Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandono

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Un vampiro

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Luigi Capuana 1 occorrenze

Nei primi mesi della nostra unione, era stata anzi gran delizia per me comunicarle i più riposti pensieri, chiederle consigli, suggerimenti che mi rivelavano sempre più squisite delicatezze d'animo, sempre più fine penetrazione d'intelligenza in ricambio del mio cordiale abbandono. Volevo così dimostrarle la mia profonda gratitudine per la gioia, la felicità, la nuova essenza di vita che ella era venuta a diffondere attorno a me, tanto da farmi credere divenuto un altro, quando mi accorgevo dell'agile sviluppo di alcune mie facoltà artistiche rimaste fin allora quasi latenti. E provavo un senso di mortificazione, se Delia, con delicata modestia, mi diceva: "Che bisogno hai tu di consultarmi? Tutto quel che tu fai lo giudicherò sempre ben fatto, anche quando gli altri potranno giudicarlo altrimenti". Non avevo dunque proprio niente da nasconderle. E intanto ora stimavo violato il sacro penetrale del mio pensiero, di cui prima le spalancavo a due battenti le porte. Una cupa irritazione mi invadeva a ogni nuova manifestazione della sua inevitabile chiaroveggenza e nello stesso tempo una viva indignazione per quello che, in certi momenti, mi sembrava atto di ingrato ribelle. Non avrei dovuto essere piuttosto felicissimo per l'assoluta compenetrazione delle nostre anime, della quale la chiaroveggenza di Delia era mirabile testimonianza? "No!" riflettevo subito. "Ella rimane chiusa, impenetrabile. Io, soltanto io, sono in sua compiuta balìa!". Tentai di difendermi con lo stesso mezzo servito, involontariamente, a produrre l'incredibile fenomeno. Ma Delia non sentiva più il mio influsso; era già più forte di me". "Avresti dovuto ricorrere ad uno specialista" lo interruppe Blesio. "Un magnetizzatore di professione, probabilmente avrebbe domato quelle forze ancora non bene conosciute e che la tua malaccortezza aveva scatenate ... Ma, te ne prego, rimandiamo a qualche altro giorno questi dolorosi ricordi ... Nella foga del parlare, non ti accorgi che essi ti commuovono fortemente". "Li ripenso quando non parlo; vale lo stesso. Lasciami proseguire" rispose Raimondo, stirandosi nervosamente i baffi e la barba. "Sopravvennero intanto alcuni mesi di sosta. Credei che la eccitazione nervosa da me provocata si fosse finalmente esaurita, e che la cura consigliatami da un dottore consultato all'insaputa di Delia avesse realmente contribuito a fortificarne l'organismo. Era un po' dimagrita in quei mesi, e aveva perduto la vivace tinta che coloriva le sue guance di bruna con lieve sfumatura rosea. Soltanto lo splendore degli occhi era rimasto immutato. Vedendola rifiorire, non sospettando affatto che quella tregua potesse essere passeggera, avevo ripreso a lavorare alla statua La Giovinezza , quasi suggeritami da lei, un mattino di primavera, passeggiando insieme tra la splendida esplosione dei fiori delle aiuole che fiancheggiavano i brevi viali del nostro giardinetto. La Giovinezza , nella mia intenzione, doveva essere Delia trasformata in Dea, idealizzata, se pure ci fosse stato bisogno d'idealizzare una figura che era, pei miei occhi, un'idealità artistica in atto. Il lavoro mi assorbiva talmente che le lunghe ore di quella giornata di estate sembravano insufficienti alla mia smania di condurre a termine la statua in brevissimo tempo. Delia veniva spesso a tenermi compagnia, seduta in un angolo, leggendo e ricamando zitta zitta per non distrarmi: ed io mi accorgevo della sua presenza soltanto nei momenti di riposo della modella. Mi accorgevo pure, con doloroso stupore, che mai Delia mi era parsa così lontana da me, come in quelle lunghe giornate che più mi stava silenziosamente vicina. Eppure