Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandono

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Sogni d’inverno

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Loy, Rosetta 1 occorrenze

Un abbandono senza riserve mentre i colori dello schermo si intersecavano, si accendevano e spegnevano sul suo viso, le voci diventavano musica, tonfi di remi nell'acqua. Una barcarolle. Una volta in camera Federico e Carlo avevano litigato dicendosi le cose più atroci. Il pretesto era stato dei più stupidi, Asia non era stata neanche nominata. Ancora a letto si erano girati e rigirati, ognuno con le proprie rabbie, le proprie speranze. Perché alla fine lei avrebbe dovuto scegliere, non poteva essere altrimenti; e sul cuscino la stanchezza era precipitata come piombo insieme alla gelosia e al furore, quella maledetta luce di fuori che si faceva strada tra la manica di un golf, un lembo pendulo di camicia. Un giorno avevano preso il pullman ed erano andati a Cambridge. La sera prima aveva piovuto e si erano messi a correre per Kensington Gardens mentre l'acqua zampillava giù dagli alberi, i capelli di Asia che grondavano sulla sua smilza giacchetta. Appena a casa lei se li era avvolti in un asciugamano quasi fosse un turbante e ancora in sottoveste era entrata in camera loro. Voleva un maglione e aveva scelto fra quelli di Carlo ammucchiati su una seggiola. Poi si era seduta sul letto di Federico, le gambe nude nella sottoveste. «Dovresti avere più pudore, - aveva detto Federico, - in fondo siamo uomini». Carlo aveva riso, l'idea che potessero saltarle addosso doveva sembrargli fuori luogo. «Non fare il maschio latino - lei aveva risposto, - non ci sei portato» e aveva tirato ancora più su la sottoveste mostrando una pelle segnata da tanti puntini rossi, niente bella. Federico stava per picchiarla, lei se ne era accorta e il sangue le era affluito al viso. Ma non voleva cedere e lo guardava negli occhi, le cosce forti schiacciate contro il materasso, quel turbante che le lasciava un viso indifeso, di grande bambina. Il mattino dopo il cielo era stato ancora nuvolo ma loro avevano preso lo stesso il pullman e durante il viaggio avevano fatto amicizia con dei ragazzi olandesi. Una volta a Cambridge si erano sparpagliati fra i Colleges e avevano cominciato a girovagare tra i grigi edifìci di pietra. Magiche porte si aprivano sul silenzio dei refettori e le lunghe tavole apparecchiate con posate d'argento sembravano essere lì in attesa da sempre, la luce delle alte finestre che cadeva fredda sui legni scuri Incidati a cera. Le note di un pianoforte giù da una scala di pietra, lo sfogliarsi di rose bagnate e il sole che andava e veniva sulle loro teste. Gruppi di studenti erano passati incuranti, lenti, gli occhiali che riflettevano il cielo e le nuvole della giornata. Le nere vesti svolazzanti degli scholars. Loro come paria con le scarpe che si ammollavano nell'erba, le siepi a dividere territori. Nella chiesa del King's College suonava un organo, la chiesa era vuota e Asia si era seduta su un alto scranno intagliato: e Hàndel, la navata nuda, la luce delle pietre che nessuna vetrata riusciva a addolcire, sembravano essere la Grande Rivelazione. Più tardi insieme ai ragazzi olandesi si erano ritrovati a mangiare in un locale basso e unto dove perfino i tovaglioli puzzavano di grasso e per smaltire il pasto si erano messi a fare uno stupido gioco lungo le rive del Cam dove ognuno doveva indovinare i segnali lasciati dall'altro. Perdersi e ritrovarsi. A Federico quel gioco era sembrato idiota e si era messo a camminare per conto suo: studenti passavano remando in lunghe e sottili barche che scivolavano sotto i ponti incrostati di muschio e le loro maglie colorate si perdevano fra gli alberi riversi in cupole sulle sponde, l'acqua verdastra rotta dalla caduta dei