Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il cappello del prete

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Bisognava operare con prudenza, in modo che prete Cirillo scomparisse senza far rumore, come un sasso che tu abbandoni a fior d'acqua e che precipita morbidamente al centro di gravità. Passarono in questi pensieri il lunedí, il martedí e parte del mercoledí. Il barone cominciò allora a soffrire per la troppa speculazione e si accorse di non essere troppo quieto in Napoli. Piú d'una volta sorprese sé stesso in istrada a gesticolare, o con due dita aperte a un dilemma mentale che gli inchiodava il cervello, o con una smania rabbiosa nelle gambe che lo faceva correre senza scopo in mezzo alla gente. Cominciò quasi a temere che la gente avesse a legger il suo pensiero attraverso alle rughe. Impaziente, agitato, colla febbre addosso, il mercoledí mattina prese la penna e buttò sulla carta queste parole: "Caro mio Don Cirillo, "Son partito oggi per dare qualche ordine alla Villa. È partito con me anche Don Nunziante, che è già informato del contratto e trova che voi fate un affare stupendo. Pazienza, io sconto i miei peccati. Non si è parlato del parco che abbraccia piú di venti moggia. Io vi cederei anche questo, se avete denaro. Ma mi occorrono subito, perché il mio diavolo mi ha fatto perdere anche ieri sera. Vi aspetto domani. La corsa parte a 12,20 e voi sarete per il tocco alla Villa. Dalla stazione pigliate il gran viale degli ulivi e vi farò trovare aperto il cancello. Alla Villa c'è da dormire comodamente. "A rivederci". Alle dieci mise alla posta la lettera, volendo quasi affidare alla sorte un poco di responsabilità, e colla corsa delle 12,20 partí solo per Santafusca. Prete Cirillo non perdette il suo tempo. Molte cose doveva prevedere e stabilire anche lui per sottrarsi senza dar sospetto alle persecuzioni che oggi non poteva piú sopportare. Trovato Cruschello, liquidò molti conti, lasciandogli guadagnare piú che non meritasse; ma dovette mostrarsi largo di mano per invogliarlo a pagare e far presto. Poi passò alla Cassa di Risparmio del Banco di San Giacomo e ritirò molte cartelle di rendita al portatore che aveva depositate per maggior sicurezza. Erano i frutti di una vecchia eredità e delle sue segrete speculazioni. Poi scrisse un biglietto al suo padrone di casa, in cui gli diceva che per urgenti affari di famiglia doveva allontanarsi improvvisamente da Napoli. Nell'incertezza s'ei sarebbe tornato, consegnava i denari della pigione e la chiave dell'uscio a Gennariello il ciabattino, suo nipote, che avrebbe ritirata la roba secondo le sue istruzioni. Poi corse al Sacro Monte a perorare la causa del povero barone. Trovò il segretario e gli dimostrò colle lagrime agli occhi come il libertino fosse sull'orlo di un abisso. Non bisognava,col mostrarsi troppo duri e inesorabili, spingere un povero cristiano alla disperazione. Egli era venuto per incarico suo a cercare una mezza conciliazione. Uno scandalo non avrebbe fatto che nuocere alla buona riputazione dell'istituto. Prete Cirillo disse tanto, che persuase il Consiglio ad accettare ottomila lire una volta per sempre e a cancellare il debito del barone di Santafusca. Pagò, ritirò la quietanza per quindicimila e se ne tornò lieto e trionfante. Il primo affaruccio non era andato male. Il giorno dopo andò in curia e fece cantare il prete cancelliere sulle intenzioni della mensa arcivescovile e sulla somma che sua eminenza era disposta a spendere per l'acquisto dei nuovi stabili. E rimasero d'accordo cosí: don Cirillo entro la settimana avrebbe scritto proponendo un eccellente affare, che egli aveva già quasi nella manica. Trattandosi dei bene della Chiesa e della religione, non sarebbe stato a lesinare sul quattrino. Non volle dire pel momento né il luogo, né il padrone del sito, e se ne andò per definire col marchese di Vico Spiano