Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Rimanendo sola, si tormentava sordamente, fantasticando; in compagnia, si lasciava distrarre, si abbandonava alle impressioni esteriori, piene per lei del dolce sapore della novità, dopo tanti mesi d'isolamento quasi claustrale e di afflizioni di cuore. E al ritorno, stanca, con la interna ripercussione di tutto quel che aveva veduto e sentito, appena il suo dispetto tentava di riaccendersi, ella alzava le spalle, rinunciando sdegnosamente a indovinare il senso delle enimmatiche parole di Patrizio: "Se tu lo comprendessi, non lo diresti!" che le rivenivano frequenti alla memoria. "Forse non sa neppur lui che cosa significano!" conchiudeva. Rifletteva però che l'altra volta egli s'era subito accorto e impensierito della tristezza di lei; ora lasciava correre, o non se ne dava per inteso. Avesse potuto almeno leggergli un'ombra di preoccupazione sul viso! Niente, niente! Da quella sera, dal ritorno dal Santuario della Madonna delle Grazie, neppure un lontano accenno al soggetto della mutua spiegazione rimasta interrotta. Ah! La credeva tuttavia malata. Che idea! Per questo il dottor Mola aveva ripreso le visi- te e le minuziose inchieste. Ella gli ripeteva: "Stia tranquillo; mi sento benissimo!" "All'aspetto, non si direbbe" rispose una volta il dottore. "Ormai vi conosco bene, signora mia. Vuol dire che prima avevate maggiore fiducia in me ... sì, sì!" "Oh, dottore!" Protestava per cortesia; ma quella faccia magra, schiacciata ai lati, che col gran naso adunco pareva volesse spinger- si a scrutarla nel profondo petto, cominciava a divenirle un tantino antipatica. "Tu e lui" disse con stizza a Patrizio "vi siete ficcati in testa che io stia ancora male; lasciatemi stare!" "Dovresti ringraziarlo" egli rispose. "Più che medico, è amico." "Tenga i suoi intrugli per sè; ne ho a bastanza!" Due giorni dopo, il dottore venne a farle un predicozzo: "Honora medicum" dice la Bibbia. "Chi trascura la propria salute pecca gravemente." Anche su questo punto s'era rassegnata! Chi sa? Forse avevano ragione. E se pure avessero avuto ragione? Non glie- ne importava. In certi momenti ... arrivava fino a invidiare colei che giaceva sotterrata nel camposanto e non ve- deva e non sentiva più nulla, felice lei! Per ciò Eugenia sorrideva amaramente allorquando si sentiva invidiata da Giulia, che esclamava alla sua volta: "Fe- lice lei!" e le susurrava queste parole in un orecchio, abbracciandola, quasi vedesse nella supposta felicità dell'amica un'anticipata rappresentazione della propria felicità, e in lei intendesse abbracciare con la immaginazione Corrado Favi, che appunto in quei giorni doveva prendere la laurea! Gliel'aveva già ripetuto allo stesso modo poc'anzi, lungo lo stradone della Cava, avviandosi, insieme con le sorelle, Ruggero e la zia Vita, verso un fondicello di lei a mangiarvi i fichi primaticci, come solevano fare ogni anno in quella stagione. "Sentirete che fichi, donna Eugenia! Innesti delle mani benedette della buon'anima." "E quando ti picchiava, zia, che mani aveva?" la interruppe Ruggero. "Dio non gliene chieda conto lassù, figliuolo mio!" E continuava, rivolta a Eugenia: "Due spanne di terreno: paradiso! Peri, meli, prugni, nespoli del Giappone, melagranati di tutte le specie. Fichi poi! ... Vittorio Emanuele, re bell'e qual è, non ne mangia frutta simile: ve ne assicuro io!" "Dovresti mandargliela, zia" disse Giulia, scoppiando a ridere. "A quello scomunicato? Se la compri, se pure ne trova, coi denari delle tasse che ci smunge!" "Come se li mettesse in tasca lui, povero Vittorio Emanuele!" "Tu, si sa, figliolo mio, sei liberale! Suo padre è sindaco" continuò ironicamente la zia Vita, tornando a rivolgersi a Eugenia "suo nonno era carbonaro. Chi se li prende, insomma? Garibaldi? Faranno a mezzo ... So assai! Io sono donna, e non capisco certi pasticci. Pago fondiaria, ricchezza mobile, focatico ... Che cosa non pago? Come quan- do viveva la buon'anima. Sono vedova per nulla, da questo lato." "Allora rimaritati, zia. Con tanti partiti che hai!" disse Giulia, strizzando il braccio a Eugenia e ridendo. "Ti pare che vogliano me? Vogliono quel po' che possiedo." "Non far la modesta; sei forse vecchia?" soggiunse Ruggero per incitarla. "Quanti anni hai?" "Ho quelli che ho: ma mi sento più giovane di quelle là. Vedi? Angelica e Benedetta sono già stanche, e hanno tro- vato da sedere. Io potrei fare fin dieci miglia, con tutta questa ciccia che ho addosso." "Qui siamo in discesa. Alla salita ti voglio!" Lo stradone prendeva la china, sinuoso, tra le alte rupi a picco di qua e di là, bigie, coronate di capperi che spenzola- vano i tralci su le bocche delle grotte, facendovi cortinaggi di verdura; impennacchiate di oleastri e di fichi d'India, po- polate di taccole che gracchiavano saltellando da un ramo all'altro e, volato a stormo e fatto un giro per l'aria, tornavano a posarsi, continuando a gracchiare. Eugenia, di tanto in tanto, levava gli occhi in alto, compresa dalla paura che qualcuno di quei massi sporgenti dalle rupi non si staccasse di lassù e non precipitasse a schiacciarli. "Dovrebbe visitare una di queste grotte" le disse Ruggero. "Sono grandi quanto una chiesa. Mi dia la mano; non è pratica, come noi, di arrampicarsi." Egli la fissava negli occhi, sorridendo degli sforzi di lei mentre l'aiutava a salire dal ciglione; ed Eugenia provava un senso d'imbarazzo sotto quegli sguardi che lasciavano trasparire più ingenuamente la sincera ammirazione; imbarazzo che aumentò, non appena ella si vide sola con lui dentro la vasta grotta affumicata. "S'inoltri; qui hanno rizzato una fornace da gesso" disse Ruggero dal fondo. "Questa buca, guardi, introduce in u- n'altra grotta anche più vasta." Ella esitava; però non volendo farsi scorgere, si avanzò fin davanti alla buca, voltandosi spesso indietro, sperando che Giulia si fosse decisa a seguirli; e si sentì sollevata, vedendola apparire su la soglia della grotta, con lo scialle al braccio e una mano su gli occhi a mo' di visiera. "Dove siete?" domandava. "Ecco: ora ci sbircio. Pare così buio qui dentro, venendo dall'aria aperta!" Girarono attorno alla fornace, ridendo a ogni inciampata nelle scorie del gesso che ingombravano il suolo; poi, pre- cedute da Ruggero e passando, curve, una dietro l'altra, per la stretta buca, entrarono nella grotta accanto che prendeva luce da un'apertura praticata proprio sotto la volta e mezza velata da piante selvatiche. Giulia avrebbe voluto affacciarsi; ma gli scalini intagliati nel vivo masso erano talmente corrosi, che, dopo due inu- tili tentativi, dovette rinunziare al suo capriccio. Ruggero si chinò, prese un sassolino e lo tirò in alto. Tre grossi pipistrelli, che sembravano grumi neri appesi alla volta, si misero a volare all'impazzata tra gli strilli di Giulia e di Eugenia che scappavano via. La zia Vita" di fuori, urlava: "Che cosa è stato? Venite, si fa tardi." "Sempre spericolata!" esclamò