quella statua che mi si vivificava sotto la stecca e il pollice era la libera traduzione del bozzetto improvvisato con insolita rapidità mentre ella, che me n'aveva quasi suggerito l'idea, posava perché io fissassi nella creta il movimento delle linee della sua persona, così come l'immaginazione me la andava trasformando in fantasia d'arte. Una sera, tutt'a un tratto, Delia mi disse: !Ah, Raimondo! ... Tu stai per cessare di amarmi!". "Non pensare assurdità!", risposi bruscamente. "Tu però in quest'istante mentre neghi, pensi: - Oh, Dio, ella indovina!". Tornai a negare: ma era vero. In quell'istante pensavo proprio: "Oh, Dio, ella indovina". "Come avvenga non so" riprese Delia. "C'è dentro di me o una anima nuova, o qualcosa che direi malia, se potessi credere alla malia. Strana malia, Raimondo; malefica malia che mi fa vedere quel che non vorrei vedere, che mi fa udire quel che non vorrei udire, quasi il tuo pensiero parli per me ad alta voce ... E sto in ascolto, da mesi, costretta, decisa di non dirti niente, di soffrire in silenzio perché mi sembra che anche tu soffra ... Ah, Raimondo! Tu stai per cessare di amarmi ... Mi sento impazzire!". Non ricordo più quel che dissi per consolarla, per confortarla. Dovetti essere efficacissimo, se Delia mi si gettò tra le braccia scoppiando in pianto dirotto, balbettando tra i singhiozzi: "Perdonami! Ti faccio soffrire!". Ma il giorno dopo e così tutti i giorni, per parecchi mesi, si ripeté la stessa scena, fino a che Delia quasi estenuata dallo sforzo inconsapevolmente fatto dall'organismo, non parlò più, e si ridusse a fissarmi, a fissarmi a lungo, crollando dolorosamente la testa, sorridendo con tale tristezza che io ero forzato ad abbassare gli occhi, o a rivolgerli altrove avvilito da quella luminosità di cui ti ho parlato, che mi pareva scendesse a illuminare le più riposte profondità del mio cuore ... Che terribili mesi di sofferenza, caro Blesio! Noi vivevamo isolati, per deliberato disegno, sin dai primi giorni del nostro matrimonio, entrambi orgogliosi di bastare a noi stessi ... E la gente, che per maligna o benevola curiosità si occupava dei fatti nostri, ci giudicava felici! Tali avremmo potuto essere, certissimamente, se le mie stesse mani non avessero distrutto, con imperdonabile caparbietà, il magnifico immeritato dono benignamente concessomi dalla sorte. Giacché io ero stato caparbio, stupidamente caparbio nel volermi accertare, a ogni costo, se il mio dubbio: "Mi ama davvero? Perché vuol darmi a intendere che m'ama?", corrispondesse o no alla realtà. Che terribili mesi, caro Blesio! Tu non potrai mai formartene neppure un'idea approssimativa. Invano cercavo un rifugio nel lavoro; invano la mia coscienza di artista mi confortava con attestarmi che la statua ormai quasi compiuta, sotto l'impulso di tante agitazioni, fosse riuscita più bella di quanto io, incontentabile, non l'avevo sperata. Lavoravo febbrilmente, quasi la mia mano fosse stata mossa da un altro me stesso che conviveva dentro di me assieme con quello che si tormentava, e smaniava e delirava, sì, a volte delirava, intanto che la mano dell'altro dava gli ultimi tocchi alle estremità della figura con meticolosa accuratezza ... Fu allora ... Oh, non avevo badato alla nuova espressione degli sguardi con cui Delia osservava il mio lavoro, aggirandosi attorno al cavalletto, muta, intenta, in visibile ammirazione, mi pareva, di quella Giovinezza in parte sua geniale ispirazione. Ne ero lusingato, anche perché in quel punto non provavo l'impressione scrutatrice di quelle nere pupille luminosissime, che mi rivelavano quanto il mio cuore fosse mutato, vinto da grave stanchezza di amare per aver troppo amato". Raimondo si arrestò quasi volesse riprendere forza. La sua voce infatti si era andata affievolendo; le ultime parole gli erano uscite dalle labbra seguite da un