese, e che ora mi copii sì bravamente l'Uomo stufo a ventun'anni, lo Scipione del Martino il Trovatello... - Non copio io! - disse Pietro quasi con asprezza; - ti dico soltanto quello che penso. Ti dico anche che darei qualche cosa del mio avvenire per possedere ancora le illusioni sì care de' miei diciassette anni... Tu conosci la mia vita, Raimondo!... Ti ricordi di una giovanetta che amai alla follia... Che fece quella giovanetta per la quale avevo pianto... ne ho vergogna anche a pensarci... pianto dinanzi a te... come un fanciullo... come un vile?! ... Ella m'ingannò per un mercante; poi; poi per un nobile, per un uomo ammogliato... E questa donna, che avea dato appuntamento per la sera al suo amico, che ascoltava tremando le ore che segnava l'orologio del salotto, poichè temeva ch'io m'incontrassi con lui, abbracciava i miei ginocchi, come ieri Maddalena abbracciava i tuoi; mi supplicava colle lagrime più ardenti, colle carezze più tenere, cogli accenti più deliranti di non lasciarla sì tosto, di non lasciarla in collera, poichè s'era accorta ch'io avevo sospetto di quello che dovevo vedere mezz'ora più tardi... Dopo amai una maritata; credei che una signora che rischia di romperla colla società, e colla sua felicità istessa, dovesse molto sentire quest'affetto, al quale sacrifica il suo decoro, la pace domestica, e, presso di noi, fors'anche la vita... Quindici giorni dopo, a caso, in una festa da ballo, seppi, da uno di quegli amici che s'incontrano dappertutto, che da tre giorni egli era in relazione con quella signora... e le espressioni appassionate di lei, che egli mi citò, erano le stesse di quelle che aveva impiegato per farmi credere al suo amore... In seguito amai una fanciulla... pura siccome un angiolo: come direbbe il il signor Darmont nella Traviata; ella aveva tutto ciò che può far credere alla purità del cuore: distinzione d'educazione, coltura d'ingegno, bontà di sentimenti... Io l'amai come un pazzo, quella fanciulla dal viso pallido e dagli occhi cerulei... Scesi persino alle puerilità del collegiale... passare sotto i suoi veroni, seguitarla al passeggio e in chiesa... Quella giovanetta rispose finalmente alle mie lettere, mi promise amore e fedeltà, nell'istesso tenore, suppongo, in cui l'aveva promesso sei mesi prima ad un giovane che sposò alcune settimane appresso... E dopo questo, dopo innumerevoli esempi, che ogni giorno cadono sott'occhio, credi che si possa più averi fede nell'amore propriamente detto, in quest'amore chiesto o giurato spesso col rituale alla mano, senza passare almeno per uno scolare di primo anno? - Ti rispondo colle tue parole: Credo che abbi ragione almeno per metà; ma confessa che per l'altra tu esageri un pochino, lasciandoti trasportare, al solito, dalla tua immaginazione. - Può essere anche questo; - rispose sorridendo il giovane; - del resto colla Maddalena l'ho rotta tranquillamente o diplomaticamente, come vuoi meglio. Infine vuoi una parabola per convincerti? - Fuori la parabola! - Ecco! - e Pietro trasse dal suo portasigari, che avea trasformato anche in portafogli e portamonete, un bigliettino in carta profumata ed involto in una sopracoperta piccolissima color rosa; colla stessa flemma ne prese un sigaro ed un fiammifero. Acceso il foglietto, cominciò accenderne tranquillamente il sigaro. Raimondo ebbe il tempo di leggere le ultime frasi assai tenere del bigliettino, scritto con quel carattere minuto ed uguale che sembra particolare alle signorine distinte, firmato in basso colle sole iniziali. - Hai veduto? - gli domandò Pietro trionfante, buffandogli in faccia il fumo