Benedetta, mentre Giulia raccontava la paura avuta. "A che servivano quelle cellette orizzontali scavate simmetricamente nelle pareti e disposte a due piani?" domandò Eugenia. "Servivano ai primi abitatori della Sicilia per seppellirvi i loro morti" rispose Ruggero. "Oh Dio!" ella fece con mossa di ribrezzo. "Ora i morti stanno lassù, su la nostra testa" disse la zia Vita, additando il muro del camposanto che biancheggiava su l'orlo della rupe. "Al sole e alla pioggia, quasi non si trattasse di gente battezzata, morta con tutti i sacramenti, in gra- zia di Dio! Anche questo c'è toccato di vedere: non essere più seppelliti nelle chiese!" E accorgendosi che il viso di Eugenia si era rattristato all'inopportuno richiamo, soggiunse subito ridendo: "Lasciamo stare i morti, pensiamo piuttosto ai fichi!" Eugenia era rimasta sovrappensiero. E procedendo a occhi bassi, tra Giulia e la signora Vita, si sentiva ancora ad- dosso gli sguardi di Ruggero, quel giorno più insistenti del solito. All'improvviso alzò la testa per accertarsi se s'ingan- nava. Ruggero, che la guardava fissamente, a quell'atto si era voltato subito altrove, quasi vergognoso di essere stato scoperto. Questi sguardi, ora fugaci, ora insistenti, ella li aveva notati da qualche settimana senza dare ad essi nessuna impor- tanza. Oggi intanto ne provava una sensazione confusa, non sapeva se di lusinga o di leggero dispetto, o dell'una o del- l'altro insieme. E ci pensava, vagamente, guardando a destra e a sinistra l'orrido che allargava la sua gola di mano in mano che le rupi, fiancheggiate da carrubbi, da ulivi, da pioppi, diminuivano d'altezza. Ci ripensava, vagamente, pre- stando sbadato orecchio alla parlantina della zia Vita, alle risposte e alle risate di Giulia, di Angelica e di Benedetta, ai motti di Ruggero che provocava la zia intorno alle sue famose tentazioni. "Anche il dottor Mola? ..." "Anche il dottor Mola! Che meraviglia? Non è un uomo come gli altri? C'è mancato poco non mi decidessi per lui. È persona seria il dottore ... Intendiamoci: parlo di anni fa! Portavo ancora il lutto." A un tratto, scoppiò dietro il ciglione il suono festivo di un cembalo. "Ecco quella matta di Pina che ci viene incontro" disse la zia. Giulia, presa Eugenia sotto braccio, la trascinò avanti quasi di corsa, mormorandole all'orecchio: "Se fosse qui anche Corrado! ..." Ed ecco Pina, coi bambini della mezzadra afferrati alla gonna, che saltellava e faceva smoffiacce per la viottola, tra le stoppie, picchiando su la cartapecora del cembalo ora con le sole punte delle dita, ora con la palma della mano, ora levandolo in alto per far tremolare le girelline di latta. E quel suono diffondeva allegria per la campagna attorno; e la campagna pareva più ilare sotto il sole che dorava il giallo delle stoppie, le tenere foglie degli albicocchi, dei peri e dei meli affollati su pel declive, dove ormai della roccia si scorgeva appena qualche masso rossastro, emergente qua e là, tra l'erbe e le pianticine selvatiche. Alla vista delle signorine, Pina si era messa a saltare più lesta e a girare, tenendo alte le braccia per suonare furiosa- mente il cembalo, facendo rigonfiare la gonna. "Basta, mi fai venire il capogiro!" gridò la signora Vita, che aveva un colpo di tosse dal troppo ridere. "Basta, basta, mattaccia!" Pina fece fronte indietro e prese a sgambettare, picchiando il suolo coi piedi, continuando a suonare il cembalo, agi- tando la testa finché il fazzoletto di cotone a fiorami rossi e gialli non le cadde sulle spalle e dalle spalle per terra. Così erano arrivati trionfalmente davanti a la casa rustica. Cestini colmi di fichi, pane e salame, bottiglie con vino e con acqua, bicchieri, tovaglioli si trovavano già pronti, disposti da Pina in bell'ordine sopra una gran tavola di pietra, sostenuta ai quattro angoli da rozzi pilastri. Era venuta avanti per questo e per avvertire i contadini dell'arrivo delle si- gnore. La mezzadra, col lattante al petto, mosse incontro alla padrona. Giulia, preso in braccio il bambinello avvolto nelle fasce, lo mostrava a Eugenia. "E lei, quando si risolverà a farne uno come questo?" "Non sembra figliuolo di contadini" disse Angelica. "Qui si vede la grazia di Dio!" sentenziò Benedetta. Eugenia accarezzava il bambino, che la guardava con gli occhietti celesti, agitando le manine; lo accarezzava trista- mente, invidiando quella mamma che forse ne avrebbe fatto a meno nella sua povertà, mentre lei ... oh, lei ne sa- rebbe stata felice! E anche allora i suoi occhi s'incontrarono con quelli di Ruggero. Questa volta però era toccato a Eugenia abbassarli, con tanta compiacenza Ruggero aveva seguitato a guardarla. "Su! Non perdiamo tempo" esclamò la signora Vita. "Ve lo dicevo io che fichi come questi Vittorio Emanuele non ne ha visti e non ne vedrà mai! È quasi peccato mortale mangiarli." "Pecchiamo allegramente!" esclamò Giulia. "Il mio confessore è di manica larga." "E lei?" domandò Eugenia alla zia Vita. "Io? Ah signora mia, io debbo contentarmi di vederli mangiare agli altri! Col mio stomaco, dice il dottore, un fico, uno solo, sarebbe veleno." "E tu, zia, dai retta al dottore?" fece Ruggero ammiccando a Eugenia. "Via! Non sia detto che son venuta qui per nulla. Ne mangerò uno, proprio uno, in nome di Dio. Ah, che miele!" "Zia, zia, almeno tre!" la pregava Giulia ridendo. "Questo qui pare di cera." "E sia! ... Tre, in nome della Santissima Trinità!" "No, zia; non darle ascolto" disse Benedetta atteggiando gli occhi e le labbra a severità. "Poi starai male." "Quest'altri due soli! ... Tre e due cinque, per le cinque piaghe di Gesù Cristo! ... Ed è finita" esclamò, pulendosi le labbra col tovagliuolo. Ruggero serviva Eugenia scegliendole i fichi migliori, mescendole il vino; intanto, sotto voce, le diceva: "Ora tocca a lei. Rideremo. Gliene offra uno e insista un po'." Giulia, vista la mossa di Eugenia, prese con due dita un altro fico e lo presentò nello stesso tempo alla zia, che co- minciò a strillare: "No, no, cara donna Eugenia! ... No, no, nipote mia! ... Che mi fate fare? ... Dio mio! ... Cin- que e due sette, pei sette dolori di Maria ... Bella Madre Santissima, beneditemeli voi!" E mangiatili golosamente uno appresso all'altro e levatasi da sedere, giurando che non sarebbe andata più in là dei sette dolori, si mise a distribuire fette di pane e di salame alla mezzadra, a Pina, ai bambini. E se Giulia e Ruggero le additavano il cestino coi fichi, si faceva subito il segno della croce, ripetendo: "Via, via, tentazionacce!" Quando però giunse massaro Santi con un altro bel panierino di quelli degli innesti di due anni, la tentazione la vin- se, povera zia! Sicché alla fine ella era passata pei dieci comandamenti di Dio, per le opere della misericordia, insomma per tutto il catechismo, e ne aveva mangiato anche parecchi alla salute dell'Agente che aveva avuto il torto di non venire con loro. "Glielo dica che sono in collera perché non è venuto; glielo dica, donna Eugenia!"