remi. Federico avrebbe voluto arrivare fino al Trinity College ma a un certo punto si era quasi scontrato con una delle ragazze olandesi e senza che l'iniziativa fosse stata dell'uno o dell'altra, si erano ritrovati abbracciati. Un impulso, il primo in tutti e due. La ragazza gli aveva premuto sulle labbra le sue che sapevano ancora della salsiccia che avevano appena mangiato. Dopo gli aveva riso nella bocca, Federico si era sentito goffo, la ragazza lo aveva turbato. «Ann» l'aveva chiamata carezzandole il viso, lei si era messa a ridere «I am not Ann, I am Elke!» Si sarebbero scritti quell'estate e ancora l'anno successivo, ma a un certo punto la corrispondenza si sarebbe interrotta per non riprendere più, Federico avrebbe mancato l'appuntamento a Verona preso con tanti mesi di anticipo. Una volta scesa dal treno la ragazza olandese lo avrebbe cercato invano, ogni volta sembrandole di riconoscerlo in un altro simile per proporzioni e statura. Quel giorno Federico sarebbe stato a Firenze, un lavoro occasionale in una casa editrice, in realtà impossibilitato a muoversi. A Firenze c'è Asia. Le macchine passano sul Lungarno, è primavera e un'aria di celesti e di lillà, di gialli ocra riluce sull'acqua, Asia ha tagliato i capelli, ha una storia sciagurata con un uomo. L'amore può anche essere pena e Federico la guarda passare in fretta, lei fa un cenno con la mano come per dire ci vediamo dopo, più tardi Gli sorride e porta un bei golf color caffellatte, belle scarpe di cuoio chiaro, un foulard al collo, e il sangue slavo della madre è tutto nella falcata un po' ondulante del passo, nel latte della pelle. Verrò, stai tranquilla: la mano di Federico la rassicura da lontano ma già lei svolta per via Tornabuoni. La giornata apre improvvise voragini, alza muri ciechi. Trappole dove il piede si divincola nella tagliola. A Verona la ragazza olandese ritta sotto il sole nella piazza della stazione tiene in mano una mappa della città, vuole sapere nel suo stentato linguaggio dove si trova l'Ostello della Gioventù. Tutti bugiardi questi ragazzi italiani. Ma quel giorno a Cambridge, dopo quel bacio, Federico si era detto se ci sta, anche stasera. Così mi tolgo questa maledetta idea dalla testa, cambio pensieri e la faccio finita; e aveva aspettato euforico il momento di risalire sul pullman e sederle accanto, prendere accordi. Come se di colpo fosse guarito, di nuovo libero, e potesse guardare tranquillo Asia mordere la cioccolata che uno dei ragazzi olandesi le aveva regalato, sorridere invitante inclinando la testa di lato mentre la pioggia sottile le cospargeva di goccioline i capelli. Ma già Elke sale sul pullman, Federico subito dietro per non perdere il posto accanto a lei. Eccitato, leggero. Elke non ha cioccolato ma labbra piene e pallide, quelle che Carlo definisce "rugose" e sono poi le migliori, le più sensuali. Quella sera stessa era andato a letto con lei. Tutto era successo molto in fretta, attenti a non fare rumore, e quando Federico era tornato nella casa di Kensington, Asia lo stava aspettando. Lo aveva chiamato a bassa voce dal fondo del corridoio e lo aveva fatto entrare in camera sua. Non era mai successo prima e Federico aveva sentito un tuffo al cuore. Asia aveva richiuso piano la porta e si era stesa sul letto «Vieni qui, accanto a me» aveva detto. Non aveva che la sottoveste addosso e Federico aveva accennato il gesto di spogliarsi, lei aveva riso piano «Ma che fai, stenditi cosi come sei». La luce era spenta e in quella poca che arrivava dalla strada Federico poteva vederla grande e bianca, i piedi nudi stesi diritti. Il letto era stretto e lei si era spinta contro la parete per fargli posto e come Federico le si era allungato accanto gli aveva preso una mano per appoggiarsela sul corpo, poco sotto il seno. Ma era inutile tentare un qualsiasi avanzamento, le