Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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CENERE

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Deledda, Grazia 2 occorrenze

Se tu mi abbandoni io muoio.» Olì s'intenerì e credette. «E che faremo ora?», domandò. «Mio padre mi bastonerà se continueremo ad amarci.» «Abbi pazienza, agnellino mio. Mia moglie morrà presto; ma anche non morisse io troverò il tesoro e ce ne andremo in Continente». Olì protestò, pianse, non sperò molto nel tesoro, ma continuò ad amoreggiare col servo. La seminagione era terminata, ma Anania andava spesso in campagna per osservare se il grano spuntava, e per estirpare le male erbe dal seminato: nelle ore di riposo, invece di coricarsi, egli diroccava il nuraghe, con la scusa di costruire un muro con le pietre divelte dal monumento, ma in realtà per cercare il tesoro. «Se non qui altrove, ma lo troverò!», diceva ad Olì. «Ebbene, a Maras un servo come me trovò un fascio di verghe d'oro. Egli non si avvide che erano d'oro e le consegnò ad un fabbro. Stupido! Ma io mi accorgerò bene ... Nei nuraghes», raccontava poi, «abitavano i giganti che usavano le masserizie d'oro. Persino i chiodi delle loro scarpe erano d'oro. Oh, si trovano sempre dei tesori, cercandoli bene! A Roma, quando io ero soldato, vidi un luogo dove si conservano ancora le monete d'oro e gli oggetti nascosti dagli antichi giganti. Anche ora, del resto, nelle altre parti del mondo, vivono ancora i giganti, e sono così ricchi che usano gli aratri e le falci d'argento.» Egli parlava sul serio, con gli occhi splendenti di sogni aurei; se però gli avessero chiesto che avrebbe fatto dei tesori che sperava ritrovare, forse non avrebbe saputo dirlo. Per allora progettava soltanto la fuga con Olì: all'avvenire non pensava che in modo fantastico. Verso Pasqua la fanciulla ebbe occasione di recarsi a Nuoro, e domandate notizie della moglie di Anania seppe che costei era una donna anziana, ma niente affatto benestante. «Ebbene», egli disse, appena Olì gli rinfacciò la sua menzogna, «sì, ella adesso è povera, ma quando la sposai era ricca. Dopo le nozze io andai al servizio militare, mi ammalai, spesi molto; anche mia moglie si ammalò. Oh, tu non sai cosa vuol dire una lunga malattia! Poi prestammo dei denari e non ce li restituirono. Poi credo un'altra cosa; che mia moglie tenga i denari nascosti. Ecco, ti giuro che è così.» Egli parlava seriamente, ed Olì credeva. Credeva perché aveva bisogno di credere e perché Anania l'aveva abituata a ritener vere le cose più inverosimili, suggestionato egli stesso dalle sue fantasie. Così, verso i primi di giugno, zappando in un orto del padrone, egli trovò un grosso anello di metallo rossiccio e lo credette d'oro. «Qui ci deve essere certamente un tesoro», pensò, e subito andò a raccontare le sue nuove speranze ad Olì. La primavera regnava nella campagna selvaggia; il fiume azzurrognolo rifletteva i fiori del sambuco, i narcisi esalavano voluttuose fragranze; nelle notti rischiarate dalla luna o dalla via lattea, tiepide e silenti, pareva che nell'aria ondeggiasse un filtro inebbriante. Olì vagava qua e là, con gli occhi velati di passione; nei lunghi crepuscoli luminosi e nei meriggi abbaglianti, quando le montagne lontane si confondevano col cielo, ella seguiva con uno sguardo triste i fratellini seminudi, neri come idoletti di bronzo, e mentre essi animavano il paesaggio con le loro grida di uccelli selvatici, ella pensava al giorno in cui avrebbe dovuto abbandonarli per partire con Anania. Ella aveva veduto l'anello ritrovato dal giovine, e sperava e aspettava, col sangue arso dai veleni della primavera. «Olì!», chiamò la voce di Anania, dietro una macchia. Olì tremò, avanzò cauta, cadde fra le braccia del giovine. Sedettero sull'erba ancora tiepida, accanto ad un fascio di puleggi e d'alloro selvatico che esalava un forte profumo. «Quasi quasi non venivo», disse il giovine. «La padrona deve sgravarsi stanotte, e mia moglie, che sta ad assisterla, voleva che io restassi in casa. "No", le dissi, "stanotte devo cogliere il puleggio e l'alloro; non sai che è San Giovanni?" E son venuto. Ecco.» Si frugava in seno, mentre Olì toccava l'alloro chiedendo a che serviva. «Non lo sai, dunque? L'alloro colto stanotte serve per medicina e per tante altre cose: se, per esempio, tu spargi le foglie di quest'alloro qua e là sui muri intorno ad una vigna o ad un ovile, gli animali rapaci non potranno penetrarvi, né rosicchiar l'uva, né rapire gli agnelli.» «Ma tu non sei pastore.» «Io però guarderò la vigna del padrone: poi queste foglie le metterò anche intorno all'aia, perché le formiche non rubino il grano. Verrai tu, quando io batterò il grano? Ci sarà molta gente; faremo festa e alla notte canteremo.» «Oh, mio padre non vorrà!», ella disse sospirando. «Ma è curioso quell'uomo! Si vede che non conosce mia moglie: ella è decrepita come le pietre», disse Anania, sempre frugandosi in seno. «Ma dove l'ho messa?» «Che cosa? Tua moglie?», chiese maliziosamente Olì. «Ebbene, una croce! Ho trovato anche una croce d'argento.» «Anche una croce d'argento? Dove era l'anello? E tu non me lo dicevi?» «Ah, eccola. Sì, è d'argento vero.» Egli trasse di sotto l'ascella un involtino: Olì lo svolse, palpò la crocetta e domandò ansiosa: «Ma è dunque vero? Il tesoro c'è?». E pareva così felice che Anania, sebbene avesse trovato la crocetta in campagna, credette bene di lasciarla nella sua illusione. «Si, là, nell'orto. Chissà quanti oggetti preziosi ci saranno! Ma bisognerà che io frughi di notte.» «Ma il tesoro è del padrone.» «No, è di chi lo trova!», rispose Anania; e quasi per avvalorare questo suo principio egli cinse Olì con un braccio e cominciò a baciarla. «Se io troverò il tesoro tu verrai?», le chiese tremando. «Verrai, dimmi, fiore? Bisogna che io lo trovi subito perché non posso più vivere lontano da te. Ah, vedi, quando vedo mia moglie sento voglia di morire, mentre vorrei vivere mille anni con te. Fiore mio!» Olì ascoltava e