la vertenza dell'ipoteca. Non trovò il marchese in casa e lasciò una lettera. La sera stessa riceveva una risposta dall'amministrazione di casa Spiano che prometteva possibili accordi. In tutte queste faccende il tempo passò per prete Cirillo molto piú presto che non per il barone di Santafusca; e il buon servo di Dio si trovò alla mattina del giovedí, 4 aprile, quasi senza accorgersene. Di solito usciva di casa verso le nove per recarsi a dire la messa alla chiesa di Porto Salvo. Quel dí uscì all'alba, quando la gente è piú occupata di sé nei preparativi della giornata. Uscí dai quartieri popolari e col suo grosso volume di San Tomaso sotto il braccio, pieno di valori, andò verso la Marina dove sperava di non essere conosciuto. Non volendo mostrarsi al pubblico, non disse per quel dí la solita messa e andò invece a prendere una tazza di cioccolata in un caffeuccio remoto verso la Dogana. Quando Gennariello ebbe aperto il suo bugigattolo, prete Cirillo gli consegnò la chiave e la lettera dicendo: - Terrai la chiave fino al mio ritorno e porterai questa lettera a don Ciccio Scuotto, il "paglietta", che abita presso la chiesa di San Giovanni a Mare. Io devo accompagnare un gran morto, un senatore, fino al cimitero di Miano, dove lo portano a seppellire nella tomba di famiglia, e non voglio portare la chiave in tasca. - Volete che vi pulisca le scarpe, zio Cirillo? - Sí, per rispetto al morto. - Vi darò anche qualche punto, se avete tempo. - Ho tempo e le scarpe ridono troppo per un funerale... Lo zio prete rise anche lui della sua idea e lasciò che Gennariello rattoppasse qualche buco. - Io applicherò qualche intenzione in suffragio della tua povera mamma, Gennariello. - Se voi mi deste due numeri buoni! Li date agli altri, e lasciate indietro il vostro sangue. - Non sappiamo nemmeno noi quel che si fa e che si dice, Gennariello. È un'ispirazione che suggerisce. - Oh se venisse l'ispirazione anche per me... - Prova a giocare il 23 e il 40... - Ditene un altro, uomo benedetto, e che sia benedetta la Santa Trinità. - Mettici anche il 66. Ma non caricar troppo la posta, perché i numeri hanno l'ombra del Capricorno. Gennariello ringraziò col cuore pieno di fede e rese le scarpe del vecchio negromante belle e lucide come specchi. Prete Cirillo raccolse i lembi del suo mantello, strinse col braccio il volume di San Tomaso e uscí. Il vento di mare gonfiava il mantello dietro la schiena come una vela. Non sapendo come ingannare il tempo, che non si lascia sempre ingannare come gli uomini, entrò a sentire una messa nella chiesa dell'Ospedaletto. Poca gente stava raccolta intorno all'altare ad ascoltare una messa da morto che un frate magro e sparuto recitava con voce cavernosa, leggendo in un libro orlato dì nero. La luce che batteva sulle tende giallastre riempiva la nave della chiesa di un'aria morta, in cui scintillavano i candelieri, le lampade, le cornici dei quadri. Una gran pace dormiva negli angoli fondi e ciechi delle cappelle, dove le immagini dei santi alzano le mani al cielo, dove sonnecchiano le statue polverose, dove si appiattano i vecchi sepolcri. - "Et lux perpetua luceat ei..." - diceva il frate sparuto, che nel voltarsi indietro a benedire fissò l'occhio bianco e infossato sopra don Cirillo. Accosciata ai piedi del balaustro di marmo, una donna, forse la vedova del defunto, singhiozzava rompendo il silenzio della cupola. A lei rispondeva con un singhiozzo rauco una lampada a cui mancava alimento, a destra, dove una scaletta menava all'ossario dei giustiziati. Prete Cirillo sentí una pesante tristezza invadere l'anima e venir meno le forze dell'egoismo. Egli era forse troppo attaccato ai beni della terra e poco tempo aveva consacrato alla edificazione delle anime e alla morale perfezione. Un giorno Dio gli avrebbe dimandato conto del talento affidatogli e Dio non si paga con titoli di Stato o con cambiali