Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 6 occorrenze

Il giorno dopo, però, quando egli visitò il vasto e solitario convento che doveva servirgli da ufficio e da abitazione, si sentì stringere il cuore, pensando che mai Eugenia si sarebbe adattata a vivere in quel casamento dai larghi corridoi, echeggianti al rumore dei tacchi delle persone che venivano e andavano per gli affari d'ufficio; con quella doppia fila di usci sempre chiusi, che prendevano sinistro aspetto di abbandono e di desolazione alla scialba luce delle grandi finestre con vetri polverosi e imposte coperte di ragnateli ai due capi. "Potrà occupare quante stanze vorrà" gli aveva detto l'assessore destinato dal sindaco ad accompagnarlo. "Il posto è un po' fuori di mano, ma arioso, salubre e ben conservato. Il comune spende molto per questa manutenzione. Vista me- ravigliosa. C'è anche la selva, se il signor Agente ama gli alberi e i fiori come il suo predecessore. Piante di aranci, di limoni, di nespole del Giappone, di melagrani. I frati di allora pensavano all'utile e al dolce. Il suo predecessore non comprava frutta; coltivava ogni cosa da sè. Passava la giornata più nella selva che in ufficio, lasciando che i commessi sbrigassero gli affari; e perciò le cose dell'Agenzia sono andate a rotta di collo. Ci ha rimesso del suo, pare; e si è attira- to addosso un processo, poverino. Brava persona, amabile, servizievole ..." Patrizio non gli badava, oppresso dalla vastità dell'edificio, dall'aspetto desolato di quei corridoi e di quelle stanze, una volta celle di frati carmelitani, ora nude, vuote e silenziose, e però impresse d'un sigillo così caratteristico da far so- spettare che qualcosa della vita monastica fosse rimasta appiccata alle pareti, agli usci, al pavimento, alle imposte; qual- cosa di cui si sentiva il sordo fermento, come se ne percepiva lo speciale odore; tanfo di rinchiuso, forse, egli pensava, per attenuarsi la cattiva sensazione. "E se il luogo fa così penoso effetto di giorno, rallegrato dal sole, animato dalla frequenza delle persone che vanno e vengono, figuriamoci di sera, di notte!" Egli vi si sarebbe adattato facilmente. Anni addietro, appunto, aveva abitato con la madre in un convento, esso pure destinato da un municipio per ufficio dell'Agenzia delle Tasse e alloggio dell'Agente. Quello però era situato nel centro del paese, in una delle vie più frequentate. Sua madre non era uscita nemmeno una volta dalla cella di cui avea fatta e la sua camera e il suo salotto e la sua sala da pranzo. Costretta dall'infermità a passare settimane e settimane senza lasciare il letto, si svagava soltanto con le occupazioni di dirigere la donna di servizio, col preparare di propria mano il facile desinare, seduta sul letto, appoggiata a una pila di guanciali - gli pareva di vederla! - coperta il busto da un pesantissimo scialle appuntato sotto il mento. E divagava dietro i ricordi. Vi era rimasto due anni volontario prigioniero, passeggiando lungo il corridoio per sgranchirsi le gambe, tenendo aperto l'uscio della camera di sua madre che così, dal letto in fondo della stanza, poteva vederlo passare e ripassare e fargli cenno o chiamarlo, occorrendo. E in quei due anni di volontaria prigionia, se la pelle del volto gli s'era sbianchita, proprio come quella dei carcerati, la sua salute non aveva sofferto. La sua mente si era giovata di tante lunghe ore di studio, non rubate ai doveri d'ufficio; il carattere non gli si era arrozzito per lo scarso con- tatto con la società. Anzi, quella solitudine avea prodotto un gran bene al suo cuore; ed egli godeva di sentirsi ora buono, sincero, facile all'entusiasmo, con un gran tesoro di amore e di energia accumulato nel petto, quel gran tesoro che profondeva ai piedi della sua Eugenia, dinanzi a cui provava l'illusione di una giovinezza prolungata oltre il corso degli anni, quantunque egli avesse passato la trentina. Ma allora era un'altra cosa! Eugenia si sarebbe rassegnata a vivere da prigioniera in questo gran casamento deserto? Non era vecchia e inferma come la suocera; aveva altri gusti, altre abitudini, altri bisogni: immaginazione vivissima, nervi sensibilissimi, ahimè! E intanto che l'assessore, ometto bruno, sbarbato e dallo scilinguagnolo molto sciolto, lo conduceva di qua e di là, nell'antico refettorio, nella cappelletta interna pei frati infermi, nella selva, com'egli chiamava con fratesca amplifica- zione quell'orto, e all'ultimo sull'ampia terrazza, che si affacciava dal picco della roccia su la fertile pianura digradante fino alla spiaggia - gialliccio argine di dune contro la invadente forza del mare; e intanto che colui gli additava una nu- voletta, laggiù, sull'estremo limite dell'orizzonte, dove l'azzurro del mare si confondeva con l'azzurro del cielo, soggiun- gendo tosto: "È l'isola di Malta" Patrizio ruminava il miglior modo di presentare la cattiva notizia a Eugenia, per prepa- rarla alla sgradevole impressione che egli supponeva dovesse farle l'ex convento. Sarebbero stati in tre soli ad abitarvi la notte, sperduti nel vasto edifizio addossato alla chiesa, su quel picco a cui si accedeva per uno stretto passaggio che, u- nendolo alle altre rocce, lo riduceva una specie di penisola aerea. "Sì, il luogo è bello" egli disse, cercando di congedarsi dall'assessore e raggiungere nell'ufficio il reggente provviso- rio e i commessi che lo attendevano pel verbale di consegna. L'assessore però non volle lasciarlo prima di averlo messo in relazione col sagrestano della chiesa: "Buon diavolaccio! Potrà farsene un servitore attento e onesto; anche un cuoco, se lei e la sua signora non hanno grandi pretensioni." E affacciatosi alla finestra della stanza dei commessi, gridò, accompagnando la voce con un gesto della mano: "Padreterno! Padreterno! ... Lo chiamano così." Ma nè l'allampanata figura del Padreterno con la barba bianca, di otto giorni, sul viso lungo; nè le divagazioni dei commessi, che tentavano di rallegrare la figura troppo seria del nuovo Agente raccontando le manie coltivatrici del suo predecessore, gli tolsero il peso che gli si aggravava sul cuore. Come il cattivo tempo del giorno avanti, quella tristezza di convento abbandonato gli pareva un gran mal augurio, ora che doveva servire a spegnervi il gaio sorriso della sua Eugenia. Oh, piuttosto avrebbe rinunziato al benefizio dell'alloggio gratuito! Ma non si fermò su quest'idea. La vita sarebbe parsa più insopportabile a Eugenia, se avesse dovuto passare le gior- nate con la sola compagnia della suocera, che non si mostrava gran fatto espansiva con lei, neppure dopo aver avuto, nei tre mesi vissuti insieme, sufficientissime prove per vincere l'istintiva ripugnanza del suo cuore di madre. Con l'ufficio e l'abitazione nella stessa casa, fosse stato pure in quell'ex convento pieno della gran malinconia delle cose morte, l'im- mediata vicinanza non avrebbe fatto scorgere a Eugenia (lo sospettava appena finora) quel che c'era di duro, di avverso, di spietato nel contegno della suocera. Egli avrebbe potuto intervenire a ogni istante per impedire uno scoppio, per de- viare un malinteso! Invece, non era avvenuto niente di quello per cui egli s'era con anticipazione afflitto tanto! Eugenia aveva accettato allegramente la strana avventura di dover abitare in un ex convento di frati così spazioso, così isolato da parere un castello medioevale. Mancava appena il ponte levatoio per rendere intera l'illusione. E il giorno che poterono lasciar l'albergo, era stata una festa per tutti e due percorrere a braccetto quei lunghi corridoi, visitare le celle che il Padreterno veniva aprendo una dietro l'altra, dando rapidi schiarimenti: "Queste erano del padre guardiano; questa, di padre Tommaso da Lipari; questa, di padre Inghirami, il famoso pre- dicatore che faceva tremare la gente alla sua predica dell'inferno. Ecco il refettorio; allora vi si mangiava bene; il con- vento era ricco e i frati se n'intendevano di pappatoria. Quando veniva il Provinciale per la visita, invitavano a pranzo tutti i signori del paese ... Questa è l'infermeria; l'ultimo frate che vi ha lasciato la pelle è stato padre Anselmo di Adernò. Saputo che doveva andar via dal convento, disse "Io ne uscirò morto". E infatti ... Un santo! Lungo lun- go, magro magro; lo chiamavano padre Stendardo. Da qui si scende nella selva." Non grande, ma fitta d'alberi diversi, con parecchi viali, qualche aiuola, un pergolato, una fontana in mezzo dove spillava un sottil getto d'acqua dalla pancia vuota d'una statuetta di terracotta e spezzata chi sa da quanto tempo - forse sin da quando ci erano i frati - la selva era rimasta in abbandono da che l'ultimo Agente era partito. Aiuole, alberi, arbu- sti, viali avevano bisogno di essere ravviati, ripuliti. "Me ne occuperò io" progettò Eugenia. Il Padreterno si offerse per lavorare sotto la direzione di lei. Occorreva però un contadino. L'altro Agente aveva fatto così, quantunque zappasse, potasse, innestasse meglio di qualunque altro; perdeva tutto il suo tempo là. Era mezzo mat- to, pover'uomo! "D'estate, sarà una delizia" esclamò Eugenia. "Pranzeremo qui, all'ombra degli aranci o sotto il pergolato; anche la mamma potrà venirci." A questo