Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandoni

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Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 3 occorrenze

. - ella gemé soffocatamente - tu mi abbandoni, te lo leggo negli occhi. L'altro non rispose. Ma ella non si arrendeva, gli serrava le mani, gli si avviticchiava col sorriso, collo sguardo; poi alzando le braccia per gettargliele al collo con atto stanco, febbrile d'amore, mormorò: - Vieni, dunque, dormiamo.... Egli le rattenne quel gesto. - È già l'alba - rispose freddamente. Fuori la notte era sempre così tenebrosa, il sobborgo aveva spento tutti i fanali, non s'udiva una voce: ma laggiù, lontano, quella piccola stella non era ancora sommersa. Quando fu presso la città, egli piegò macchinalmente a dritta lungo lo stesso viale. Le mura non si discernevano ancora, i platani facevano sempre sul suo capo una volta anche più nera dell'ombra. D'improvviso quel medesimo fracasso rotolò lontanamente: poi quegli occhi rossi riavvamparono, i sonagli tintinnirono, gli alberi tornarono a tremare e l'ombra indietreggiò fuggendo giù nel fossato, mentre una macchia di sangue lambiva sinistramente le mura e l'ondulazione di un galoppo leggero e cadenzato rimbalzava sulla strada. L'omnibus sembrava illuminato anche di dentro. Lo schiocco della frusta imitava la battuta delle nacchere. Egli era venuto sul ciglio della strada. Questa volta il balenìo bianco sulla faccia del cocchiere era come il riverbero di una vetriata. - Ferma! - egli gridò stendendo la mano. I cavalli si arrestarono stecchiti. L'omnibus illuminato internamente da un fanale bianco sopra lo sportello superiore appariva stipato nel fondo e sui sedili di casse bianche, segnate sul coperchio da una croce nera; una, la più piccina, forse di un bimbo nato e morto nel medesimo giorno, sembrava un cofanetto. Il cocchiere attendeva colla frusta bassa. - Salgo? - Pieno! - l'altro rispose battendo colla frusta sui fianchi dell'omnibus. - Salgo? - In serpe? - Egli vi si arrampicò, ma non si era ancora assettato che il cocchiere gli domandò: - Pronti? - Sì. Lo schiocco della frusta squillò e i cavalli si slanciarono. Allora esaminando il cocchiere egli s'accorse che era uno scheletro vestito di una livrea nera, con un largo cappello piatto sulla testa. Il balenìo bianco della faccia gli veniva dai denti. Andavano colla rapidità di un sogno. - Donde vieni? - egli domandò nel piegarsi sopra di lui ad una voltata vorticosa. - Dall'ospedale di San Lorenzo. - Quanti morti hai caricato? - Non li conto io. Vi fu una pausa. L'omnibus rotolava furiosamente, la città si era già perduta in lontananza, un gran viale fiancheggiato di lunghi cipressi appariva. - Dove vai? - Scarico al cimitero. - Ci fermiamo lì? - chiese guardando laggiù quella stella oramai vicina ad affondarsi. Un lampo più bianco passò sulla faccia del cocchiere, che ripeté: - Scarico al cimitero. Nello stesso momento la testa dell'altro gli cadeva morta sulla spalla. Lassù, lontano, la stella si era affondata.

La coscienza atterrita dal problema religioso non poteva più bearsi nell'eterna giovinezza dei campi: l'arte avendo tutto obliato ricominciava bambinescamente sotto la ferula della religione, la vita ancora sofferente delle proprie crisi non aveva più abbandoni, onde fra la vergine e il cavaliere, i due tipi nuovi, l'idillio non fu possibile. Ma quando nella civiltà progredita rifiorirono le lettere, e la bellezza ridivenuta plastica restaurò il regno delle forme, l'idillio comparve nuovamente coll'imitazione di Virgilio in Italia, più tardi coll'imitazione dell'Italia in Francia per finire da noi in un'Arcadia di accademia, là in una Arcadia di corte colle pastorelle vestite di seta e il verso trapunto come i loro abbigliamenti. La letteratura aveva rinvenuto il modo, non il tempo dell'idillio. Poscia vennero il romanticismo e la musica; il primo invece di abbigliare le pastorelle di seta le ornò di sentimenti anche più fini, ed ebbe per la natura entusiasmi di sacerdote, tenerezze di amante; la seconda, più intima e quindi anche più vera della poesia, accennava già di riuscire quando il contatto del romanticismo e le false abitudini del teatro la viziarono così che nello stesso capolavoro immortale di Bellini, malgrado la freschezza dell'ispirazione e la grazia delle movenze, manca troppo spesso la semplicità. Finalmente l'idillio passò in Inghilterra, e là, dentro una letteratura, nella quale si era