CENERE

663043
Deledda, Grazia 4 occorrenze

Ma Anania non abbandonava l'idea che Maria e Olì potessero formare la stessa persona. «Eppure bisogna sapere», pensava, camminando distratto per le vie animate da una folla sempre più scarsa. «Se non è lei perché mi tormento? Ma dove, dove è lei? Che fa? È vicina o lontana? Al fragore della città, a questo rombo che mi sembra la voce di un mostro dalle mille e più mila teste, è mescolato il respiro, il gemito, il riso di lei? E se non qui, dove?» Una notte egli ebbe un po' di febbre, e nell'incubo gli parve di vedere più volte la figura di Maria curva sul suo guanciale. Era delirio o realtà? Il chiarore della lampada rischiarava la camera. Egli vedeva altre figure fantastiche, ma pensava «ho la febbre» e solo la figura di Maria Obinu gli sembrava reale. Visioni apocalittiche sorgevano, s'incalzavano, si mescolavano, sparivano, come nuvole mostruose, intorno a lui. Fra le altre cose egli vedeva il nuraghe col gigante ed il San Giorgio del sogno febbrile di zia Varvara; ma la luna si staccava dalla figura del Santo e volava sul cielo; altre due lune, rosse e immense, la seguivano. Era imminente un cataclisma. Una folla enorme si pigiava su una spiaggia di mare in tempesta. Le onde erano cavalli marini che lottavano contro spiriti invisibili. Ad un tratto un urlo salì dal mare, Anania sussultò d'orrore, aprì gli occhi e gli parve di averli azzurri. «Che stupidaggini!», pensò. «Ho la febbre.» Maria Obinu riapparve nella camera, si avanzò, silenziosa, si curvò sul lettuccio. Allora Anania cominciò a delirare. «Ti ricordi, mamma, tu mi insegnavi la piccola poesia: Luna luna Porzedda luna Perché non vuoi dirmi che sei la mia mamma, tu? Dimmelo dunque; tanto io lo so, che tu sei la mia mamma, ma devi dirmelo anche tu. Ricordi l'amuleto? Possibile che tu non ricordi quella mattina, quando scendevamo ... e il fringuello cantava fra i castagni umidi e le nuvole volavano via dietro il monte Gonare? Ma sì che ti ricordi! dimmelo dunque ... non aver paura ... Io ti voglio bene, vivremo assieme. Rispondi.» La donna taceva. Il sofferente fu assalito da un vero spasimo di tenerezza e d'angoscia. «Madre ... madre, parla; non farmi soffrire oltre: sono stanco ormai. Se tu sapessi che pena! Tu sei Olì, non è vero? E inutile che tu dica il contrario; tu sei Olì. Che cosa hai fatto sinora? Dove sono le tue carte? Ebbene, non parliamo del passato; tutto è finito. Ora non ci lasceremo più ... ma tu vai via? No, no, Dio, aspetta ... non andartene ... » E si sollevò sul letto, con gli occhi spalancati, mentre la figura si allontanava lentamente e scompariva ... Soltanto pochi minuti prima di partire prese la solenne decisione di lasciare in sospeso, fino al ritorno, tutte le ricerche e tutti i vani progetti. Si sentiva stanco, disfatto; il caldo, gli esami, la febbre, le fantasticherie lo avevano esaurito. «Mi riposerò», pensava, preparando rapidamente la valigia e ricordando i lunghi preparativi della sua prima partenza da Nuoro. «Ah, quanto vorrò dormire queste vacanze! Non voglio diventare nevrastenico. Salirò sulle montagne natìe, sul Gennargentu vergine selvaggio. Da quanto tempo sogno quest'ascensione! Visiterò la vedova del bandito, il fraticello Zuanne, il figlio del fabbricante di ceri. E il cortile del convento? ... E quel carabiniere che cantava A te questo rosario?» Il pensiero poi di riveder fra poco Margherita, di immergersi tutto nel fresco amore di lei come in un bagno profumato, gli dava una felicità così intensa che lo faceva spasimare. Pochi momenti prima della partenza zia Varvara gli consegnò un piccolo cero, perché lo offrisse per lei alla Basilica dei Martiri, a Fonni, e Maria gli diede una medaglia benedetta dal pontefice. «Se lei non la vuole, miscredente, la porti alla sua mamma», gli disse, sorridendo, un po' commossa. «Addio, dunque, e buon viaggio e buon ritorno. Si ricordi che la camera resta a sua disposizione. E faccia da bravo, e mi scriva subito una cartolina.» «Arrivederci!», egli gridò dal basso della scala, mentre Maria, curva sulla ringhiera, lo salutava ancora con la mano. «Figlio del cuoricino mio», disse zia Varvara, accompagnandolo fino alla porta, «saluta per me la prima persona che incontri in terra sarda. E buon viaggio e ricordati del cero.» Lo baciò lievemente sulla guancia, piangendo, ed egli fu tentato di risalire le scale per vedere se anche Maria Obinu piangeva: poi sorrise della sua idea, abbracciò zia Varvara, chiedendole scusa se qualche volta l'aveva fatta stizzire, e si allontanò. Tutto sparve; la vecchia che piangeva il suo esilio dalla patria diletta, la strada melanconica, la piazza in quell'ora deserta e ardente, il Pantheon triste come una tomba ciclopica; e Anania, col viso accarezzato dal vento di ponente, provò un senso di sollievo, come svegliandosi da un incubo.

Ogni sera, filando accanto al fuoco, ella narrava le gesta eroiche del bandito; i bambini ascoltavano avidamente, ma Olì non si commoveva più, anzi spesso rintuzzava la vedova, o abbandonava il focolare e andava a coricarsi nel suo giaciglio. Anania dormiva con lei, ai piedi del letto: spesso trovava sua madre già addormentata, ma fredda, gelida, e cercava di riscaldarle i piedi coi suoi piedini caldi. Talvolta la sentiva singhiozzare, nel silenzio della notte, ma non osava chiederle che avesse, perché aveva soggezione di lei: però si confidò con Zuanne, che a sua volta gli spiegò certe cose. «Devi sapere che tu sei un bastardo, cioè tuo padre non è marito di tua madre. Ce ne sono molti così, sai.» «E perché non l'ha sposata?» «Perché ha un'altra moglie: la sposerà quando questa muore.» «E quando muore, questa?» «Quando Dio vuole. Devi sapere che tuo padre prima veniva a trovarci, io lo conosco, sai.» «Com'è?» chiedeva Anania, corrugando le ciglia, con un impeto di odio istintivo verso quel padre sconosciuto che non veniva a trovarlo, e certo che sua madre piangeva per il suo abbandono. «Ecco», diceva Zuanne, interrogando i suoi ricordi, «è bello, alto, sai, con gli occhi come lucciole. Ha un cappotto da soldato.» «Dove si trova?» «A Nuoro. Nuoro è una città grande, che si vede dal Gennargentu. Io conosco il Monsignore di Nuoro perché mi ha cresimato.» «Ci sei stato tu, a Nuoro?» «Sì, io ci sono stato», mentiva Zuanne. «Non è vero, tu non ci sei stato. Io mi ricordo che tu non ci sei stato.» «Io ci sono stato prima che tu nascessi; ecco, se vuoi saperlo!» Anania, dopo questi discorsi, seguiva volentieri Zuanne anche quando aveva freddo, e continuamente gli domandava notizie di suo padre, di Nuoro, della strada che bisognava percorrere per arrivare alla città. E quasi ogni notte sognava questa strada, e vedeva una città con tante chiese, con palazzi, circondata da montagne ancora più alte del Gennargentu. Una sera, agli ultimi di novembre, Olì, dopo essere stata a Nuoro per la festa delle Grazie, litigò con la vedova; già da qualche tempo ella si bisticciava con tutte le persone che incontrava, e percuoteva i bambini. Anania la sentì piangere tutta la notte, e sebbene il giorno prima ella lo avesse bastonato, provò una grande pietà per lei: avrebbe voluto dirle: «Tacete, mamma mia: Zuanne dice che se fosse come me, quando sarebbe grande andrebbe a Nuoro per cercare il padre e imporgli di venirvi a trovare: io ci voglio andare ora, invece: lasciatemi andare, mamma mia ... ». Ma non osava fiatare. Era notte ancora quando Olì si alzò: scese in cucina, risalì, ritornò a scendere, rientrò con un fagotto. «Alzati», disse al ragazzetto. Poi lo aiutò a vestirsi e gli mise intorno al collo una catenella dalla quale pendeva un sacchettino di broccato verde, fortemente cucito. «Cosa c'è dentro?» chiese il bimbo, palpando il sacchettino. «Una ricetta che ti porterà fortuna; me la diede un vecchio frate che incontrai in viaggio ... Tieni sempre il sacchettino sul seno nudo; non perderlo mai.» «Come era il vecchio frate?», chiese Anania, pensieroso. «Aveva una lunga barba? Un bastone?» «Sì, una lunga barba, un bastone ... » «Che fosse lui?» «Chi lui?» «Gesù Cristo Signore ... » «Forse ... », disse Olì. «Ebbene, promettimi che non perderai né darai mai a nessuno il sacchettino. Giuramelo.» «Ve lo giuro, sulla mia coscienza!», rispose Anania gravemente. «È forte la catenella?» «È