profondo sospiro. Blesio osservava con pena il rapido movimento delle palpebre e il tremito delle labbra che rendevano più triste quella pausa. Raimondo alzò le mani, come per rimovere qualche ostacolo davanti a sé, e tratto un altro profondo sospiro, riprese: "Quella splendida mattina di maggio, lo studio era invaso da tale giocondità di luce, che i gessi dei miei precedenti lavori sembravano inattesamente scossi da misteriosi brividi di vita. La creta della Dea, assai più di essi, prendeva così mirabili chiaroscuri, riflessi così formicolanti da darmi l'illusione che sotto le carni del seno e delle braccia ignude si avverasse il miracolo della pulsazione del sangue. Delia, entrata con lievi passi, si era fermata dietro di me, senza che io me ne fossi accorto ... Tutt'a un tratto, mi sentii afferrare violentemente pel braccio; e prima che, spinto da lei vigorosamente da parte, potessi accorrere e impedire l'atto di quelle furibonde mani, Delia ... Oh! oh! "No, non è così!" balbettava con voce roca, che io non avrei saputo riconoscere se l'avessi udita senza veder lei. "No, non è così!". E le esili mani, tese come artigli, si affondavano nella creta, disformando braccia, seno, volto alla Dea che mi era costata tanti mesi di lavoro! ... Ero rimasto impietrito davanti a quell'orrore. "No, non è così! ... Non è così!". E Delia brancicava la creta, quasi tentasse di rimodellarla, voltandosi verso di me con gli occhi sbarrati dall'improvviso scoppio di pazzia, le labbra sformate da un terribile sorriso, balbettando con voce aspra e roca: "Ecco! ... Ecco come dev'essere! ... Ecco! Tu non hai saputo ... Io, io sì!". E cadde riversa sul pavimento in violenta convulsione. Quando rinvenne, non mi riconosceva più! La ho assistita, la ho vegliata per tre eterni mesi, giorno e notte, istupidito dal dolore, attanagliato dal rimorso di aver prodotto lo sfacelo di quella povera creatura con lo stolto esperimento che avrebbe dovuto disperdere il mio sospetto, e invece ... invece! "Mi amava davvero?". Ho ancora integra la mia ragione continuando a domandarmelo? E quel che è accaduto è stato colpa mia o inesorabile opera di quella fatalità che regge la nostra esistenza? ... Dimmelo tu! Rischiarami tu!". E Raimondo Palli, convulso, singhiozzava, torcendosi le mani tese supplichevoli verso l'amico. Blesio aveva anche lui le lacrime agli occhi e non riusciva a trovare una sola parola di conforto, incerto se Raimondo fosse già pazzo o sul punto di divenir tale.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

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Serao, Matilde 4 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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E, passando di classe in classe, non solo il forestiere si accorge e si sorprende e rimpiange che fra il popolo napoletano, così intelligente, così vivido, così rapido, sia innumerevole il contingente di coloro che non sanno leggere, ma voi stesso, voi, napoletano, ogni volta che vi trovate di fronte a un ignorante, a un analfabeta, voi sentite il rammarico acuto di tanta barbarie e di tanta oscurità; e, talvolta, vi assale il ribrezzo di tanto oblio e di tanto abbandono, in cui è lasciata questa povera gente. E, ogni tanto, in quelle tristi interviste con qualche spettro della notte, che la malinconia della deambulazione notturna vi procura, in quegli incontri singolari e tetri, con un ragazzo della malavita, con un cercatore di mozziconi, con un caffettiere ambulante, voi udite il motto profondo, aspro, crudele, in cui il popolo napoletano riassume il suo profondo rispetto per la cultura e il dolore della propria ignoranza, crudele motto che emana dall'intimo dell'anima, come un rinfaccio, come amarissimo rimprovero alle classi più alte. Voi v'interessate al guaglione di mala vita, al fantomatico mozzonaro, al singolare