sempre notato il predominio di quanto oggi chiamasi con brutta parola realismo, si disse che Tennyson era risorto. Infatti a prima vista tutte le condizioni vi sembravano riunite. Un popolo coltissimo e non ancora in decadimento, abbastanza ricco per avere il gusto e l'abitudine della campagna, con un sentimento schietto della vita e una predisposizione alla malinconia corretta dalla fortezza della tempra. La sua campagna era feracissima, la sua religione quasi ragionevole, la sua filosofia poco teoretica, la sua poesia semplice per indole per tradizione. Tennyson stesso non poteva essere meglio dotato dalla natura ed esercitato nello studio. Ma il ferreo carattere inglese diventato di acciaio al fuoco della grande rivoluzione puritana, si era ancora più indurito nel lungo e fortunato esercizio commerciale: la religione agghiacciatasi dopo il trionfo aveva come coagulato il sentimento del popolo, il classicismo rimasto nelle lettere e nei costumi malgrado l'influenza di Byron e di Shelley irrigidiva ancora il gusto dell'aristocrazia. In Inghilterra più che altrove il concetto della vita e dell'amore erano in antitesi coll'idillio, L'agricoltura vi ha ridotto il podere come una fabbrica cogli stessi operai, le stesse macchine, la stessa speculazione crudele e trionfante: la bigotteria protestante, molto peggiore della cattolica, aiutata dall'indole del popolo e dalla sua storia vi ha costretto l'arte ad un ufficio puramente morale; quindi negate tutte le passioni, contati i generi e i tipi. Da molto tempo il teatro inglese è chiuso, per molti anni non si aprirà se la vita non vi ritorni coll'arte, quella vita, che oggi non si vuole nel romanzo perchè si condanna il romanzo nella vita. Così la ragazza inglese, ammirabile per la sua superbia d'individuo capace di bastare a sé medesimo, è forse meno di ogni altra incline all'idillio, mentre nella dignità del proprio carattere deve giudicare sconveniente ogni più ingenua confessione dell'amore. Nella Grecia non era così. La Simetha di Teocrito non è cortigiana, ma una piccola borghese come la Margherita di Goethe, camuffata così miseramente dal Gounod in angelo. Innamorata e tradita dall'amante ricorre agli scongiuri. La scena è la stessa che ai nostri giorni, solamente il rito n'è cambiato. Invece dei lauri oggi si usa il mazzo delle carte. È notte, il luogo deserto, un cortile o un giardino. La luna sogguarda dalle nubi. Simetha accompagna lo scongiuro cantando, e il suo canto esalato a voce bassa è di un effetto terribile. Si direbbe quasi un canto calmo se il ritornello indirizzato al fuso, che girando sopra sè stesso deve attirare l'assente, non avesse uno stridore di arma omicida. I cani salutano dai boschi la luna, poi il mare si queta, il vento tace, ma non le tace nel petto la passione per colui, che doveva sposarla e invece ha fatto di lei una miserabile disonorata. Questo lamento di una bellezza funebre nei versi greci è tutto di amore. Simetha non piange la verginità perduta, ma l'amante involatosi dietro un altro amore, mentre ella mostrata a dito dalle compagne più fortunate dovrà subire le baie dei giovanotti più depravati del paese. Allora il ricordo delle passate voluttà torna a fermentarle nel sangue e, levando verso la luna, che le confonde il proprio pallore sul volto, ella invoca la pianta famosa dell'Isyomane, che fa delirare cavalli e puledre lungo le valli di Arcadia. - Ah! ah! odioso amore, perchè attaccandoti al mio petto come una mignatta di palude hai bevuto tutto il sangue nero del mio corpo? - esclama cacciando un grido quasi per un morso improvviso. Questo urlo la esaurisce, ha bisogno di restare sola. La stessa presenza della vecchia Testili le diviene insopportabile, quindi la manda ad ungere la porta di Delfi con una atroce mistura di veleni. Qui la scena muta, e comincia la seconda parte dell'idillio. Simetha si sdraia per terra come una bestia, in tormento e singhiozzando, cantando, racconta a sè medesima colla passione di tutti gli infelici il proprio male. Il racconto è un capolavoro di verità e di poesia. Il ritornello della invocazione a Diana, che lo riannoda interrompendolo, invariabile nelle parole muta significato ad ogni strofa coll'accento della voce languida o minacciosa, famelica o supplichevole. Un giorno, non è molto, la sua amica, Anasso, venne ad invitarla per la festa di Diana; vi si recarono coi canestri e videro molte fiere, fra le altre una leonessa, della quale le è rimasto il ricordo. Simetha