Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandono

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Malombra

670404
Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

Si potrebbe dire che nelle lettere anonime delle belle donne c'è sempre un'ombra di riservatezza e in quelle delle brutte c'è sempre un'ombra di abbandono; ma sarebbe volgarità. È l'istinto che bisogna avere, l'istinto della bellezza. Quando Lei, marchesina, entra in un primo piano, bisogna che lo studente, assopito al quarto sul Diritto Costituzionale qui dell'amico Finotti, trasalisca! Che ne dice Lei, conte?" Ma Nepo non dava retta alla conversazione. Nepo stava guardando con grande interesse il Palazzo. Pensava se sua madre sarebbe in loggia, se avrebbe in mano il ventaglio verde o il ventaglio nero e rosso o il fazzoletto bianco. Se la contessa non era in loggia, voleva dire che non aveva potuto fare il gran discorso; se c'era, il ventaglio verde significava mala riuscita, il rosso e nero buona; il fazzoletto bianco voleva dire Marina avrà tutto. Egli si scosse alla domanda del Vezza e rimase a bocca aperta. Non aveva capito. Marina si strinse impercettibilmente nelle spalle e parlò al Finotti. Il Rico, ch'era sempre molestato e canzonato da Sua Eccellenza, voltò la testa e lo sbirciò con due occhi scintillanti di malizia. "Bada a vogare, imbecille" gli disse a mezza voce Sua Eccellenza. Il Rico rise silenziosamente mordendosi le labbra e tenne fermi sull'acqua i remi grondanti, per aspettare il battello che ad ogni tanto restava indietro. Si udì il Ferrieri discorrer forte. Il Vezza lo chiamò, e non avutane risposta, disse qualche cosa su lui e la signorina Steinegge. Marina porse una boccuccia come per dire "cattivo gusto" e l'altro sussurrò sorridendo. "Matematico!" "Va!" disse Marina al Rico. La prora lunga e sottile guizzò avanti dividendo le immobili acque verdi. Rade foglie addormentate su quello specchio le venivano incontro, passavano veloci al suo fianco si dilungavano a poppa, si perdevano. Anche il Palazzo le cresceva in faccia, si allargava, si alzava, spalancava porte e finestre; i cipressi, dietro quello, si staccavano dalla montagna e venivano incontro alla barca; la montagna stessa moveva dietro a loro. La macchia nera nel terzo arco della loggia diventava una donna, una matrona, la contessa Fosca con un farfallone rosso e nero sul petto. Si udì lo zampil lo del cortile, si udì la voce della contessa: "Siete qua, benedetti?" "Siamo qua. Bellissima gita, mamma, allegria perfetta, molti incidenti, nessun accidente. Ossia mi correggo, un accidente solo; mia cugina ha avuto molto spirito e io non ne ho avuto punto." Gridando questo, Nepo si adattò solennemente le lenti sul naso e contemplò Marina. Pareva un altro uomo. Aveva scosse le braccia per far scendere i manichini sino alle nocche delle dita e guardava sua cugina con un sorriso da trionfatore sciocco. Marina fece mostra di non aver inteso la sua impertinenza e si voltò a vedere se veniva il battello. Intanto la prora di Saetta e Nepo e il Rico e i commendatori e la dama e la bandiera entravano via via nella fredda oscurità della darsena, dove la voce di Nepo rimbombava già tra le grandi volte umide e l'acqua verde come una lastra di smeraldo. Egli scosse il capo per farsi cader le lenti dal naso, saltò vezzosamente a terra con le braccia aperte e le ginocchia piegate, porse la mano agli altri e poco mancò non li facesse stramazzar nell'acqua dalla lancia che il freddurista Vezza chiamava bilancia per la sua sensibilità ad ogni squilibrio di peso. Quando venne la volta di Marina, le stese ambedue le mani, strinse forte quelle di lei; ella corrugò un momento la fronte, saltò a terra e si sciolse. Sulle scale la comitiva incontrò Fanny addossata a un angolo, con gli occhi