caffettiere che gira come un fantasma, esso, dall'alba, per le vie napoletane e compiangete la sua sorte ed egli si compiange, così, crollando le spalle, filosoficamente. Ma tu sai leggere? - voi gli chiedete. Egli vi guarda, risponde: Signò, si sapesse leggere nun starria cca: starria a Palazzo . Per il popolo napoletano, chi sa leggere non può esser cercatore di mozziconi, venditore di ulive, ladruncolo notturno, ma può diventare Re o qualche cosa di simile al re, abitare la Reggia e non un tugurio o gli scalini di una chiesa, comandare gli uomini e non finire in carcere o all'ospedale. Centinaia, migliaia di bambini, di bimbe pullulano, si arrotolano, si aggrovigliano in tutte le vie, dalle più aristocratiche alle più popolari, creature seminude, scalze o malamente coperte o appena vestite: e non si sa donde vengano e dove vadano, non si sa a chi appartengano, come vivano, come muoiano. Eppure hanno madre e padre, queste misere bimbe questi bimbi miserelli e vorrebbero, questi genitori infelici, o privi di lavoro o provvisti di un lavoro mal remunerato, faticosissimo, durissimo, vorrebbero, questi genitori, mandare, in un asilo, in una scuola, queste creature delle loro visceri, vorrebbero che oltre il piccolo e rude pane del corpo, dato, ahi, con così rigorosa misura, fosse loro dato, da chi ne ha l'obbligo strettissimo, da chi ne ha il sacrosanto dovere, il pane dell'anima, l'istruzione. Desiderio insano! Mancherà, spesso a questa immensa folla di piccini e di piccine, di ragazze e di ragazzi, il modo come sfamarsi poichè, pare, la povertà napoletana sia molto pittoresca e i custodi dell'estetica adorano questa manifestazione possente e triste di dolore sociale: mancherà, senz'altro, il pane dell'anima, quello che dovrebbe dar frutto di bene intellettuale, di bene morale, mancherà senz'altro la istruzione. Vi è ancora fra il popolo, una istituzione strana e caratteristica: una specie di piccola scuola tenuta, da qualche donnetta, in un basso più spazioso degli altri: altre donnette, operaie, serve, lavandaie, stiratrici, vi portano i loro figliuoli e le loro figliuole, alla mattina, prima di andare al lavoro e pagano un soldo al giorno, le più facoltose, diciamo così, venti soldi, e quindici soldi al mese, le più sventurate. La donnetta che ha la scuoletta, non insegna nulla a tutte quelle creature: le tiene raccolte un poco, poi, le lascia scorazzare: le sgrida, sempre: urla, dietro loro: le sculaccia: pianti, strilli, singhiozzi: ma, infine, è responsabile, per un soldo al giorno, per tre centesimi, per due centesimi, di ogni bimba, di ogni bimbo, sino alla sera. E mi rammento, anche, la mia giovinezza, e un certo diploma di grado superiore che mi fu dato, per tre anni, mentre raggiungevo questo diploma, questa missione di dare il pane dell'anima alle figlie del popolo, continuamente rammentata, a ogni problema di aritmetica sbagliato: e infine toccato miracolosamente questo scopo del massimo diploma, l'obbligo del tirocinio di maestra, in una di queste scuole, ove accorrevano queste figlie del popolo, a cui io doveva insegnare a leggere e a scrivere E andai piena d'interesse, di gentile ansia segreta, di emozione, persino, a fare la tirocinante e mi trovai fra molte bimbe assai decentemente vestite, alcune con eleganza. Una per una le interrogai, queste figlie del popolo, chi fossero, donde venissero; e appresi, man mano, che eran figliuole di professionisti, d'impiegati, di negozianti, di bottegai, e fra settantadue scolare, una solamente, una, era una figlia del popolo, lacera, pallida, impertinentissima, intelligentissima, affascinante. Una! Più tardi, io sparvi dalla scuola, perchè avevo finito di fare la tirocinante: la piccola Buonfantino, indimenticabile al mio cuore tenerissimo, ne sparve, perchè morì, di tisi, a undici anni. Era una figlia del popolo, quella: ma la