aveva fatto la più accurata toeletta, perchè la giornata era splendida ed avrebbero incontrati molti giovanotti. Infatti a mezza strada s'imbatterono in due dei più belli, Delfi e Eudamippo, che uscivano dalla palestra rossi, sudanti. Vederlo, amarlo, fu un punto solo, un colpo di vento, uno scoppio di fulmine. Forse l'amore covava da lungo tempo nel suo cuore: l'atmosfera era favorevole, la stagione di primavera, il cielo quasi bianco a forza di essere puro, Simetha innamorata di Delfi oblia la festa e scappa a casa; se fosse rimasta, e Delfi le avesse rivolta la parola, sarebbe scoppiato uno scandalo. Così Shakespeare molti secoli dopo ha fatto innamorare Giulietta e Romeo: la prima qualità dell'amore semplice è la prontezza. Appena in casa Simetha si caccia in letto e si ammala. Per dieci giorni, dieci secoli, non mangiò né bevve: un pensiero le tendeva il cervello, uno spasimo le bruciava il cuore, Delfi. La fisonomia le si emaciò, la pelle le divenne gialla come il topazio; allora pensò agli scongiuri, risorsa di tutte le immaginazioni deboli, ma gli scongiuri furono insufficienti. Ad ogni invocazione le crebbe la smania, quantunque volte pronuncia il nome di Delfi le labbra le scottano ancora. Non rimane più che un rimedio, mandare Testili da Delfi; la passione l'aveva trovato subito, ma la ragione esitava. Testili va e torna con Delfi. Qui è il punto culminante del poemetto. Parla Simetha: con un solo tratto Teocrito si rivela poeta ed osservatore di primo ordine, giacchè rivedendo con gli occhi della fantasia Delfi entrare dall'uscio ella interrompe il racconto per gettare il grido del ritornello come se la stessa emozione le si ripetesse nell'anima, e il medesimo strido della prima volta le rompesse dalle labbra. Poi un freddo le tocca tutte le carni, un sudore abbondante come una rugiada la bagna, e non può parlare nemmeno come i bambini balbettano nel sonno vagendo verso la madre. Quest'ultima nota è di un patetico profondamente femminino, giacchè l'amore sveglia sempre la maternità nella donna. Delfi entra bello e fatuo conquistatore, anche adesso le pare di rivederlo; le siede con famigliarità quasi protettrice sul letto e per farle un complimento comincia a parlarle di sé stesso, dicendo che il suo invito lo ha prevenuto come l'altro giorno egli sorpassò il bel Filino alla corsa. Naturalmente cita il più bello fra i propri amici per provarle che non teme confronti. E Simetha gli dà ragione. Per le Delfi non è l'elegante antipatico di tutte le decadenze, ma il Delfi bello, dal petto largo, dalle membra agili, il vincitore della palestra. Simetha non ha torto. Oggi ancora le donne, che si avvicinano al suo modo di sentire, sono forse anche meno esigenti, non pretendono neppure che Delfi sia bello. Ma come tutte le persone troppo amate, Delfi non ama; in pochi giorni si stanca di Simetha e la trascura; ella trema, piange, finché apprende da un'amica che Delfi è innamorato altrove, s'ignora se di un uomo o di una donna. Simetha stessa non lo ricerca: che le importa il nome? Ella non è gelosa, giacchè la gelosia discende quasi sempre dalla testa mentre ella ama coi sensi: esige Delfi, ma trova forse naturale che altri lo desideri, solamente non vorrebbe perderlo. In questo ultimo caso giura piuttosto di ucciderlo, ma anche allora non si preoccupa della rivale. Simetha ama troppo Delfi per odiare un altro. Giammai vi fu idillio più povero e più bello; oggi dopo tanto mutamento di età noi lo sentiamo ancora, noi che non possiamo più scriverlo e, quello che è peggio, rifarlo. Teocrito ha messo l'elegia, fors'anche la tragedia, in fondo all'idillio giacchè Simetha può bene ammazzare Delfi in un incontro, a certe ore, in date circostanze. Tennyson ha fatto altrettanto, ma invece di Delfi è la regina che morirà: idillio, elegia e tragedia si seguono formando un solo componimento. Là un fatto che rivive in un racconto, qua un soliloquio nel quale si perde un fatto; Teocrito ha scolpito un gruppo, Tennyson fuso una statua; il gruppo è molto nudo, la statua molto panneggiata, il primo prorompe dalla vita, la seconda rientra nel sogno. Siamo alla vigilia della festa di Maggio. La futura regina è nella propria casetta, sola con la madre, alla quale raccomanda di svegliarla presto l'indomani per avere il tempo di abbigliarsi: domani è la gran festa, si dà il premio della bellezza, la più bella sarà nominata regina. Essa ha già contato i voti, sono tutti suoi. Nella ingenua vanteria