richiamo della mamma uscito dalla bocca di lei, Patrizio, sentitosi intenerire, le strinse il braccio per rin- graziarla. Poi ritornarono su. Egli volle mostrarle la terrazza. "Che vista! I polmoni si dilatano!" esclamò Eugenia. E vi tornarono alcuni giorni dopo, a sera avanzata, appena la signora Geltrude si era chiusa nella sua camera per mettersi a letto. Serata autunnale dolcissima, irradiata dalla nascente luna piena, che segnava una striscia luminosa sul mare tranquil- lo e simile, laggiù, laggiù, a un immenso specchio messovi a riflettere il cielo azzurro cupo, tutto scintillante di stelle. Si distinguevano i diversi toni del verde della campagna, quantunque molto scuriti, e i serpeggiamenti dei sentieri, e il biancore delle case rurali, dove tremolava qualche lumicino che spariva e riappariva nella crescente oscurità della notte, come il faro di Capo Pachino. Attorno, vicino, lontano, gran silenzio, interrotto soltanto dal malinconico stornello di un contadino dalla melodia monotona e strascicante. Sotto il parapetto della terrazza, l'abisso nero gorgogliava di sordi ru- mori: stormio di fronde, scroscio di acque scorrenti, stridi di uccelli notturni. A intervalli, calma profonda, come se tutte le cose tacessero per lasciar sentire a quei due sposi innamorati, che si tenevano con le braccia attorno alla vita, i rapidi battiti dei loro cuori. "Mi par di sognare!" Patrizio non sapeva esprimere altrimenti la intensa sua felicità. "A me pare, invece, che sia stato sempre così!" rispose Eugenia con voce commossa. "Non ti annoierai in questa solitudine?" "Quando ti annoierai tu!" Gli cinse le braccia attorno al collo, e reggendosi su la punta dei piedi, gli porse la bocca sorridente, con tale abban- dono e tale grazia infantile, che Patrizio, ad arrestare la piena del sentimento, la baciò rapidamente e si affrettò a dirle: "Guarda!" Additava un piroscafo impennacchiato di fumo, che attraversava la tremolante luminosa striscia del mare" e pareva un giocattolo, così rimpicciolito dalla distanza. "Oh!" mormorò Eugenia, scontenta di quella diversione. Patrizio tentava sempre di dominare il profondo turbamen- to da cui veniva assalito a certe carezze di lei. Voleva almeno nasconderlo, non per sè, ma per lei. Aveva osservato più volte che la commozione di lui la sovreccitava maggiormente, ed egli temeva che la delicata compagine di quel gentile organismo non dovesse soffrirne e guastarsi per soverchia tensione dei nervi. Aveva osservato che la giovinetta timida e pudibonda, stretta tra le braccia e posseduta con pari timidezza e pudore nei primi giorni del matrimonio, veniva, di me- se in mese, inattesamente trasformandosi; e la inesperienza di lui, vissuto casto per natura, per educazione e per le cir- costanze d'una vita agitata e piena di tristezza, gli faceva guardare con un misto di stupore e di terrore quel che ad altri sarebbe parso cosa ovvia e naturale. Accorgendosi però dello scontento di Eugenia, rimasta muta con gli occhi fissi laggiù, verso il mare, dove il pirosca- fo filante a tutta corsa si scorgeva appena, avendo già sorpassato la tremola striscia luminosa, Patrizio l'accarezzò col braccio che la cingeva alla vita, e ripetè la sua frase prediletta: "Non ti par di sognare?" Dall'abisso sottostante montava ora più forte lo stormire delle fronde; i lumi si erano spenti per la campagna; la mo- notona melodia dello stornello arrivava al loro orecchio affievolita e a intervalli, dispersa dal vento che la spingeva per l'opposta direzione, gli stridi degli uccelli notturni tacevano tra le rocce; in fondo alla vallata, il rumore delle acque scor- renti si mesceva col fremito degli alberi. E, siccome ella non rispose, Patrizio continuò: "Quattro mesi addietro, quando le difficoltà del nostro matrimonio parevano proprio insormontabili, e io cominciavo a disperare, se qualcuno fosse venuto a dirmi: "Abbi fede; tra non molto tu sarai lontano da questi luoghi dove hai tanto sofferto; starai, abbracciando per la vita la sospirata persona, su la terrazza di un antico convento, all'ombra del campa- nile proiettata dal lume di luna; e là, sotto un cielo divinamente splendido, di faccia alla terra addormentata e al mare lontano, inaugurerete la vostra vita di innamorati solitari, facendo scoccar baci dove i frati non sognarono mai che baci si sarebbero potuti scambiare senza offesa a Dio" se qualcuno fosse venuto a dirmi questo, io avrei creduto che costui volesse farsi beffe di me! ..." "Rientriamo" disse Eugenia. "Hai paura?" "Sì." "Di che cosa?" "Non lo so." Aveva paura anche lui, ma sapeva benissimo di che cosa: della sua cattiva sorte, che superstiziosamente egli credeva stesse in agguato a tramargli qualche crudele sorpresa. E da più settimane ruminava come scongiurarla, con qualche sa- crificio a modo degli antichi, offrendo alla malvagia deità un'ostia che la placasse. Ne rideva talvolta, ma non cessava di pensarvi. E mentre Eugenia si stringeva a lui lungo il corridoio che doveano traversare, quasi temesse l'apparizione del- lo spettro del frate morto ultimo nel convento, egli ripensava quel sacrifizio che ormai gli pareva urgente, se voleva sviare in tempo il pericolo da cui si sentiva minacciato. Entrati nella cella scelta per loro camera, accanto a quella della mamma, il primo oggetto che gli venne sotto gli oc- chi fu un antico vasetto arabo, di cristallo iridato; cimelio salvato, Patrizio non sapeva in che modo, dal disastro seguito alla morte del padre, e del quale non aveva voluto disfarsi neppure nei momenti più difficili, quando la somma offertagli da un amatore inglese lo avrebbe liberato da qualche impiccio. Eugenia aveva collocato il vasetto su una mensolina, in evidenza. Piaceva anche a lei per la stranezza della forma, per la leggerezza, per quel luccichio di colori che pareva lo facesse formicolare come cosa viva a ogni più lieve movimento fra le mani di chi l'osservava. Fu un lampo; egli non esitò. Staccatosi rapidamente dal braccio di sua moglie, si slanciò verso la mensolina, prese il vasetto e levatolo in alto, con gesto di offerta, lo scagliò contro il pavimento ... "Lo scongiuro è fatto!" esclamò, traendo un gran respiro di soddisfazione.

E, sentendola tremare tra le braccia, scossa da fremito convulso, addolciva ancora più l'accento, accostava la fronte a quel- la di lei con amoroso abbandono, come raramente soleva, mormorandole su la faccia: "E poi, che te n'importa? Non t'amo io? Che te n'importa?" "Ah!" ella esclamò, svincolandosi con vivacissimo sforzo. "Ecco perché me ne importa!" La sua voce era piena di singhiozzi e gli occhi di lagrime che le solcavano le gote, senza che ella badasse ad asciu- garle. "Ecco perché me n'importa! Sento qualcosa di duro, d'impenetrabile, che si è già frammesso tra noi due, contro di cui urto con la testa e non riesco a spezzarlo. Picchio e non mi senti. Chiamo e non mi rispondi. Il tuo cuore è invasato da sentimenti che non intendo. Oh! Tu hai paura di lei. Non negarlo. Hai paura!" "Paura di mia madre?" "Sì! Sì! Sì!" Patrizio rimase interdetto. Colei che si vedeva davanti, altera e bella nel disordine dei capelli, nel turbamento dell'aspetto e della voce, nella durezza insolita della parola, non gli pareva più la sua dolce, la sua sommessa, la sua quasi timida Eugenia. Quel non so che di fanciullesco, di spensierato, di allegro, di verginale che ne formava l'incanto era sparito. Tutti i lineamenti di lei parevano cambiati di punto in bianco, con quelle sopracciglia aggrottate, con quegli occhi dallo sguardo incerto, con quelle labbra aride e contratte, con quella persona che pareva ingrandita, tanto il busto si ergeva fiero in quell'istante, elevando la testa e il collo gonfio dallo spasimo. "Sì" continuava fissandolo "hai paura di lei! Ebbene, che pretende tua madre? Ora sei mio. Sei suo figlio, ma sei mio! Mio, perché ti voglio bene quanto lei, anzi più di lei. Ella ti ama come madre, io come moglie; ed è diverso. Ella ti ha dato il latte ... Io, il mio amore, l'anima mia, tutta me stessa! ... Ti appartengo, come tu mi appartieni." E l'afferrò tra le braccia furiosamente, quasi fosse là qualcuno che volesse rapirglielo. "Mi appartieni ... Sei mio! Non sei più suo! No! ... Non sei più suo! No! No! ..." E, al balbettio di queste ultime parole, Patrizio sentì irrigidire tutto il corpo di lei, che si stirava con le braccia tese in avanti e i pugni stretti. "Eugenia! Eugenia! ... Mamma! ..." La sollevò, l'adagiò sul letto, cercando di frenare il dibattito di tutte le membra nella convulsione crescente, e tornò a chiamare più forte: "Mamma! Mamma!" Eugenia si agitava, mugolando, svincolandosi a scatti. La signora Geltrude picchiò ripetutamente dietro l'uscio di comunicazione delle due camere. Era chiuso col paletto; Patrizio dovette abbandonare Eugenia un istante per correre ad aprirle: "Mamma! Ah, mamma!" Ella si fermò a pochi passi dall'uscio, severa più dell'ordinario, colpita dallo spettacolo di quel giovine corpo agitato dalla crisi nervosa. "Lo vedi? È un'isterica! E non volevi credermi!" disse senza scomporsi. "Mamma!" urlò Patrizio, vinto dallo sdegno. E si volse alla vecchia donna di servizio, accorsa al grido: "Dorata, presto, il dottor Mola! ... Presto!"