sue dita forti e calde lo tenevano in trappola; Federico poteva sentire attraverso la stoffa il tepore della sua pelle con il leggero avvallamento dell'ombelico: era una sconfitta piena, totale. Una macchina era passata riverberando i fari sul soffitto e per un attimo Federico aveva visto gli orecchini con le corniole brillare sul comodino. Anche lei li aveva visti. «Sono bellissimi, - aveva detto, - non ho mai avuto niente di così bello». Federico guardava il suo profilo e con l'indice della mano era passato lungo la linea del naso, la breve curva delle labbra, fermandosi un attimo dove il mento si sollevava rotondo. «Stai bene così?» lei aveva chiesto, aveva chiuso gli occhi e le ciglia tremavano appena contro la guancia. La risposta Federico l'aveva data stringendole più forte le dita. La felicità, perché di felicità si trattava, era simile a brividi sulla pelle. Portava sfinimento, sonno. Quando Federico si era risvegliato Asia dormiva con la faccia contro il muro e le sue braccia la tenevano stretta per la vita. Più che vederla, la sua schiena, la sentiva contro il corpo larga e magra, traversata dalle bretelline della sottoveste; e gli sembrava che avesse un odore. Come di pioggia e di muschio (poca acqua per lavarsi, un filo sottile giù dal rubinetto e sempre qualcuno che bussava alla porta perché aveva bisogno del bagno). Asia si era girata, aveva freddo e la mano era scesa a cercare la coperta, gli occhi si erano aperti a fatica, appena una fessura tra le ciglia «Che fai ancora qui, vai a letto...» «Ma io sono a letto» aveva risposto ridendo. «Sciocco, nel tuo, dai vattene». Si divincolava ma era quasi un gioco, le parole uscivano dalle labbra impastate dal sonno, i piedi lo scalciavano via. Un giorno lo avrebbe sposato quello tanto ricco, avrebbe camminato sui sentieri tra i faggi rossi ad ombrello e avrebbe detto: qui voglio le rose Princess Margaret e qui invece le clematidi azzurre... «Dai, forza, vattene» la voce lagnava ma la fessura dello sguardo era nella semioscurità un piccolo animale, un insetto pronto a scattare. Carlo Angrisani non avrebbe mai saputo di quella notte. Era stato tanto sicuro che Federico l'avrebbe passata dalla ragazza olandese che aveva preso il cuscino dal suo letto e ci stava regalmente affondato con quella testa che sembrava di legno, una testa da pupazzo tanto era piccola e tonda con i capelli irsuti. Allo strappo di Federico aveva avuto un sussulto ma nulla si era scomposto, il respiro aveva subito ripreso il suo sibilo sottile. Pochi giorni dopo i ragazzi olandesi erano partiti con mille giuramenti di rincontrarsi in Italia. Alla stazione baci e abbracci, i lunghi sospiri di Elke nel collo di Federico. Ancora qualche giorno e partiranno anche loro, ormai non ci sono che scellini nelle tasche e per risparmiare energie passano gran parte del tempo a Kensington Gardens. Asia ha ricevuto una lettera e accenna dei passi di danza, le braccia sono come ali e le scarpe scalcagnate da tutto quel girovagare per strade e metropolitane, musei, giardini, si alzano sulla punta dei piedi e la gonna a quadri verdi e blu si allarga tonda: una stoffa che non è cotone, non è lana e di sicuro neanche seta, allora che è? Carlo la palpa, e con la stoffa le gambe. «Bob!» risponde alzando le spalle, un romanesco strascicato lei che ha una madre russa di antica famiglia e un padre che poteva essere ambasciatore se non avesse avuto la disgraziata idea di seguire le sorti della Repubblica di Salò. La lettera come una farfalla tra le dita. «Di chi è?» chiede Federico. «Cosa? la lettera? di un mio amico». «Fai vedere». «Non ci penso per niente» ha nascosto la lettera nella camicetta e ora ride. «E per quella che sei tanto allegra?» Un vento leggero sospinge le barchette nella vasca, con dei lunghi bastoni dei ragazzi dall'impermeabile flottante cercano di recuperarle e farle tornare a riva. Lei è incantata dallo spettacolo. «Allora è per quella?» insiste Federico. Asia si gira a guardarlo, è un attimo, tutto si sospende immobile: barchette, acqua, nuvole, impermeabili ondulati dal vento. Poi china il viso sul suo, gli occhi guardano negli occhi, le labbra si schiudono sull'umido dei denti «Tanto allegra?» chiede. E la tristezza è un tampone in fondo alla gola.