tremava. Intorno era profondo silenzio; le stelle brillavano sempre più perlate, come occhi sorridenti d'amore, e sempre più dolci erravano nell'aria i profumi delle erbe aromatiche. «Mia moglie morrà presto, Olì, cuoricino mio! Sì, che fanno i vecchi sulla terra? Chissà? Fra un anno, forse, noi saremo sposi.» «San Giovanni lo voglia!», sospirò Olì. «Ma non bisogna desiderare la morte di nessuno. Ed ora lasciami andare.» «Rimani ancora un po'», egli supplicò con voce infantile, «perché vuoi andartene così presto? Che farò io senza di te?» Ma ella si alzò tutta vibrante. «Forse ci rivedremo domani mattina, perché coglierò le erbe prima che sorga il sole: ti farò un amuleto contro le tentazioni ... » Ma egli non aveva paura delle tentazioni: s'inginocchiò, cinse Olì con ambe le braccia e si mise a gemere. «No, non andartene, non andartene, fiore; rimani ancora un poco, Olì, agnellino mio; tu sei la mia vita; ecco, io bacio la terra dove tu posi i piedi, ma rimani ancora un poco; altrimenti io muoio.» Egli gemeva e tremava, e la sua voce commoveva Olì fino alle lagrime. Ella rimase. Solo in autunno zio Micheli si accorse che sua figlia aveva peccato. Una collera feroce invase allora l'uomo stanco e sofferente che aveva conosciuto tutti i dolori della vita, fuorché il disonore. A questo si ribellò. Prese Olì per un braccio e la cacciò via di casa. Ella pianse, ma zio Micheli fu inesorabile. Egli l'aveva avvertita mille volte; e forse avrebbe perdonato se ella avesse peccato con un uomo libero; ma così no, non poteva perdonare. Per qualche giorno Olì visse nella casa in rovina intorno alla quale Anania aveva seminato il grano; i fratellini le portavano qualche tozzo di pane, ma zio Micheli se ne accorse e li bastonò. Allora Olì, per non morire di fame e di freddo, giacché l'autunno copriva di grandi nubi livide il cielo, e il vento umido soffiava attraverso le macchie arrossate dal gelo, s'avviò verso Nuoro per chiedere aiuto all'amante. Fosse caso od avvertenza, a metà strada incontrò Anania che la confortò, la coprì col suo gabbano e la condusse a Fonni, paese di montagna, al di là di Mamojada. «Non aver paura», disse il giovine, «ora ti conduco da una mia parente, presso la quale starai benissimo; sta tranquilla, ché io non ti abbandonerò mai.» La condusse in casa di una vedova che aveva un figliolino di quattro anni. Nel vedere questo bambino, nero, lacero, tutto orecchie ed occhi, Olì pensò ai fratellini e pianse. Ah, chi si sarebbe più curato dei poveri orfanelli? Chi avrebbe dato loro da mangiare e da bere; chi preparerebbe il pane nella cantoniera, chi laverebbe più i panni nel fiume azzurro? E che avverrebbe mai di zio Micheli, il povero vedovo febbricitante ed infelice? Basta, Olì pianse un giorno ed una notte; poi si guardò attorno con occhi foschi. Anania era partito; la vedova fonnese, pallida e scarna, con un viso di spettro, circondato da una benda giallastra, filava seduta davanti ad un fuocherello di fuscelli: tutto intorno era miseria, stracci, fuliggine. Dal tetto di scheggie annerite dal fumo pendevano, tremolanti, grandi tele di ragno; pochi arnesi di legno formavano le masserizie della misera casa. Il bimbo dalle grandi orecchie, vestito già in costume, con un berrettone di pelle lanosa, non parlava né rideva mai: soltanto si divertiva ad arrostire castagne fra la cenere ardente. «Abbi pazienza, figlia», disse la vedova alla fanciulla, senza sollevare gli occhi dal fuso. «Sono cose del mondo. Oh, ne vedrai delle peggiori, se vivrai. Siamo nati per soffrire: anch'io da ragazza ho riso, poi ho pianto; ora tutto è finito.» Olì si senti gelare il cuore. Oh, che tristezza, che tristezza immensa! Fuori cadeva la notte, faceva freddo, il vento rombava con un fragore di mare agitato. Al chiarore giallognolo del fuoco la vedova filava e ricordava; ed anche Olì, accoccolata per terra, ricordava la notte calda e voluttuosa di San Giovanni, il profumo dell'alloro, la luce delle stelle sorridenti. Le castagne del piccolo Zuanne scoppiavano fra la cenere che si spargeva sul focolare. Il vento batteva furiosamente alla porta come un mostro scorrazzante nella notte cupa. «Anch'io», disse la vedova, dopo un lungo silenzio, «anch'io ero di buona famiglia. Il padre di questo moscherino si chiamava Zuanne; perché, vedi, sorella cara, ai figli bisogna sempre mettere il nome del padre affinché gli somiglino. Ah, sì, era molto abile mio marito. Alto come un pioppo, vedi là, il suo gabbano è ancora appeso al muro.» Olì si volse e sulla parete color terra vide infatti un lungo gabbano d'orbace nero, fra le cui pieghe i ragni avevano tessuto i loro veli polverosi. «Non lo toccherò mai», riprese la vedova, «anche se dovrò morire di freddo. I miei figli lo indosseranno quando saranno abili come il padre loro.» «Ma cosa era il padre?», chiese Olì. «Ebbene», disse la vedova, senza cambiar tono di voce, ma col viso spettrale lievemente animato, «egli era un bandito. Dieci anni stette bandito, sì, dieci anni. Egli dovette darsi alla campagna pochi mesi dopo le nostre nozze: io andavo a trovarlo sui monti del Gennargentu, egli cacciava mufloni, aquile, avoltoi, ed ogni volta ch'io andavo a trovarlo, egli faceva arrostire una coscia di muflone. Dormivamo all'aperto, sotto il vento, sulle cime dei monti; ma ci coprivamo con quel gabbano là e le mani di mio marito ardevano sempre, anche quando nevicava. Spesso si stava in compagnia ... » «Con chi?», domandò Olì, che ascoltando la vedova dimenticava le sue pene. Anche il bimbo ascoltava, con le grandi orecchie intente: sembrava una lepre quando sente il grido della volpe lontana. «Ebbene, con altri banditi. Erano tutti uomini abili, svelti, pronti a tutto e specialmente alla morte. Tu credi che i banditi siano gente cattiva? Tu ti inganni, sorella cara: essi sono uomini che hanno bisogno di spiegare la loro abilità; null'altro. Mio marito soleva dire: "Anticamente gli uomini andavano alla guerra: ora non si fanno più guerre, ma gli uomini hanno ancora bisogno di combattere, e