dei primi trionfi la regina non sa frenarsi e come Delfi particolareggia alla madre piangente di gioia le proprie bellezze. L'apertura della scena è vera, il ritornello, che come un'eco delle ovazioni imminenti interrompe quel soliloquio, ha una grazia e una leggerezza inimitabili. Come le frasi leggermente retoriche tornano e vibrano nelle sue spezzature! Ma ecco che dalla ragazza prorompe la vergine. Ella non ha mai amato e non ama: la hanno detto che ha un cuore selvaggio, ma non ha risposto perché non avevano colpito nel segno. Molti giovani, dei quali non ricorda più il nome l'amarono. Uno solo, Rubino l'ha colpita. Ella lo vide sempre solo, raccolto in sé stesso, schivo della gente: Rubino l'ama senza averglielo mai detto. Questo riserbo è la sua superiorità sugli altri giovani, l'unica ragione per la quale ella talvolta pensa a lui; anche Rubino deve essere vergine, ma ha una fisonomia pura e malinconica, il riflesso dei lunghi sogni sulla fronte. Ma la ragazza ripiglia il sopravvento, e perdendosi già con la fantasia nel tumulto glorioso dell'indomani, con versi esultanti e sapienti, forse troppo sapienti, dipinge alla madre il quadro della festa entro il paesaggio calmo della valle che somiglia alle valli di tutte le descrizioni. Vi è persino il rivolo, che mormora tra i sassi, il sole, che al tramonto indora le cime delle colline. All'ultimo scoppio del ritornello si sente lo scoppio del bacio, che la futura regina dà alla mamma intenta a rimboccarle le coperte. Passò un anno. La regina è ammalata di tisi, la malattia delle vergini e delle sante: quando l'anima sola vive il corpo non ha che morire. Si è levata sentoni sul letto e prega la madre di svegliarla all'alba per vedere l'aurora del nuovo anno. Il soliloquio prosegue lento e stentato: un lumicino rischiara la camera, nell'aria pesa la nausea di un alito viziato, ma l'inferma perdendosi nei ricordi della propria incoronazione vorrebbe vivere fino alla prossima primavera. Perché? È un rimorso, che le sale dal corpo disfatto come un bisogno supremo di sentire la natura prima di abbandonarla? O il desiderio di avere molti fiori al proprio funerale? Chi lo sa? Quindi coll'intenerimento contagioso dei malati parla della chiesetta parrocchiale, rammenta il piccolo camposanto, finché ripresa improvvisamente dalla vanità della ragazza, con un irresistibile impeto d'affetto espresso in versi mirabili, scongiura la mamma a seppellirla sotto la spinalba, che nel mattino trionfale di maggio le fece da baldacchino al trono. La vanità è dunque la sua unica passione, come la tisi doveva essere la sua unica malattia, s'ella non vuole che corone e non sogna che di mostrarsi dall'alto, sui gradini di un altare o di un trono? Forse, ma i sermoni del buon pastore le sovvengono a tempo e, soffocando tutte le voci dell'orgoglio, le sgorgano dalle labbra scolorite in tante consolazioni per la mamma. Povera mamma! Come dev'essere dolorosa la morale evangelica in bocca di una figlia morente, come consolerebbe di più il sentirla piangere nel dolore dell'abbandono che il vederla rassegnata alla necessità della partenza! Il desiderio dell'ammalata fu esaudito: la primavera è tornata battendo con le foglie delle pianticelle rampicanti ai vetri della sua finestra. Perché mai questa vergine, che non ha amato il mondo, questa tisica che sta per abbandonarlo con gioia, si perde ad analizzarne con arte sì fina e talvolta con particolari così dotti tutte le loro bellezze alla madre? O fu un capriccio d'inferma, o è stato un difetto nel poeta. L'agonia si avvicina: il prete è uscito dopo aver benedetto la morente, mamma e figlia sono sole. Il canto del finale incomincia con un canto sacro; gli angeli sono passati a volo pel cielo suonando le arpe; Regina le ha sentite due volte, alla terza morirà. Un angelo librato nel vano della finestra, lontano, nell'azzurro, la chiama. - Addio sorella, addio mamma! La ragazza spirando rivela il proprio segreto di vergine, quindi il sogno di paradiso le ricomincia nell'anima, e in quel sogno s'addormenta. Ecco la figura messa da Tennyson dinanzi ai propri idilli come quella che più altamente esprime la sua poesia idilliaca. Il paesaggio è inglese, colori freddi, aria umida, vegetazione rigogliosa. Una agricoltura sapiente ha migliorato ogni pianta: case, mulini, castelli, tutto a posto, il quadro pare il paese, ma il paese pare un quadro. La regina muore: che cosa farebbe nella vita? Diventerebbe prima sposa, poi