azzurrognolo del sigaro. - Ho guardato ma non ho visto, come il cieco della Bibbia. - È semplicissimo: vi è un detto celebre: Fumo di gloria non val fumo di pipa: ciò che in parentesi dimostrerebbe che le mie più belle produzioni-erba non valgono il fumo delizioso di questo regalia; io ne faccio un altro: Amor di donna, e d'uomo, se si vuole, non dura piú di cenere di carta, o biglietto amoroso... o sigaro regalia. Spero di farmi nome almeno coi proverbi... giacchè non l'ho potuto con opere di maggior lena... Ma guarda laggiù, imbecille!... - Che c'è? - Cospetto!... la signora che incontrammo l'altra volta alla Villa! - È vero. - Che donna... Perdio!... - Non è poi quella maraviglia che mi vai cantando... - Non ho parlato di maraviglie. Ti dico semplicemente che a Catania, e in tutta Sicilia anche, son poche le donne che sappiano recare così bene il suo pardessus reine-blanche, e che sappiano appoggiarsi con tanta grazia al braccio di quel briccone in guanti paglia e pince-nez che ha la fortuna di premere quel polsino contro le sue costole. Essi passarono quasi rasente a quella donna, che questa volta non li vide, o fece le viste di non vederli, e che sorrideva del suo riso incantevole al suo cavaliere, mentre gli parlava. - Hai udito che bella voce! - esclamò Pietro, premendo il braccio del suo compagno; - all'accento mi parve torinese... lo adoro tutto il Piemonte in questo momento... - Eppure veduta dappresso non è bella... - È adorabile, se non è bella! Essa non ha la bellezza regolare, compassata, che direi statuaria, e che non invidio ai modelli dei pittori; ma ha occhio che affascina, e sorriso che seduce carezzando, quando questo fascino ci può fare atterrire coi suoi brividi troppo potenti. Questa donna alta e sottile, di cui le forme voluttuosamente eleganti sembrano ondeggiare lente e indecise sotto la scelta toletta che le riproduce con tutta l'attrattiva vaporosa delle mezze tinte, ha tutte le perfezioni per poter coprire ed anche far ammirare come pregi altre imperfezioni; questa donna che ha bisogno di tutta la delicatezza e la bellezza di contorno del suo collo da inglese per non far troppo spiccare la piccolezza della sua testa da bambina; di tutta la flessibilità della sua vita per far dimenticare l'estrema sottigliezza del suo corpo; di tutta l'abbagliante bianchezza dei suoi denti per fare una bellezza della sua bocca alquanto grande, con cui ella sorride sì dolce cha sarebbe a desiderarsi di vederla sempre sorridere; che si serve di tutte le ombre, di tutti i riflessi più lucidi, più belli, più azzurrognoli dei suo magnifici capelli neri per nascondere che la sua fronte è alquanto larga ed alta del soverchio di tutta la limpidità dello sguardo dei suoi occhi, infine, per farne ammirare la pupilla di un riflesso molto chiaro; questa donna mi colpisce mille volte dippiù coll'effetto direi strano, sorprendente, poichè rubato a Dio, della sua beltà... Io non potrei giammai esprimerti l'effetto che mi fa questa bellezza, che non è tale che quasi per un miracolo, poichè non ha nulla per esserlo, ed in cui tutto sembra formare un assieme di grazia e di incanto; questa bellezza che ha bisogno di tutte le risorse della toletta, di tutte le seduzioni dei modi e dell'accento, di tutto l'incanto dello sguardo e del sorriso, per circondarsi di questo vapore trasparente... illusorio, lo confesso, che la fa bella però, che la fa adorabile, poichè sembra non farla vedere che in nube, attraverso l'incenso e l'orpello; questa bellezza che vuol essere tale a dispetto della natura che l'avea fatta comune; questa figura plastica che non