commettono le grassazioni, le rapine, le bardanas non per fare del male, ma per spiegare in qualche modo la loro forza e la loro abilità!".» «Bella abilità, zia Grathia! E perché non si battono la testa al muro, se non hanno altro da fare?» «Tu non capisci, figlia», disse la vedova, triste e fiera. «È il destino che vuole così. Ora ti racconterò perché mio marito si fece bandito.» Ella disse si fece con una certa fierezza, non priva di vanità. «Sì, raccontate», rispose Olì, con un lieve brivido per le spalle. L'ombra addensavasi, il vento urlava sempre più forte, con un continuo rombo di tuono: pareva di essere in una foresta sconvolta dall'uragano, e le parole e la figura cadaverica della vedova, in quell'ambiente nero, illuminato solo a sprazzi dalla fiamma lividognola del misero fuoco, davano ad Olì una infantile voluttà di terrore, e pareva di assistere ad una di quelle paurose fiabe che Anania aveva narrato ai suoi fratellini: ed ella, ella stessa, con la sua miseria infinita faceva parte della triste storiella. La vedova raccontò: «Eravamo sposi da pochi mesi; eravamo benestanti, sorella cara: avevamo frumento, patate, castagne, uva secca, terre, case, cavallo e cane. Mio marito era proprietario; spesso non aveva che fare e s'annoiava. Allora diceva: "Voglio diventar negoziante; così ozioso non posso vivere, perché sono sano, forte, abile, e mentre sto in ozio mi vengono le cattive idee". Però non avevamo capitali abbastanza perché egli potesse fare il negoziante. Allora un suo amico gli disse: "Zuanne Atonzu, vuoi prender parte ad una bardana? Si andrà in gran numero, guidati da banditi abilissimi, e si assalterà, in un paese lontano, la casa di un cavaliere che ha tre casse piene d'argenteria e di monete. Un uomo di quel paese è venuto apposta nel Capo di Sopra per raccontare la cosa ai banditi, invitandoli a fare una bardana; egli stesso ci indicherà la via. Ci son foreste da attraversare, montagne da salire, fiumi da guadare. Vieni". Mio marito mi svela l'invito del suo amico. "Ebbene", dico io, "che bisogno hai tu dell'argenteria di quel cavaliere?" "No", risponde mio marito, "io sputo sulla forchetta che può spettarmi dopo il bottino, ma ci son foreste e montagne da attraversare, cose nuove da vedere, ed io mi divertirò. Sono poi curioso di vedere come i banditi se la caveranno. Non accadrà niente di male, via; tanti altri giovani verranno, come me, per dar prova di abilità e per passare il tempo. Ebbene, non è peggio se vado alla bettola e mi ubriaco?" Io piansi, scongiurai», continuò la vedova, sempre torcendo il filo con le dita scarne, e seguendo con gli occhi cupi il movimento del fuso, «ma egli partì. Disse di recarsi a Cagliari per affari ... Egli partì,» ripeté la donna, con un sospiro, «ed io rimasi sola: ero incinta. Dopo seppi come andarono i fatti. La compagnia era composta di circa sessanta uomini: viaggiavano a piccoli gruppi, ma di tanto in tanto si riunivano in certi punti stabiliti, per deliberare sul da farsi. Serviva da guida l'uomo del paese verso cui erano diretti. Capitano della bardana era il bandito Corteddu, un uomo dagli occhi di fuoco e col petto coperto di pelo rosso; un gigante Golia, forte come il lampo. Nei primi giorni del viaggio piovette, si scatenarono uragani, i torrenti strariparono, il fulmine colpì uno della compagnia. Di notte procedevano al fulgore dei lampi. Allora, arrivati in una foresta vicina al Monte dei Sette Fratelli, il capitano riunì i capi della bardana e disse: "Fratelli miei, i segni del cielo non sono per noi propizi. L'impresa riuscirà male; inoltre sento l'odore del tradimento; credo che la guida sia una spia. Facciamo una cosa: sciogliamo la compagnia; vuol dire che l'impresa si farà un'altra volta". Molti approvarono la proposta, ma Pilatu Barras, il bandito d'Orani, che aveva il naso d'argento perché il vero glielo aveva portato via una palla, sorse e disse: "Fratelli in Dio", egli usava sempre dire così, "fratelli in Dio, io respingo la proposta. No. Se piove non vuol dire che il cielo non ci protegga: anzi un po' di disagio fa bene, abitua i giovani a vincere la mollezza. Se la guida ci tradisce la ammazzeremo. Avanti, puledri!". Corteddu scosse la testa di leone, mentre un altro bandito mormorava con disprezzo: "Si vede che colui non può fiutare!". Allora Pilatu Barras gridò: "Fratelli in Dio, sono i cani che fiutano, non i cristiani! Il mio naso è d'argento e il vostro è di osso di morto. Ebbene, ecco che cosa io vi dico: se noi sciogliamo ora la compagnia sarà un brutto esempio di viltà; pensate che fra noi ci sono dei giovani alle prime armi; essi non chiedono che di spiegare la loro abilità come si spiega una bandiera nuova; se ora invece voi li mandate via, date loro esempio di vigliaccheria, ed essi ritorneranno fra la cenere dei loro focolari, resteranno oziosi e non saranno più buoni a niente. Avanti, puledri!". Allora altri capi diedero ragione a Pilatu Barras e la compagnia andò avanti. Corteddu aveva ragione, la guida li tradiva. Entro la casa del ricco cavaliere stavano nascosti i soldati: si combatté e molti banditi rimasero feriti, altri vennero riconosciuti, uno fu ucciso. Perché non lo riconoscessero, i compagni lo denudarono, gli tagliarono la testa, la portarono via con le vesti e la seppellirono nella foresta. Mio marito fu riconosciuto e perciò dovette farsi bandito ... Io abortii». Mentre parlava la donna aveva cessato di filare e aveva steso le mani al fuoco. Olì rabbrividiva di freddo, di terrore e di piacere: come il racconto della vedova era orribile e bello! Ah! Ed essa, Olì, aveva sempre creduto che i banditi fossero gente malvagia! No, erano poveri disgraziati, spinti al male dalla fatalità, come era stata spinta lei. «Ora ceniamo», disse la donna, scuotendosi. Si alzò, accese una primitiva candela di ferro nero, e preparò la cena: patate e sempre patate: da due giorni Olì non mangiava altro che patate e qualche castagna. «Anania è vostro parente?», chiese la fanciulla dopo un lungo silenzio, mentre