bassi. Li alzò con un sorrisetto su Nepo, che veniva ultimo. Pareva aspettarsi qualche cosa: ma Nepo, che aveva arrischiato i primi giorni ora una parolina ora una carezza silenziosa, le passò davanti senza neppur guardarla. Ella fece il viso scuro e scese lentamente. Il conte Cesare venne, molto festoso, a incontrare i suoi ospiti a capo della scala e fu gentilissimo con don Innocenzo. La contessa Fosca abbracciò Marina come se non l'avesse vista da dieci anni e non salutò Steinegge che al suo quarto inchino. Marina lasciò subito la sala dove si era raccolta tutta questa gente, e così fece Edith. Intanto il conte, il Ferrieri e don Innocenzo disputavano, in un canto, della nuova cartiera in relazione all'igiene e alla moralità del paese che, secondo il conte, ne avrebbe guadagnato poco. Don Innocenzo, inesperto entusiasta d'ogni progresso, sbalordito dalla descrizione del futuro edificio, delle macchine potenti commesse nel Belgio, per esso, era più roseo, non voleva veder guai. Gli altri s'erano aggruppati presso una finestra e discorrevano di politica. La contessa voleva assolutamente sapere dal F inotti per quanto tempo gli austriaci sarebbero rimasti a Venezia. Il Finotti che aveva già seduto al centro sinistro della Camera subalpina, andava a Corte, ci godeva favore e non poteva soffrire i ministri, prese subito un'aria d'importanza, di mistero, e disse che a Venezia si sarebbe potuto andar presto, ma con altri uomini. La contessa non poteva darsi pace di questa cattiva direzione della diplomazia italiana, sbuffava, voleva che il Finotti insegnasse la strada buona al re, che la insegnasse ai minis tri. Se i ministri non potevano impararla si cambiassero, questi stolidi, si buttassero in acqua. Figurarsi, se a Venezia sapessero queste cose! Già, ell'aveva visto a Milano il ritratto del ministro in capo; a cosa doveva esser buono, la me anima, con quel dio di naso? Nepo la interruppe, rosso, rosso, dicendole che di politica lei non capiva niente e che la finisse con tante sciocchezze. Fu come un rovescio d'acqua diaccia. Steinegge aggrottò le ciglia, gli altri tacquero. La contessa Fosca, avvezza a questi omaggi filiali, osservò tranquillamente che spesso le donne hanno più politica degli uomini. "Sempre" disse il Vezza "e il gabinetto di Torino non val niente in confronto del Suo, contessa." Anche il Finotti e lo Steinegge si stemperarono in complimenti. Nepo si trovò impacciato, si adattò con ambe le mani l'occhialino sul naso, e facendosi vento col fazzoletto, uscì in loggia. Mentre egli vi metteva piede, Marina pure vi entrava dalla parte opposta. Ella vide Nepo, parve esitare un momento, andò lentamente ad appoggiarsi alla balaustrata verso il lago, nell'ombra di una colonna: e voltò la testa a guardar suo cugino. Nepo non poteva dare addietro. Avrebbe voluto parlar con sua madre, saper da lei precisamente come fosse andato il colloquio con il conte Cesare, prima di muovere un passo avanti; ma poiché sapeva che le cose in complesso eran procedute bene, come mai ritirarsi davanti al silenzioso invito degli occhi di Marina! Dicevano chiaro: "Vieni, siamo soli". Malgrado la sua vanità egli era imbarazzato. Non aveva tentato fino a quel giorno che sartine, modiste e cameriere, limitandosi con le dame e con le damigelle a colloqui fraterni. Il cuore non gli diceva nulla e la mente ben poco. Andò a mettersi a fianco di Marina, appoggiò le braccia sulla balaustrata e scosse dal naso l'occhialino. "Cara cugina." diss'egli. Le lenti cadendo sul marmo andarono in pezzi. Nepo ne sciolse le reliquie dal cordoncino, le esaminò e le lasciò cadere sul macigno sottoposto sospirando: "Erano di Fries." Recitata questa concisa orazione funebre, ripigliò: "Cara cugina" Dietro a lui uscivano sulla loggia le voci della contessa Fosca, del