Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandono

Numero di risultati: 13 in 1 pagine

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Personaggi e vicende dell'arte moderna

260924
Venturoli, Marcello 13 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
  • UNIFI
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In questo grado esemplare di abbandono pittorico e, senza dubbio, tra le opere più alte e personali di Vuillard, sono i tre interni con figure, di squisito carattere domestico, figure vestite dall’ambiente, si direbbe, fin nel giro di una maglia, nella picchiettatura di una gonna; madri e nonne, bambini e modelle che il pittore ha preso a pretesto per i suoi inventari pittorici: «La pappa di Annette», «La cucinetta del boulevard Malesherbes» e «Madame Vuillard con la caraffa».

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Ognun vede come Argan abbia addirittura interpretato il fare di Picasso dalla piattaforma a questo storicamente successiva, dell’action painting, o della «pittura del gesto»; ma è un fatto che le radici di questa pittura — non tanto l’aspetto «irrazionale», quanto la sua capacità di abbandono — siano in embrione nel metodo di Picasso: che è poi, un antimetodo, è il dispregio consumato e sempre rinnovato dei segreti artifici e delle ricette, fin anche dei compiacimenti e delle raffinatezze.

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Henry Moore è un artista in un certo senso non ideologico e non razionale; e se gli inglesi passano per scarsamente emotivi e difficili alla passionalità, lo scultore sembra contraddire questo adagio, perché nella sua arte, prima di tutto, è protagonista un lirico abbandono, che prende d’infilata e raccoglie istanze e culture diverse e le riassume in una difficile, perigliosa unità: tanto che è raro accettare una scultura di Moore come un’opera appartenente a questa o a quella esperienza estetica: cubista, espressionista, surrealista, astratto-figurativa. Ma sempre Moore è abbandonato sub conditione, quasi che i linguaggi dovessero fare i conti con un misterioso spirito di rivalsa: ecco, le matrone del «ritorno all’ordine» intorno agli anni Trentacinque si atteggiano a colline, a rupi cresciute con ciclopica fatica, per virtù della fantasia; e il modulo iniziale, parnassiano, cade come una crisalide, restando della scultura una potenza, che può essere molte cose, ma non parnassiana; le facce a confetto dei gladiatori metafisici e surrealisti si tumefanno, mettono buche di urli, e i loro corpi di geometria respirano in possenti incavi, si coprono di elmi e di scudi, tratti dal più romantico dei musei; i totem di Brancusi, i grandi tarocchi in tutto tondo, di una perfetta partita finita senza vittoria fra natura e ragionamento, si torcono in corpi crocifissi, creando ben altra assemblea di simboli, che quella accarezzata dal grande maestro rumeno: nel rumeno una natura ridotta all’essenziale, sul filo di una lucidità che diventa fantastica meditazione, scultura che cresce un po’ al giorno, negli anni, fino alla sua completa calibratura; nell’inglese la forma definitiva nasce da un terremoto di contrasti, dal placarsi improvviso e ancor vibrante di una serie di echi.

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Mentre le donnine di Manzù fra le due guerre (come ad esempio la Donna che si regge la calza e Susanna, entrambe del 1937) sembra quasi che attendan la cera per essere compiute, come se lo sguardo del plasticatore non fosse sufficientemente tenero e secchezza e languore, gracilità e abbandono si mescolassero in una materia dolcemente panica, i personaggi femminili di Manzù intorno al 1950 acquistano tensione e robustezza. La melodia tenera della cera cede il posto alla sonorità compatta del bronzo, il modellato, senza arrivare a formulazioni arcaiche come nel primo Marino Marini, si semplifica in una sintesi di piani, in un costruttivismo in cui, se l’insegnamento del cubismo è del tutto ignorato, tuttavia questo vi appare per via analogica, quasi che Manzù avesse dato una visione chiaroscurale e classica del cubismo.

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Tutti ritratti in cui i caratteri sono tutt’uno col Urico abbandono di Levi; alcuni — come appunto quello di Saba — dosatissimi nelle due istanze, la impressionista da una parte e la espressionista — o psicologica — dall’altra, istanze entro le quali si è mossa tutta la pittura di Carlo Levi fin quasi dai suoi inizi. Eppure, lasciando a molte di queste opere il magistero dello stile, esse non presentano personaggi con la stessa drammatica urgenza che si riscontra nei quadri della seconda sala. E si spiega perché: il pittore dipingendo i suoi amici ha fatto leva più sulle sue doti di artista, che sulla sua moralità di uomo, ha espresso di più il clima di una intelligente, appassionata amicizia fra lui e gente come lui, che non la solidarietà dello intellettuale verso la gente dell’«altra classe». Direi, se la frase non assumesse un certo sapore, estraneo al mio palato, che Levi abbia dato agli amici la sua più florida e intelligente esperienza di conservatore, mentre ai compagni incontrati in Calabria abbia dato tutto il suo potenziale rivoluzionario; meno florido, senza dubbio, più inquieto e impacciato, ma assai più ricco di risultati.