forte.» Olì prese il fagotto, strinse nella sua la manina del fanciullo e lo condusse in cucina dove gli diede una scodellina di caffè e un pezzo di pane. Poi gli gettò sulle spalle un sacchetto logoro e lo trascinò fuori. Albeggiava. Faceva un freddo intensissimo; la nebbia riempiva la valle, copriva l'immensa chiostra dei monti: solo qualche alta cresta nevosa emergeva argentea simile al profilo d'una nuvola bianca, ed il monte Spada appariva or sì or no come un enorme blocco di bronzo tra il velo mobile della nebbia. Anania e la madre attraversarono le viuzze deserte, passarono davanti al grande panorama occidentale sommerso nella nebbia, cominciarono a scendere lo stradale grigio e umido che si sprofondava giù giù, in una lontananza piena di mistero. Anania si sentì battere il cuoricino: quella strada grigia, vigilata dalle ultime case di Fonni i cui tetti di scheggie parevano grandi ali nerastre spennacchiate, quella strada che scendeva continuamente verso un abisso ignoto colmo di nebbia, era la strada per Nuoro. Madre e figlio camminavano frettolosi: spesso il bambino doveva correre, ma non si stancava. Era abituato a camminare, ed a misura che scendeva si sentiva più agile, caldo, vispo come un uccello. Più volte chiese: «Dove andiamo, mamma mia?». «A cogliere castagne», diss'ella una volta, e poi: «in campagna: lo vedrai». Anania scendeva, correva, inciampava, rotolava: ogni tanto si palpava il petto in cerca del sacchettino. La nebbia diradavasi; in alto il cielo appariva d'un azzurro umido solcato come da grandi pennellate di biacca: le montagne si delineavano livide nella nebbia. Un raggio giallo di sole illuminava finalmente la chiesetta di Gonare sulla cima del monte piramidale, che sorgeva su uno sfondo di nuvole color piombo. «Andiamo là?», domandò Anania, additando un bosco di castagni, umidi di nebbia e carichi di frutti spinosi spaccati. Un uccellino strideva nel silenzio dell'ora e del luogo. «Più avanti», disse Olì. Anania riprese le sue corse sfrenate: mai s'era spinto tanto avanti nelle sue escursioni, ed ora questo continuo scendere a valle, la natura diversa, l'erba che copriva le chine, i muri verdi di musco, le macchie di nocciuoli, i cespugli coperti di bacche rosse, gli uccellini che pigolavano, tutto gli riusciva nuovo e piacevole. La nebbia svaniva, il sole trionfante schiariva le montagne; le nuvole sopra monte Gonare avevano preso un bel colore giallo- roseo, sul cui sfondo la chiesetta appariva chiara e sembrava vicina a chi la guardava. «Ma dov'è questo diavolo di luogo?», chiese Anania, volgendosi a sua madre con le manine aperte, e fingendosi sdegnato. «Subito. Sei stanco?» «Non sono stanco!», egli gridò, rimettendosi a correre. Arrivò però il momento in cui egli cominciò a sentire un piccolo dolore alle ginocchia: allora rallentò la corsa, si pose a fianco di Olì e cominciò a chiacchierare; ma la donna, col suo fagotto sul capo, il viso livido e gli occhi cerchiati, gli badava appena e rispondeva distratta. «Torneremo stanotte?», egli chiedeva. «Perché non me lo avete lasciato dire a Zuanne? È lontano il bosco? È a Mamojada?» «Sì, a Mamojada.» «Ah, a Mamojada? Quando c'è la festa a Mamojada? È vero che Zuanne è stato a Nuoro? Questa è la strada di Nuoro, io lo so, e ci vogliono dieci ore, a piedi, per arrivare a Nuoro. Voi siete stata a Nuoro? Quando è la festa a Nuoro?» «È passata, era l'altro giorno», disse Olì, scuotendosi. «Ti piacerebbe stare a Nuoro?» «Altro che! E poi ... e poi ... » «Tu sai che a Nuoro c'è tuo padre», rispose Olì, indovinando il pensiero del fanciullo. «Ti piacerebbe stare con lui?» Anania ci pensò; poi disse con vivacità, corrugando le sopracciglia: «Sì!.» A che pensava egli dicendo quel «sì»? La madre non indagò oltre; chiese soltanto: «Vuoi che ti conduca da lui?». «Sì!» Verso mezzogiorno si fermarono presso un orto dove una donna, con le sottane cucite fra le gambe a guisa di calzoni, zappava vigorosamente: un gatto bianco le andava dietro, slanciandosi di tanto in tanto contro una lucertola verde che appariva e scompariva fra le pietre del muro. Anania ricordò sempre questi particolari. La giornata s'era fatta tiepida, il cielo azzurro; le montagne, come asciugantisi al sole, apparivano grigie, chiazzate di boschi scuri; il sole, quasi scottante, riscaldava l'erba e faceva scintillare l'acqua dei ruscelli. Olì sedette per terra, aprì il fagotto e chiamò Anania che si era arrampicato sul muro per guardare la donna ed il gatto. In quel momento apparve allo svolto della strada la corriera postale di Fonni, guidata da un omone rosso coi baffi gialli. Olì avrebbe voluto nascondersi; ma l'omone, che pareva ridesse continuamente perché aveva le guancie gonfie, la vide e gridò: «Dove vai, donnina?». «Dove mi pare e piace», ella rispose a voce bassa. Anania, ancora arrampicato sul muro, guardò entro la vettura, e vedendola vuota disse al carrozziere: «Prendetemi, zio Battista, prendetemi nella vettura, prendetemi». «Dove andate? Dunque?», gridò l'omone, rallentando la corsa. «Ebbene, che tu sii sbranato, andiamo a Nuoro. Vuoi farci la carità di prenderci un po' in vettura?», disse Olì, mangiando. «Siamo stanchi come asini.» «Senti», rispose l'omone, «va al di là di Mamojada, intanto che io faccio la fermata. Vi prenderò.» Egli tenne la promessa: giunto al di là di Mamojada fece sedere in serpe accanto a lui i due viandanti e cominciò a chiacchierare con Olì. Anania, veramente stanco, sentiva un vivo piacere nel trovarsi seduto fra sua madre e l'omone che scuoteva la frusta, davanti ai freschi paesaggi dallo sfondo azzurrino che si disegnavano nell'arco del mantice. Le grandi montagne erano scomparse, scomparse per sempre, ed il bambino pensava a quello che avrebbe detto Zuanne sapendo di questo viaggio. «Quando tornerò quante cose avrò da dirgli!», pensava. «Gli dirò: io sono stato in carrozza e tu no.» «Perché diavolo vai a Nuoro?», insisteva l'omone, rivolto ad Olì. «Ebbene, vuoi saperlo?», ella rispose finalmente. «Vado per mettermi a servire. Ho già fatto il contratto con una buona signora. A Fonni non potevo più vivere; la vedova di Zuanne Atonzu mi ha cacciato di casa.» «Non è vero», pensò Anania. Perché sua madre mentiva? Perché non diceva la verità, che cioè andava a Nuoro per cercare il padre di suo figlio? Basta, se ella diceva le bugie doveva aver le sue buone ragioni; e Anania non indagò oltre, tanto più che aveva sonno. Chinò la testina sul grembo della madre e chiuse gli occhi. «Chi c'è ora nella cantoniera?», chiese ad un tratto Olì. «Mio padre non c'è più?» «Non c'è più.» Ella diede un profondo sospiro: la vettura si fermò un momento, poi riprese la sua corsa, ed Anania finì di addormentarsi. A Nuoro egli provò una forte delusione. Era questa la città? Sì, le case erano più grandi di quelle di Fonni, ma non tanto come egli s'era immaginato: le montagne poi, cupe sul cielo violaceo del freddo tramonto, erano addirittura piccole, quasi per far ridere. Inoltre i bambini che s'incontravano per le strade, le quali, a dire il vero, gli parevano molto larghe, lo impressionavano stranamente perché vestivano e parlavano in modo diverso dai bambini fonnesi. Madre e figlio girovagarono per Nuoro fino al cader della sera, ed infine entrarono in una chiesa. C'era molta gente; l'altare ardeva di ceri, un canto dolce s'univa ad un suono ancor più dolce che veniva non si sa da dove. Ah, ciò parve veramente bello ad Anania, che pensava a Zuanne ed al piacere di narrargli quanto ora vedeva. Olì gli disse all'orecchio: «Vado a vedere se c'è l'amica presso cui andremo a dormire; non muoverti di qui finché non torno io ... ». Egli rimase solo in fondo alla chiesa; sentiva un po' di paura, ma si distraeva guardando la gente, i ceri, i fiori, i santi. Eppoi l'incoraggiava il pensiero dell'amuleto nascosto sul suo seno. Ad un tratto si ricordò di suo padre. Ah, dov'era egli? Perché dunque non andavano a trovarlo? Olì tornò presto; attese che la novena fosse terminata, prese Anania per la mano e lo fece uscire per una porta diversa da quella ov'erano entrati. Camminarono per diverse vie, finché non vi furono più case: era già sera, faceva freddo, Anania aveva fame e sete, si sentiva triste e pensava al focolare della vedova ed alle castagne ed alle