E mi lasci quasi in abbandono e vivi con me come con un'estranea che si trovi in casa tua senza che tu sappia per- ché. Non mi ami più? Confessamelo, metterò almeno il cuore in pace." "La solita ubbia?" egli disse. "La solita ubbia? Sei di ghiaccio, peggio di prima! Un bacio, una carezza, bisogna strapparteli peggio di prima! Hai tuttavia ... paura di lei?" "Non parlare così!" la interruppe Patrizio duramente. "Prima" ella riprese "avevi anche un'altra scusa: la mia malattia. Ebbene: sono guarita! Senti qui. Non c'è più ombra di profumo, niente! Hai tu forse altri pretesti? Ho rispettato il tuo dolore, ti ho nascosto le mie lacrime, attendendo spe- ranzosa: "Ritornerà a me!". Invece ti allontani ogni giorno più. Te ne stai chiuso nel tuo maledetto ufficio, dimentico di me quasi tutta la giornata; ci vediamo a colazione, a desinare, quasi tra l'ufficio e queste celle ci fossero miglia di di- stanza; e la sera, leggi, leggi, leggi e non badi che io sbadiglio, che casco di sonno, che ho freddo nel cuore e che non posso più vivere in tal modo! ... Voglio essere amata come t'amo! Amata, intendi? Amata! ..." "E non t'amo?" "Dell'amore a cotesta tua maniera, oh! non so che farmene! Amore a parole! Io non ti affermo soltanto di amarti; te lo provo. Pensa che ho ventidue anni; non sono una vecchia, e voglio stare tra le tue braccia, e voglio sentirmi accarez- zata, baciata, amata come tutte le altre!" "Tu non comprendi quel che dici!" la interruppe Patrizio. "Se non lo comprendessi, non te lo direi." "Non lo diresti, se comprendessi!" egli replicò severo. "Perché?" domandò Eugenia alzando la testa. "Per rispetto della morta? ..." "Non nominarla, te ne prego!" "Sì, è ancora lei che t'impedisce di esser mio!" "Non la nominar più!" ripetè Patrizio con voce cupa. "Non m'hai tu detto: Era gelosa di te?" "Gelosia da madre!" "Orrore che io non posso spiegarmi. Gelosia da madre! ... E va bene. Ma ora ella è in paradiso; non ci vede, non ci sente! Perché non m'ami come t'amo io? Che mai debbo pensare di te? Ti sono cascata dal cuore? T'ispiro repu- gnanza? Sei pentito di avermi sposata? ... Non sono stata io che ti son venuta incontro, che t'ho circuito, che ho promesso mari e monti. Ricordi? Quella sera che dalla finestra tu mi dicesti: "V'amo, signorina!" io ti risposi: "In che modo, se mi conosce soltanto di vista?". "Basta, pel cuore!" replicasti. Ed ora che mi conosci intimamente, ora che sono tua, non basta più forse?" "Che dirti? Come disingannarti?" soggiunse Patrizio dopo alcuni istanti di silenzio. "Non m'inganno, no! Ne ho la prova in questo stesso momento. "Che dirti! Come disingannarti!" E non ti passa nemmeno pel capo di stendermi le mani, di attirarmi al petto, di dichiararmi coi baci: "Vedi se basta?". Che hai, insom- ma, contro di me? In che ho potuto dispiacerti? Parla! ... O mi farai maledire tua madre lassù in paradiso, dove si trova! ..." "Eugenia!" "Ah! ... Lo vedi? Per lei ti risenti subito! Per lei ritrovi la voce!" "È per te!" disse Patrizio, prendendola tutt'a un tratto fra le braccia. Ella tentava di svincolarsi, ripetendo: "Per me? Per me?" Patrizio la trattenne: "Sì, Eugenia, per te! Come hai potuto sospettare?" Il suo accento era diventato così dolce, così affettuoso che Eugenia, maravigliata, cessò ogni conato, e gli prese la testa fra le mani quasi volesse convincersi, dall'espressione del viso, se parlasse seriamente o volesse ingannarla. I suoi occhi s'incontrarono con quelli di lui, che la guardavano pieni di compassione, intensamente, quasi tutta la scarsa luce della sera che penetrava dalla finestra si fosse già condensata in quelle pupille diventate più nere e più espressive. Ed egli, intanto, le sorrideva scotendo leggermente il capo, rimproverandole in tal modo la sua poca fede: "Come hai potuto sospettare?" "Spiegati; non ti capisco!" disse Eugenia, accigliata per diffidenza, continuando a fissarlo. "E non puoi capirmi, povera figliuola!" rispose Patrizio, accarezzandole con una mano i capelli sulla fronte e tenen- dole il braccio sinistro stretto attorno alla vita. "Sono una grulla dunque?" "No; sei nervosa, sei ancora malata" egli soggiunse "e travedi stranamente. Poco fa, quando ti rimproveravo: "Se tu comprendessi, non lo diresti!" erano appunto i nervi che ti spingevano a parlare. E mi facevi pena, perché mi accorgevo che non sei, come tu credi, perfettamente guarita." "Che cosa dicevo di strano poco fa? "Voglio stare fra le tue braccia! Voglio essere accarezzata, baciata, amata come tutte le altre!"" "Non ripeterlo! Mi fa male." Ella spalancava gli occhi stupita, dubitando di se stessa, dal suo cuore, della sua ragione ... "Ma spiegati, infine!" esclamò dolorosamente. Non era facile! "La colpa è anche mia" egli riprese a dire, tentando di evitar di rispondere a quell'intimazione. "Ne convengo, sono stato eccessivo. Ma tu non puoi farti un'idea del dolore che provo, tu che ignori la mia triste fanciullezza, la mia giovi- nezza ancora più triste, tutte le sventure, tutte le angoscie nelle quali non ebbi mai altra consolazione nè altro conforto che la presenza di mia madre, la sua parola, il suo coraggio, la sua rassegnazione di santa! Oh, tu l'hai conosciuta in mal punto! Aveva avuto me, me soltanto per tant'anni, per ciò le pareva che tu le avessi rubato il cuore dal figlio. Acceca- mento di madre, nient'altro. E poiché io sapevo che tu non l'amavi, come avrei potuto dirti: Piangiamo insieme? ... Non hai torto: è stata dura con te, intrattabile. Con me pure, sai? Io ti celavo i suoi sfoghi e le sue collere; soffrivo dop- piamente, ma non importava! Vi amavo tutte due, lei come madre, te come moglie. Quasi un anno di terribile lotta per risparmiarvi dispiaceri, per non farvi inasprire maggiormente una contro l'altra! ... Fossi almeno riuscito! Quando penso ch'ella è morta senza potermi dire una parola, una parola di perdono, mi par d'impazzire! Neppure tu sai compa- tirmi, neppure tu sai perdonare! ... Mi conosci male. Io non sono come gli altri; non ho mai avuto un giorno tran- quillo, non ho mai visto un raggio di felicità nella mia vita, prima di conoscerti e di farti mia. Nel mio cuore non c'è lie- vito di altri amori ... Tu sei stata l'unica donna, dopo mia madre, che n'abbia preso possesso e per sempre. Io igno- ro come amino gli altri, ma so che ti voglio bene con tutte le forze dell'anima mia ... So che ti vorrei contenta, feli- ce! E mi sento fanciullo accanto a te! Tu comprendi la vita a modo tuo, come molti altri forse. Che posso farci se io la comprendo diversamente, da uomo vissuto solitario, che ignora certi usi, certe pratiche del mondo e non può affatto a- dattarvisi? Ma il mio cuore è sincero, ma la mia parola dice quel che sento e penso. Non saprei mentire, no, neppure vo- lendo. Per questo ti sembro freddo! Sono timido invece. È in difetto, me n'accorgo. Ne soffro vedendo a quali conse- guenze la mia timidità mi lascia esposto, e divento più timido! ... Quante volte, la sera sul punto di andare al cam- posanto, avrei voluto dirti: "Vieni anche tu!". E non ho mai potuto, paventando la tua risposta. E forse tu saresti venuta; sei così buona! ... Saresti venuta?" "Oh, no! Ma non per lei. La vista delle tombe mi fa orrore!" rispose Eugenia. Le sue sopracciglia s'erano già spianate, la sua voce aveva ripreso l'accento naturale; e dall'espressione di quel viso, quasi attirato da un fascino, egli indovinava benissimo la dolce commozione prodotta dalle sue parole dentro il giovane cuore di donna che in quel momento batteva frequentemente contro il cuore di lui, commosso pur esso. Eugenia però si sentiva più affascinata dall'accento di Patrizio che convinta di quel che aveva udito. Credeva di non aver inteso bene, e sospettava pure ch'egli non avesse voluto svelarle interamente il suo pensiero, senza intenzione di mentire. E mentre egli parlava, di mano in mano che la malia delle parole di lui l'andava avvincendo, ella si ripeteva da sè: "Se tu lo comprendessi, non lo diresti!". Il suo male le aveva dunque fatto sfuggire di bocca parole che contenevano sconvenienze a quel che pareva? "Se tu lo comprendessi, non lo diresti!"" Poi, la commozione l'aveva sopraffatta; ascol- tando, a poco a poco aveva dimenticato ogni cosa; e, appena pronunciata la risposta all'interrogazione di Patrizio, gli si era abbandonata tra le braccia singhiozzante e incapace di continuare a parlare. "Ah! Tu piangi?" egli disse, sforzandosi di mostrarsi allegro. "Ecco il castigo della tua diffidenza! Via, via! Non es- ser bambina! È il mio castigo pure; non posso vederti soffrire! Ho i miei torti e te li ho confessati. Via, non esser bam- bina! Mi emenderò, vedrai!"