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Quanto a Mafai, festeggiato e atteso in tutte le mostre dei tonalisti, continuava da solitario dopo la morte di Scipione e lo strano abbandono della pittura per la scultura da parte di Raphael sua moglie una pittura che era «tonale» — dicevano i tonalisti — ma che poco o nulla aveva a che fare cogli errori dei tonalisti.

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Si giri intorno alla «danzatrice», e si troverà in questa ninfa dall’occhio semichiuso un personaggio fazziniano inconfondibile, tutto preso dal parossismo di un movimento, che è insieme ribellione e abbandono. Il disegno di un viso semicancellato dai capelli, reso indistinto dal turbine, assume la solidità di una plastica rigorosa, esce dalle secche letterarie e simbolistiche, anche in virtù di quel felice appuntirsi delle chiome in una sorta di elmo fogliuto, che è il vertice della scultura.

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Ma, ovviamente, la natura dell’artista di Graniti è assai diversa: le sue donne così rurali e grevi fin nelle arcaiche fattezze qualche anno fa, si sono nobilitate, si potrebbe dire che siano andate a scuola di grazia e di armonia; tanto che la situazione di passività dolorosa e populistica in cui versavano le sue contadine di ieri, oggi si riscatta in un sentimento più dominato, in un abbandono che non è di questa o quella categoria determinata, ma assume valore di simbolo; le due figure accovacciate sprigionano oggi una maggiore sensualità, mentre la sentimentalità un po’ esteriore e recitata del periodo neo-realista passa in secondo piano, se non addirittura scompare.

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Si è fatto da più parti a proposito di Perez il nome dello scultore marchigiano Alfio Castelli: per un incontro, non per una sudditanza di Perez con certe peculiarità della scultura di Castelli, la «consunzione» dei personaggi, solitari, all’in piedi, il lirico e desolato abbandono, la proporzione o sproporzione consapevole tra toraci, quadrati e tumefatti, e gambe filiformi, fra tronchi e teste rimpicciolite; ma, a parte la diversa natura dei due, l’uno drammatico e avventurosamente inventivo, l’altro elegiaco e di difficile spostamento nelle tematiche (tanto da sembrare talvolta un evocatore morandiano di personaggi) i due non hanno fondamentali somiglianze neppure quando la loro arte presenta parecchi punti in comune: perché i due artisti ereditano entrambi suggerimenti da Armitage: ma mentre in Perez questo suo espressionismo nero rappresenta un momento di crisi, in Castelli è la proiezione (ormai cristallizzata e accarezzata, di una dolce morbosità) delle deformazioni drammatiche dell’inglese: questi sassi umani che germinano in braccia e gambe come tralci, queste teste cieche, avvolte, si direbbe, in veli di memoria, questi incontri di torsi con torsi, che si prolungano e raddoppiano, questa materia fluida e scabra, informe eppure sottile nella sua conduzione plastica, patinata con nerofumi e cere, tanto da far del bronzo una materia a sé, avvilita ma preziosa come un legno raro, sono attribuibili soltanto a Castelli e alla sua particolare situazione.

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Tra gli scultori astrattisti di qualità che espongono all’VIII Quadriennale, il più originale, anche se non il più ricco di esperienze di stile, è Francesco Somaini da Lomazzo, la cui «Verticale N. 3», insieme con «Ferito II» ed altri «pezzi», rappresentano, come in una pagina di antologia, il drammatico incontro dei modi espressionisti e luministici di un Medardo Rosso, con quelli plastici ed astratti di un Brancusi o di un Arp: ma, anziché rimanere in soggezione di queste forme, lo scultore di Lomazzo sembra le adoperi con la più felice consapevolezza, per esprimere un contenuto preciso, oseremmo dire sentimenti che oscillano fra l’estremo abbandono di ogni proposito di riscatto, in un «pianto» tenero e desolato, e un’opposta, imperiosa, esplosione di energia come una lama o un pugno che penetrino e colpiscano lo stato quo ante. Una materia che cola e si sfalda, sul punto di uscire dal mondo della plastica per entrare in quello della pittura, sembra raggiunta e dominata da tagli, scavi, compressioni, schiacciamenti, come un antro cui pervenga all’improvviso una serie di voci, che venga frugato da fasci luminosi; ed ecco allora la vecchiezza e la fragilità di quelle forme slombate assumere una vitalità impreveduta, per quelle campiture di seguito e dentro le superfici grame e sfatte, per quella fusione tra cieca e abbagliante della cera con l’acciaio, per quell’attitudine misteriosa e quasi panica, di riflettere come in uno specchio la immagine plastica di un sentimento. Lo scultore non è nato adulto, ovviamente; già nella sua recente mostra personale alla Galleria «Odyssia» (dove alcuni «martiri» alludevano a una sorta di forma crocifissa, solidificazioni palpitanti di un dolore non elegiaco e non recitato) Somaini metteva in luce la sua partenza plastica e «purista», la sua carriera di scultore.

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