chiacchiere di Zuanne. Arrivarono in un viottolo chiuso da una siepe, dietro la quale si vedevano le montagne che avevano colpito il bimbo per la loro piccolezza. «Senti», disse Olì, e la voce le tremava, «hai visto quell'ultima casa con quel gran portone aperto?» «Sì.» «Là dentro c'è tuo padre: tu vuoi vederlo, non è vero? Senti: ora torniamo indietro, tu entri nel portone, di fronte al quale vedrai una porta pure aperta: tu entri là e guardi; c'è un molino ove fanno l'olio; un uomo alto, con le maniche rimboccate, a capo scoperto, va dietro al cavallo. Quello è tuo padre.» «Perché non venite dentro anche voi?», domandò il bimbo. Olì cominciò a tremare. «Io entrerò dopo di te: tu va innanzi; appena entrato dici: "Io sono il figlio di Olì Derios". Hai capito? Andiamo.» Ritornarono indietro; Anania sentiva sua madre tremare e battere i denti. Giunti davanti al portone ella si chinò, accomodò il sacchetto sulle spalle del bimbo, e lo baciò. «Va, va», disse, spingendolo. Anania entrò nel portone; vide l'altra porta, illuminata, ed entrò: si trovò in un luogo nero nero, dove una caldaia bolliva sopra un forno acceso, e un cavallo nero faceva girare una grande e pesante ruota oleosa entro una specie di vasca rotonda. Un uomo alto, con le maniche rimboccate, a capo scoperto, con le vesti sudice, nere di olio, andava appresso al cavallo, rimuovendo entro la vasca, con una pala di legno, le olive frantumate dalla ruota. Altri due uomini andavano e venivano, spingendo in avanti e indietro una spranga infilata in un torchio, dal quale colava l'olio nero e fumante. Davanti al fuoco stava seduto un ragazzetto con un berretto rosso; e fu questo ragazzetto che primo si accorse del bimbo straniero. Lo fissò bene, e credendolo un mendicante gli impose aspramente: «Va via!». Anania, timido, immobile sotto il suo sacchetto, non rispose. Vedeva tutto confuso ed aspettava che sua madre entrasse. L'uomo dalla pala lo guardò con occhi lucenti, poi s'avanzò e chiese: «Ma che cosa vuoi?». Quello era suo padre? Anania lo guardò timidamente, pronunziando con vocina sottile le parole suggeritegli da sua madre: «Io sono il figlio di Olì Derios». I due uomini che giravano il torchio si fermarono di botto, e uno di essi gridò: «Tuo figliooo!». L'uomo alto gettò per terra la pala, si curvò su Anania, lo fissò, lo scosse, gli chiese: «Chi ... chi ti ha mandato? Cosa vuoi? Dove è tua madre?». «È fuori ... adesso verrà ... » Il mugnaio corse fuori, seguìto dal ragazzetto col berretto rosso; ma Olì era scomparsa e nulla più si seppe di lei. Avvertita del caso accorse zia Tatàna, la moglie del mugnaio, una donna non più giovane, ma ancora bella, grassa e bianca, con dolci occhi castanei circondati di piccole rughe, e un po' di baffi biondi sul labbro rialzato. Ella era tranquilla, quasi lieta; appena entrò nel molino prese Anania per gli omeri, si chinò, lo esaminò attentamente. «Non piangere, poverino», gli disse con dolcezza. «Or ora ella verrà. E voi zitti!», impose agli uomini e al ragazzetto che si immischiava forse un po' troppo nella faccenda e fissava Anania con due piccoli occhi turchini cattivi e un sorriso beffardo nel rosso visino paffuto. «Dov'è andata? Non viene dunque? Dove la ritroverò?», si domandava con disperazione il piccolo abbandonato, piangendo sconsolatamente. Ella avrà avuto paura. Dove sarà adesso? Perché non viene? E quell'uomo lurido, oleoso, cattivo, quello è suo padre? Le carezze e le dolci parole di zia Tatàna lo confortarono alquanto; cessò di piangere, si leccò le lagrime e se le sparse di qua e di là delle guance, col gesto che gli era abituale; poi subito pensò alla fuga. La donna, il mugnaio, gli uomini, il ragazzetto, tutti gridavano, imprecavano, ridevano e si bisticciavano. «È proprio tuo figlio. Tale e quale!», diceva la donna, rivolta al mugnaio. E il mugnaio gridava: «Non lo voglio, no, non lo vogliooo! ... ». «Sei ben scomunicato, sei senza viscere. Santa Caterina mia, è possibile che vi sieno uomini così malvagi?», diceva zia Tatàna, un po' scherzando, un po' sul serio. «Ah, Anania, Anania, sei sempre tu!» «E chi dunque vuoi ch'io sia? Ora vado subito in Questura.» «Tu non andrai in nessun posto, stupido! Tu vuoi tirar fuori di tasca le tue corna per mettertele sul capo!», osservò energicamente la donna. Ma siccome egli insisteva, ella disse: «Ebbene, andrai domani. Ora finisci il tuo lavoro, e ricordati ciò che diceva il re Salomone: "La furia della sera lasciala alla mattina ... "». I tre uomini tornarono al lavoro: ma spingendo sotto la ruota la pasta delle olive frante, il mugnaio gridava, borbottava, imprecava, mentre gli altri lo deridevano e la moglie gli diceva tranquillamente: «Via, non prenderti poi la porzione più grande. Dovrei arrabbiarmi io, Santa Caterina mia! Ricordati, Anania, che Dio non paga il sabato». «Taci, figliolino mio», disse poi al bimbo, che singhiozzava nuovamente, «domani aggiusteremo tutto. Ecco, così gli uccelli volano dal nido appena hanno le ali.» «Ma sapevate voi che quest'uccellino esisteva?», chiese ridendo uno dei due uomini che spingevano la spranga. «Dove sarà andata tua madre? Com'è fatta, dimmi?», domandò il ragazzetto, mettendosi davanti ad Anania. «Bustianeddu», gridò il mugnaio, «se non te ne vai ti mando via a calci ... » «E provate un po'!», diss'egli, spavaldo. «E diglielo dunque tu come è fatta Olì!», esclamò uno dei due uomini. L'altro rise tanto che dovette abbandonar la spranga e premersi il petto. Intanto zia Tatàna, premurosa e carezzevole, interrogava il bimbo, esaminandogli le povere vestine. Egli raccontò tutto con vocina incerta e lamentosa, ogni tanto interrotta da singhiozzi. «Poverino, poverino! Uccellino senz'ali: senz'ali e senza nido!», diceva pietosamente la donna. «Taci, anima mia; tu avrai fame, non è vero? Adesso andiamo a casa, e zia Tatàna ti darà da mangiare, e poi ti manderà a letto, con l'angelo custode, e domani aggiusteremo tutte le cose.» Con questa promessa ella lo condusse in una casetta vicina al molino, e gli diede da mangiare pane bianco e formaggio, un uovo ed una pera. Mai Anania aveva mangiato tanto bene: e la pera, dopo le carezze materne e le dolci parole di zia Tatàna, finì di confortarlo. «Domani ... », diceva la donna. «Domani ... », ripeteva il fanciulletto. Mentre egli mangiava, zia Tatàna, che preparava la cena per il marito, lo interrogava e gli dava buoni consigli, avvalorandoli con l'affermare che erano già stati dettati dal re Salomone ed anche da Santa Caterina. Ad un tratto, sollevando gli occhi ella scorse alla finestruola il visetto paffuto di Bustianeddu. «Va via», disse, «va via, piccola rana. Fa freddo.» «Lasciatemi dunque entrare», egli supplicò. «Fa freddo davvero.» «Va dunque al molino.» «No, c'è mio padre che mi ha mandato via. Ih, quanta gente è venuta là!» «Entra dunque, povero orfano, anche tu senza madre! Che cosa dice zio Anania? Grida ancora?» «E lasciatelo gridare!», consigliò Bustianeddu, sedendosi accanto ad Anania, e raccogliendo e rosicchiando il torso della pera, abbastanza rosicchiato e già buttato via dal piccolo straniero. «Son venuti tutti», raccontò poi, parlando e gestendo come un uomo maturo. «Maestro Pane, mio padre, zio Pera, quel bugiardone di Franziscu Carchide, zia Corredda, tutti vi dico insomma ... » «Che cosa dicevano?» chiese la donna con viva curiosità. «Tutti dicevano che dovete adottare questo bambino. E zio Pera diceva ridendo: "Anania, e a chi dunque lascerai i tuoi beni, se non tieni il bambino?". Zio Anania lo rincorse con la pala; tutti ridevano come pazzi.» La donna dovette esser vinta dalla curiosità, perché ad un tratto raccomandò a Bustianeddu di non lasciar solo Anania ed uscì per tornare al molino. Rimasti soli, Bustianeddu cominciò a fare qualche confidenza al piccolo abbandonato. «Mio padre ha cento lire nel cassetto del canterano, ed io so dove è la chiave. Noi abitiamo qui vicino, e abbiamo un podere per il quale paghiamo trenta lire di imposta: ma l'altra volta venne il commissario e sequestrò l'orzo. Cosa c'è qui, dentro il tegame, che fa cra-cra-cra? Ti pare che prenda fumo?», sollevò il coperchio e guardò. «Diavolo, ci son patate. Credevo fosse altro. Ora assaggio.» Con due ditina prese una fetta bollente, ci soffiò sopra più volte, se la