cenavano. «Sì, mio marito era parente di Anania, ma in ultimo grado, poiché anche lui non era fonnese natìo. I suoi avi erano di Orgosolo. Però Anania non rassomiglia punto al beato», rispose la donna scuotendo il capo con disprezzo. «Ah, sorella cara, mio marito si sarebbe appiccato ad una quercia prima di commettere l'azione vile di Anania.» Olì si mise a piangere; fece chinare la testa del piccolo Zuanne sulle sue ginocchia, gli strinse una manina sporca e dura, e pensò ai suoi fratellini abbandonati. «Essi saranno come gli uccellini nudi entro il nido, quando la madre, ferita dal cacciatore, non torna da loro. Chi darà loro da mangiare? Chi farà loro da madre? Pensate che l'ultimo, il più piccolo, non si sa ancora vestire né spogliare.» «Dormirà vestito, allora!», rispose la vedova per confortarla. «Perché piangi, idiota? Dovevi pensarci prima: ora è inutile. Abbi pazienza. Iddio Signore non abbandona gli uccelli del nido.» «Che vento! Che vento!», si lamentò poi Olì. «Credete voi ai morti?» «Io?», disse la vedova, spegnendo la candela e riprendendo il fuso. «Io non credo né ai morti né ai vivi ... » Zuanne sollevò il capo, disse piano piano: «Io cì!» e nascose ancora il viso in grembo ad Olì. La vedova riprese i suoi racconti: «Io poi ebbi un altro figlio, che ora ha otto anni ed è già servetto in un ovile. Poi ebbi questo. Ah, siamo ben poveri adesso, sorella cara; mio marito non era un ladrone, no; viveva del suo e perciò dovemmo vendere tutto, tranne questa casa». «Come morì?», domandò la fanciulla, accarezzando la testa del bimbo che pareva addormentato. «Come morì? In un'impresa. Egli non stette mai in carcere», osservò con fierezza la vedova, «sebbene la giustizia lo ricercasse, come il cacciatore ricerca il cinghiale. Egli però sfuggiva abilmente ad ogni agguato, e mentre la giustizia lo cercava sui monti, egli passava la notte qui, sì, proprio qui, davanti a questo focolare, dove stai seduta tu ... » Il bimbo sollevò la testa, con le grandi orecchie improvvisamente accese, poi la riabbassò sul grembo di Olì. «Sì, proprio lì. Una volta, due anni or sono, seppe che una pattuglia doveva percorrere la montagna ricercandolo. Allora mi mandò a dire: "Mentre i dragoni mi ricercheranno, io prenderò parte ad una impresa; al ritorno passerò la notte in casa; mogliettina mia, aspettami". Io aspettai, aspettai, tre, quattro notti: filai un rotolo di lana nera.» «Dove era andato?» «Non te lo dissi? Ad una impresa, ad una bardana, ecco!» esclamò la vedova con una certa impazienza: poi riabbassò la voce: «Io aspettai quattro notti, ma ero triste: ogni passo che udivo mi faceva battere il cuore; e le notti passavano, il mio cuore si stringeva, si faceva piccolo come il seme d'una mandorla. Alla quarta notte udii battere alla porta e aprii. "Donna, non aspettare più", mi disse un uomo mascherato. E mi diede il gabbano di mio marito. Ah!». La vedova diede un sospiro che parve un grido, poi tacque; e Olì la fissò a lungo, ma ad un tratto il suo sguardo seguì lo sguardo atterrito di Zuanne. Le manine del bimbo, dure e brune come zampe d'uccello, si agitavano e additavano la parete. «Che hai? Che cosa vedi?» «Un motto ... », egli sussurrò. «Ma che morto! ... », ella disse ridendo, improvvisamente allegra. Ma quando fu a letto, sola, in una specie di soffitta grigia e fredda, sul cui tetto il vento urlava ancora più tonante, smuovendo e sbattendo le assi, ella ripensò ai racconti della vedova, all'uomo mascherato che le aveva detto: «donna, non aspettare più!», al lungo gabbano nero, al bimbo che vedeva i morti, agli uccellini nudi del nido abbandonato, ai suoi poveri fratellini, ai tesori di Anania, alla notte di San Giovanni, a sua madre morta; ed ebbe paura e si sentì triste, così triste che, sebbene si ritenesse dannata all'inferno, desiderò di morire.

Bisogna che ti abbandoni ancora con inganno, per farti il bene per forza? Sì, io ti lascerò, io me ne andrò. Tu non sei il mio padrone. Io non so chi tu sei ... Io sono libera ... e me ne andrò ... » Egli sollevò il volto e la guardò. Non era più irato; ma i suoi occhi freddi e il suo viso livido, improvvisamente invecchiato, incutevano spavento. «Sentite», disse con voce ferma, «finiamola. È deciso tutto, e non c'è da discutere oltre. Voi non muoverete un passo senza che io lo sappia. E badate bene, e tenete a mente le mie parole come se fossero le parole di un morto: se finora ho sopportato il disonore della vostra vita vergognosa era perché non potevo impedirlo, e perché speravo di por fine a tale obbrobrio. Ma d'ora in avanti sarà altra cosa. Se voi vi permettete di andar via di qui vi seguirò, vi ucciderò e mi ucciderò! Tanto non mi importa più nulla di vivere!» Olì lo guardava con terrore: in quel momento egli era rassomigliantissimo a zio Micheli, il padre, quando l'aveva cacciata via dalla cantoniera; gli stessi occhi freddi, lo stesso volto calmo e terribile, la stessa voce cavernosa, lo stesso accento inesorabile. Le parve di vedere il fantasma del vecchio, che risorgeva per castigarla, e sentì l'orrore della morte intorno a sé. Non disse più parola, e si accoccolò per terra, tutta tremante di spavento e di disperazione. Una triste notte cadde sul villaggio desolato dal vento. Anania, che non aveva potuto trovare un cavallo per ripartire subito, dovette passare la notte a Fonni, e dormì d'un sonno inquieto, simile al sonno di un condannato nella prima notte dopo la sentenza. Olì e la vedova vegliarono lungamente accanto al fuoco: Olì aveva il freddo foriero della febbre e batteva i denti, sbadigliava e gemeva. Come in una notte lontana, il vento rombava sopra la cucina vigilata dalla spoglia nera del bandito, e la vedova filava, alla luce giallognola del fuoco, impassibile e pallida come uno spettro: ma questa volta ella non narrava alla sua ospite le storie del marito, e non osava confortarla. Solo, di tanto in tanto, la supplicava inutilmente di andare a letto. «Andrò se mi fate una carità», disse finalmente Olì. «Parla.» «Chiedetegli se egli ha