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 5 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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La prova è quasi passata, tu sarai salvo; io ti sono accanto e non ti abbandono. Allora l'impiccato, invece di mostrare al pubblico un volto contratto dallo spasimo dell'agonia, prese a sorridere e a dire: - Vedete se sono innocente! Il mio glorioso protettore non permette che muoia infamato. Io vivo e vivrò per provare che non sono un ladro né un assassino, e che il danaro l'ho preso perché la vecchia me lo ha lasciato in premio de' miei servigi. La gente, nel vederlo sorridere, nel sentirlo parlare con tanta calma e con voce naturale, fu presa da sgomento e incominciò a fuggire, in modo che di lì a poco non rimasero attorno al patibolo altro che le guardie e il carnefice, i quali si guardavano sbigottiti da tanto miracolo. In quel momento comparve sulla piazza un frate della Verna, spronando un asino tutto coperto di sudore. - Fermate! - urlava il frate, che era lo stesso che aveva raccolte le ultime parole della donna. - Fermate! Voi impiccate un innocente. Quando fu giunto sotto al patibolo, narrò come egli stesso avesse udito la donna indicare a Fazio dove stava il tesoro e aggiunse: - Dormivo ancora stamane quando mi è apparso il glorioso sposo di Maria, san Giuseppe, e mi ha detto: "Inforca un asino e corri a Bibbiena a salvare un innocente ragazzo che viene impiccato per ladro! Si tratta di quel Fazio, sai, con i capelli rossi". Sono corso, ma non avrei fatto in tempo senza un intervento celeste, e a metà strada l'asino s'è messo a galoppare come un cavallo di buon sangue, e le ultime miglia le ha volate. Allora le guardie tagliarono il capestro, che legava il collo del ragazzo, e questi, come se avesse avuto, invece del supplizio, un abbraccio di due mani amorose, scese sano e sorridente sulla piazza. Si vide poscia un vero miracolo che persuase popolo e guardie dell'innocenza del condannato. Le solide travi del patibolo caddero tagliate in mille pezzi, come se cento seghe invisibili vi avessero lavorato intorno alacremente per più ore. Il Potestà, riconosciuta l'innocenza di Fazio, volle che gli fossero restituiti i denari trovati nella bottega; ma il giovine li cedé generosamente ai parenti della donna, ai quali perdonò pure, e chiese soltanto che gli fossero resi gli strumenti del mestiere. Il giorno dopo dell'impiccagione egli riprese a lavorare nella bottega come se nulla fosse accaduto, e in poco tempo accumulò più danaro di quello ereditato. Fazio divenne un uomo, e quindi un vecchio, e la gente, vedendolo prosperare, non si accorgeva neppur più che avesse quel testone circondato da capelli rossi, perché egli sapeva farsi amare per il suo buon cuore e per le amorevolezze che mostrava verso i miseri e i bisognosi. Trovandosi possessore d'immense ricchezze, accumulate mercè la facilità con cui lavorava con gli strumenti donatigli da san Giuseppe, volle con esse costruire in Bibbiena una chiesa in onore del Santo, e fece venire da Firenze architetti, scultori e pittori perché l'adornassero splendidamente, e quella chiesa era la più bella e ricca che fosse stata mai eretta in tutto il Casentino. Fu in quel tempo che da noi crebbe molto la venerazione per san Giuseppe, e di lui non erano soltanto devoti i falegnami, ma anche i boscaiuoli e quanti maneggiavano legname. Quando Fazio venne a