mangiò; ne prese un'altra ... «Che cosa fai?», disse Anania, con un po' di dispetto. «Se viene quella donna! ... » «Noi sappiamo fare i maccheroni, io e mio padre», riprese imperturbato Bustianeddu. «Tu li sai fare? E il sugo?» «Io no», disse Anania, melanconico. Pensava sempre a sua madre, assediato da tristi domande. Dove era andata? Perché non era entrata nel molino? Perché lo aveva abbandonato e dimenticato? Adesso che aveva mangiato e sentiva caldo, egli aveva voglia di piangere ancora, di fuggire. Fuggire! Cercar sua madre! Questa idea lo afferrò tutto e non lo lasciò più. Poco dopo rientrò zia Tatàna, seguìta da una donna lacera, barcollante, che aveva un gran naso rosso ed una enorme bocca livida dal labbro inferiore penzolante. «È questo ... è questo ... l'uccellino? ... », chiese balbettando l'orribile donna: e guardò con tenerezza il piccolo abbandonato. «Fammi vedere la tua faccina, che tu sii benedetto! È bello come una stella, in verità santa! E lui non lo vuole? Ebbene, Tatàna Atonzu, raccoglilo tu, raccoglilo come un confetto ... » Si avvicino e baciò Anania, che torse il viso con disgusto perché l'enorme bocca della donna puzzava d'acquavite e di vino. «Zia Nanna», disse Bustianeddu, facendo cenno di bere, «oggi l'avete presa giusta!» «Co ... co ... cosa sai tu? Che fai qui? Moscherino, povero orfano, va a letto.» «Anche tu dovresti andare a letto!», osservò zia Tatàna. «Andate, andate via tutti e due: è tardi.» Spinse dolcemente l'ubriaca, ma prima d'uscire ella chiese da bere. Bustianeddu riempì d'acqua una scodella e gliela porse: ella la prese con buona grazia, ma appena v'ebbe guardato dentro, scosse il capo e la rifiutò. Poi andò via traballando. Zia Tatàna mandò via anche Bustianeddu e chiuse la porta. «Tu sarai stanco, anima mia; adesso ti metterò a dormire», disse ad Anania, conducendolo in una grande camera attigua alla cucina e aiutandolo a spogliarsi. «Non aver paura, sai; domani tua madre verrà, o andremo a cercarla noi. Sai farti il segno della croce? Sai il Credo? Sì, bisogna recitare il Credo tutte le notti. Poi io ti insegnerò tante altre preghiere, una delle quali per San Pasquale che ci avvertirà dell'ora della nostra morte. E così sia. Ah, tieni anche la rezetta? E come è bella! Sì, bravo, San Giovanni ti proteggerà: sì, egli era un bimbo ignudo come te, eppure battezzò Gesù Signore Nostro. Dormi, anima mia: in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Amen.» Anania si trovò in un gran letto dai guanciali rossi; zia Tatàna lo coprì bene ed uscì, lasciandolo al buio. Egli mise la manina sull'amuleto, chiuse gli occhi e non pianse, ma non poté dormire. Domani ... Domani ... Ma quanti anni erano trascorsi dopo la partenza da Fonni? Che pensava Zuanne non vedendo ritornare l'amico? Pensieri confusi, immagini strane gli passavano nella piccola mente; ma la figura della madre non lo abbandonava mai. Dov'era andata? Aveva freddo? Domani la rivedrebbe ... Domani ... Se non lo conducevano da lei egli fuggirebbe ... Domani ... Sentì il mugnaio rientrare e litigare con la moglie: il cattivo uomo gridava: «Non lo voglio! Non lo voglio!». Poi tutto fu silenzio. Ad un tratto qualcuno aprì l'uscio, entrò, camminò in punta di piedi, s'avvicinò al letto e sollevò cautamente la coperta. Un baffo ispido sfiorò lievemente la guancia di Anania, ed egli, che fingeva di dormire, socchiuse appena appena un occhio e vide che chi l'aveva baciato era suo padre. Pochi momenti dopo zia Tatàna entrò e si coricò nel gran letto, a fianco di Anania, che la sentì lungamente pregare bisbigliando e sospirando.

Anania si sentì triste, ma per scuotersi pensò intensamente al bacio di Margherita, il cui ricordo, del resto, non lo abbandonava un istante. A momenti però trasaliva. Non era stato tutto un sogno? Se ella dimenticava o si pentiva? Ma subito l'orgoglio gli ridonava la speranza. La sua ebbrezza durò parecchi giorni, finché durò lo stordimento della nuova esistenza. Tutte le cose gli andavano a seconda; appena arrivato a Cagliari trovò una bellissima camera con due balconi, da uno dei quali si godeva un paesaggio chiuso da colline e dal mare luminoso, talvolta così calmo che i piroscafi ed i velieri si disegnavano come incisi sull'acciaio, e dall'altro il panorama della rosea città, che coi suoi bastioni, il suo Castello, i palmizi, i giardini, rassomigliava ad una città moresca. Di fronte al palazzo nuovo dove egli abitava, sorgeva una fila di casette antiche ritinte di rosa, con balconi spagnuoli pieni di garofani e di stracci stesi ad asciugare al sole; ma egli non guardava laggiù; i suoi occhi ammaliati correvano sullo stupendo scenario della città, e si fermarono sulla linea dei bastioni e dei palazzi medioevali che chiudevano l'orizzonte grandioso. Tutto lassù era leggenda e poesia. Agli ultimi di ottobre faceva ancora caldo: l'aria odorava di alghe e di fiori; e le signore che passavano sotto il balcone d'Anania vestivano di mussolina e di stoffe leggere. Allo studente pareva di essere in un paese incantato, e l'aria fragrante e snervante, e le comodità nuove della sua camera, e le dolcezze della nuova vita, gli davano un senso di mollezza e di languore. Fu preso da una specie di sonnolenza voluttuosa: tutto gli sembrava bello e grande; e ricordando il molino e le sudice figure che vi si raccoglievano, si domandava come aveva potuto per tanto tempo vivere laggiù. La vita umile del povero vicinato proseguiva certamente il suo corso melanconico, mentre qui, nei caffè lucenti, nelle vie luminose, nelle alte case battute dal sole, dal riflesso del mare, tutto era luce, gioia, poesia. L'arrivo della prima lettera di Margherita accrebbe la sua gioia di vivere: era una lettera semplice e tenera, scritta su un gran foglio bianco, con caratteri rotondi, quasi maschili. Veramente Anania si aspettava una letterina azzurra, con un fiore dentro; e sul principio gli parve che Margherita volesse fargli sentire la sua superiorità e volesse dominarlo; ma poi, dalle espressioni semplici e affettuose della fanciulla, che pareva continuasse con quella lettera una lunga e ininterrotta corrispondenza, s'accorse che ella lo amava sinceramente, con ingenuità e con forza, e ne provò una dolcezza inesprimibile. Ella gli scriveva: «Ogni sera sto lunghe ore alla finestra, e mi sembra che tu debba da un momento all'altro passare, come usavi prima di partire; mi dispiace molto la nostra lontananza, ma mi conforto pensando che tu studi e prepari il nostro avvenire». Poi gli indicava dove indirizzare la risposta, e lo pregava del più gran segreto, perché naturalmente la famiglia di lei, venendo a sapere del loro amore, vi si sarebbe opposta. Anania rispose subito tutto vibrante d'amore e di felicità, sebbene un tantino oppresso dal rimorso di tradire il suo benefattore. Però sofisticava già: «Se amandola io rendo felice la figlia, non faccio male al padre ... ». Le descrisse le meraviglie della città e della stagione. «Mentre scrivo sento le rane gracidare ancora negli orti lontani, e vedo la luna salire come un volto d'alabastro sul cielo verdognolo del crepuscolo tiepido. È la stessa luna che vedevo salire sul solitario orizzonte nuorese, è lo stesso viso rotondo e melanconico che vedevo affacciarsi sopra le roccie dell'Orthobene, ma come ora mi sembra più dolce, diverso, quasi sorridente!» E di nuovo, appena impostata questa prima epistola, egli sentì un impetuoso desiderio di correre all'aperto, e salì sul colle di Bonaria. Una dolcezza orientale calava con la sera splendida; il viale che conduce al Santuario era deserto, e la luna cominciava a brillare attraverso gli alberi immobili: il cielo di un azzurro verdastro prendeva, sopra la linea madreperlacea del mare, una tinta d'un verde inverosimile, e nuvole rosse e violette lo solcavano. Pareva un sogno. Anania si fermò davanti al Santuario, e guardò il mare: le onde riflettevano la luminosità del cielo, delle nuvole colorate e della luna, e venivano ad infrangersi sotto il colle, come enormi conchiglie di madreperla che arrivate alla riva si scioglievano in liquido argento. E le barche veliere, allineate sullo sfondo luminoso, parevano ad Anania immense farfalle scese a riposarsi sull'acqua. Mai egli si sentì felice come in quell'ora: gli pareva che la sua anima