ancora la rezetta che gli diedi il giorno che siamo fuggiti di qui; e pregatelo di farmela vedere.» La vecchia promise, e Olì si alzò: tremava tutta, e sbadigliava tanto che le sue mascelle scricchiolavano. Tutta la notte vaneggiò, arsa dalla febbre; ogni tanto chiedeva la rezetta e si lamentava infantilmente perché zia Grathia, coricatale a fianco, non si alzava e non andava da Anania per chiedergliela. Un dubbio le attraversava la mente in delirio: che Anania non fosse suo figlio. No, egli era troppo crudele e spietato; ella, che era stata la vittima di tutti non poteva convincersi che suo figlio dovesse torturarla più degli altri. Nel delirio raccontò a zia Grathia che aveva attaccato al collo di Anania quel sacchettino per riconoscerlo quando sarebbe stato grande e ricco. «Io volevo andare a trovarlo un giorno, vecchia vecchia, col bastone. Dun! Dun! picchiavo alla sua porta. "Io sono Maria Santissima trasformata in mendicante!" I servi ridevano e chiamavano il padrone. "Vecchia, che cosa vuoi?" "Io so che tu hai un sacchettino così e così: io so chi te lo ha dato; se tu oggi hai tante tancas e servi e buoi lo devi a quella povera anima che ora è ridotta a sette once di polvere. Addio, dammi un po' di pane col miele. E perdona alla povera anima." "Servi, segnatevi, questa vecchia che indovina ogni cosa è Maria Santissima ... " Ah, ah, ah, la rezetta, la voglio ... Quel giovine non è ... lui! La rezetta ... la rezetta ... » All'alba zia Grathia entrò da Anania e gli raccontò ogni cosa. «Ah», diss'egli con un sorriso amaro, «ci voleva anche questa! che ella dubitasse! Gliela farò vedere io ... se sono io!» «Figlio, non essere snaturato: contentala almeno in questa piccola cosa ... », supplicò zia Grathia. «Ma io non l'ho più quel sacchettino; l'ho buttato via: se lo ritroverò ve lo manderò.» Zia Grathia insisté inoltre per sapere l'esito del colloquio che Anania avrebbe avuto con la fidanzata. «Se ella veramente ti vuol bene, si rallegrerà della tua buona azione», gli disse, per confortarlo. «No non ti rifiuterà, anche se tu le dici che non rinneghi tua madre. Ah, l'amore vero non bada ai pregiudizi del mondo: io amavo pazzamente mio marito quando tutto il resto del mondo lo disprezzava ... » «Vedremo», disse melanconicamente Anania, «vi scriverò ... » «Per carità, non scrivermi, gioiello d'oro! Io non so leggere, lo sai, e non voglio far sapere a nessuno i fatti tuoi. Piuttosto mandami un segno. Senti, se ella non ti rifiuta mandami la rezetta avvolta in un fazzoletto bianco; se ti rifiuta, mandala avvolta in un fazzoletto di colore ... » Egli promise di contentare la vecchia. «Ma tu quando tornerai?» «Non so; fra non molto certamente, appena avrò aggiustato i miei affari.» Egli partì senza aver riveduto Olì; un'angoscia infinita l'opprimeva; il viaggio gli sembrava eterno, e sebbene un tenue filo di speranza lo guidasse, non avrebbe voluto arrivare mai a Nuoro. «Ella mi ama», pensava, «forse mi ama come nonna amava suo marito. La sua famiglia mi disprezzerà, mi caccerà; ma ella mi dirà: "Ti aspetterò, ti amerò sempre ... ". Sì, ma che posso io prometterle? Oramai il mio avvenire è distrutto». Un'altra speranza inconfessabile, egli sentiva però in fondo al cuore: che Olì fuggisse ancora: egli non osava palesare a se stesso questa speranza, ma la sentiva, la sentiva; e se ne vergognava, e ne calcolava tutta la viltà, ma non poteva scacciarla ... Nel momento in cui aveva gridato: «Vi ucciderò e mi ucciderò», era stato sincero, ma ora gli pareva che tutto fosse stato un orribile sogno; e nel rivedere la strada e i paesaggi che tre giorni prima aveva attraversato con tanta gioia nell'anima, e nell'avvicinarsi a Nuoro, il senso della realtà lo stringeva acerbamente. Appena arrivato cercò il sacchettino, e per un'idea superstiziosa, - poiché egli credeva che le cose prevedute non avvengono, - lo avvolse in un fazzoletto di colore. Ma poi pensò che i tristi avvenimenti di quei giorni egli li aveva sempre attesi e preveduti, e si irritò contro la sua puerilità. «Del resto, perché debbo mandare il sacchettino? Perché debbo contentarla?», disse fra sé, sbattendo l'involto contro il muro. Ma subito lo raccattò, pensando: «Per zia Grathia. Alle quattro vado dal signor Carboni e gli dico tutto», decise poi. «Bisogna finirla oggi stesso. Bisogna esser uomini. Ed Ora dormiamo.» Si buttò sul letto e chiuse gli occhi. Eran circa le due; un meriggio caldissimo e silenzioso. Egli aveva ancora nelle orecchie il rombo del vento, ricordava il freddo della notte passata a Fonni, e provava una strana impressione. Gli pareva d'esser caduto in un abisso roccioso, fra montagne erte desolate che soffocavano il breve orizzonte; ricordi lontani gli risalivano dal profondo dell'anima: le notti di febbre a Roma, il fragore del vento su Bruncu Spina, una poesia del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa, la canzone del mandriano che era passato nella straducola la sera in cui zia Tatàna aveva chiesto la mano di Margherita. Ma nello sfondo della sua immaginazione nereggiava sempre la cucina della vedova, col cappotto nero e vuoto come un simbolo, con la figura di Olì dai grandi occhi di gatto selvatico. Che dolore e che tristezza gli causavano ora quegli occhi! Così rimase a lungo, senza poter dormire, ma con gli occhi ostinatamente chiusi, immerso in un cupo torpore. A un tratto pensò alla morte, meravigliandosi che questo pensiero non gli fosse ancora balenato in mente. «Nessuna cosa è più certa della morte; eppure ci tormentiamo tanto per cose che passano inesorabilmente. Tutto passerà: tutti morremo: perché soffrire così? ... E se alle quattro mi suicidassi? Sì.» Per qualche momento l'impressione della fine lo gelò tutto. Passò, ma gli lasciò una oppressione così spaventosa che egli sentì il bisogno di scuotersi per liberarsene. Solo allora si accorse che, in fondo, mentre gli pareva d'esser in preda alla più cupa disperazione, egli sperava sempre. «Margherita! Margherita! Parlerò con lei stanotte; ella mi dirà di