madre, poi massaia: addio quindi poesia, perché tutta la poesia consiste nella verginità, primo grado dell'angelo. Invano parla sempre di fiori e li conosce, ne sa persino i nomi difficili: forse li imparò adornando l'altare della chiesetta, ma i fiori non le dissero una parola della loro vita così simile alla nostra, vita di amore e di generazione. L'idillio di Tennyson è dunque un'elegia ancora più romantica che cristiana, alla quale Lamartine non è estraneo, giacchè nel canto o nell'accompagnamento, nella voce o nell'accento, qualche cosa di suo vi si intende. Che cosa pensa Tennyson della Simetha di Teocrito? Non lo so, ma si potrebbe forse saperlo, e forse ne pensa diversamente da noi, ma che cosa penserebbe Teocrito della Regina di Tennyson? Adesso l'Inghilterra è per Tennyson, poeta laureato della regina, i lords lo accettano tra di loro, i borghesi lo venerano, i pastori lo citano, il pubblico lo paga come non ha mai pagato nessun poeta, i critici lo dichiarano superiore a Byron e si sono lagnati solo una volta, quando volle imitarlo dopo aver imitato tutti; ma il mondo è per Teocrito, il poeta della natura, che nessun periodo di civiltà ha ancora invecchiato, che forse nessun altro poeta sorpasserà. Teocrito vive in fondo a tutti i cuori: è laggiù nei nostri primi ricordi, nei nostri primi sogni d'amore, nel nostro primo risveglio alla vita e alla verità. Tutti noi avemmo qualche Simetha e qualche Regina, vivemmo nell'elegia e aspirammo alla sana giocondità dell'idillio antico. Così la letteratura inglese, che ha avuto Shakespeare e avrà Tennyson ancora per poco, pare accenni anch'essa di ritornare all'antico per interrogare la natura con nuove intenzioni. La Francia ha ritrovato Zola e Zola ha ritrovato la Miette; l'Inghilterra non può quindi tardare molto a rinvenire un altro poeta, che alzi nell'atrio del proprio monumento un'altra maggiore statua, perché secondo il motto di Pindaro "all'ingresso di ogni opera d'arte bisogna mettere una figura che brilli da lontano".

O in quella inimicizia, risorgente fra loro da tutti gli abbandoni più voluttuosi, cercava piuttosto di avere con lui meno addentellati per balzare più agile in una improvvisa rottura? Lelio aveva creduto di riconoscere fra i suoi piccoli gioielli abituali, a certe preferenze o a certe frasi, parecchi regali di altri amanti conservati poi per gradevolezza di ricordi o di uso. A lui solo non aveva mai chiesto nulla: valeva egli meno per lei? Forse anche meno di un vestito, come si era vantato di provarle in quella scommessa? Allora lo riprendeva più dolorosa la collera di non poterla amare malgrado tutta la frenesia dei trasporti, nei quali perdeva naturalmente più di quanto ricevesse. Questa micidiale superiorità della donna lo irritava talvolta sino all'odio di sè medesimo. Perché cedere così il sangue più puro della propria giovinezza? Quella donna non l'avrebbe abbandonato forse in quel medesimo carnevale, dimenticandolo per sempre, fra la turba volgare degli altri amanti? Non era lei la vincitrice, che poteva passare la vita nei piaceri senza perdervi nulla di più importante? Colla abitudine critica di ogni vero artista egli aveva già analizzato abbastanza bene la propria passione; era una frenesia di sensi e di vanità, una forza composta di due debolezze, e profezia forse di una debolezza peggiore. Altri illustri erano caduti in quella stessa passione brutale della femmina, e vi erano morti. Da Shakspeare a Byron, da Molière a Goethe, da Heine a Garibaldi, quale triste odissea di grandi teste singhiozzanti sopra ginocchia aperte a tutto il volgo! Era sempre la stessa tragedia provocata da misteriose ed irresistibili affinità, un vizio che cresceva in un corpo e ne guastava l'anima, distruggendo quasi sempre la vita di entrambi. Forse tutti quei grandi avevano cominciato come lui, con una sensualità o una galanteria, poi l'abitudine si era fatta forte, ed era scoppiata la frenesia di amare nello sforzo impossibile di voler essere amato; e mentre la donna, forse incolpevole a forza di essere inintelligente, seguitava a discendere nelle bassure degli amori senza nome, essi le si attaccavano alle gonne piangendo di adorazione e di vergogna. Intanto quell'avventura diventata pubblica cominciava a nuocergli seriamente, alcuni amici insinuavano con delicata malignità ch'egli non avrebbe potuto durarvi per mancanza di danaro, altri più apertamente dicevano già che la principessa doveva avergliene dato: lo si sorvegliava