ha di bello che gli elementi, direi, per divenir tale, e lo spirito creatore che fa nascere tutte le grazie di cui si circonda; che si mette allo specchio donna per sortirne silfide... maga... sirena... - To... to... to!... Pietro, amico mio, ne saresti innamorato?... - lo! - rispose il giovane scrollando le spalle, come cadendo dalla sua esaltazione, - sei pazzo! - Eppure tutti i pregi di costei non valgono un solo di Maddalena. Venti ancor più belle di lei non farebbero un angioletto così bello e perfetto qual è la piccina, come mi piace chiamarla; che pure hai abbandonato senza un pensiero. Pietro fissò uno sguardo sull'amico, poi un altro sulla signora ch'era già molto lontana, e rispose semplicemente, abbassando il capo: - Maddalena non sa neanche annodarsi il nastro del cappellino come colei. - È graziosa! - esclamò Raimondo. - Dunque ameresti dippiù una donna che avesse bisogno, per essere amata, d'impiegare prima due ore allo specchio? - Sì, lo confesso... Chiamala anche civetteria, o ciò che vuoi; nella donna che dovrei amare io vorrei tutte queste cure minute, tutte queste precauzioni delicate, tutte le perfezioni dello spirito e le squisitezze dell'educazione, tutti questi dettagli dell'assieme, insomma, che servirebbero a formarmi l'aureola della donna che dovrei avvicinare colla riverenza e il delirio dei sensi, che tal prestigio dovrebbe recarmi, poichè a riverenza del cuore io non l'ho più. Io amo nella donna i velluti, i veli, i diamanti, il profumo, la mezza luce, il lusso... tutto ciò che brilla ed affascina, tutto ciò che seduce e addormenta.. tutto ciò che può farmi credere, per mezzo dei sensi, che questo fiore delicato, del cui odore m'inebbrio, che mi trastullo fra le mani, non nasconde un verme; che quest'essere non è come il mio, debole e creta... E allora io l'amerei... un giorno, un'ora, ma l'amerei... Quanto alle altre donne, le amerò allorchè scoprirò un cuore nella donna. Pietro, dopo questa scappata, rimase muto alcuni altri secondi, aspirando voluttuosamente, colle narici dilatate, il fumo del sigaro, come se attraverso quella nube cenerognola volesse discernere le forme indecise del tipo che avea ornato di tale incanto nella sua imaginazione. Poscia, come arrossendo del suo trasporto, si mise a ridere fragorosamente, esclamando: - Che ne dici della mia tirata, Pilade? - Non è cosa nuova in te. Dimentichi troppo spesso che sei scritto sul ruolo degli studenti di terzo anno in legge, per trasportarti ai tempi in cui impiastricciavi carta. - Hai ragione; bisogna dimenticare quei tempi... - disse il giovane con una forzata allegria, che pure avea una leggiera tinta d'amarezza. - Destino! ecco la gran parola che gli uomini non sanno proferire più spesso, ma nella quale io son credente come un maomettano... Io, povero sciocco, che m'ero fitto in capo di salire le scale del Campidoglio, e raccogliervi una corona qualunque... eccomi destinato probabilmente a logorare quelle dei tribunali, e di corone non si parla più... fossero anche di cavoli. Se gli uomini sapessero far valere questa parola quanto essa lo merita, l'incolpabilità delle azioni umane rimarebbe sugli scritti dei penalisti: ecco che, almeno una volta, parlo da saggio... - Ed anche il merito delle azioni umane, in tal caso... E tu sei superstizioso in quest'idea? - Al fanatismo! - Ma se tu fossi destinato ad amare quella donna, che non hai veduto che due volte, in passando?... Pietro cominciò dallo scrollare le spalle, al solito; indi rimase alcuni minuti in silenzio, e disse tristamente, come se quell'idea gli facesse pena o paura: - Chi lo sa!?...