tacere ogni cosa a suo padre, di aspettare, di fingere. No, non voglio essere vile. Voglio essere uomo. Alle quattro sarò dal signor Carboni.» Alle quattro, infatti, egli passò davanti alla porta di Margherita, ma non poté fermarsi, non poté suonare. E passò oltre avvilito, pensando di ritornare più tardi, ma convinto, in fondo, che non sarebbe riuscito giammai di aver il colloquio col padrino. Due giorni e due notti trascorsero così in una vana battaglia di pensieri cangianti come onde agitate. Nulla pareva mutato nella sua vita e nelle sue abitudini; egli aveva ripreso a dar lezioni agli studentelli in vacanza, leggeva, mangiava, passava sotto le finestre di Margherita e vedendola la guardava ardentemente: ma durante la notte zia Tatàna lo udiva camminare per la camera, scendere nel cortile, uscire, rientrare, vagare: pareva un'anima in pena, e la buona vecchia lo credeva ammalato. Che aspettava egli? Che sperava? Il giorno dopo il suo ritorno, vedendo un uomo di Fonni attraversare la viuzza, impallidì mortalmente. Sì, egli aspettava qualche cosa ... qualche cosa d'orribile: la notizia che ella fosse scomparsa nuovamente; e si accorgeva benissimo della sua viltà, ma nello stesso tempo era pronto ad eseguire la sua minaccia: «vi seguirò, vi ucciderò, mi ucciderò». In certi momenti gli pareva che niente fosse vero; nella casa della vedova c'era soltanto la vecchia, col suo cappotto e le sue leggende: niente altro ... niente altro ... La seconda notte dopo il suo ritorno udì zia Tatàna raccontare una fiaba ad un bimbo del vicinato: « ... La donna fuggiva, fuggiva, gettando dei chiodi che si moltiplicavano, si moltiplicavano, coprivano tutta la pianura. Zio Orco la inseguiva, la inseguiva, ma non arrivava a prenderla perché i chiodi gli foravan i piedi ... ». Che piacere angoscioso aveva destato quella fiaba in Anania bambino, specialmente nei primi giorni dopo il suo abbandono! Quella notte egli sognò che l'uomo di Fonni gli aveva portato la novella: ella era fuggita ... egli la inseguiva, la inseguiva ... attraverso una pianura coperta di chiodi ... Eccola, ella è là, all'orizzonte: fra poco egli la raggiungerà e la ucciderà; ma egli ha paura, ha paura ... perché ella non è Olì, è il mandriano passato nella viuzza mentre zia Tatàna era dal signor Carboni ... Anania corre, corre; i chiodi non lo pungono, eppure egli vorrebbe che lo pungessero ... Olì, trasformata in mandriano, canta: canta i versi del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa; ecco, egli sta per raggiungerla e ucciderla, e un gelo di morte lo agghiaccia tutto ... Si svegliò coperto da un sudore freddo, mortale; il cuore non gli batteva più, ed egli scoppiò in un pianto d'angoscia violenta. Il terzo giorno Margherita, meravigliata che egli non scrivesse, lo invitò al solito convegno. Egli andò, raccontò la gita, si abbandonò alle carezze di lei come un viandante stanco si abbandona alle carezze del vento, all'ombra d'un albero, sull'orlo della via; ma non poté dire una sola parola sul cupo segreto che lo divorava. 18 settembre, ore due di notte Margherita, Sono rientrato a casa adesso, dopo aver pazzamente errato per le strade. Mi pare d'impazzire da un momento all'altro ed è anche questa paura che mi spinge a confidarti, - dopo una lunga inenarrabile indecisione, - il dolore che mi uccide. Ma voglio esser breve. Margherita, tu sai chi io sono: figlio della colpa, abbandonato da una madre più disgraziata che colpevole, io sono nato sotto un astro terribile e devo espiare delitti non miei. Inconsapevole del mio triste destino, spinto dalla fatalità, io ho trascinato con me, nell'abisso dal quale io non potrò mai uscire, la creatura che ho amato sopra tutte le creature della terra. Te, Margherita ... Perdonami, perdonami! Questo è il mio più immenso dolore, il rimorso terribile che mi strazierà per tutto il resto della vita, se pure vivrò ... Senti. Mia madre è viva: dopo una esistenza di colpe e di dolori, ella è risorta davanti a me come un fantasma. Essa è miserabile, malata, invecchiata dal dolore e dalle privazioni. Il mio dovere, tu stessa lo dici a te stessa in questo momento, è di redimerla. Ho deciso di riunirmi con lei, di lavorare per sostenerla, di sacrificare la vita stessa, se occorre, per compiere il mio dovere. Margherita, che dirti altro? Mai come in questo momento ho sentito il bisogno di aprirti tutta l'anima mia, simile ad un mare in tempesta, e mai ho sentito mancarmi le parole come mi mancano in quest'ora decisiva della mia vita. La ragione stessa mi manca; ho ancora sulle labbra il profumo dei tuoi baci e tremo di passione e di angoscia ... Margherita, Margherita, la mia vita è nelle tue mani! Abbi pietà di me ed anche di te. Sii buona come io ti ho sempre sognata! Pensa che la vita è breve, e che la sola realtà della vita è l'amore, e che nessun uomo della terra ti amerà come ti amo e ti amerò io. Non calpestare la nostra felicità per i pregiudizi umani, i pregiudizi che gli uomini invidiosi inventarono per rendersi scambievolmente infelici. Tu sei buona, sei superiore: dimmi almeno una parola di speranza per l'avvenire. Ma che dico? Io divento pazzo; perdonami, e ricordati che, qualunque cosa accada, io sarò sempre tuo per l'eternità. Scrivimi subito ... A. 19 settembre Anania, La tua lettera mi sembra un orrendo sogno. Anch'io non trovo parole per esprimermi. Vieni stanotte, alla solita ora, e decideremo assieme il nostro destino. Sono io che devo dire: la mia vita è nelle tue mani. Vieni, ti aspetto ansiosamente ... M. 19 settembre Margherita, Il tuo bigliettino mi ha gelato il cuore; sento che il mio destino è già deciso, ma un filo di speranza mi guida ancora. No, non posso venire; anche volendolo non potrei venire. Non verrò se tu non mi dirai prima una parola di speranza. Allora correrò a te per inginocchiarmi ai tuoi piedi e per ringraziarti e adorarti come una santa. Ma ora no, non posso, e non voglio. Quanto ti scrissi la notte scorsa è la mia irrevocabile decisione; scrivimi, non farmi morire