conte Cesare, degli altri, mescolate alla rinfusa in un guazzabuglio scordato. "Caro cugino" rispose Marina, guardando fuori del piccolo golfo il lago aperto dove i primi fiati della brezza meridiana chiazzavano qua e là di rughe plumbee le immagini dei nuvoloni bianchi e del sereno. V'ebbe un momento di silenzio. Bolliva sempre là in sala il guazzabuglio delle voci scordate. "Quali deliziose giornate non ho passato qui con Voi, cara cugina!" "Davvero?" "Perché, perché non potrebbe esser sempre così?" Egli aveva trovato il motivo e continuò a voce bassa, con accento enfatico, come se recitasse la perorazione di un discorso parlamentare. "Perché queste deliziose giornate non possono essere il preludio di una vita deliziosa a cui tutto c'invita, le nostre tradizioni di famiglia, la nostra nascita, la nostra educazione, la nostra simpatia?" Marina si morse il labbro inferiore. "Sì" ripigliò Nepo, infervorandosi al suono della sua voce stessa e frenando a stento un gesto oratorio. "Sì, perché anch'io, che pure ho vissuto nella migliore società di Venezia e di Torino e vi ho stretto cordiali amicizie con una quantità di belle ed eleganti signorine, anch'io sin dal primo vedervi ho provato per Voi una simpatia invincibile..." "Grazie" sussurrò Marina. "...una di quelle simpatie che diventano rapidamente passioni in un giovanotto come me, sensibile alla bellezza, sensibile alla grazia, allo spirito, sensibile alle squisitezze più recondite e più delicate della eleganza. Perché Voi, cara cugina, Voi possedete tutte queste cose, Voi siete una statua greca, animata in Italia, educata a Parigi, come diceva con meno ragione il ministro dell'Inghilterra parlando della contessa C... Voi potrete un giorno rappresentare con molto splendore la mia casa nella capita le, sia in Torino, sia in Roma; perché io finirò certo per avere alla capitale una posizione degna del mio nome, degna di Venezia. Io Vi parlo, cara cugina, un linguaggio più serio che appassionato, perché qui non comincia ora un romanzo, ma prosegue una storia." Nepo si fermò un momento per applaudirsi mentalmente di questa frase in cui il pensiero e la voce correvano insieme ad un tonfo di tanto effetto nella parola storia. "È la storia" proseguì "di due illustri famiglie, sostegno l'una della più gloriosa repubblica, ornamento l'altra della più illustre monarchia italiana, sorte, la prima nell'estremo oriente, l'altra nell'estremo occidente d'Italia, che strinsero parentela in tempi remoti di prepotenze straniere e di discordie nazionali, quasi preludendo e augurando alla futura Unità; che in tempi più vicini, in tempi calamitosi per i loro due Stati rinnovarono il patto, e che stanno per riconfermarlo ancora in mezzo agli sp lendidi avvenimenti del nuovo gran patto nazionale." Nepo era spossato dall'improba fatica di contenere la sua voce e la sua eloquenza. Chi sa dove sarebbe andato a finire, con le migliaia di frasi che aveva in testa, senza una buona strappata di redini. "Marina" diss'egli "volete esser contessa Salvador? Io aspetto con piena fiducia la Vostra risposta." Marina guardava tuttavia il lago e taceva. Le voci della sala si spensero in quel momento; la contessa Fosca s'affacciò alla loggia. Ella si ritirò subito, rientrò in casa parlando forte; ma gli altri fecero irruzione in loggia. "Mi appello a Lei, marchesina" gridava il commendator Finotti, seguito dal commendator Vezza che si stringeva nelle spalle sorridendo e ripetendo: "Ha torto, ha torto." Soltanto allora Marina si scosse come per uscire dalla corrente dei suoi pensieri, disse sottovoce a Nepo "A domani" e lasciò la balaustrata. Nepo si voltò corrucciato a guardar gl'interruttori e vide dietro ad essi sua madre, che gli diceva con un lungo sguardo lamentevole e con le braccia aperte: "Come si fa?"