..." lasciava che intanto il tepore, le scosse, le con- trazioni delle mani le insinuassero per la persona un senso novo d'intimità con quella viva partecipazione al dolore di lui, qualcosa che già somigliava a un abbandono di se medesima, per conforto, per consolazione, senza però conceder niente che ella dovesse rimproverarsi, o di cui pentirsi, dopo. "E come rideranno i nemici della nostra famiglia!" esclamò all'ultimo Ruggero. "Come ridono in questo momento!" "Non s'occupi di essi. Non rideranno più quando il matrimonio sarà compiuto." "Ah, signora! ... Ella non sa le basse invidie, le malignità dei partiti in questo miserabile paesetto!" Le stringeva più forte la mano, se la portava alla fronte con gesto desolato. Eugenia, paventando non se la portasse anche alle labbra, la ritirò lestamente; e si rimise a sedere di faccia a lui. "Buone nuove!" gridò Patrizio, rientrando. I fuggitivi erano a Rosolini, presso una famiglia amica dei Favi. Giulia vi si trovava ospitata come una figlia. Corra- do era già tornato a Marzallo. Le cose si mettevano bene per la dignità e per l'onore di tutti. Intanto, amici comuni s'in- gegnavano di appianare le difficoltà. Sopraggiunse il dottor Mola. "Ebbene? Che vuoi farci?" esclamò, vedendo il gesto furibondo di Ruggero. "Siamo tutti senza cervello a vent'anni. Ora sarà una sfilata di fughe; vedrete, signora mia! L'esempio è contagioso. Accade sempre così. Voi però, voi sopra tutti, dovete sforzarvi di stare tranquilla. Che viso, che occhi, Dio mio! ... Date qua. E che polso! Ecco una ricetti- na. Calmante. A cucchiaiate, d'ora in ora, lungo la giornata. Sono venuto a posta." "Grazie." "Niente. Lo faccio anche per egoismo, per non dovervi curare a lungo dopo. Non ci ho gusto a veder malata la gen- te, quantunque sia il mio mestiere. Brutto mestiere vivere a costo del male altrui! Tu" soggiunse rivolto a Ruggero "bevi un bel bicchiere d'acqua fresca; ti farà bene. E non ti muovere di qui; così ordina tuo padre. In queste circostanze, meno chiasso si fa e meglio è." Dopo desinare, Eugenia e Ruggero erano rimasti soli in salotto. Calmato, egli non ragionava più del triste avveni- mento; fumava una sigaretta, appoggiato col dorso alla finestra. Eugenia, seduta poco distante, aveva ripreso in mano il suo lavoro di uncinetto e lavorava a capo chino. Si sentiva addosso, insistenti nel silenzio, gli sguardi di lui e non sapeva come stornarli. Di tanto in tanto, portava le mani alla faccia; una vampata l'assaliva a ogni movimento di Ruggero, che pareva non riuscisse a star fermo e si appog- giava ora su l'una or su l'altra gamba, accavalciando i piedi, quasi impazientito di quel silenzio troppo prolungato. Eugenia avrebbe voluto prevenirlo e avviare la conversazione in maniera da impedire che si mettesse per uno sdruc- ciolo pericoloso; ma non trovava nulla. E provò una stretta al cuore, sentendo la voce di lui, che, esitante, diceva: "Si annoia. Ha ragione. La mia compagnia non è piacevole oggi." Ella fece un lieve atto di protesta col capo, e si chinò di nuovo sul lavoro, senza aggiunger parola. "Mi fa impazzire!" esclamò tutt'a un tratto Ruggero, buttando fuori dalla finestra, dietro le spalle, la sigaretta fumata a metà. "Non parli così!" balbettò Eugenia. E, atterrita, si volse istintivamente verso l'uscio. "Compatisce gli altri, con me! ..." continuò Ruggero con voce repressa. "Non s'accorge o finge di non accor- gersi di niente! ... Mi fa impazzire!" "Non parli così! Che cosa vuole?" ella domandò con angoscioso smarrimento. "So che non è felice; me n'ha parlato Giulia, tante volte!" "E se pure fosse vero?" "Mi dica una sola parola! ... Una sola!" "Zitto, per carità!" Eugenia s'era levata da sedere, col cuore in tumulto, con la mente turbata e un gran tremito per tutta la persona. Pen- tita delle inconsulte parole sfuggitele di bocca, s'irritava di non trovar la forza di interrompere con un gesto, con una ri- sposta recisa, quella tanto paventata dichiarazione sentita addensare nell'aria simile a un temporale, e che già scoppiava irresistibile nel peggior momento per lei. "No" riprese Ruggero, tentando di afferrarle una mano che Eugenia ritirò per portarla rapidamente alla fronte. "No, non è possibile che il suo cuore sia rimasto indifferente. È di ghiaccio? ... Una parola! Una sola parola! ... Non le chiedo altro. Se sapesse quanto l'amo! ... Fino al delirio! ... Lo sa, lo sa ... Finge di non saperlo. Ah! ... Mi disprezza dunque?" "Perché dovrei disprezzarlo? Che cosa vuole da me? Sono maritata. Non mi offenda, supponendo che io possa tradi- re mio marito. Gli voglio bene ..." "Non è vero!" All'energica affermazione, Eugenia sgranò gli occhi, quasi vedesse in quel punto il proprio cuore aperto come un li- bro davanti a Ruggero. Egli le si era accostato, supplicandola a mani giunte: "Una parola! ... Una sola parola!" E tornava a ripetere: "Non è vero. Giulia mi ha confidato tutto. Non è amata, non ama; io, io solo l'amo alla follia, da otto mesi, dal primo istante che la vidi!" "Perché me lo dice? ... Perché?" Si torceva le mani, crollava la testa, smaniando: "Non voglio saperlo! Non devo saperlo! ... Mi lasci in pace, per carità! Mi lasci in pace! ... o dirò tutto a mio marito!" Le parve d'aver trovato la parola giusta, e guardò in viso Ruggero. "Glielo dica, se ha coraggio!" egli rispose, arrestandosele davanti. "Potrà impedirmi di amarla? Glielo dica; così lei si leverà di torno la mia odiosa persona. Io debbo venire qui per forza; vederla tutti i giorni per forza, perché mio padre lo vuole, per le lezioni. Quando mio padre saprà, mi manderà via da Marzallo. E sarà liberata dalla persecuzione de' miei sguardi; non mi vedrà, non mi udrà più! Glielo dica. È una soluzione ... per lei! Io l'amerò lo stesso. È la pri- ma volta che amo. Ah! L'ha condotta qui la mia mala sorte. Ero tranquillo, felice. E, da otto mesi, soffro tormenti incre- dibili; vivo soltanto per lei, penso soltanto a lei, giorno e notte! ... E lei mi ha visto, mi vede soffrire, e non si è mai commossa, non si commuove! ... Che cuore ha?" "Oh, Dio! ... Zitto! Zitto!" S'era coperta la faccia con le mani, senza sapere quel che diceva e faceva. Le pareva di sognare a occhi aperti; udiva quasi le stesse parole udite tante volte nei sogni; e, come nei sogni, sentiva venir meno ogni forza, quantunque la sua volontà dicesse ora, come sempre: "No! No!". Dalla faccia portava le mani agli orecchi per non udire le fatali parole e non esserne ammaliata; e ripeteva: "Zitto! Zitto!" con doloroso accento di preghiera. Ruggero non l'ascoltava; tornava a insistere: "Una parola! Una parola! ... Che le costa? ... È dunque vero che non ha cuore? Senta, senta come tre- mo!" E le prendeva una mano. "Così non si finge! Così non si mentisce!" Eugenia tentò invano di svincolarsi. Ma appena si fu meglio impossessato della cara mano, egli cominciò a baciarla sempre più avidamente, come più la sentiva cedere, cedere sotto la pressione delle labbra, con deboli proteste: "No. Non è vero che mi vuol bene! ... Non è vero! ..." Le pareva che il suolo le mancasse sotto i piedi; e si aggrappava a lui, singhiozzante, invocando pietà con quel fil di voce: "Ah! ... Che male mi fa!" Lo respinse con sforzo improvviso e corse a rifugiarsi in un angolo. "Non s'avvicini! Grido; faccio accorrere gente. Per carità! ... Per carità!" tornava a supplicare. "È mai possibi- le? Come ha potuto credere? Mi prometta che non ricomincia. Sia bono! Sia bono!" "Sì, sì; farò tutto quel che mi ordina" disse Ruggero a bassa voce. "Purché io sappia se mi vuol bene o no ..." "Non devo." "No, no! Lo dice per ingannarmi. Glielo leggo negli occhi." "E allora? ... Sia bono! Gli voglio bene, ma non come crede lei. A che scopo? Non me ne riparli più. Sono d'altri. Sarei imperdonabile, se rispondessi diversamente. Non lo capisce? Deve capirlo." "Che m'importa d'altri? Che può importarne a lei, se non è amata? Una parola! Una parola soltanto! Sarà un segreto tra me e lei. Senta! Senta! ..." Lo aveva lasciato accostare a poco a poco, vinta dal fascino della voce, dalle insinuanti parole, dall'atteggiamento di calda preghiera con cui egli le si rivolgeva, incapace di fare il minimo movimento per sfuggirgli. E quando le fu vicino, gli stese le mani, invocando pietà col gesto, con lo sguardo, gesto e sguardo d'amore desolato, di passione irrompente, quasi di resa. "Senta! Senta!" ripetè Ruggero. Questa volta però le loro mani, incontràtesi, si strinsero forte. Vedendola mancare dalla violenta commozione, egli l'attirò a sè, la premè al petto e la baciò su la fronte e su le lab- bra, ripetutamente, intanto ch'ella, inerte, gli si appesiva addosso, diaccia e pallida, con un fioco lamento, tra' singulti. Ruggero ebbe paura. La sollevò tra le braccia, la mise a sedere, sorreggendola, quasi in ginocchio dinanzi a lei. Nel turbamento la chiamava: "Donna Eugenia! ... Donna Eugenia!" E le strofinava le mani per farla rinvenire, spaventato dall'idea che Patrizio, sopraggiungendo, potesse trovarla in quello stato. "Quanto male mi ha fatto! ..." Queste parole, uscite dalla bocca di Eugenia come un gemito di moribonda, lo rincorarono alquanto. "Mi perdoni!" supplicò umilmente. Eugenia aperse gli occhi. Credeva di destarsi da un sonno profondo, e fissava Ruggero, per ricordarsi bene quel che doveva essere accaduto. E, intanto che andava riprendendo coscienza, la indignazione per la sua debolezza le increspava le sopracciglia, le con- traeva le labbra. Poi svincolando con uno strappo le mani da quelle di Ruggero, si levò subitamente da sedere e lo re- spinse con gesto vibrato, muta, ansante. "Mi perdoni!" egli tornava a pregare. "Purché non ricominci!" rispose severa. E mutando accento, soggiunse: "Per carità! ... Se mi vuol bene, mi la- sci in pace, si scordi di me. Non posso amarlo. Non devo amarlo. Lei è giovane e libero ... Io non sono più libera ... Mi lasci in pace! Trovi una scusa, non venga più qui ... Non si lusinghi ... No! ... No! ... Abbia stima di me. Abbia pietà pure! Sono malata ... Non concorra a farmi peggiorare. Le voglio bene anch'io, ma non come intende lei. Si scordi di me. Si scordi di me! ..." "Impossibile! Scordarla, ora? Ora?" la interruppe Ruggero. "Si fidi. Non lo saprà nessuno, mai! Nessuno!" "No! No!" gemeva Eugenia. Ma l'accento, ma gli sguardi, pur troppo, dicevano sì.