scuola non era fatta per essa E non vi sono scuole, a Napoli! Non ve ne sono! Ogni tanto, noi ci riuniamo, diamo un ballo splendido, con una lotteria di oggetti d'arte, tutta la grande società napoletana e la meno grande v'interviene e la Croce Rossa prende trentamila lire: ma le scuole mancano e migliaia di ragazzi e ragazze s'imputridiscono il corpo e l'anima nelle vie fangose. Non vi sono scuole: mentre noi per un mese, organizziamo una Kermesse enorme, con sessanta dame nei chioschi, e gli ottanta o novanta ciechi di Caravaggio, che hanno già ereditato due o tre fortune, ricevono venticinquemila lire. Non vi sono scuole: e altre dame della Società Margherita e io con esse, organizzano, organizziamo, conferenze, recite, gite, per aiutare ventidue o ventisette ciechi a domicilio, comprando loro un pianoforte o un fonografo o una biccicletta! Non vi sono scuole, a Napoli, e le maestre muoiono di fame e le ragazze e i ragazzi del popolo vanno al vizio, alla corruttela, al disonore al crimine: e vi stupite delle statistiche dell'onta, del delitto, a Napoli, quando dimenticate che non vi sono scuole, che invano qualche anima buona di assessore grida, perchè se ne aprano delle altre, mentre il goffissimo progetto del quartiere della bruttezza, a Santa Lucia, chiede un milione e duecentomila lire, poichè ciò fa comodo a un assessore qualunque! Non vi sono scuole, a Napoli, e questi cattolici che sono al Municipio di Napoli, non si vergognano di far perdurare questa cosa infame, che è l'analfabetismo, di cui tutti arrossiamo, innanzi non agli stranieri, solamente, che ne ridono ironicamente, beffandoci, ma innanzi agli italiani di Lombardia e di Piemonte. Non so da quanti anni si sta delirando e spendendo intorno al Maschio Angioino, sempre e la cancrena più ributtante divora il popolo napoletano, confitto nelle tenebre dell'ignoranza: e neppure i cattolici che da Cristo Signore Nostro avrebbero dovuto apprendere l'amore dei piccoli e degli oscuri, fanno niente. I socialisti domandavano la refezione scolastica: e avevano ragione, ma prima della refezione che andrebbe a figliuoli delle persone agiate, aprire delle scuole, aprirne altre cento, dappertutto, ecco quella che è la carità sociale, la solidarietà sociale! Viceversa, noi ci occupiamo se il lampadaro di S. Carlo toglierà la visuale a coloro che vanno in quarta e quinta fila: questione gravissima. Costoro che si agitano per questa cosa bizantina, sono pregati d'informarsi un poco, così, per sapere, quanti degli abitanti ordinarii delle carceri di San Francesco, di Sant' Eframo e di Santa Maria ad Agnone sanno leggere. Dopo, si covrano la faccia con le mani: se hanno un poco di rossore!

Popolo: popolo vero, folto, oscuro, a masse paurose, con volti ove si manifestano gli stenti e le tristezze, con voci roche, velate dalla fame e dalle malattie, con i germi ereditarii che un atavismo, ahi, di povertà, vi mise, con gli istinti del male esaltati dalla lunga esistenza di miserie, e di pianto, con l'inclinazione al male sì, al male, che vi pose questo centennale e crudele abbandono ostinato della loro truce sorte; e la Società infame si vela gli occhi per non vedere questo popolo, che fugge via, per obbliarne l'esistenza e crede che la fuga sia la salvezza. Oh voi non fuggiste, Cristo, Signore, questo popolo che, nel tempo dei tempi, era oppresso da ogni male e schiacciato dai possenti e dai protervi! Voi lo cercaste, dapertutto: ovunque vi fosse un misero, un sofferente, un peccatore, un malato, un criminale, voi gli tendeste la mano, lo abbracciaste, lo chiamaste figliuolo: voi lasciaste che la donna del male, emblema, di tutte le peccatrici, di tutte le criminali, si curvasse ai vostri piedi domandando perdono e perdonaste, in lei, tutti i peccati delle povere creature muliebri, fiacche, caduche, fragili, che la virtù non le