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Ed ora, nel momento in cui ti scrivo, questa donna, che di tutto ciò ch'è leggiadro s'è fatto un corteggio splendido, questa donna che ha il sorriso ammaliatore, gli sguardi inebbrianti col loro raggio pacato, le promesse più affascinanti nel suo voluttuoso abbandono, questa donna mi ama!... me l'ha detto coi suoi labbri posati sui miei!... Questa donna io l'ho posseduta; io la possiedo!... È mia!... Quel cuore del quale cui spaventavo a scandagliare i misteri reconditi, come se gli immensi tesori d'amore che vi si racchiudono avessero dovuto annegarmi nei loro diletti sovrumani, quella vita ch'è tutta un fremito di voluttà, io li ho sentito palpitare fra le mie braccia... Essa è vissuta sotto il mio letto; ha passeggiato al mio braccio;... e i suoi labbri hanno chiuso i miei occhi la sera, per riaprirmeli l'indomani!... Io ho baciato quei capelli, quella fronte, quegli occhi, quelle labbra; io mi son cullata quella testolina sui miei ginocchi, ed ho passato le intiere notti fantasticando cogli occhi fissi in quegli occhi, a leggervi tale amore che mai uomo in terra conoscerà... «Raimondo, sai tu cos'è questa donna?... È l'amore con tutti i suoi palpiti più arcani e misteriosi; è la voluttà con tutti i suoi sussulti più ardenti; è il delirio con tutti i suoi sogni più febbrili. Io non arriverò mai a farti immaginare qual fremito di piacere si provi quando quella mano da fata, colle sue unghie rosee, colle sue dita affilate, colla sua pelle rasata e candida si posa sulla fronte; e quando quegli occhi fanno passare nei miei baleni di quest'amore che al primo urto scintillano come il cozzo di due spade, e che inebbriano come un veleno. «Questa donna che vivea pei piaceri, della quale il lusso era il bisogno come l'aria è il bisogno dell'uomo, questa donna non esce più quasi mai; rifiuta tutti gli inviti; si alza all'alba, per venire ad appoggiare la sua testa sulla mia spalla, mentre io lavoro; per venire a spargermi il tavolino di fiori ch'ella ha colti per me... per dirmi di quelle parole che ella sola sa dire. È una vita straordinaria che noi facciamo: una vita che c'invidierebbero molti e che molti compiangerebbero come una pazzia. «A Napoli noi uscivamo qualche volta, la sera, verso mezzanotte, in carrozza e andavamo a Mergellina per la Riviera di Chiaia. Io non ti potrei esprimere le sempre nuove sensazioni che costei mi faceva provare, in quell'ora, seduta accanto a me sui cuscini della carrozza. «Noi lasciavamo il calesse per correre, di notte, come fanciulli, tenendoci per la mano, sedendoci a terra quando eravamo stanchi. «Il sole ci sorprendeva spesso ancora passeggiando, come nelle prime ore della notte; e allora noi correvamo a casa per levarci poi alle cinque. «Qualche altra volta uscivamo a cavallo. Narcisa cavalca come un'amazzone, e noi galoppavamo verso Possilipo. lo mi spaventavo nel vedere con quale audacia piena di grazia quel fragile corpo che sembra soltanto armonizzato per le più delicate carezze, quella giovane nervosa che sembra vivere una vita a metà aerea come quella di una farfalla, sfidava i pericoli della corsa, superando gli slanci impetuosi di Arbek, il mio focoso cavallo, con tutta le disinvoltura di un cavallerizzo. «Quando ritornavamo, coi cavalli anelanti e coperti di spuma, Narcisa si lasciava cadere nelle mie braccia, avvinchiandomi le sue al collo; ed io la trasportavo, come una bambina, sulla sua poltrona accanto al pianoforte. «La sera facevamo della musica assieme. Ella è di un gusto squisito, quantunque non possegga tutte le facilità di pianista. Quand'ella suona io sto seduto al suo fianco, colle braccia allacciate attorno alla sua vita; ella s'interrompe per guardarmi, per sorridermi;... e quando mi ha guardato un pezzo, com'ella sola sa guardare, mi chiude gli occhi coi baci. Colle mie mani fra le sue ha voluto ch'io le narrassi tutta la mia vita, colle più minute particolarità... Ha sorriso del suo caro sorriso a ciascuna rimembranza delle mie follie di giovinezza, e mi ha detto: « - Giammai tu amerai come hai amato me!... « E come ebbra del suo trionfo mi ha circondato la testa delle sue braccia. «Ora, da quaranta giorni, noi siamo a