CENERE

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Deledda, Grazia 6 occorrenze

Che piacere angoscioso aveva destato quella fiaba in Anania bambino, specialmente nei primi giorni dopo il suo abbandono! Quella notte egli sognò che l'uomo di Fonni gli aveva portato la novella: ella era fuggita ... egli la inseguiva, la inseguiva ... attraverso una pianura coperta di chiodi ... Eccola, ella è là, all'orizzonte: fra poco egli la raggiungerà e la ucciderà; ma egli ha paura, ha paura ... perché ella non è Olì, è il mandriano passato nella viuzza mentre zia Tatàna era dal signor Carboni ... Anania corre, corre; i chiodi non lo pungono, eppure egli vorrebbe che lo pungessero ... Olì, trasformata in mandriano, canta: canta i versi del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa; ecco, egli sta per raggiungerla e ucciderla, e un gelo di morte lo agghiaccia tutto ... Si svegliò coperto da un sudore freddo, mortale; il cuore non gli batteva più, ed egli scoppiò in un pianto d'angoscia violenta. Il terzo giorno Margherita, meravigliata che egli non scrivesse, lo invitò al solito convegno. Egli andò, raccontò la gita, si abbandonò alle carezze di lei come un viandante stanco si abbandona alle carezze del vento, all'ombra d'un albero, sull'orlo della via; ma non poté dire una sola parola sul cupo segreto che lo divorava. 18 settembre, ore due di notte Margherita, Sono rientrato a casa adesso, dopo aver pazzamente errato per le strade. Mi pare d'impazzire da un momento all'altro ed è anche questa paura che mi spinge a confidarti, - dopo una lunga inenarrabile indecisione, - il dolore che mi uccide. Ma voglio esser breve. Margherita, tu sai chi io sono: figlio della colpa, abbandonato da una madre più disgraziata che colpevole, io sono nato sotto un astro terribile e devo espiare delitti non miei. Inconsapevole del mio triste destino, spinto dalla fatalità, io ho trascinato con me, nell'abisso dal quale io non potrò mai uscire, la creatura che ho amato sopra tutte le creature della terra. Te, Margherita ... Perdonami, perdonami! Questo è il mio più immenso dolore, il rimorso terribile che mi strazierà per tutto il resto della vita, se pure vivrò ... Senti. Mia madre è viva: dopo una esistenza di colpe e di dolori, ella è risorta davanti a me come un fantasma. Essa è miserabile, malata, invecchiata dal dolore e dalle privazioni. Il mio dovere, tu stessa lo dici a te stessa in questo momento, è di redimerla. Ho deciso di riunirmi con lei, di lavorare per sostenerla, di sacrificare la vita stessa, se occorre, per compiere il mio dovere. Margherita, che dirti altro? Mai come in questo momento ho sentito il bisogno di aprirti tutta l'anima mia, simile ad un mare in tempesta, e mai ho sentito mancarmi le parole come mi mancano in quest'ora decisiva della mia vita. La ragione stessa mi manca; ho ancora sulle labbra il profumo dei tuoi baci e tremo di passione e di angoscia ... Margherita, Margherita, la mia vita è nelle tue mani! Abbi pietà di me ed anche di te. Sii buona come io ti ho sempre sognata! Pensa che la vita è breve, e che la sola realtà della vita è l'amore, e che nessun uomo della terra ti amerà come ti amo e ti amerò io. Non calpestare la nostra felicità per i pregiudizi umani, i pregiudizi che gli uomini invidiosi inventarono per rendersi scambievolmente infelici. Tu sei buona, sei superiore: dimmi almeno una parola di speranza per l'avvenire. Ma che dico? Io divento pazzo; perdonami, e ricordati che, qualunque cosa accada, io sarò sempre tuo per l'eternità. Scrivimi subito ... A. 19 settembre Anania, La tua lettera mi sembra un orrendo sogno. Anch'io non trovo parole per esprimermi. Vieni stanotte, alla solita ora, e decideremo assieme il nostro destino. Sono io che devo dire: la mia vita è nelle tue mani. Vieni, ti aspetto ansiosamente ... M. 19 settembre Margherita, Il tuo bigliettino mi ha gelato il cuore; sento che il mio destino è già deciso, ma un filo di speranza mi guida ancora. No, non posso venire; anche volendolo non potrei venire. Non verrò se tu non mi dirai prima una parola di speranza. Allora correrò a te per inginocchiarmi ai tuoi piedi e per ringraziarti e adorarti come una santa. Ma ora no, non posso, e non voglio. Quanto ti scrissi la notte scorsa è la mia irrevocabile decisione; scrivimi, non farmi morire in questa attesa terribile. Il tuo infelicissimo A. 19 settembre, mezzanotte Anania, Nino mio, Ti ho aspettato fino a questo momento, palpitante di dolore e di amore, ma tu non sei venuto, tu forse non verrai mai più, ed io ti scrivo, in quest'ora soave dei nostri convegni, con la morte nel cuore e le lagrime negli occhi non ancora stanchi di piangere. La luna smorta cala sul cielo velato, la notte è melanconica e quasi lugubre e mi pare che tutto il creato si rattristi per la sventura che opprime il nostro amore. Anania, perché mi hai tu ingannato? Io sapevo sì, come tu dici, quello che tu sei, e ti amai appunto perché sono superiore ai pregiudizi umani, perché volevo ricompensarti delle ingiustizie che la sorte aveva tramato a tuo danno, e sopratutto perché credevo che anche tu, anche tu fossi superiore ai pregiudizi, e avessi riposto in me, come io avevo riposto in te, tutta la tua vita. Invece mi sono ingannata; o meglio sei stato tu ad ingannarmi, tacendomi i tuoi veri sentimenti. Ho sempre creduto che tu sapessi che tua madre viveva, e dove si trovava, e la vita che conduceva; ma ero certa che tu, vilmente abbandonato da lei, non facessi più caso d'una madre snaturata, tua sventura e disonore, e la ritenessi come morta per te e per tutti ... Non solo, ma ero certa che se ella osava presentarsi a te, come pur troppo é accaduto, tu non ti saresti degnato neppure di guardarla ... E invece, invece! Invece tu ora scacci chi ti ha lungamente amato e ti amerà sempre, per sacrificare la tua vita e il tuo onore a chi ti ha abbandonato, bambino inconsapevole; a chi ti avrebbe ucciso o lasciato in un bosco, in un deserto, pur di liberarsi di te. Ma è inutile che io ti scriva queste cose, perché tu certamente le capisci meglio di me; ed è inutile che tu continui ad illudermi e ad invocare sentimenti che io non posso avere dal momento che neppure tu li hai. Perché, vedi, io capisco benissimo che tu vuoi sacrificarti non per affetto, e neppure per generosità, - perché probabilmente tu odii giustamente la donna che fu la tua rovina, - ma spinto da quei pregiudizi umani inventati dagli uomini per rendersi scambievolmente infelici. Sì, sì: tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentir dire: "hai fatto il tuo dovere!". Tu sei un fanciullo, e il tuo è un sogno pericoloso ma anche, permettimi di dirtelo, anche ridicolo. La gente, sapendolo, ti loderà, sì, ma in fondo riderà della tua semplicità. Anania, torna in te, sii buono, con te e con me, come tu dici, e sopratutto sii uomo. No, io non dico di abbandonare tua madre, debole e infelice, come essa ti ha abbandonato: no, noi l'aiuteremo, noi lavoreremo per lei, se occorre, ma che essa stia lontana da noi, che essa non venga a mettersi fra noi, a turbare la nostra vita con la sua presenza. Mai! mai! Perché dovrei ingannarti, Anania? Io non posso neppure lontanamente ammettere la possibilità di vivere assieme con lei ... Ah, no! Sarebbe una vita orrenda, una continua tragedia; meglio morire una buona volta che morire lentamente di rancore e di disgusto. Io non ho mai amato quella disgraziata; ora ne sento pietà, ma non posso amarla; e ti scongiuro di non insistere nel tuo pazzo progetto, se non vuoi farmela nuovamente odiare mille volte più di prima. Questa la mia ultima decisione; sì, aiutarla, ma tenerla lontana, che io non la veda mai, che possibilmente il mondo dove vivremo noi ignori che ella esiste. Pensa che anche lei, forse, sarà più contenta di vivere lontana da te, la cui presenza le causerebbe un continuo rimorso. Tu dici che é invecchiata dal dolore, dalle privazioni, miserabile e malata; ma di chi la colpa se non sua? Per te, ed anche per lei, è meglio che ella si trovi in quello stato; così cesserà di vagabondare, e, non ti disonorerà più; ma che ella, dopo averti oltraggiato quando era sana e giovane, non si faccia un'arma della miseria e della debolezza per richiedere il sacrifizio della tua felicità! ... Ah, questo no, non devi permetterlo mai! No, non è possibile che tu compia una aberrazione fatale! A meno che tu non mi ami più e colga l'occasione per ... Ma no, no, no! Neppure voglio dubitare di te, della tua lealtà e del tuo amore! Anania, ritorna in te, ti ripeto, non essere malvagio e crudele con me, che ti diedi tutti i miei sogni, tutta la mia giovinezza, tutto il mio avvenire, mentre vuoi essere generoso verso chi ti ha odiato e rovinato. Abbi pietà ... vedi ... io piango, io ti imploro, anche per te, che vorrei veder felice come sempre sognai ... Ricordati tutto il nostro amore, il nostro primo bacio, i giuramenti, i sogni, i progetti, tutto, tutto ricorda! Fa che tutto non si risolva in un pugno di cenere; fa che io non muoia di dolore; fa che tu stesso non abbi a pentirti del tuo pazzo procedere. Se non vuoi dar retta ai miei consigli interroga persone serie, persone di Dio, e vedrai che tutti ti diranno qual è il tuo vero dovere, che tutti ti diranno di non essere ingrato, né malvagio. Ricorda, Anania, ricorda! Anche ieri notte mi dicevi che dalla vetta del Gennargentu gridasti il tuo amore, proclamandolo eterno. Dunque mentivi; anche ieri notte mentivi? E perché? ... Perché mi tratti così! Che ho fatto io per meritarmi tanto dolore? Possibile che tu non ricordi come ti ho sempre amato? Ricordi una sera che io stavo alla finestra e tu mi buttasti un fiore, dopo averlo baciato? Io conservo quel fiore per ornarne il mio vestito da sposa; e dico conservo perché son certa che tu sarai il mio sposo diletto, che tu non vorrai far morire la tua Margherita (e il tuo sonetto lo ricordi?), che saremo tanto felici, nella nostra casetta, soli soli col nostro amore ed il nostro dovere. Sono io che aspetto da te, subito, una parola di speranza. Dimmi che tutto fu un sogno tormentoso; dimmi che la ragione è ritornata in te, e che ti penti d'avermi fatto soffrire. Domani notte, o meglio stanotte, perché è già passata la una, ti aspetto; non mancare; vieni, adorato, vieni, diletto mio, mio amato sposo, vieni: io ti aspetterò come il fiore aspetta la rugiada dopo una giornata di sole ardente; vieni, fammi rivivere, fammi dimenticare; vieni, adorato, le mie labbra, ora bagnate d'amaro pianto, si poseranno sulla tua bocca