sorregge. Ah, non voi fuggite, questo popolo, o Leone Tolstoi, o il più cristiano fra i cristiani, voi che avete salutato come fratelli, solo quelli che soffrono, voi che avete rinfacciato alla società ipocrita e perversa tutti i suoi inganni e tutte le sue infamie, voi che siete sceso in mezzo a tutti i disgraziati e le disgraziate, e solo essi, nei vostri libri, salirono all'onore della vostra pietà e della vostra tenerezza. Padre del popolo, era il Signor Nostro Gesù: e padre fu ognuno che disprezzò i ricchi e i malvagi e che curò le piaghe fisiche morali degli infelici: e padre sarà chiamato, nella vita nostra, chi si curerà solo di asciugar le lacrime di chi piange, di sollevar le anime depresse, di ridare una coscienza morale a coloro che l'ebbero distrutta, dal loro destino. Questo nome di padre il popolo di Vicaria, lo ha dato ad Ettore Ciccotti, perchè egli non ha messo le mani sui suoi occhi, per non vedere l'orrore di quelle esistenze, perchè egli non è fuggito, via, compreso da un senso di terrore e d'impotenza: perchè egli è restato, coraggioso, paziente, indulgente, dove consolante, dove beneficante, dove cercando di rialzare lo spirito, dove soccorrendo il corpo: perchè, egli ha avuto pietà, ma non una pietà pomposa e oltraggiosa, non una pietà sterile e infeconda, ma una pietà umile e fraterna, ma una pietà efficace e operosa, ma una pietà civile e gentile. Mille volte, questo popolo di Vicaria obbliato, abbandonato, tradito, ha trovato in Ettore Ciccotti non l'ipocrita che mette mano al portafogli e dà due lire, e compera due lire di tranquillità di coscienza, ma un cuore paterno, pieno di quella celestiale indulgenza che è la forza dei soggiogatori del popolo, ma un'anima virile che, nell'istesso tempo, ha detto la parola che solleva e ha prestato l'opera che redime, che ha consolato il dolore e ha aperto gli spiriti alla speranza di una vita più cosciente e più civile. Non vi stupite se le donne violenti di Porta Capuana e le male donne di via Martiri d'Otranto lo adorino! Così la Maddalena adorò Cristo: così la Maslova, perduta e criminale, adorò Tolstoi. Il vincolo sociale è fondato sull'alta e nobile e riabilitante carità fraterna: il miracolo sociale, è creato solo da un sublime e ardente sentimento di pietà e di amore. E che gli importa di esser deputato di Vicaria. a Ettore Ciccotti? L'uomo, in lui, è superiore a questa carica tenuta, spesso da gente vile o sciocca. La beltà della sua anima non soffre miscela di ambizione puerile: egli non è un arrivista: il socialismo non gli è servito per emergere: per cento altre forze intellettuali e morali, che sono in lui, egli sarebbe emerso. E non fu sempre socialista: e la sua storia della sua via di Damasco, tutta a onor, suo, è il romanzo di uno spirito retto e puro che si ribella, d'un colpo solo, alla infamia sociale, in tutti i ceti, infamia che non colpisce lui, ma chi sta intorno a lui: è la ribellione oscura e impetuosa di un altruista. Sia, sia, sempre il padre del popolo di Vicaria, Ettore Ciccotti! Non dimentichi questo popolo che egli ha amato, che lo ama: non lo abbandoni, di nuovo alla sua sorte tetra e truce: apporti, egli la luce della parola, la bellezza dell'esempio, la efficacia dell'azione a quella gente sventurata che, pure, è umana, è cristiana, ha i segni della intelligenza e del sentimento, nella persona. A ciò, non serve esser deputato. E, forse, domani, Ettore Ciccotti lo sarà di nuovo, se il giovine patrizio che ne prese il posto, non si decida, e forse è capace di farlo, a diventare, di Ettore Ciccotti, scolaro, cooperatore, fratello, in quartiere Vicaria. Il titolo di padre, è così bello, è così degno! Niuno che lo pronunzi, senza esserne commosso: ed in bocca a un popolo, esso significa preghiera e benedizione. Napoli, Novembre del 1904

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