in questa attesa terribile. Il tuo infelicissimo A. 19 settembre, mezzanotte Anania, Nino mio, Ti ho aspettato fino a questo momento, palpitante di dolore e di amore, ma tu non sei venuto, tu forse non verrai mai più, ed io ti scrivo, in quest'ora soave dei nostri convegni, con la morte nel cuore e le lagrime negli occhi non ancora stanchi di piangere. La luna smorta cala sul cielo velato, la notte è melanconica e quasi lugubre e mi pare che tutto il creato si rattristi per la sventura che opprime il nostro amore. Anania, perché mi hai tu ingannato? Io sapevo sì, come tu dici, quello che tu sei, e ti amai appunto perché sono superiore ai pregiudizi umani, perché volevo ricompensarti delle ingiustizie che la sorte aveva tramato a tuo danno, e sopratutto perché credevo che anche tu, anche tu fossi superiore ai pregiudizi, e avessi riposto in me, come io avevo riposto in te, tutta la tua vita. Invece mi sono ingannata; o meglio sei stato tu ad ingannarmi, tacendomi i tuoi veri sentimenti. Ho sempre creduto che tu sapessi che tua madre viveva, e dove si trovava, e la vita che conduceva; ma ero certa che tu, vilmente abbandonato da lei, non facessi più caso d'una madre snaturata, tua sventura e disonore, e la ritenessi come morta per te e per tutti ... Non solo, ma ero certa che se ella osava presentarsi a te, come pur troppo é accaduto, tu non ti saresti degnato neppure di guardarla ... E invece, invece! Invece tu ora scacci chi ti ha lungamente amato e ti amerà sempre, per sacrificare la tua vita e il tuo onore a chi ti ha abbandonato, bambino inconsapevole; a chi ti avrebbe ucciso o lasciato in un bosco, in un deserto, pur di liberarsi di te. Ma è inutile che io ti scriva queste cose, perché tu certamente le capisci meglio di me; ed è inutile che tu continui ad illudermi e ad invocare sentimenti che io non posso avere dal momento che neppure tu li hai. Perché, vedi, io capisco benissimo che tu vuoi sacrificarti non per affetto, e neppure per generosità, - perché probabilmente tu odii giustamente la donna che fu la tua rovina, - ma spinto da quei pregiudizi umani inventati dagli uomini per rendersi scambievolmente infelici. Sì, sì: tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentir dire: "hai fatto il tuo dovere!". Tu sei un fanciullo, e il tuo è un sogno pericoloso ma anche, permettimi di dirtelo, anche ridicolo. La gente, sapendolo, ti loderà, sì, ma in fondo riderà della tua semplicità. Anania, torna in te, sii buono, con te e con me, come tu dici, e sopratutto sii uomo. No, io non dico di abbandonare tua madre, debole e infelice, come essa ti ha abbandonato: no, noi l'aiuteremo, noi lavoreremo per lei, se occorre, ma che essa stia lontana da noi, che essa non venga a mettersi fra noi, a turbare la nostra vita con la sua presenza. Mai! mai! Perché dovrei ingannarti, Anania? Io non posso neppure lontanamente ammettere la possibilità di vivere assieme con lei ... Ah, no! Sarebbe una vita orrenda, una continua tragedia; meglio morire una buona volta che morire lentamente di rancore e di disgusto. Io non ho mai amato quella disgraziata; ora ne sento pietà, ma non posso amarla; e ti scongiuro di non insistere nel tuo pazzo progetto, se non vuoi farmela nuovamente odiare mille volte più di prima. Questa la mia ultima decisione; sì, aiutarla, ma tenerla lontana, che io non la veda mai, che possibilmente il mondo dove vivremo noi ignori che ella esiste. Pensa che anche lei, forse, sarà più contenta di vivere lontana da te, la cui presenza le causerebbe un continuo rimorso. Tu dici che é invecchiata dal dolore, dalle privazioni, miserabile e malata; ma di chi la colpa se non sua? Per te, ed anche per lei, è meglio che ella si trovi in quello stato; così cesserà di vagabondare, e, non ti disonorerà più; ma che ella, dopo averti oltraggiato quando era sana e giovane, non si faccia un'arma della miseria e della debolezza per richiedere il sacrifizio della tua felicità! ... Ah, questo no, non devi permetterlo mai! No, non è possibile che tu compia una aberrazione fatale! A meno che tu non mi ami più e colga l'occasione per ... Ma no, no, no! Neppure voglio dubitare di te, della tua lealtà e del tuo amore! Anania, ritorna in te, ti ripeto, non essere malvagio e crudele con me, che ti diedi tutti i miei sogni, tutta la mia giovinezza, tutto il mio avvenire, mentre vuoi essere generoso verso chi ti ha odiato e rovinato. Abbi pietà ... vedi ... io piango, io ti imploro, anche per te, che vorrei veder felice come sempre sognai ... Ricordati tutto il nostro amore, il nostro primo bacio, i giuramenti, i sogni, i progetti, tutto, tutto ricorda! Fa che tutto non si risolva in un pugno di cenere; fa che io non muoia di dolore; fa che tu stesso non abbi a pentirti del tuo pazzo procedere. Se non vuoi dar retta ai miei consigli interroga persone serie, persone di Dio, e vedrai che tutti ti diranno qual è il tuo vero dovere, che tutti ti diranno di non essere ingrato, né malvagio. Ricorda, Anania, ricorda! Anche ieri notte mi dicevi che dalla vetta del Gennargentu gridasti il tuo amore, proclamandolo eterno. Dunque mentivi; anche ieri notte mentivi? E perché? ... Perché mi tratti così! Che ho fatto io per meritarmi tanto dolore? Possibile che tu non ricordi come ti ho sempre amato? Ricordi una sera che io stavo alla finestra e tu mi buttasti un fiore, dopo averlo baciato? Io conservo quel fiore per ornarne il mio vestito da sposa; e dico conservo perché son certa che tu sarai il mio sposo diletto, che tu non vorrai far morire la tua Margherita (e il tuo sonetto lo ricordi?), che saremo tanto felici, nella nostra casetta, soli soli col nostro amore ed il nostro dovere. Sono io che aspetto da te, subito, una parola di speranza. Dimmi che tutto fu un sogno tormentoso; dimmi che la ragione è ritornata in te, e che ti penti d'avermi fatto soffrire. Domani notte, o meglio stanotte, perché è già passata la una, ti aspetto; non mancare; vieni, adorato, vieni, diletto mio, mio amato sposo, vieni: io ti aspetterò come il fiore