amata come ... «No! no! no!», disse convulso Anania, torcendo la lettera senza leggerne le ultime righe. «Non verrò! Sei vile, vile, vile! Morrò ma non mi vedrai mai più.» Coi fogli stretti nel pugno si gettò sul letto, e nascose il viso sul guanciale, mordendolo, comprimendo i singhiozzi che gli gonfiavano la gola. Un fremito di passione lo percorreva tutto, dai piedi alla nuca; le invocazioni di Margherita gli davano un desiderio cupo dei baci di lei, e a lungo lottò acerbamente contro il folle bisogno di rileggere la lettera sino in fondo. Ma a poco a poco riprese coscienza di sé e di ciò che provava. Gli parve di aver veduto Margherita nuda, e di sentire per lei un amore delirante e un disgusto così profondo che annientava lo stesso amore. Come ella era vile! Vile sino alla spudoratezza. Vile e coscientemente vile. La Dea ammantata di maestà e di bontà aveva sciolto i suoi veli aurei ed appariva ignuda, impastata d'egoismo e di crudeltà; la Minerva taciturna apriva le labbra per bestemmiare; il simbolo s'apriva, si spaccava come un frutto, roseo al di fuori, nero e velenoso all'interno. Ella era la Donna, completa, con tutte le sue feroci astuzie. Ma il maggior tormento di Anania era il pensare che ella indovinava i suoi più segreti sentimenti e che aveva ragione: sopratutto ragione di rimproverargli l'inganno usatole, e di pretendere da lui il compimento dei suoi doveri di gratitudine e d'amore. «È finita!», pensò. «Doveva finire così.» Si rialzò e rilesse la lettera: ogni parola lo offendeva, lo disgustava e lo umiliava. Margherita dunque lo aveva amato per compassione, pur credendolo vile come era vile lei. Ella forse aveva sperato di farsi di lui un servo compiacente, un marito umile; o forse non aveva pensato a nulla di tutto questo; ma lo aveva amato solo per istinto, perché era stato il primo a baciarla, il solo a parlarle d'amore. «Ella non ha anima!», pensò il disgraziato. «Quando io deliravo, quando io salivo alle stelle e mi esaltavo per sentimenti sovrumani, ella taceva perché nella sua anima era il vuoto, ed io adoravo il suo silenzio che mi sembrava divino; ella ha parlato solo quando si destarono i suoi sensi, e parla ora che la minaccia il pericolo volgare del mio abbandono. Non ha anima né cuore. Non una parola di pietà: non il pudore di mascherare almeno il suo egoismo. Eppoi come è astuta! La sua lettera è copiata e ricopiata, sebbene riveli la grossolana ignoranza di lei: quanti "che", ci sono! Mi sembrano martelli, pronti a fracassarmi il cranio. Le ultime righe, poi, sono un capolavoro ... ella sapeva già, prima di scriverle, l'effetto che dovevano produrre ... ella è più vecchia di me ... ella mi conosce perfettamente, mentre io comincio appena adesso a conoscerla ... ella vuole attirarmi al convegno perché è sicura che se io ci vado mi inebrio e divento vile ... Inganno! inganno! inganno! Come la disprezzo ora! Non una parola buona, non uno slancio generoso, niente, niente! Ah, che rabbia!» (torse di nuovo la lettera) «Vi odio tutti; vi odierò sempre! Voglio essere cattivo anch'io; voglio farvi soffrire, schiantare, morire ... Cominciamo!» Prese il sacchettino ancora avvolto nel fazzoletto di colore, e poco dopo lo mandò a zia Grathia. «Tutto è finito!», ripeteva ogni momento. E gli pareva di camminare nel vuoto, fra nuvole fredde, come sul Gennargentu; ma adesso invano guardava sotto, intorno a sé: non via di scampo; tutto nebbia, vertigine, orrore. Durante la giornata pensò cento volte al suicidio; s'informò se poteva presentarsi subito agli esami per maestro elementare o per segretario comunale; andò nella bettola e presa fra le braccia la bella Agata (già fidanzata con Antonino), la baciò sulle labbra. Turbini di odio e di amore per Margherita gli attraversavano l'anima; più rileggeva la lettera più ella gli sembrava perfida; più sentiva d'allontanarsele più l'amava e la desiderava. Baciando Agata ricordava l'impressione violenta che il bacio della bella paesana gli aveva destato un giorno; anche allora Margherita era tanto lontana da lui, un mondo di poesia e di mistero li divideva; e questo stesso mondo, crollato, li divideva ancora. «Che hai?», gli chiese Agata, lasciandosi baciare. «Vi siete bisticciati, con lei? Perché mi baci?» «Perché mi piaci ... Perché sei puzzolente ... » «Tu hai bevuto», diss'ella, ridendo. «Se ti piacciono le donne così, puoi andare da Rebecca ... Se però Margherita viene a saperlo!» «Taci!», diss'egli, adirandosi. «Non pronunziar neppure il suo nome ... » «Perché?», chiese Agata, freddamente maligna. «Non diverrà mia cognata? È forse diversa da noi? È una donna come noi. Perché noi siamo povere? Chissà poi se anch'ella sarà ricca! Se fosse stata certa di ciò, forse ti avrebbe tenuto sempre a bada finché trovava un partito migliore di te!» «Se non la finisci ti batto ... », diss'egli furibondo. Ma l'insinuazione di Agata accrebbe i suoi sentimenti: oramai egli riteneva Margherita capace di tutto. Verso sera si mise a letto, con la febbre, deciso a non alzarsi, l'indomani, affinché Margherita venisse a sapere ch'egli era malato, e ne soffrisse. Giunse ad immaginarsi una segreta visita di lei; e pensando alla scena che ne sarebbe seguita, tremava di dolcezza. Ma ad un tratto questo sogno gli apparve qual era, puerilmente sentimentale, e ne provò vergogna. Si alzò ed uscì. Alla solita ora si trovò davanti al portone di Margherita. Ella stessa aprì. Si abbracciarono e si misero entrambi a piangere; ma appena Margherita cominciò a parlare, egli sentì un invincibile disgusto per lei, poi un senso di gelo. No, egli non l'amava più, non la desiderava più. Si alzò e andò via senza pronunziar parola. Giunto in fondo alla strada tornò indietro, s'appoggiò al portone e chiamò: «Margherita!». Ma il portone rimase chiuso.

chiedeva Anania, corrugando le ciglia, con un impeto di odio istintivo verso quel padre sconosciuto che non veniva a trovarlo, e certo che sua madre piangeva per il suo abbandono. «Ecco», diceva Zuanne, interrogando i suoi ricordi, «è bello, alto, sai, con gli occhi come lucciole. Ha un cappotto da soldato.» «Dove si trova?» «A Nuoro. Nuoro è una città grande, che si vede dal Gennargentu. Io conosco il Monsignore di Nuoro perché mi ha cresimato.» «Ci sei stato tu, a Nuoro?» «Sì, io ci sono stato», mentiva Zuanne. «Non è vero, tu non ci sei stato. Io mi ricordo che tu non ci sei stato.» «Io ci sono stato prima che tu nascessi; ecco, se vuoi saperlo!» Anania, dopo questi discorsi, seguiva volentieri Zuanne anche quando aveva freddo, e continuamente gli domandava notizie di suo padre, di Nuoro, della strada che bisognava percorrere per arrivare alla città. E quasi ogni notte sognava questa strada, e vedeva una città con tante chiese, con palazzi, circondata da montagne ancora più alte del Gennargentu. Una sera, agli ultimi di novembre, Olì, dopo essere stata a Nuoro per la festa delle Grazie, litigò con la vedova; già da qualche tempo ella si bisticciava con tutte le persone che incontrava, e percuoteva i bambini. Anania la sentì piangere tutta la notte, e sebbene il giorno prima ella lo avesse bastonato, provò una grande pietà per lei: avrebbe voluto dirle: «Tacete, mamma mia: Zuanne dice che se fosse come me, quando sarebbe grande andrebbe a Nuoro per cercare il padre e imporgli di venirvi a trovare: io ci voglio andare ora, invece: lasciatemi andare, mamma mia ... ». Ma non osava fiatare. Era notte ancora quando Olì si alzò: scese in cucina, risalì, ritornò a scendere, rientrò con un fagotto. «Alzati», disse al ragazzetto. Poi lo aiutò a vestirsi e gli mise intorno al collo una catenella dalla quale pendeva un sacchettino di broccato verde, fortemente cucito. «Cosa c'è dentro?» chiese il bimbo, palpando il sacchettino. «Una ricetta che ti porterà fortuna; me la diede un vecchio frate che incontrai in viaggio ... Tieni sempre il sacchettino sul seno nudo; non perderlo mai.» «Come era il vecchio frate?», chiese Anania, pensieroso. «Aveva una lunga barba? Un bastone?» «Sì, una lunga barba, un bastone ... » «Che fosse lui?» «Chi lui?» «Gesù Cristo Signore ... » «Forse ... », disse Olì. «Ebbene, promettimi che non perderai né darai mai a nessuno il sacchettino. Giuramelo.» «Ve lo giuro, sulla mia coscienza!», rispose Anania gravemente. «È forte la catenella?» «È forte.» Olì prese il fagotto, strinse nella sua la manina del fanciullo e lo condusse in cucina dove gli diede una scodellina di caffè e un pezzo di pane. Poi gli gettò sulle spalle un sacchetto logoro e lo trascinò fuori. Albeggiava. Faceva un freddo intensissimo; la nebbia riempiva la valle, copriva l'immensa chiostra dei monti: solo qualche alta cresta nevosa emergeva argentea simile al profilo d'una nuvola bianca, ed il monte Spada appariva or sì or no come un enorme blocco di bronzo tra il velo mobile della nebbia. Anania e la madre attraversarono le viuzze deserte, passarono davanti al grande panorama occidentale sommerso nella nebbia, cominciarono a scendere lo stradale grigio e umido che si sprofondava giù giù, in una lontananza piena di mistero. Anania si sentì battere il cuoricino: quella strada grigia, vigilata dalle ultime case di Fonni i cui tetti di scheggie parevano grandi ali nerastre spennacchiate, quella strada che scendeva continuamente verso un abisso ignoto colmo di nebbia, era la strada per Nuoro. Madre e figlio camminavano frettolosi: spesso il bambino doveva correre, ma non si stancava. Era abituato a camminare, ed a misura che scendeva si sentiva più agile, caldo, vispo come un uccello. Più volte chiese: «Dove andiamo, mamma mia?». «A cogliere castagne», diss'ella una volta, e poi: «in campagna: lo vedrai». Anania scendeva, correva, inciampava, rotolava: ogni tanto si palpava il petto in cerca del sacchettino. La nebbia diradavasi; in alto il cielo appariva d'un azzurro umido solcato come da grandi pennellate di biacca: le montagne si delineavano livide nella nebbia. Un raggio giallo di sole illuminava finalmente la chiesetta di Gonare sulla cima del monte piramidale, che sorgeva su uno sfondo di nuvole color piombo. «Andiamo là?», domandò Anania, additando un bosco di castagni, umidi di nebbia e carichi di frutti spinosi spaccati. Un uccellino strideva nel silenzio dell'ora e del luogo. «Più avanti», disse Olì. Anania riprese le sue corse sfrenate: mai s'era spinto tanto avanti nelle sue escursioni, ed ora questo continuo scendere a valle, la natura diversa, l'erba che copriva le chine, i muri verdi di musco, le macchie di nocciuoli, i cespugli coperti di bacche rosse, gli