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679353
Praga, Emilio 4 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
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Magra scusa quando altri, quando un innocente, per riparare al suo abbandono, mettono a repentaglio tutta l'esistenza. Crudele egoismo! La requisitoria era compiuta e la condanna non si faceva troppo aspettare. La mattina seguente accadde a Baccio cosa tanto straordinaria che egli, per la prima volta in trenta anni di esercizio, si lasciò precedere nel suonare il mezzodì dal sacrestano di Sumasco, noto per la sua negligenza. E c'è di peggio. Egli piombò nello studio del curato tenendo in mano, per distrazione, il raggio d'oro delle grandi solennità. Mansueta gli corse dietro, don Luigi si avanzò rapidamente ad incontrarlo, ma entrambi dimenticarono tosto la stranezza del suo contegno perchè egli balbettò: - Il sindaco la vuole in sacristia. Incredibili parole che, per l'affanno, non potè ripetere. Don Luigi era già uscito per corrispondere alla richiesta del sindaco, che il pover'uomo era ancora sbalordito ritto in mezzo alla camera. Il signor Angelo non era certo venuto con delle buone intenzioni. Il colloquio fu breve, non durò più d'un quarto d'ora, che però alla nostra ansietà sembrò interminabile. Nessuno assistè. Il linguaggio del sindaco deve essere stato violento al solito: uscito dalla sacristia, sul sagrato si volse indietro e disse: - Pensateci dunque: fra tre giorni o mi date quelle carte o preparatevi a ciò che vi ho detto. Don Luigi, pallidissimo, rispose: - Sarà quel che Dio vorrà. Non capivo la minaccia del sindaco, e il curato non mi fe' quel giorno alcuna confidenza. Si ritirò nella sua camera e non ne uscì per tutta la giornata. Mansueta, sollecita della salute del padrone, si recava sovente in punta di piedi a spiare dal buco della serratura, ed ogni volta tornava tentennando dolorosamente il capo. Don Luigi passò tutte quelle ore ginocchioni pregando. I dì seguenti il sindaco passò e ripassò più volte davanti al presbiterio coll'aria provocante di un creditore inesorabile. Le sue occhiate, volta a volta beffarde e furiose, causarono una quantità di disordini. Mansueta lasciò due volte struggersi la cena sul fuoco. Il solo appressare del noto passo la metteva in convulsione. E la non poteva sapere qual nuovo genere di tortura colui avesse potuto trovare, ma capiva che doveva essere formidabile dal contegno di Don Luigi, che da quel colloquio in poi non aveva più ricuperato la sua calma e anzi diventava sempre più inquieto e sofferente. Pertanto io cominciavo a trovarmi a disagio. Ero rimasto per riguardo a Don Luigi, e avrei voluto davvero essergli utile in quel frangente di cui mi era ignota la gravità. Ma la sua afflizione non pareva di quelle che si alleviano colle parole. Il curato si manteneva stavolta chiuso con me come con tutti; noi ci vedevamo appena all'ora solita e si capiva che malgrado tutti gli sforzi egli non riusciva a dominare la cura segreta dell'animo. Non volevo, al postutto, dargli soggezione.