aspetta la rugiada dopo una giornata di sole ardente; vieni, fammi rivivere, fammi dimenticare; vieni, adorato, le mie labbra, ora bagnate d'amaro pianto, si poseranno sulla tua bocca amata come ... «No! no! no!», disse convulso Anania, torcendo la lettera senza leggerne le ultime righe. «Non verrò! Sei vile, vile, vile! Morrò ma non mi vedrai mai più.» Coi fogli stretti nel pugno si gettò sul letto, e nascose il viso sul guanciale, mordendolo, comprimendo i singhiozzi che gli gonfiavano la gola. Un fremito di passione lo percorreva tutto, dai piedi alla nuca; le invocazioni di Margherita gli davano un desiderio cupo dei baci di lei, e a lungo lottò acerbamente contro il folle bisogno di rileggere la lettera sino in fondo. Ma a poco a poco riprese coscienza di sé e di ciò che provava. Gli parve di aver veduto Margherita nuda, e di sentire per lei un amore delirante e un disgusto così profondo che annientava lo stesso amore. Come ella era vile! Vile sino alla spudoratezza. Vile e coscientemente vile. La Dea ammantata di maestà e di bontà aveva sciolto i suoi veli aurei ed appariva ignuda, impastata d'egoismo e di crudeltà; la Minerva taciturna apriva le labbra per bestemmiare; il simbolo s'apriva, si spaccava come un frutto, roseo al di fuori, nero e velenoso all'interno. Ella era la Donna, completa, con tutte le sue feroci astuzie. Ma il maggior tormento di Anania era il pensare che ella indovinava i suoi più segreti sentimenti e che aveva ragione: sopratutto ragione di rimproverargli l'inganno usatole, e di pretendere da lui il compimento dei suoi doveri di gratitudine e d'amore. «È finita!», pensò. «Doveva finire così.» Si rialzò e rilesse la lettera: ogni parola lo offendeva, lo disgustava e lo umiliava. Margherita dunque lo aveva amato per compassione, pur credendolo vile come era vile lei. Ella forse aveva sperato di farsi di lui un servo compiacente, un marito umile; o forse non aveva pensato a nulla di tutto questo; ma lo aveva amato solo per istinto, perché era stato il primo a baciarla, il solo a parlarle d'amore. «Ella non ha anima!», pensò il disgraziato. «Quando io deliravo, quando io salivo alle stelle e mi esaltavo per sentimenti sovrumani, ella taceva perché nella sua anima era il vuoto, ed io adoravo il suo silenzio che mi sembrava divino; ella ha parlato solo quando si destarono i suoi sensi, e parla ora che la minaccia il pericolo volgare del mio abbandono. Non ha anima né cuore. Non una parola di pietà: non il pudore di mascherare almeno il suo egoismo. Eppoi come è astuta! La sua lettera è copiata e ricopiata, sebbene riveli la grossolana ignoranza di lei: quanti "che", ci sono! Mi sembrano martelli, pronti a fracassarmi il cranio. Le ultime righe, poi, sono un capolavoro ... ella sapeva già, prima di scriverle, l'effetto che dovevano produrre ... ella è più vecchia di me ... ella mi conosce perfettamente, mentre io comincio appena adesso a conoscerla ... ella vuole attirarmi al convegno perché è sicura che se io ci vado mi inebrio e divento vile ... Inganno! inganno! inganno! Come la disprezzo ora! Non una parola buona, non uno slancio generoso, niente, niente! Ah, che rabbia!» (torse di nuovo la lettera) «Vi odio tutti; vi odierò sempre! Voglio essere cattivo anch'io; voglio farvi soffrire, schiantare, morire ... Cominciamo!» Prese il sacchettino ancora avvolto nel fazzoletto di colore, e poco dopo lo mandò a zia Grathia. «Tutto è finito!», ripeteva ogni momento. E gli pareva di camminare nel vuoto, fra nuvole fredde, come sul Gennargentu; ma adesso invano guardava sotto, intorno a sé: non via di scampo; tutto nebbia, vertigine, orrore. Durante la giornata pensò cento volte al suicidio; s'informò se poteva presentarsi subito agli esami per maestro elementare o per segretario comunale; andò nella bettola e presa fra le braccia la bella Agata (già fidanzata con Antonino), la baciò sulle labbra. Turbini di odio e di amore per Margherita gli attraversavano l'anima; più rileggeva la lettera più ella gli sembrava perfida; più sentiva d'allontanarsele più l'amava e la desiderava. Baciando Agata ricordava l'impressione violenta che il bacio della bella paesana gli aveva destato un giorno; anche allora Margherita era tanto lontana da lui, un mondo di poesia e di mistero li divideva; e questo stesso mondo, crollato, li divideva ancora. «Che hai?», gli chiese Agata, lasciandosi baciare. «Vi siete bisticciati, con lei? Perché mi baci?» «Perché mi piaci ... Perché sei puzzolente ... » «Tu hai bevuto», diss'ella, ridendo. «Se ti piacciono le donne così, puoi andare da Rebecca ... Se però Margherita viene a saperlo!» «Taci!», diss'egli, adirandosi. «Non pronunziar neppure il suo nome ... » «Perché?», chiese Agata, freddamente maligna. «Non diverrà mia cognata? È forse diversa da noi? È una donna come noi. Perché noi siamo povere? Chissà poi se anch'ella sarà ricca! Se fosse stata certa di ciò, forse ti avrebbe tenuto sempre a bada finché trovava un partito migliore di te!» «Se non la finisci ti batto ... », diss'egli furibondo. Ma l'insinuazione di Agata accrebbe i suoi sentimenti: oramai egli riteneva Margherita capace di tutto. Verso sera si mise a letto, con la febbre, deciso a non alzarsi, l'indomani, affinché Margherita venisse a sapere ch'egli era malato, e ne soffrisse. Giunse ad immaginarsi una segreta visita di lei; e pensando alla scena che ne sarebbe seguita, tremava di dolcezza. Ma ad un tratto questo sogno gli apparve qual era, puerilmente sentimentale, e ne provò vergogna. Si alzò ed uscì. Alla solita ora si trovò davanti al portone di Margherita. Ella stessa aprì. Si abbracciarono e si misero entrambi a piangere; ma appena Margherita cominciò a parlare, egli sentì un invincibile disgusto per lei, poi un senso di gelo. No, egli non l'amava più, non la desiderava più. Si alzò e andò via senza pronunziar parola. Giunto in fondo alla strada tornò indietro, s'appoggiò al portone e chiamò: «Margherita!». Ma il portone rimase chiuso.

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