a scadenza. Dio vuol essere pagato coll'oro delle buone azioni. Quando pensava egli un momento alla morte e alla vita eterna? Prete Cirillo giurò con fervida fede che questo sarebbe stato l'ultimo giorno della sua vita usuraia. Una volta entrato in possesso della villa, e una volta conchiuso il contratto alla Curia, egli non avrebbe pensato che alla salute de' suoi fratelli e allo studio delle eterne verità. Molte limosine egli avrebbe potuto fare colla rendita de' suoi risparmi e avrebbe poi fatto un testamento a favore dei poveri e delle orfanelle. Nella quiete della campagna, sotto l'ombra degli olivi, in mezzo al lieto frastuono delle cicale, colla vista dei monti e dei mare lontano, in una cameretta bianca, prete Cirillo sognava un tramonto d'oro, il tramonto luminoso del giusto. - " Et libera nos a malo " - disse facendo un segno di croce molto grande e preciso. Si mosse e, per confondere ancora di piú le traccie dei curiosi, uscí da una porta segreta che dava in un vicoletto. Se ne andava tutto raccolto nella sua compunzione, quando sentí chiamare: - Don Cirillo, don Cirillo, per carità... - Chi è? che cosa volete? - Son Filippino, il cappellaio, non mi conoscete? - Volete ricordarmi che ho un debituccio? Uh, il diffidente... - Possa morire se ho pensato a questo. Sono un povero uomo disperato davvero. Ieri è stato in casa l'usciere e minacciò il sequestro della roba. Ho la moglie malata di risipola e quattro figliuoli che muoiono di fame. - E che ci posso fare io? - Una carità, don Cirillo. Almeno non morir di fame. - Sono un poveretto, Filippino, e ora non posso. - Sentite, io avrei un bel cappello nuovo che avevo messo in disparte per voi. L'avevo fatto per monsignor vicario, ma gli è tornato troppo stretto. Pigliatelo, don Cirillo, prima che l'usciere se lo porti via col resto e datemi da comperare le medicine alla mia Chiarina. Prete Cirillo pensò che non dovendo piú tornare a Napoli, un cappello nuovo non sarebbe stato inutile. In cuore gli parlava ancora un poco la voce di compunzione, e poiché la bottega di Filippino era sull'angolo della vicina piazzetta, vi andò e pose sul banco alcune lire. - Datemi almeno dodici lire, don Cirillo. È un cappello nuovo coi nastrini di seta, bello, leggiero come una foglia. - Non vi do di piú, benedetto. - Voi avete anche un debituccio. Prete Cirillo pensò che veramente non era onesto lasciar indietro dei debiti e soggiunse: - Vi do undici lire e pace. Per il debito vecchio li volete tre numeri buoni? - Se voi li date proprio buoni. - Mi pare di avere l'inspirazione. Passano oggi nel segno del Capricorno. Notateli che io li credo veri veri. - Fosse il signore del cielo che v'ispira! - esclamò Filippino, prendendo in mano la penna. - Scrivete il 4. (Questo era il giorno di sua felice partenza). Il 30 (cioè il prezzo della villa). - E finalmente il 90, che vuol dire tutta la fortuna per voi e per la vostra Chiarina. Filippino, addio, vado a portare un morto a Miano. Addio. E col suo bellissimo cappello nuovo "u prevete", coll'animo piú leggiero, dopo qualche giravolta nei vicoli, arrivava alla stazione che sonava giusto mezzodí. Venti minuti dopo egli rannicchiavasi in un vagone di terza classe, stringendo col braccio San Tommaso e tutta la sua scienza. Nessuno l'aveva veduto partire e tutti pensavano che egli andasse a Miano a portare un morto. Il morto l'aveva ben sotto la mantellina, ma era un morto che fa risuscitare i vivi. - Addio, sta lí città dell'invidia. Della camorra, dell'ignoranza, - esclamò in cuor suo quando il treno si mosse, e in fondo alla memoria si mosse anche un versetto latino, che egli aveva studiato da ragazzo e che dice: "Beatus ille qui procul negotiis..." La giornata era bella, serena. fresca, una vera giornata allegra di aprile. Ma "u prevete" non era buon astrologo questa volta.

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