nelle spese, si valutavano minuziosamente tutte le sue nuove eleganze. Al club pareva una intesa per comprometterlo con ogni sorta d'inviti. Una volta per una partita di caccia alla volpe nella tenuta di un ricco conte, e alla quale la principessa Irma doveva partecipare con quasi tutti gli eleganti del suo circolo e molti ufficiali di cavalleria, egli cercò invano una scusa onorevole per rimanerne fuori: non aveva cavallo. Un ufficiale con gentilezza insidiosa gliene offerse uno dei propri. - Come! le fanno dunque paura i cavalli? - Lelio ebbe la debolezza di arrossire. - No - rispose alteramente. - Ma dunque, signor Fornari, lei non sa montare? - intervenne la principessa. - Una cosa che sanno fare anche i marinai. - Lo sapessi pure, non monterei che un cavallo mio. - Siete così puritano in fatto di bestie? - Tutti sorrisero. Egli le serbò rancore, ma per quanto si fosse giurato di non entrare più in quel salone, vi andò la sera stessa del ritorno dalla caccia; ella sfolgorante di brio e di felicità parve non accorgersi di lui. Lelio invece non l'aveva mai veduta così tentatrice: cercò di affettare l'indifferenza, ma il suo orgoglio soffriva troppo di non potersene nemmeno andare senza una specie di abdicazione, perché vi riuscisse. Quella sera il principe Giulio, cacciatore solamente da uccelli, quindi un po' trascurato fra tutti quei racconti di galoppi e di salti, gli venne incontro. La loro conversazione durò troppo: la canonichessa ne fece l'osservazione in francese come della più bizzarra avventura nel carnevale, l'amante che perdendo la moglie si metteva per consolazione a corteggiare il marito, e Lelio l'apprese poco dopo dal conte Turolla. In quel momento il principino scherzava colla principessa Irma. La canonichessa gelosa impallidì: allora Lelio, che le si era già avvicinato per pungerla con qualche motto crudele, colto da un senso improvviso di pietà verso quella brutta donna, colpita come lui al cuore da una stessa ingiustizia, uscì dal salone. Questa volta era ben deciso a ritornare in campagna, subito, per riguadagnarvi, lavorando, il tempo perduto. Nullameno passarono ancora alcuni giorni, poi la rivide ad un concerto, e la sera medesima sedendole accanto nel palchetto ella si mise a premergli un piede. La mutevole creatura rideva pazzamente di un ufficiale, il più brutto del reggimento, che le faceva dalla barcaccia una corte troppo palese. - Giulio, lo vedi? - si volse al marito. - Oh! sono tranquillo sul conto suo. Infatti il principe doveva andare a Roma l'indomani per restarvi una settimana. - Bada, è troppo bello. La volgarità di questi scherzi ripugnava a Lelio, che ritirò il piede sotto il divano: ella bruscamente si volse a guardare altrove, ma l'indomani si videro per strada. Egli l'accompagnò un tratto. - Venite alla festa della canonichessa? - Non sono invitato. Ella ne fece le meraviglie. - Ah! non siete wagneriano. - Voi andrete certamente. - Sì, da sola... Sono sola sola in casa. Il suo sorriso aveva la solita lubricità, poi si passò rapidamente la punta della lingua sulle labbra. - Invitatemi a pranzo - l'altro proruppe. - Perché sono sola? - Egli capì tosto che acconsentiva. - Trovate un pretesto. - Se non è che questo! Siccome è la prima festa della canonichessa, e vi sarà tutta Bologna, avrete certamente un abito nuovo per eclissare tutte le signore. Verrò a vederlo. Ma si pentì subito dopo di averlo trovato sentendo come fosse volgare. - Sì, è veramente bello! - esclamò la donnina con uno scoppio di orgoglio infantile. Alle cinque e mezzo Lelio in marsina e cravatta bianca entrava trionfalmente nel salotto della principessa, perché a casa aveva trovato un invito per la festa da ballo. La principessa si turbò. - Allora il pretesto non serve più. Se lo sapessero! - Fammi vedere l'abito. - Non vi mostro niente. Il dibattito durò dieci minuti, ma siccome il cameriere entrava nel gabinetto per avvisare che la signora era servita, Lelio troncò ogni difficoltà col chiederle sfacciatamente d'essere invitato a pranzo, e le offerse il braccio. Il pranzo modestissimo era mal servito: ella stava contegnosa, egli disinvolto faceva dello spirito accorgendosi di riuscirle sempre più seccante. Perché? Aveva ella calcolato sulla sua assenza in quella festa, o si pentiva già di compromettersi troppo con quel pranzo, sola con lui, in faccia a tutti i domestici? Allora Lelio si fece vile: conoscendo la sua debolezza per i complimenti si profuse in frasi dolci, piene