uccellini che pigolavano, tutto gli riusciva nuovo e piacevole. La nebbia svaniva, il sole trionfante schiariva le montagne; le nuvole sopra monte Gonare avevano preso un bel colore giallo- roseo, sul cui sfondo la chiesetta appariva chiara e sembrava vicina a chi la guardava. «Ma dov'è questo diavolo di luogo?», chiese Anania, volgendosi a sua madre con le manine aperte, e fingendosi sdegnato. «Subito. Sei stanco?» «Non sono stanco!», egli gridò, rimettendosi a correre. Arrivò però il momento in cui egli cominciò a sentire un piccolo dolore alle ginocchia: allora rallentò la corsa, si pose a fianco di Olì e cominciò a chiacchierare; ma la donna, col suo fagotto sul capo, il viso livido e gli occhi cerchiati, gli badava appena e rispondeva distratta. «Torneremo stanotte?», egli chiedeva. «Perché non me lo avete lasciato dire a Zuanne? È lontano il bosco? È a Mamojada?» «Sì, a Mamojada.» «Ah, a Mamojada? Quando c'è la festa a Mamojada? È vero che Zuanne è stato a Nuoro? Questa è la strada di Nuoro, io lo so, e ci vogliono dieci ore, a piedi, per arrivare a Nuoro. Voi siete stata a Nuoro? Quando è la festa a Nuoro?» «È passata, era l'altro giorno», disse Olì, scuotendosi. «Ti piacerebbe stare a Nuoro?» «Altro che! E poi ... e poi ... » «Tu sai che a Nuoro c'è tuo padre», rispose Olì, indovinando il pensiero del fanciullo. «Ti piacerebbe stare con lui?» Anania ci pensò; poi disse con vivacità, corrugando le sopracciglia: «Sì!.» A che pensava egli dicendo quel «sì»? La madre non indagò oltre; chiese soltanto: «Vuoi che ti conduca da lui?». «Sì!» Verso mezzogiorno si fermarono presso un orto dove una donna, con le sottane cucite fra le gambe a guisa di calzoni, zappava vigorosamente: un gatto bianco le andava dietro, slanciandosi di tanto in tanto contro una lucertola verde che appariva e scompariva fra le pietre del muro. Anania ricordò sempre questi particolari. La giornata s'era fatta tiepida, il cielo azzurro; le montagne, come asciugantisi al sole, apparivano grigie, chiazzate di boschi scuri; il sole, quasi scottante, riscaldava l'erba e faceva scintillare l'acqua dei ruscelli. Olì sedette per terra, aprì il fagotto e chiamò Anania che si era arrampicato sul muro per guardare la donna ed il gatto. In quel momento apparve allo svolto della strada la corriera postale di Fonni, guidata da un omone rosso coi baffi gialli. Olì avrebbe voluto nascondersi; ma l'omone, che pareva ridesse continuamente perché aveva le guancie gonfie, la vide e gridò: «Dove vai, donnina?». «Dove mi pare e piace», ella rispose a voce bassa. Anania, ancora arrampicato sul muro, guardò entro la vettura, e vedendola vuota disse al carrozziere: «Prendetemi, zio Battista, prendetemi nella vettura, prendetemi». «Dove andate? Dunque?», gridò l'omone, rallentando la corsa. «Ebbene, che tu sii sbranato, andiamo a Nuoro. Vuoi farci la carità di prenderci un po' in vettura?», disse Olì, mangiando. «Siamo stanchi come asini.» «Senti», rispose l'omone, «va al di là di Mamojada, intanto che io faccio la fermata. Vi prenderò.» Egli tenne la promessa: giunto al di là di Mamojada fece sedere in serpe accanto a lui i due viandanti e cominciò a chiacchierare con Olì. Anania, veramente stanco, sentiva un vivo piacere nel trovarsi seduto fra sua madre e l'omone che scuoteva la frusta, davanti ai freschi paesaggi dallo sfondo azzurrino che si disegnavano nell'arco del mantice. Le grandi montagne erano scomparse, scomparse per sempre, ed il bambino pensava a quello che avrebbe detto Zuanne sapendo di questo viaggio. «Quando tornerò quante cose avrò da dirgli!», pensava. «Gli dirò: io sono stato in carrozza e tu no.» «Perché diavolo vai a Nuoro?», insisteva l'omone, rivolto ad Olì. «Ebbene, vuoi saperlo?», ella rispose finalmente. «Vado per mettermi a servire. Ho già fatto il contratto con una buona signora. A Fonni non potevo più vivere; la vedova di Zuanne Atonzu mi ha cacciato di casa.» «Non è vero», pensò Anania. Perché sua madre mentiva? Perché non diceva la verità, che cioè andava a Nuoro per cercare il padre di suo figlio? Basta, se ella diceva le bugie doveva aver le sue buone ragioni; e Anania non indagò oltre, tanto più che aveva sonno. Chinò la testina sul grembo della madre e chiuse gli occhi. «Chi c'è ora nella cantoniera?», chiese ad un tratto Olì. «Mio padre non c'è più?» «Non c'è più.» Ella diede un profondo sospiro: la vettura si fermò un momento, poi riprese la sua corsa, ed Anania finì di addormentarsi. A Nuoro egli provò una forte delusione. Era questa la città? Sì, le case erano più grandi di quelle di Fonni, ma non tanto come egli s'era immaginato: le montagne poi, cupe sul cielo violaceo del freddo tramonto, erano addirittura piccole, quasi per far ridere. Inoltre i bambini che s'incontravano per le strade, le quali, a dire il vero, gli parevano molto larghe, lo impressionavano stranamente perché vestivano e parlavano in modo diverso dai bambini fonnesi. Madre e figlio girovagarono per Nuoro fino al cader della sera, ed infine entrarono in una chiesa. C'era molta gente; l'altare ardeva di ceri, un canto dolce s'univa ad un suono ancor più dolce che veniva non si sa da dove. Ah, ciò parve veramente bello ad Anania, che pensava a Zuanne ed al piacere di narrargli quanto ora vedeva. Olì gli disse all'orecchio: «Vado a vedere se c'è l'amica presso cui andremo a dormire; non muoverti di qui finché non torno io ... ». Egli rimase solo in fondo alla chiesa; sentiva un po' di paura, ma si distraeva guardando la gente, i ceri, i fiori, i santi. Eppoi l'incoraggiava il pensiero dell'amuleto nascosto sul suo seno. Ad un tratto si ricordò di suo padre. Ah, dov'era egli? Perché dunque non andavano a trovarlo? Olì tornò presto; attese che la novena fosse terminata, prese Anania per la mano e lo fece uscire per una porta diversa da quella ov'erano entrati. Camminarono per diverse vie, finché non vi furono più case: era già sera, faceva freddo, Anania aveva fame e sete, si sentiva triste e pensava al focolare della vedova ed alle castagne ed alle chiacchiere di Zuanne. Arrivarono in un viottolo chiuso da una siepe, dietro la quale si vedevano le montagne che avevano colpito il bimbo per la loro piccolezza. «Senti», disse Olì, e la voce le tremava, «hai visto quell'ultima casa con quel gran portone aperto?» «Sì.» «Là dentro c'è tuo padre: tu vuoi vederlo, non è vero? Senti: ora torniamo indietro, tu entri nel portone, di fronte al quale vedrai una porta pure aperta: tu entri là e guardi; c'è un molino ove fanno l'olio; un uomo alto, con le maniche rimboccate, a capo scoperto, va dietro al cavallo. Quello è tuo padre.» «Perché non venite dentro anche voi?», domandò il bimbo. Olì cominciò a tremare. «Io entrerò dopo di te: tu va innanzi; appena entrato dici: "Io sono il figlio di Olì Derios". Hai capito? Andiamo.» Ritornarono indietro; Anania sentiva sua madre tremare e battere i denti. Giunti davanti al portone ella si chinò, accomodò il sacchetto sulle spalle del bimbo, e lo baciò. «Va, va», disse, spingendolo. Anania entrò nel portone; vide l'altra porta, illuminata, ed entrò: si trovò in un luogo nero nero, dove una caldaia bolliva sopra un forno acceso, e un cavallo nero faceva girare una grande e pesante ruota oleosa entro una specie di vasca rotonda. Un uomo alto, con le maniche rimboccate, a capo scoperto, con le vesti sudice, nere di olio, andava appresso al cavallo, rimuovendo entro la vasca, con una pala di legno, le olive frantumate dalla ruota. Altri due uomini andavano e venivano, spingendo in avanti e indietro una spranga infilata in un torchio, dal quale colava l'olio nero e fumante. Davanti al fuoco stava seduto un ragazzetto con un berretto rosso; e fu questo ragazzetto che primo si accorse del bimbo straniero. Lo fissò bene, e credendolo un mendicante gli impose aspramente: «Va via!». Anania, timido, immobile sotto il suo sacchetto, non rispose. Vedeva tutto confuso ed aspettava che sua madre entrasse. L'uomo dalla pala lo guardò con occhi lucenti, poi s'avanzò e chiese: «Ma che cosa vuoi?». Quello era suo padre? Anania lo guardò timidamente, pronunziando con vocina sottile le parole suggeritegli da sua madre: «Io sono il figlio di Olì Derios». I due uomini che giravano il torchio si fermarono di botto, e uno di essi gridò: «Tuo figliooo!». L'uomo alto gettò per terra la pala, si curvò su Anania, lo fissò, lo scosse, gli chiese: «Chi ... chi ti ha mandato? Cosa vuoi? Dove è tua madre?». «È fuori ... adesso verrà ... » Il mugnaio corse fuori, seguìto dal ragazzetto col berretto rosso; ma Olì era scomparsa e nulla più si seppe di lei. Avvertita del caso accorse zia Tatàna, la moglie del mugnaio, una donna non più giovane, ma ancora bella, grassa e bianca, con dolci occhi castanei circondati di piccole rughe, e un po' di baffi biondi sul labbro rialzato. Ella era tranquilla, quasi lieta; appena entrò nel molino prese Anania per gli omeri, si chinò, lo esaminò attentamente. «Non piangere, poverino», gli disse con dolcezza. «Or ora ella verrà. E voi zitti!», impose agli uomini e al ragazzetto che si immischiava forse un po' troppo nella faccenda e fissava Anania con due piccoli occhi turchini cattivi e un sorriso beffardo nel rosso visino paffuto. «Dov'è andata? Non viene dunque? Dove la ritroverò?», si domandava con disperazione il piccolo abbandonato, piangendo sconsolatamente. Ella avrà avuto paura. Dove sarà adesso? Perché non viene? E quell'uomo lurido, oleoso, cattivo, quello è suo padre? Le carezze e le dolci parole di zia Tatàna lo confortarono alquanto; cessò di piangere, si leccò le lagrime e se le sparse di qua e di là delle guance, col gesto che gli era abituale; poi subito pensò alla fuga. La donna, il mugnaio, gli uomini, il ragazzetto, tutti gridavano, imprecavano, ridevano e si bisticciavano. «È proprio tuo figlio. Tale e quale!», diceva la donna, rivolta al mugnaio. E il mugnaio gridava: «Non lo voglio, no, non lo vogliooo! ... ». «Sei ben scomunicato, sei senza viscere. Santa Caterina mia, è possibile che vi sieno uomini così malvagi?», diceva zia Tatàna, un po' scherzando, un po' sul serio. «Ah, Anania, Anania, sei sempre tu!» «E chi dunque vuoi ch'io sia? Ora vado subito in Questura.» «Tu non andrai in nessun posto, stupido! Tu vuoi tirar fuori di tasca le tue corna per mettertele sul capo!», osservò energicamente la donna. Ma siccome egli insisteva, ella disse: «Ebbene, andrai domani. Ora finisci il tuo lavoro, e ricordati ciò che diceva il re Salomone: "La furia della sera lasciala alla mattina ... "». I tre uomini tornarono