morte, lasciò gli strumenti del mestiere al più indigente dei falegnami; ma essi non avevano più le virtù di un tempo, e se l'uomo voleva guadagnare, doveva faticosamente lavorare. Fazio fu sepolto in quella chiesa; ma la chiesa venne distrutta da un incendio, e di essa e del suo fondatore adesso rimane soltanto la memoria. - E avevate soggezione di me? - esclamò il professor Luigi, quando la Regina ebbe cessato di narrare. - Se io avessi la vostra abilità, non me ne starei qui, ma andrei nelle principali città, e vi assicuro che la gente colta e intelligente correrebbe a sentirmi. Anzi, - aggiunse egli, - se mi permettete, la prossima volta che voi racconterete una novella, io la scriverò, e in seguito darò alle stampe la narrazione raccolta dalla vostra bocca, senza cambiarvi una parola. - E dirà il nome e cognome della nonna? - domandò l'Annina. - Altro! lo stamperò a grossi caratteri sopra la novella. Non le spetta forse quest'onore? La Regina era confusa, ma i figli, le nuore e i nipoti esultavano, vedendo apprezzata la loro cara, la loro buona vecchietta. E allora il professor Luigi disse alla famiglia Marcucci come molti altri prima di lui si fossero studiati di raccogliere dalla bocca del popolo le novelle, specialmente quelle narrate dagli abitanti delle montagne, dove la tradizione e la lingua si mantengono più pure. Così avevano raggiunto un doppio e utilissimo scopo: quello di ricercare in quelle novelle le credenze, le superstizioni e gli usi antichi di ciascun paese, e di ringiovanire ed arricchire la lingua con vocaboli andati in disuso nelle città, dove l'affluenza di gente di altre regioni la corrompe continuamente. I contadini stavano a bocca aperta a sentirlo parlare. La Regina ruppe il silenzio, dicendo: - Non credevo mai, signor professore, che noi ignoranti e zoticoni si potesse insegnar qualche cosa alla gente di città. Mi pare che abbiamo tutti da imparare, e non mi sognavo davvero che il nostro linguaggio potesse esser preso ad esempio. - Voi potete insegnare molto, e se rimanessi qui vorrei pregarvi di raccontarmi tutte le novelle che sapete per pubblicarle in un bel volume, come è stato fatto per quelle montalesi; ma, purtroppo, debbo tornare in città! - Dunque ci sta volentieri qui da noi? - Tanto volentieri, - rispose il professor Luigi, - che se non avessi altri obblighi fisserei la mia dimora in questo bel paese. Voi non capite quanto siete felici! - Tutti abbiamo i nostri guai, - disse Maso sospirando, - e se conoscesse i nostri, non vorrebbe sicuro fare a baratto. - Chi lo sa! - replicò il professore. - È certo che la vita semplice e ritirata espone l'uomo a minori dolori. Prima di tutto godete un'aria che vi dà la salute ... - Questo è vero, - replicò Maso. - È ben difficile che il medico entri in casa o che lo speziale veda in faccia i nostri quattrini; eppure siamo dimolti in famiglia. - Poi avete la pace ... Anche questo è vero. - E le occupazioni vostre sono quelle che mantengono fresca la vecchiezza. Vedete: la Regina è più vecchia di me, eppure è tutt'arzilla e io sono decrepito. Gli è che lei ha respirato aria buona, ha faticato col corpo, e io con la mente. E, credetemi, più l'uomo vive secondo la natura, più sta vicino alla madre terra, meno si espone alle malattie e alle sofferenze. Il professore lo diceva e bisognava crederci; ma molti dei Marcucci avrebbero cambiato la loro esistenza con quella di lui, stimandosi felici del cambiamento. La signora Maria, cui quella conversazione non riusciva gradita perché richiamava alla mente del marito i proprî acciacchi, volle troncarla. - Ma incomincia a far fresco, - fece ella osservare, - e tu devi interrompere la conversazione per tornare a casa. Se tu prendessi un malanno, addio villeggiatura! Il professore cedé al desiderio della moglie, e per quella sera non parlarono d'altro.