fosse luminosa come il cielo, grande come il mare. Al bagliore della luna e dell'estremo crepuscolo decifrò qualche frase della lettera di Margherita; poi baciò il foglio, ed a malincuore si decise a ritornare in città. La luna seminava il viale di monete e disegni argentei; s'udivano ancora le rane e i canti dei pescatori; tutto era dolcezza, ma arrivato davanti alla sua casa, Anania udì grida, urli, strilli di donne, e voci d'uomini che pronunziavano parole infami: si volse e vide, davanti alle casette rosee che si scorgevano dal suo balcone, un gruppo di persone accapigliate. Alle finestre dei palazzi non si affacciava nessuno; pareva che gli abitanti del quartiere fossero abituati alla scena, all'ossessione di quella gente che si accapigliava in una mischia infernale, gridando le più luride ingiurie che l'uomo possa pronunziare contro il suo simile. Davanti al giardino un grosso uomo vestito di velluto nero, immobile alla luna, si godeva la scena con aria quasi beata. «Ma le guardie? Perché non vengono le guardie?», gli chiese Anania, turbato. «Che fanno le guardie?», rispose l'uomo senza guardare lo studente. «Ogni settimana son qui le guardie! Spintoni di qua, spintoni di là, tutto finisce e poi tutto ricomincia il giorno dopo. Bisogna mandar via quelle donne», riprese l'omone, minacciando da lontano i rissanti. «Aspettate, ve la do io, adesso! Aspettate che tutti abbiano firmato il ricorso alla questura!» «Ma che cosa è?» L'omone lo guardò con disprezzo. «Son donne perdute, dunque!» Anania rientrò a casa pallido e ansante, e la padrona si accorse del suo turbamento. «Ma che cosa ha?», gli disse. «Si è spaventato? Son donne allegre, coi loro ... giovanotti; e si azzuffano per gelosia. Ma le faranno andar via; abbiamo ricorso alla questura.» «Di che paese sono?», egli domandò. «Una è cagliaritana; l'altra, credo, del Capo di Sopra.» Le urla raddoppiavano; si distingueva la voce d'una donna che si lamentava quasi l'avessero ferita a morte ... Dio, che orrore! Anania tremava, e attratto da una forza irresistibile corse ad aprire il balcone. In alto, sul cielo purissimo, la luna e le stelle: in basso, ai piedi del vaporoso quadro della città, quel gruppo di demoni, quelle grida di rabbia, quelle parole abbominevoli ... Ed Anania stette a guardare angosciosamente, con l'anima oppressa da un tremendo pensiero ... «Fate che ella sia morta, Dio mio, Dio mio! Abbiate pietà di me, Signore!», singhiozzava egli a tarda notte, tormentato dall'insonnia e dai tristi pensieri. L'idea che una delle due donne che abitavano le casette rosee potesse essere sua madre era svanita, dopo le informazioni date, durante il pranzo, dalla padrona di casa; ma che importava? Se non qui, là, in un punto ignoto ma reale, a Cagliari, a Roma od altrove, ella viveva e conduceva, o aveva condotto, una vita simile a quella delle donne che gli abitanti di Via San Lucifero volevano scacciare dal loro quartiere. «Perché Margherita mi ha scritto?», egli pensava, «e perché le ho risposto? Quella donna ci dividerà per sempre. Perché ho sognato? Domani scriverò a Margherita, le dirò tutto. Ma che posso dirle? E se quella donna fosse morta? Perché devo rinunziare alla felicità? Non lo sa, forse, Margherita, che io sono figlio del peccato? Se si fosse vergognata di me non mi avrebbe scritto. Sì, ma certamente ella crede che mia madre sia morta, o che per me sia come morta; mentre io sento che è viva, e non rinunzio al mio dovere, che è quello di cercarla, trovarla, trarla dal vizio ... E se si è emendata? No, essa non si è emendata. Ah, è orribile; io la odio ... La odio, la odio!» Visioni truci gli attraversavano la mente: vedeva sua madre accapigliata con altre donne, con uomini luridi e bestiali, udiva grida terribili, e tremava d'odio e di disgusto. Verso mezzanotte ebbe una crisi di lagrime; soffocò i singhiozzi mordendo il guanciale, torse le braccia, si graffiò il petto; si strappò dal collo l'amuleto datogli da Olì il giorno della loro fuga da Fonni, e lo scaraventò contro il muro: oh, così avrebbe voluto strappare e buttare lontano da sé il ricordo di sua madre! Ad un tratto si meravigliò d'aver pianto; s'alzò e cercò l'amuleto, ma non lo rimise più al collo: poi si domandò se, senza il suo amore per Margherita, avrebbe sofferto egualmente al pensiero di sua madre: si rispose di sì. Di tanto in tanto avveniva una specie di vuoto nella sua mente; stanco di tormentarsi, allora egli vagava col pensiero dietro visioni estranee al crudele problema che lo urgeva: la voce del mare gli pareva il muggito di mille tori cozzanti invano contro la scogliera; e per contrapposto pensava ad una foresta scossa dal vento e inargentata dalla luna, e ricordava i boschi dell'Orthobene dove tante volte, mentre egli coglieva viole, il rumore del vento sugli elci gli aveva dato appunto l'illusione del mare. Ma all'improvviso il crudele problema tornava. « ... E se si fosse emendata? È lo stesso; è lo stesso. Io devo cercarla, trovarla, aiutarla. Ella mi ha abbandonato per il mio bene, perché altrimenti io non avrei avuto mai un nome, mai un posto nella società. Rimanendo con lei sarei andato a mendicare; sarei vissuto nella vergogna, forse; forse sarei diventato un ladro, un delinquente ... Sì ... e così come sono non è la stessa cosa? Non sono perduto lo stesso? ... No, no! Non è lo stesso! Così sono figlio delle mie azioni. Però Margherita non vorrà esser mia, perché ... Ma perché? ma perché? Perché non vorrà esser mia? Sono io forse disonorato? Che colpa ho io? Ella mi vuole, sì, ella mi vuole, appunto perché sono figlio delle mie azioni. Chi sa, del resto, che quella donna non sia morta? Ah, perché mi illudo? Essa non è morta, lo sento; è viva, è giovane ancora, quanti anni ha adesso? Trentatré anni, forse; ah, è ben giovane!» Quest'idea lo inteneriva alquanto. «Se ella avesse cinquant'anni non potrei perdonarle. Ma perché mi ha ella abbandonato? Se mi avesse tenuto con sé non sarebbe più caduta: io avrei lavorato, a quest'ora sarei un servo, un pastore, un operaio. Non conoscerei Margherita, non sarei infelice ... Mio Dio, mio Dio, fate che ella sia morta! Ma perché faccio questa stupida preghiera? No, ella non è morta. Ma perché dovrei io cercarla? Non mi ha ella abbandonato? Io sono un pazzo, e Margherita riderebbe se sapesse ch'io combatto una così stupida lotta. Ebbene, sono io forse il primo o l'ultimo figlio della colpa, che si innalza e si fa stimare? Sì, ma lei è l'ombra. Io devo cercarla e farla vivere con me, e una donna onesta non vorrà mai vivere con noi: io e lei saremo la stessa persona. Domani io devo scrivere a Margherita. Domani. Se ella mi volesse egualmente?» Questo pensiero lo colmò di dolcezza; ma subito dopo ne sentì tutta l'assurdità e ricadde nella disperazione. Né l'indomani né poi egli poté svelare a Margherita il segreto proposito che lo incalzava, lo sollevava e lo avviliva continuamente. «Glielo dirò a voce» pensava, ma sentiva che tanto meno a voce avrebbe avuto il coraggio di spiegarsi, e s'adirava per la sua viltà, ma nello stesso tempo si confortava nella vergognosa certezza che la sua viltà appunto gli avrebbe impedito di compiere quella che egli chiamava la sua missione. A volte, però, questa missione gli appariva così eroica che l'idea di rinunziarvi lo rattristava. «La mia vita sarebbe inutile, come per la maggior parte degli uomini, se io rinunziassi a ciò!» pensava. Ed in quei momenti di romanticismo non gli dispiaceva la lotta fra il suo dovere terribile e il suo amore ingrandito morbosamente dalla lotta. Dopo la sera della rissa non s'affacciò più al balcone sulla strada; la vista delle casette, dalle quali neppure i ricorsi alla questura riuscivano a snidare le triste inquiline, gli faceva male; tuttavia, rientrando a casa, egli vedeva spesso le due donne, o sul balcone, fra i garofani e gli stracci, o sedute sul limitare della porta. Una specialmente quella del Capo di Sopra alta e snella, coi capelli nerissimi e gli occhi d'un turchino vivo, attirava la sua attenzione. Si chiamava Maria Rosa; era quasi sempre ubriaca e a giorni vestiva miseramente e girava per le strade scarmigliata, scalza o in ciabatte rosse, a giorni usciva elegantemente vestita, in cappello, in mantellina di velluto viola guarnita di piume