Lo spettacolo di quella triste esistenza, che si spegneva in così profondo abbandono, in così cupa solitudine di affetti, era cosa da stringere il cuore. E nella lugubre solennità di quel momento mi ripugnava la calma del dottore: non potevo levarmi dalla testa, che, unico al mondo, egli avesse dei torti verso quello sciagurato. Il farmacista non poteva rimaner silenzioso un pezzo: la sua cinica loquacità era ributtante. Egli discorreva delle cose più indifferenti, narrava storielle come fossimo a veglia dinanzi a un tavolo d'osteria: - e, se volgeva la sua attenzione al moribondo, era per biasimarne la condotta, il carattere e sopratutto la caparbietà nel non dar ascolto ai suoi vantati consigli. La sua voce ineguale, garrula era accompagnata dal rantolo cupo del morente e dal lontano rambazzo dello Strona. M'ero messo accanto alla finestra e guardavo giù nella valle, contemplavo la sublime, schiacciante indifferenza della natura. Il sentiero che avevo percorso poche ore prima allacciava il monte dirimpetto come una cintura biancastra. Mi vennero a mente le strane immagini che avevano preconizzato alla mia fantasia il dramma terribile alla cui catastrofe in quel punto assistevo. L'agonia del signor De Boni fu più lunga e più travagliosa di quel che il dottore avesse previsto. La vitalità tenace di quella tempra eccezionale tentò un ultimo sforzo disperato. Verso la mezzanotte si dichiarò la riazione con una febbre violenta. Il respiro si fe' più forte e più frequente; un tremito convulso squassò le membra del moribondo. Poco dopo cominciò il delirio. La ferita del collo e la tumidezza da essa prodotta rendeva quasi inintelligibile quel ch'egli diceva. Erano, per quel che ho potuto comprendere, bestemmie, imprecazioni, a cui si mescolava di frequente il nome spregiativo di «chierica». Senza dubbio voleva designare il curato. L'infelice minacciava il suo avversario come se possedesse ancora tutte le forze della sua salute e della sua influenza. La crisi durò tutta la notte. In quel mezzo capitò don Luigi. Per lui le persecuzioni sofferte non erano un motivo sufficiente per credersi dispensato dal prestare i suoi caritatevoli uffici verso un suo parrocchiano. Il sant'uomo entrò nella camera senz'ombra di ostentazione, dimessamente, col contegno di chi compie un doloroso dovere. Il dottore non gli permise di accostarsi al letto. Senza dar retta alle obbiezioni insipide dello speziale che annusava con ingorda ansietà lo spettacolo di uno scandalo, gli fe' capire che la sua visita non era opportuna. Il sindaco continuava nei suoi farnetici. Don Luigi potè intendere alcune delle sue parole: una crucciosa, una sincera afflizione si dipinse sul suo volto. S'arrese alle rimostranze del dottore ed uscì piangendo. Furono queste le sole lagrime che vidi intorno a quel letto. Venne in vece sua don Sebastiano. Amministrò all'inferno l'estrema unzione, brontolando frettoloso fra i denti le preghiere rituali. Poi spogliò il rocchetto, la stola e chiese al dottore se sarebbe stato possibile il confessare il moribondo. Il signor De Emma disse che non poteva dir nulla con certezza: se voleva aspettare, verso l'alba, la febbre sarebbe scemata oppure .... A questa reticenza il prete soggiunse duramente: - Va bene. E sedette. Era un'indifferenza di più. Tutto ciò era brutto, mi irritava. Uscii. Cominciava il crepuscolo, l'ora preferita dell'angelo della morte. Rompevano il silenzio dei belati che sembravano lamenti. Gli alberi si agitavano alla brezza mattinale come rabbrividissero e gocciolavano lagrime di rugiada. Un gallo cantava colla sicumera crudele di un diacono che intona le