di scurrili allusioni, e finì per raccontare scherzosamente tutta la storia di un amante, che la contessa Ghigi, la divina impeccabile, avrebbe finalmente trovato in un ufficiale di artiglieria. Ella non lo credeva, ma i particolari erano così minuti e scabrosi che dovette riderne per forza. Poi tornarono un momento nel gabinetto a prendere il caffè. Pareva ridivenuta allegra. Improvvisamente Lelio, inginocchiandosele innanzi per baciarla sulla cintura, le chiese il permesso di assistere alla sua toeletta con Clelia, la cameriera di confidenza, che, al corrente di tutto da un pezzo, non ne avrebbe fatto alcuna meraviglia. Ella gli pose per risposta la mano sulla bocca. - Se invece della festa rimanessimo qui insieme fino alle undici? Poi tu vai a letto ed io faccio altrettanto: lo faresti per me un simile sacrificio? - La proposta era così stravagante che l'altra non la comprese nemmeno. - Vattene, è già tardi. - No, ti aspetterò qui. Voglio vederti prima di tutti gli altri. Ella non badò al tono freddo di quelle parole. Appena rimasto solo, Lelio si voltò verso lo specchio e vi si scorse livido di collera: il gabinetto poco illuminato da una lampada sopra un alto piede dorato, coperta di trine, pareva più piccolo; egli le sollevò dalla grossa palla di vetro appannato gettandole sopra una poltroncina, e in quella luce più viva tornò a guardarsi. Eppure gli pareva d'essere bello, almeno più che il principe Giulio e quell'altro della canonichessa, dalla quale aveva così tardi e forse a stento ricevuto l'invito alla festa. Perché dunque la principessa Irma non lo amava? La puerilità di questa dimanda, che non avrebbe osato rivolgere a nessun altro, in quel momento lo fece soffrire. La sua anima degna di più alte passioni si trovò daccapo in quel gabinetto minuscolo, di un lusso raffinato ed insignificante come la vita della donna, dietro la quale egli si perdeva da un anno; si rammentò tutto, il primo incontro, la gita a Cà de' Varchi, la scena violenta dietro al fienile, tutta la serie dei minimi drammi, i ripicchi, le carezze, i delirii della carne nella più torrida arsura della passione, quando si abbracciavano così strettamente che avrebbero potuto credere per un istante di non lasciarsi più. Poi tutto finiva un istante dopo per ricominciare ancora in una alternativa di luci e di ombre, mentre un gran vuoto gli si allargava in cuore e il cervello spossato gli si intorpidiva sotto una nebbia pesante. Perché durava ancora quella meschina novella, buona tutto al più per raccontarsi in poche pagine? Intanto egli era ancora lì ad attendere fanciullescamente la principessa trionfante nell'abito nuovo, che le avrebbe attirato gli omaggi di nuove passioni. Se ella invece lo avesse amato, quale deliziosa circostanza quella assenza del marito, e come si sarebbero sentiti entrambi felici di rinunziare alla festa per trascorrere insieme la sera, fors'anche la notte, arrischiando per questa beatitudine di poche ore magari tutta la vita! Ella intenta ad abbigliarsi non pensava invece più a lui in tal momento, perché appena incomincia per una signora la toeletta da ballo, questo solo diventa l'amante, e ogni altro scompare. Lelio aveva acceso una sigaretta quantunque sapesse che la principessa non permetteva mai di fumare nel proprio gabinetto; quindi si era gettato sopra un divano. Poi consultò l'orologio, non erano che le otto e mezzo. Quanto impiegherebbe ella a vestirsi? Per un momento ebbe quasi voglia di andarsene. Che cosa faceva lì? Non gli sarebbe toccato di uscire peggio, solo, a piedi, mentre l'altra monterebbe nella propria carrozza, giacché per nulla al mondo ella avrebbe consentito a farsi accompagnare da lui al ballo? Per così segnalato favore Lelio avrebbe dovuto essere per lo meno il principino; allora il mondo non vi avrebbe trovato nulla a ridire, ma un borghese come lui l'avrebbe resa ridicola. Il mondo riconosce parecchie categorie negli amanti come in ogni altra classe di funzionari. E l'idea di un amore profondo, tenace, con una dama bella ed elegante, che avesse potuto comprendere almeno in parte i bisogni della sua anima e la grandezza dei suoi ideali d'artista, gli appariva dentro la magia di un quadro dalle tinte delicate sopra un fondo misterioso; egli vi si sarebbe sentito più uomo nella forte calma della fede inspirata ad un'altra anima, colla soavità di un abbandono, che lo avrebbe riposato dalle virili fatiche del pensiero. Che cosa direbbe suo padre vedendolo in tal