al lavoro: ma spingendo sotto la ruota la pasta delle olive frante, il mugnaio gridava, borbottava, imprecava, mentre gli altri lo deridevano e la moglie gli diceva tranquillamente: «Via, non prenderti poi la porzione più grande. Dovrei arrabbiarmi io, Santa Caterina mia! Ricordati, Anania, che Dio non paga il sabato». «Taci, figliolino mio», disse poi al bimbo, che singhiozzava nuovamente, «domani aggiusteremo tutto. Ecco, così gli uccelli volano dal nido appena hanno le ali.» «Ma sapevate voi che quest'uccellino esisteva?», chiese ridendo uno dei due uomini che spingevano la spranga. «Dove sarà andata tua madre? Com'è fatta, dimmi?», domandò il ragazzetto, mettendosi davanti ad Anania. «Bustianeddu», gridò il mugnaio, «se non te ne vai ti mando via a calci ... » «E provate un po'!», diss'egli, spavaldo. «E diglielo dunque tu come è fatta Olì!», esclamò uno dei due uomini. L'altro rise tanto che dovette abbandonar la spranga e premersi il petto. Intanto zia Tatàna, premurosa e carezzevole, interrogava il bimbo, esaminandogli le povere vestine. Egli raccontò tutto con vocina incerta e lamentosa, ogni tanto interrotta da singhiozzi. «Poverino, poverino! Uccellino senz'ali: senz'ali e senza nido!», diceva pietosamente la donna. «Taci, anima mia; tu avrai fame, non è vero? Adesso andiamo a casa, e zia Tatàna ti darà da mangiare, e poi ti manderà a letto, con l'angelo custode, e domani aggiusteremo tutte le cose.» Con questa promessa ella lo condusse in una casetta vicina al molino, e gli diede da mangiare pane bianco e formaggio, un uovo ed una pera. Mai Anania aveva mangiato tanto bene: e la pera, dopo le carezze materne e le dolci parole di zia Tatàna, finì di confortarlo. «Domani ... », diceva la donna. «Domani ... », ripeteva il fanciulletto. Mentre egli mangiava, zia Tatàna, che preparava la cena per il marito, lo interrogava e gli dava buoni consigli, avvalorandoli con l'affermare che erano già stati dettati dal re Salomone ed anche da Santa Caterina. Ad un tratto, sollevando gli occhi ella scorse alla finestruola il visetto paffuto di Bustianeddu. «Va via», disse, «va via, piccola rana. Fa freddo.» «Lasciatemi dunque entrare», egli supplicò. «Fa freddo davvero.» «Va dunque al molino.» «No, c'è mio padre che mi ha mandato via. Ih, quanta gente è venuta là!» «Entra dunque, povero orfano, anche tu senza madre! Che cosa dice zio Anania? Grida ancora?» «E lasciatelo gridare!», consigliò Bustianeddu, sedendosi accanto ad Anania, e raccogliendo e rosicchiando il torso della pera, abbastanza rosicchiato e già buttato via dal piccolo straniero. «Son venuti tutti», raccontò poi, parlando e gestendo come un uomo maturo. «Maestro Pane, mio padre, zio Pera, quel bugiardone di Franziscu Carchide, zia Corredda, tutti vi dico insomma ... » «Che cosa dicevano?» chiese la donna con viva curiosità. «Tutti dicevano che dovete adottare questo bambino. E zio Pera diceva ridendo: "Anania, e a chi dunque lascerai i tuoi beni, se non tieni il bambino?". Zio Anania lo rincorse con la pala; tutti ridevano come pazzi.» La donna dovette esser vinta dalla curiosità, perché ad un tratto raccomandò a Bustianeddu di non lasciar solo Anania ed uscì per tornare al molino. Rimasti soli, Bustianeddu cominciò a fare qualche confidenza al piccolo abbandonato. «Mio padre ha cento lire nel cassetto del canterano, ed io so dove è la chiave. Noi abitiamo qui vicino, e abbiamo un podere per il quale paghiamo trenta lire di imposta: ma l'altra volta venne il commissario e sequestrò l'orzo. Cosa c'è qui, dentro il tegame, che fa cra-cra-cra? Ti pare che prenda fumo?», sollevò il coperchio e guardò. «Diavolo, ci son patate. Credevo fosse altro. Ora assaggio.» Con due ditina prese una fetta bollente, ci soffiò sopra più volte, se la mangiò; ne prese un'altra ... «Che cosa fai?», disse Anania, con un po' di dispetto. «Se viene quella donna! ... » «Noi sappiamo fare i maccheroni, io e mio padre», riprese imperturbato Bustianeddu. «Tu li sai fare? E il sugo?» «Io no», disse Anania, melanconico. Pensava sempre a sua madre, assediato da tristi domande. Dove era andata? Perché non era entrata nel molino? Perché lo aveva abbandonato e dimenticato? Adesso che aveva mangiato e sentiva caldo, egli aveva voglia di piangere ancora, di fuggire. Fuggire! Cercar sua madre! Questa idea lo afferrò tutto e non lo lasciò più. Poco dopo rientrò zia Tatàna, seguìta da una donna lacera, barcollante, che aveva un gran naso rosso ed una enorme bocca livida dal labbro inferiore penzolante. «È questo ... è questo ... l'uccellino? ... », chiese balbettando l'orribile donna: e guardò con tenerezza il piccolo abbandonato. «Fammi vedere la tua faccina, che tu sii benedetto! È bello come una stella, in verità santa! E lui non lo vuole? Ebbene, Tatàna Atonzu, raccoglilo tu, raccoglilo come un confetto ... » Si avvicino e baciò Anania, che torse il viso con disgusto perché l'enorme bocca della donna puzzava d'acquavite e di vino. «Zia Nanna», disse Bustianeddu, facendo cenno di bere, «oggi l'avete presa giusta!» «Co ... co ... cosa sai tu? Che fai qui? Moscherino, povero orfano, va a letto.» «Anche tu dovresti andare a letto!», osservò zia Tatàna. «Andate, andate via tutti e due: è tardi.» Spinse dolcemente l'ubriaca, ma prima d'uscire ella chiese da bere. Bustianeddu riempì d'acqua una scodella e gliela porse: ella la prese con buona grazia, ma appena v'ebbe guardato dentro, scosse il capo e la rifiutò. Poi andò via traballando. Zia Tatàna mandò via anche Bustianeddu e chiuse la porta. «Tu sarai stanco, anima mia; adesso ti metterò a dormire», disse ad Anania, conducendolo in una grande camera attigua alla cucina e aiutandolo a spogliarsi. «Non aver paura, sai; domani tua madre verrà, o andremo a cercarla noi. Sai farti il segno della croce? Sai il Credo? Sì, bisogna recitare il Credo tutte le notti. Poi io ti insegnerò tante altre preghiere, una delle quali per San Pasquale che ci avvertirà dell'ora della nostra morte. E così sia. Ah, tieni anche la rezetta? E come è bella! Sì, bravo, San Giovanni ti proteggerà: sì, egli era un bimbo ignudo come te, eppure battezzò Gesù Signore Nostro. Dormi, anima mia: in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Amen.» Anania si trovò in un gran letto dai guanciali rossi; zia Tatàna lo coprì bene ed uscì, lasciandolo al buio. Egli mise la manina sull'amuleto, chiuse gli occhi e non pianse, ma non poté dormire. Domani ... Domani ... Ma quanti anni erano trascorsi dopo la partenza da Fonni? Che pensava Zuanne non vedendo ritornare l'amico? Pensieri confusi, immagini strane gli passavano nella piccola mente; ma la figura della madre non lo abbandonava mai. Dov'era andata? Aveva freddo? Domani la rivedrebbe ... Domani ... Se non lo conducevano da lei egli fuggirebbe ... Domani ... Sentì il mugnaio rientrare e litigare con la moglie: il cattivo uomo gridava: «Non lo voglio! Non lo voglio!». Poi tutto fu silenzio. Ad un tratto qualcuno aprì l'uscio, entrò, camminò in punta di piedi, s'avvicinò al letto e sollevò cautamente la coperta. Un baffo ispido sfiorò lievemente la guancia di Anania, ed egli, che fingeva di dormire, socchiuse appena appena un occhio e vide che chi l'aveva baciato era suo padre. Pochi momenti dopo zia Tatàna entrò e si coricò nel gran letto, a fianco di Anania, che la sentì lungamente pregare bisbigliando e sospirando.

Lo abbandonerò una seconda volta, ora che non vorrei lasciarlo più ... lo abbandonerò nuovamente per espiare la colpa del primo abbandono ... "». «Ella fece arrotare il coltello a serramanico, che teneva sempre con sé ... » « ... Quando ricevemmo il sacchettino entro il fazzoletto colorato, ella diventò livida; poi squarciò un po' il sacchettino e pianse ... » « ... Sì, ella s'è tagliata la gola. Sì, stamattina alle sei, mentre io ero alla fontana. Quando rientrai la trovai in un lago di sangue: era ancora viva, con gli occhi spalancati orribilmente ... » « ... Tutta la giustizia, - il brigadiere, il pretore, il cancelliere, - invase la casa. Ah, pareva l'inferno! Il popolo s'affollò nella strada, le donne piangevano come bambine. Il pretore sequestrò il coltello, mi guardò con occhi terribili, mi chiese se tu avevi minacciato tua madre. Poi vidi che anch'egli aveva le lagrime agli occhi ... » «Ella visse fin quasi a mezzogiorno; agonia per tutti. Figlio, tu sai se nella mia vita io vidi cose terribili; ma nessuna come questa. No, non si muore di dolore e di pietà, poiché io oggi non sono morta. Ah, perché siamo nati?» ella concluse, piangendo. Anania provò un indicibile turbamento nel veder piangere quella donna strana, che il dolore pareva avesse da lungo tempo pietrificato; ma egli, egli che la notte prima aveva pianto d'amore fra le braccia di Margherita, egli non poté piangere di rimorso e d'angoscia: solo qualche singhiozzo convulso gli stringeva ogni tanto la gola. Si alzò e pregò la vedova di lasciarlo rientrare un momento nella camera. «Voglio vedere una cosa ... » disse, con voce tremula da bambino. La vedova riprese il lume, riaperse l'uscio, lasciò passare Anania, e attese: così triste e nera, con quell'antica lucerna di ferro in mano, ella pareva la figura della Morte in attesa vigilante. Anania si avvicinò in punta di piedi al tavolinetto, sul quale aveva notato il suo sacchettino, squarciato, deposto su un piatto di vetro. Prima di toccarlo lo guardò quasi con diffidenza, poi lo prese e lo vuotò. Ne uscì fuori una pietruzza gialla, e cenere, cenere annerita dal tempo. Cenere! Anania palpò a lungo, con tutte e due le mani, quella cenere nera che forse era l'avanzo di qualche ricordo d'amore di sua madre; quella cenere che aveva posato lungamente sul suo petto, sentendone i palpiti più profondi. E in quell'ora memoranda della sua vita, della quale capiva di non sentire ancora tutta la solenne significazione, quel mucchiettino di cenere gli parve un simbolo del destino. Sì, tutto era cenere: la vita, la morte, l'uomo; il destino stesso che la produceva. Eppure, in quell'ora suprema, vigilato dalla figura della vecchia fatale che sembrava la Morte in attesa, e davanti alla spoglia della più misera delle creature umane, che dopo aver fatto e sofferto il male in tutte le sue manifestazioni era morta per il bene altrui, egli ricordò che fra la cenere cova spesso la scintilla, seme della fiamma luminosa e purificatrice, e sperò, e amò ancora la vita.

Vita intima

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Vertua Gentile, Anna 1 occorrenze

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