esequie. Baccio suonava l'angelus, e insieme l'agonia del sindaco. Poi la scena mutava rapidamente: al funereo barlume sottentrava l'incarnato dell'aurora, il paesaggio usciva dal grigio lenzuolo, salendo a poco a poco la gamma dei suoi colori: il giorno usciva dai limbi misteriosi dell'alba. Io aspiravo con voluttà l'aria vivace; assaporavo con delizioso egoismo le pulsazioni possenti della vita. Un rumore misurato di passi mi riscosse dalla estatica contemplazione. Sbucavano di dietro il muro della chiesa quattro carabinieri condotti da un brigadiere, un'atletica figura di savoiardo. Un montanaro di Sulzena li accompagnava. Il signor Bazzetta aveva colta con premura l'occasione di esercitare le sue funzioni di assessore. Egli aveva mandato avviso alla stazione di Mirasco. I cinque soldati sostarono un minuto sulla piazzetta. Poi il brigadiere mi si accostò e mi chiese se sapevo notizie del feritore. Risposi in buona fede che credevo avesse lasciato il paese. - È probabile, soggiunse, però bisogna compiere le formalità. E volto alla guida che l'aveva accompagnato: - Alla casa di Giuseppe Rivella, andiamo. Mi salutò e s'avviò coi suoi uomini. Tenni loro dietro. Eravamo tutti convinti che la ricerca intrapresa dal brigadiere fosse una pura formalità. Tuttavia egli per quella puntualità allobroga che nelle faccende quotidiane rado fallisce, essendo il mondo routinier più di quanto lo si creda, dispose le cose come se avesse a far una cosa seria; e seria era perchè doverosa. Per ordine suo, due uscirono dalla strada e vennero ad appostarsi dalla parte degli orti. Egli cogli altri due si avanzò per la strada del villaggio e si presentò alla porta della casa. Era socchiusa. Il brigadiere lasciò ancora uno di guardia alla soglia e vi entrò. Io osservavo dalla strada questa manovra e s'era fatto un crocchio di gente intorno a me; tutti erano del mio avviso. Chissà dove poteva essere a quell'ora il povero Beppe! Ma era appena entrato il brigadiere, che intendemmo il comando ed un alterco. Accorremmo. Beppe era in casa! Ritto in capo alla scala, coll'aria sconvolta, l'occhio smarrito e minaccioso, spianava una carabina di custode in faccia agli agenti della forza publica gridando: - Indietro, indietro. Il brigadiere s'era fermato al primo gradino e, senza punto sgomentarsi, coll'aria di chi ha da far con un ragazzo, dicevo risoluto: - Giovinetto, giudizio! Abbassate quell'arma e venite con noi. - Vengo, ma ad un patto. - Ma che patto! - Vo' sapere se colui è morto e vo' vedere il cadavere. - Andiamo, andiamo, sclamò seccato il brigadiere e si moveva. Poteva nascere disgrazia. Mi lanciai e lo trattenni. - Lasciate ch'io gli parli, dissi. E fattomi innanzi: - Beppe, volete darmi retta a me? Mi ravvisò, e togliendosi con moto istintivo la berretta: - Sì, signor pittore. - Ebbene, obbedite al brigadiere, sarà pel vostro meglio, - e la giustizia terrà conto dei vostri dolori. - Signor pittore, ditemi che il sindaco è morto ed io vengo dove vogliono. Ci teneva alla sua vendetta. - Il sindaco non è morto ma non tarderà ad esserlo - Sicuro? - Come son sicuro che stassera tramonterà il sole. Il suo volto balenò di una gioia selvaggia. Il brigadiere, che in questo momento era salito, lo disarmò e lo consegnò a' suoi uomini, che gli misero le manette. Egli li lasciò fare; pareva istupidito. Prima che lo menassero io gli presi una delle sue mani legate e gliela strinsi senza ripugnanza per l'atto di cui s'era macchiata. - Coraggio, gli dissi, i vostri amici si ricorderanno di voi. Egli mi fe' un sorriso ebete e chinò il capo. Lo trassero alla casa comunale, dove fu per il momento rinchiuso.