Catania, dove ad ogni passo io provo delle emozioni ineffabili. Spesso rimango delle ore intiere a contemplare l'oggetto insignificante che mi ricordo aver veduto quando amavo Narcisa di quel terribile amore senza speranza. «lo ho salito quella scala, ho passeggiato per quelle stanze, ho dormito sotto quel tetto... ho veduto la sua camera... Qual camera! se la vedesti, Raimondo!... «Un uomo che non avesse mai conosciuto Narcisa ne immaginerebbe il ritratto fisico e morale quando avrebbe soltanto veduto la sua camera. «Dappertutto velluti e sete; e, a renderne meno pesante la ricchezza, meno severo e più diafano il colorito, veli dappertutto, e fiori, e un profumo appena sensibile, ma molle, delizioso: il profumo della sua pelle delicata... «L'altra notte udii rumore nel suo appartamento; mi levai anch'io e la trovai al verone istesso dove io la vedevo qualche volta, cogli occhi fissi sulla strada dove altravolta io passavo parte delle notti. «Mi accorsi che aveva pianto. Come mi vide mi gettò le braccia al collo e scoppiò in singhiozzi. «Oh! è l'eccesso della felicità che mi fa male! - mi disse. «E l'alba ci trovò ancora a quel verone, abbracciati. «Raimondo!... Ti svelo un gran mistero del mio cuore, che Narcisa non dovrebbe mai conoscere. In mezzo a questi deliranti piaceri, in mezzo a questa felicità che il Paradiso non mi potrebbe mai dare, ho un pensiero che mi è quasi terrore, che mi agghiaccia il bacio sulle labbra..... e ciò quando penso che a forza d'inebbriarmi a questa coppa fatata i sensi dell'uomo, troppo deboli per la piena di tanta felicità, non si istupidiscano nel godimento;... che io non possa più assorbire in tutti i più squisiti particolari questa rugiada d'amore di cui ella mi abbevera;... che, infine, (ho terrore di ripeterlo a me stesso!) a forza d'immedesimarmi nella vita di lei, a forza di assorbirne tutte le emanazioni quando me la stringo fra le braccia, io non giunga a rompere quel velo aereo, direi, di cui Narcisa si circonda, e che comanda quasi la semioscurità, l'isolamento, per farla meglio ammirare.. Raimondo, se ciò avvenisse, sento che mi farei saltare le cervella. «Quando le parlo del suo passato ella mi risponde, inebbriandomi del suo sguardo: « - Ciò che io rimpiango sono i giorni che vi ho passato senza di te, e che avrebbero accumulato tesori d'amore e di ricordi trascorsi al tuo fianco. «Io ti ringrazio, amico mio, delle cure affettuose che prodighi alla mia famiglia. Vicini a te, quei miei cari, io son tranquillo sul loro stato. Dirai a mia madre che non oso scriverle; e che qualche giorno correrò sino a Siracusa per farmi perdonare il mio lungo silenzio fra le sue braccia. Addio, scriverò più a lungo. Il tuo PIETRO.»

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Le tende di giunco erano abbassate sulle ringhiere, quantunque il sole non vi giungesse ancora, forse per dare alquanto più d'ombra agli appartamenti; e dietro una di quelle si vdeva una figura di donna, vestita di bianco, quasi coricata su di una poltroncina con tutto il languente e voluttuoso abbandono di una sultana; a quella vista il cuore di Pietro battè forte, come la sera innanzi. - È dessa! - disse Raimondo - vedi che non t'ingannavo!... Pietro non rispose, tenendo sempre fissi gli occhi sul verone. Ella si toglieva soltanto a lunghi intervalli da quella positura per recarsi agli occhi un binocolo che teneva sui ginocchi e col quale guardava nella strada o verso la Villa; ed indi, come stanca di quello sforzo, lasciava ricadere mollemente la testa sulla spalliera, e sembrava assorbirsi in quell'inerzia contemplativa che gli orientali cercano nell'oppio. Un uomo, seduto accanto a lei su di una seggiola assai bassa, le leggeva qualche cosa di un giornale che teneva fra le mani, e che ella udiva sbadatamente; e si interrompeva di tratto in tratto per prendere una mano di lei, che gliela abbandonava con la stessa languida indifferenza, e che lo ringraziava col suo sorriso seduttore e col suo sguardo che faceva scorrere un'onda di voluttà in quell'uomo, quand'egli si recava alle labbra la sua mano: Allor solamente, la sua leggiadra testolina, coronata da quei ricci magnifici, si volgeva lentamente verso di lui. Qualche volta, con un