momento ad aspettare come un valletto che la principessa fosse vestita? Gettò la sigaretta e tornò a camminare. Era stanco, irritato di quella attesa troppo lunga anche per un vero amante, e nullameno senza gran cosa di anormale, dacché la festa cominciava alle dieci, e la toeletta di una signora non può in simili casi durare meno di qualche ora. Istintivamente si cercò un libro intorno, fuori nevicava. Egli aveva lasciato la pelliccia in anticamera, ma andando alla festa avrebbe avuto bisogno di trovare subito un fiacre per non sporcarsi le scarpe. Questa preoccupazione gli suggerì di chiamare un servo, che glielo andasse a cercare, poi improvvisamente diventò timido e non l'osò. Che avrebbe pensato costui? Daccapo si distrasse: quindi un altro più meschino pensiero lo fece sorridere quasi con gioia nella speranza che l'abito della principessa fosse brutto e non le attirasse che l'ironia delle signore; sarebbe stata sempre una piccola rivincita per lui, che a quella festa non avrebbe avuto alcuna importanza. Ma gli ultimi quarti d'ora furono addirittura convulsi. Finalmente intese un fruscìo. Ella entrò sorridente col viso in alto: aveva sulla testa un diadema e al collo una collana di oro massiccio ad anella e piastrine, qualche cosa di barbaro e di elegante come il diadema e la collana di Elena, che il dottore Schliemann aveva pochi mesi prima scoperto in Grecia, e già diventati di moda a Parigi. La sua bella testa di gitana ne acquistava un'aria bizzarra d'impero. Rimase un istante sull'uscio quasi incorniciata dalle sue modanature in legno pallido; aveva il busto di un rosso cupo a ricami dorati e, sotto, una campana di merletti rugginosi egualmente ricamati d'oro le copriva la sottana, della quale lo strascico si perdeva al di fuori. Ella s'avanzò guardandolo negli occhi per cogliervi il primo lampo di ammirazione, ma appena nel gabinetto si voltò allo specchio. Un odore acuto di sandalo era entrato con lei. Lelio taceva: allora ella trionfante gli sorrise nello specchio. Le sue spalle brune, nude, parevano più delicate sotto quella pesante fornitura d'oro, senza una gemma, e tutto quell'oro nel busto e nella gonna, che le accendeva intorno una strana fosforescenza. Un'idea passò lampeggiando nel cervello di Lelio. Ella sorrideva ancora. Lelio chinò lievemente la testa al suo sorriso e, affettando la massima circospezione, poiché lo strascico del vestito riempiva quasi tutto il gabinetto, le si accostò per di dietro colle labbra tese per deporle un bacio sulla spalla sinistra. La sua testa spuntò dallo sfondo lucente del cristallo, altrettanto bella, forse più pallida nell'abito nero e sopra quella camicia bianca come la porcellana, mentre ella si aggiustava un riccio sotto il diadema; ma Lelio nel piegarsi per darle il bacio traballò improvvisamente incespicando nell'abito, così che per balzare indietro ne sfondò con un piede la campana dei merletti. Lo stridore della seta lacerandosi anch'essa per oltre la metà della loro altezza fece voltare la principessa, che urtò quasi colla testa in quella di Lelio; era diventata verde come i propri occhi, cogli occhi sfolgoranti. - Villano! - gridò raccogliendo nella mano la strappatura. Lelio attese che rialzasse il capo; i suoi sguardi si urtarono allora in quelli della principessa umidi di lagrime. - Avete perduto la scommessa. Nell'ira di quel dolore ella non comprese nemmeno. - Clelia! - esclamò. - Eppure ve lo aveva detto che non avrei mai avuto per voi il valore di un abito! - soggiunse Lelio tristamente. Ma l'altra l'interruppe con un gesto di disprezzo così violento che l'altro dovette indietreggiare; ella rimaneva sempre così piegata colla strappatura fra le mani. Allora Lelio, che nell'iracondo pentimento di quella vittoria stava per rispondere una ingiuria grossolana, le si inchinò freddamente e, prima ancora che la cameriera accorresse, uscì dal gabinetto. Fuori la neve seguitava a cadere. - Dove vai? - lo chiamò una voce amica all'angolo di via Farini. - sei di ballo? - No. Ho mutato pensiero - rispose abbottonando solamente allora la pelliccia, sotto la quale l'altro aveva veduto il piastrone e la cravatta bianca. - Allora vieni con me, abbiamo una cena con cinque o sei sgualdrine del teatro Brunetti. Staremo allegri. Almeno quelle sono donne che si conoscono prima; non c'è pericolo di essere ingannati. - Tanto peggio, mio caro! - replicò l'altro. E si lasciò trascinare.

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