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 2 occorrenze

Fu il giorno in cui madonna Isabella, all'impensata, dopo una lotta d'un anno in cui essa non aveva ceduto di una linea sola, presa da un subitaneo abbandono e dominata da una strana causa, disse d'amarlo. Oh! chi ha amato la conosce questa stagione calda ed esuberante, colorita dal sole, nell'azzurro sconfinato, nell'infiammato meriggio dove tutto arde e si consuma in una grande voluttà, quando i fiori nascono presto, vivono una vita rapida e soverchiante, esalano profumi grevi e violenti e muoiono per aver troppo vissuto; la stagione fremente dove tutto è luce, tutto è fulgore, tutto è febbre che precipita il sangue; la benedetta stagione, la eccelsa stagione dopo la quale tutto è cenere e fango. Chi ha amato sa la stagione d'amore di Diomede Carafa e non aspetta dalla scialba parola del freddo e disanimato cronista una descrizione. Chi ha amato evochi tutti, tutti suoi ricordi di amore, riviva in quel passato pieno di una gioia e di un dolore che non hanno l'eguale, palpiti, s'agiti, abbia la convulsione ed il delirio di quell'amore e saprà di Diomede Carafa. Le storie d'amore non si raccontano, non si descrivono che miseramente: l'arte istessa, la divina arte che tutto scopre, tutto rivela, non può che dare una sola e fuggevole immaginazione del proteiforme amore. Breve stagione. Se durasse, il cuore morirebbe nella esagerazione di un sentimento che è la follia. A poco a poco, con gradazioni impercettibili, madonna Isabella fu meno felice, meno innamorata; il sorriso fu più scarso sulla bocca, le braccia più fiacche nell'abbraccio, le labbra più gelide nel bacio, il palpito meno frequente nell'arrivo e nel distacco. Diomede Carafa, cieco, pazzo d'amore, non vedeva, non comprendeva. Madonna Isabella discendeva sempre più verso l'indifferenza che poi era il suo stato abituale e la sua naturale ferocia rinasceva per la tortura di quell'uomo. Ma Diomede Carafa soffriva e s'inebriava di quella sofferenza, piangeva e s'ubriacava di quelle lagrime, era ammalato e si consolava di quel morbo ora gelido, ora infuocato che gli consumava la vita; era tormentato, oppresso, disperato. ma si estasiava di ciò come i martiri cristiani del sangue che usciva dalle loro vene esauste. Isabella si mostrava con lui chiusa, dura, sprezzante e lui l'amava anche così, massimamente così; Isabella si faceva volubile, leggiera, accogliendo in casa i più bei cavalieri napoletani e lui, morendo di gelosia, amava Isabella per la gelosia che aveva di lei. Egli gettava pazzamente i suoi averi, obliava le prerogative della sua nobiltà, non conosceva più amici, non conosceva più parentado, non sapeva più nulla di obblighi o di diritti: Isabella, Isabella, amare Isabella. Fino a che un giorno tutta la verità gli fu palese come parola di Dio e seppe del proprio avvilimento, seppe del tradimento di Isabella con Giovanni Verrusio, amico suo e suo compagno d'infanzia. Egli nascose a tutti il dramma del suo spirito, sdegnoso di compianto. Il crollo immenso della sua felicità, la rovina tragica e nera dello splendido edificio non ebbero testimonio. Meglio così. Che vale il rimpianto? Che cosa è la parola compassionevole e glaciale? Foglie morte che il vento si porta via, ed il dolore rimane eterno. Invano egli errò, viaggiatore solitario e noncurante, per fiorenti paesi, invano chiese alle ricchezze, al lusso, ad altri amori, a feste stupende, l'oblio; invano egli volle innamorarsi delle vaghe creazioni dell'arte per ritrovare la pace. Dappertutto, in ogni paese, in ogni donna, in ogni fiore, al fondo dei vini generosi, nelle figure dei quadri, nelle figure delle statue, negli ondeggiamenti della musica, egli ritrovava Isabella. Il suo dolore non era più acuto e straziante, ma lento, lungo, stupefacente. egli sentiva la sua anima gonfiarsi di affetto ed i suoi occhi gonfiarsi di lagrime; egli provava il bisogno del sagrificio, del culto, dell'estasi ... - Dio, Dio - ripetette un giorno la stanca amica sua. Diomede Carafa fu vescovo di Ariano, prelato esemplare e amatore dell'arte. Leonardo da Pistoia, pittore, fu suo amico. Per sua ordinazione e per la chiesa di Piedigrotta dove giace il Sannazaro, il Leonardo fece il quadro bellissimo di S. Michele che atterra Lucifero. Lucifero vinto e bello e ancor folgorante, ha il volto di madonna Isabella. Ed è una donna il diavolo di Mergellina.

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