movimento tutto infantile, quella manina bianca ed affilata si appoggiava alla ringhiera, e sopra vi si appoggiava la fronte; quasi quel bellissimo collo fosse troppo debole per sostenere quella piccola testa. - Con questa donna ci sarebbe da impazzire! - esclamò Pietro reprimendo un fremito, dopo averla divorata a lungo dello sguardo. - Credi che siano marito e moglie? - domandò l'altro. - È il mistero che questa donna sa rendere impenetrabile colle sue mille indefinibili gradazioni di fisonomia, d'espressione, di gesto, che fanno spesso dimenticare la sirena nella vergine, e viceversa. Se lo sono è da poco tempo: a meno che costei non senta ancor ella sì a lungo come deve far sentire a tutti quelli che l'avvicinano. Parecchie volte, forse a caso, l'occhialetto dell'incognita si rivolse verso il banco di pietra sul quale erano seduti i due amici. - Ti guarda! disse Raimondo sorridendo. O guarda i passeri che saltellano fra le frondi. Credi sul serio ch'io ne sia innamorato? - Ne parli tanto!... - Diffida sempre di quegli amori di cui ti si parla a lungo e sì leggermente: è segno certo che si vuol ridere alle tue spalle... Io l'amo come un bel personaggio da dramma o da romanzo, come un bel fiore... come una bella donna prima venuta insomma... che sa recare con grazia il velo sul cappellino e sollevare con disinvoltura lo strascico della veste... e nient'altro... In fede di che, se vuoi, andiamocene; sono le due meno dieci minuti, - aggiunse dopo aver consultato l'orologio. - Sì, è troppo tardi; siamo qui da più di due ore; - rispose il biondo alzandosi. Egli sorprese lo sguardo del suo amico che ancora restava fissato sul verone. - Vuoi venire, o no? - Un momento... restiamo altri dieci minuti e partiremo alle due precise... - Non amo gli inglesi colla loro metodicità regolata sul quadrante di un orologio... Hai detto d'andarcene... - Hai ragione; - rispose Brusio ridendo - partiamo. Due o tre volte, prima di uscire dal giardino, si volse a guardare il verone, sul quale non poteva più vedere che la tenda abbassata. - Bella donna! - ripeteva egli di tempo in tempo, con un entusiasmo che era troppo allegro per non essere affettato, e troppo affettato per non nascondere una preoccupazione: quanto io t'amo!

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Ella gli sorrideva del suo riso da sirena; e di quando in quando, allorchè il conte rimaneva come stordito nel fascino di quelle seduzioni mirabili di voluttà, ella gli prendeva le mani colle sue manine affilate e bianchissime, e se ne lisciava la fronte, e le nascondeva fra il setoso volume dei suoi capelli, e se le posava sugli occhi e sulle labbra, ma lentamente, con quel suo abbandono ch'era irresistibile, come se avesse voluto dare il tempo a tutte le emanazioni inebbrianti che scaturivano dai suoi pori di penetrare in lui sino al midollo delle ossa. Raimondo, quasi spaventato, pel suo amico, da quella vista, fu scosso dai singhiozzi di lui che prorompevano soffocati come singulti; e, riponendo tristamente nell'astuccio l'occhialetto, disse con tuono di chi prende una risoluzione: - Via, Pietro, è tempo di partire! Tua madre ti attende a casa mia! - Mia madre!... - esclamò il giovane con un sussulto che dimostrava come quella corda vibrasse ancora potentemente nel suo cuore; mentre tutte le altre erano allentate e sconvolte. - Sì, tua madre, spaventata dalla tua estraordinaria tardanza, che ti cerca da me come una pazza. - È tanto tardi dunque? - domandò egli come parlando io sogno. - Son le tre fra poco. - Non credevo fosse sì tardi... Hai ragione, andiamo via... bisogna essere uomini! Poscia si fermò in mezzo alla strada, quasi non avesse avuto la forza di staccarsi da quel punto. - Ben dicesti: bisogna essere uomini e non fanciulli! - replicò Raimondo, dando al suo accento la possibile espressione e strascinandolo in qualche modo per forza, mentre Pietro si lasciava condurre a capo chino come un ragazzo.

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Dramm intimi

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Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1884
  • Casa Editrice A. Sommaruga e C.
  • Roma
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