La dolce visione gli disse: - Spera, Piero; io non ti abbandono, - e sparì. Piero, ancor più consolato, riprese a pregare, e in capo a un'ora gli comparve il pellegrino, non più cadente e appoggiato sul bastone, ma circonfuso egli pure di una luce soave e più mite di quella che avvolgeva la donna. - Il balsamo già opera il miracolo, Piero, spera! - gli disse, e sparì. Nel sotterraneo umido e buio rimase, dopo quelle due apparizioni, un profumo di rose e di gigli, come si sente in chiesa durante il maggio fiorito; ma Piero neppure dopo quelle assicurazioni cessò di pregare. Gli pareva impossibile che qualcuno lo potesse salvare, e le sinistre parole del Conte gli risuonavano sempre all'orecchio. A un tratto sentì aprire la porta della prigione, e due uomini armati lo condussero alla cappella dove frate Odone, pallido e sconvolto, era pronto a dir la messa. Una lampada e due ceri accesi davanti a una immagine della Madonna illuminavano debolmente la piccola chiesa. Piero pregava ancora con gli occhi fissi nel volto della Vergine, e si raccomandava che gli desse aiuto per morire da forte, quando al solito vide brillare la stella consolatrice sulla testa della immagine santa. La messa era giunta al Pater, e affinché il condannato non avesse l'assoluzione dei peccati fu condotto via, venne bendato e spinto nel trabocchetto, che fu richiuso sulla testa dell'infelice. Ma questi, invece di sentirsi lacerare le carni da centinaia di lame aguzze, conficcate torno torno a quel pozzo profondo, e precipitare giù, si trovò mollemente adagiato sopra un mucchio di fieno odoroso. In quel momento udì delle grida al disopra della sua testa, il trabocchetto fu riaperto e la bella contessa Matelda si affacciò a quell'apertura, gridando: - Piero! Piero! Il giovinetto rispose con voce allegra, che era vivo e sano. Allora, per ordine di Matelda, furono calate delle funi. Piero tornò sul prato, e con sua grande meraviglia vide due lunghe trecce di capelli morbidi scendere sulle spalle alla bella castellana. La stella consolatrice splendeva più che mai nel cielo imbiancato dall'alba. Al fianco di Matelda era anche il Conte. - Sei protetto dal Cielo, - disse questi vedendolo risalire dal trabocchetto, - e non puoi essere un traditore. Chiedi quello che vuoi. - Domando, signore, - rispose Piero, - che mi rendiate la spada e lo scudo, e quando li avrò consegnati a messer Forese, vi prometto di tornare qui e fabbricarvi due oggetti perfettamente simili. - Va' e torna presto. Piero non ebbe bisogno di nascondere le armi nel fieno. Salì a cavallo, e, con un salvacondotto del conte di Porciano, passò immune in mezzo ai soldati, che si riunivano in ogni parte del Casentino, chiamati dal signore. La sera stessa il giovinetto incontrava i fiorentini verso Montemignaio e consegnava a messer Forese la spada e lo scudo. Di ritorno a Porciano scrisse al padre di raggiungerlo, e fra tutti e due lavorarono alla spada e allo scudo del vecchio Conte e intanto rifecero maglie, forbirono pugnali e riaccomodarono tutte le armi che dovevano servire alla difesa del castello. Il vecchio Conte prese tanto affetto per Piero, e Matelda lo ascoltava così volentieri quand'egli cantava sul liuto la canzone delle sue avventure, che non sapeva più staccarsi da lui. Anzi, il vecchio ottenne per Piero, dall'Imperatore, il titolo di Conte, e l'investitura di Porciano, che gli trasmise alla sua morte. Matelda lo accettò per isposo, e volle che allo stemma dei Guidi, fosse aggiunta una stella. Ora, del palazzo di Porciano rimangono le torri e la porta, ma che il trabocchetto vi fosse, è cosa incerta. - E ora che la novella è finita, io vado a letto, perché sono stanca, - disse la Regina. Quella sera Cecco non accompagnò a casa la Vezzosa, perché doveva andar col baroccio a Firenze; ma ella dopo poco che era a letto udì cantare da lontano: A sentir la mia voce io spero, o bella, Io spero ben che t'abbia a rallegrare: Mando invece di me la mia favella, Perché gli é tardi e mi conviene andare; Non t'adirar perché non sia venuto, S'io non posso venir mando un saluto; S'io non posso venir mando un sospiro, Ti do la buona notte e mi ritiro.

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