bianche, qualche volta si metteva sul balcone, fingendo di cucire, e cantava, con voce rauca, graziosi stornelli del suo paese, interrompendosi per gridare insolenze ai passanti che la molestavano coi loro scherzi, o alle vicine con le quali litigava continuamente perché ne seduceva i mariti ed i figli. La sua voce giungeva fino alla camera di Anania, ed egli l'ascoltava con dolore. Maria Rosa gli destava rabbia e pietà, e sebbene la sapesse del tal paese, della tale famiglia, qualche volta egli tornava nella folle supposizione che ella potesse essere sua madre. Sì, dovevano per lo meno rassomigliarsi ... Ah, che triste e terribile ossessione! Una sera poi, Maria Rosa e la compagna lo fermarono in mezzo alla strada, invitandolo a seguirle; egli fuggì, preso da un tremito di disgusto e d'orrore. Dio! Dio! Gli pareva fosse stata lei a fermarlo ... Egli studiava con ardore e scriveva lunghe lettere a Margherita. Il loro amore era perfettamente simile a centomila altri amori fra studenti poveri e signorine ricche: ma ad Anania pareva che nessuna coppia al mondo potesse amarsi come si amavano loro, e che nessun uomo avesse mai amato con l'ardore con cui egli amava. Nonostante il dubbio che Margherita potesse abbandonarlo se egli ritrovava sua madre, era felice del suo amore; la sola idea di riveder la fanciulla gli dava vertigini di gioia. Contava i giorni e le ore; in tutto il suo avvenire misterioso e velato non scorgeva che un punto luminoso: l'incontro con Margherita, al suo ritorno per Pasqua. Anche a Cagliari, durante il primo anno di liceo, egli non ebbe amici e neppure conoscenti; quando non studiava o non vagava solitario in riva al mare, sognava sul balcone, come una fanciulla. Un giorno, verso il tramonto, salì sulle colline di monte Urpino, al di là dei campi ove i mandorli fiorivano dal gennaio, e s'inoltrò nella pineta. Sul musco dei viali abbandonati il sole calante tra i pini rosei gettava riflessi delicati; a sinistra s'intravedevano prati verdi, mandorli in fiore, siepi rosse al tramonto; a destra boschetti di pini, e chine ombrose coperte di iris. Egli non sapeva dove fermarsi, tanto i posti erano deliziosi; colse un fascio d'iris, e infine salì sopra una cima verde di asfodeli, dalla quale si godeva la triplice visione della città rossa al tramonto, degli stagni azzurrognoli e del mare che pareva un immenso crogiuolo d'oro bollente. Il cielo ardeva; la terra esalava delicate fragranze; le nuvole azzurrastre, che disegnavano sull'orizzonte d'oro profili di cammelli e figure bronzee, davano l'idea d'una carovana e ricordavano l'Africa vicina. Anania si sentiva così felice che sventolò il fazzoletto e si mise a gridare salutando un essere invisibile, - che era l'anima del mare, del cielo, lo spirito dei sogni: Margherita. D'allora in poi le pinete di monte Urpino diventarono il regno dei suoi sogni: a poco a poco egli si considerò talmente padrone del luogo che si irritava quando incontrava qualche persona nei viali solitari: spesso rimaneva nella pineta fino al cader della sera, assisteva ai rossi tramonti riflessi dal mare, o seduto fra le iris guardava il sorgere della luna, grande e gialla, fra i pini immobili. Una sera, mentre stava seduto sull'erba di una china, al di là di un piccolo burrone, udì un tintinnio di greggie pascenti, e fu assalito da un impeto di nostalgia. Davanti a lui, al di là del burrone, il viale perdevasi in una lontananza misteriosa: i pini rosei sfumavano sul cielo puro, il musco aveva riflessi di velluto; Venere splendeva sull'orizzonte roseo, sola e ridente, quasi affacciatasi prima delle altre stelle per godersi la dolcezza della sera senza essere disturbata. A che pensava la solitaria stella? Aveva un amante lontano? Anania osò rassomigliarsi all'astro radioso, così solo nel cielo come egli era solo nella pineta. Forse in quell'ora Margherita guardava la stella della sera. E che faceva zia Tatàna? Il fuoco ardeva nel focolare, e la buona vecchia preparava melanconicamente il pasto della sera, pensando al suo caro fanciullo lontano. Ed egli, egli non pensava quasi mai a lei; egli era un ingrato, un egoista. Ah, ma che poteva farci? Se al posto di zia Tatàna ci fosse stata un'altra donna, il suo pensiero sarebbe volato costantemente a lei. Invece quella donna ... Dove era quella donna? Che faceva in quell'ora? Scorgevano anche i suoi occhi la stella della sera? Era morta? Era viva? Era ricca o mendicante? E se fosse in carcere? Egli si meravigliò di non arrossire a questo pensiero. Per la prima volta, dopo tanti anni, provò un senso di pietà, come quando, bambino, cercava di scaldare coi suoi piedini i piedi gelati di Olì ... Finalmente il giorno del ritorno arrivò. Egli partì, quasi oppresso dalla sua felicità: aveva paura di morire in viaggio, di non arrivare a rivedere le care montagne, la nota strada, il dolce orizzonte, il viso di Margherita ... «Se però io morissi ora», pensava, con la fronte appoggiata alla mano, «se morissi ora ella non mi dimenticherebbe mai più ... » Fortunatamente arrivò sano e salvo; rivide le care montagne, le valli selvaggie, il dolce orizzonte, il viso paonazzo di Nanna venuta ad incontrarlo alla stazione. Ella aspettava da più di un'ora; appena vide il bel volto di Anania aprì le braccia e cominciò a piangere. «Figliuolino mio! Figliuolino mio!» «Come la va? Prendi!», egli gridò, e per impedirle di abbracciarlo le gettò addosso la valigia, un involto, un cestino. «Avanti! Avanti! Va avanti, passa di qui; io devo passar di là. Andiamo.» Si mise quasi a correre, e sparve, lasciando la donna stupefatta. Ecco, ecco. Egli deve rivedere la nota strada: ella lo aspetta alla finestra, e non hanno bisogno di testimoni per rivedersi. Come le case di Nuoro sono piccole e le strade strette e deserte! Meglio! Fa quasi freddo, a Nuoro! La primavera c'è, ma è ancora pallida e delicata come una fanciulla convalescente. Ah, ecco alcune persone che s'avanzano: fra esse è Franziscu Carchide che, riconoscendo lo studente, comincia a far gesti di gioia. Che rabbia! «Ebbene, come stai? Ben tornato! Come ti sei fatto grande! Ed elegante, poi! E che scarpette da damerino! quanto le hai pagate?» Finalmente Anania è libero. Avanti, avanti! Il suo cuore batte, batte sempre più forte. Una donna s'affaccia al limitare di una porta, guardando curiosamente; ma Anania passa, fugge, e da lontano sente esclamare: «È lui, sì, proprio lui!». Ebbene, sì, è proprio lui, che vi importa? Ah, ecco, ecco; ecco la strada che conduce all'altra, alla nota, alla cara strada. Finalmente: non è un sogno? Anania sente dei passi e si stizzisce; è un bambino che attraversa di corsa la strada, lo urta, vola via. Egli vorrebbe correre così, ma non può, non deve. Prende anzi un aspetto rigido, composto, si accomoda la cravatta, si sbatte con due dita i risvolti del soprabito. Già; egli ha un soprabito lungo, chiaro, elegante che lei non ha ancora veduto. Lo riconoscerà subito con quel soprabito? Forse no. Ecco finalmente la nota strada! Ecco il portone rosso, ecco la casa bianca con le finestre verdi. Margherita non c'è! Perché? Perché, Dio mio? Egli si ferma, palpitando. Fortunatamente la strada è deserta: solo una gallina nera passeggia, alzando molto le zampe prima di posarle per terra, e si diverte a battere il becco sul muro ... Basta, bisogna passare oltre, a scanso di essere notato da qualche occhio curioso. Egli comincia a camminare lentamente come la gallina; e benché le finestre rimangano vuote egli non cessa di fissarle un istante, e si commuove e sente il cuore saltargli in gola. Ad un tratto gli parve di svenire. Margherita s'era affacciata, pallida di passione, e lo guardava con occhi ardenti. Egli impallidì e non pensò neppure a salutare, a sorridere; non pensò a nulla, e per parecchi istanti non vide che quegli occhi ardenti dai quali gli pioveva una voluttà ineffabile. Camminò automaticamente, voltandosi ad ogni passo, seguito da quegli occhi inebbrianti; e solo quando Nanna, con la valigia sul capo, l'involto in una mano e il cestino nell'altra, apparve ansante in fondo alla strada, egli trasecolò, sorpreso, e affrettò il passo. Parte Seconda I. Era nell'ora che volge il desìo ai naviganti ed a quelli che stanno per salpare verso ignoti lidi. Anania è fra questi. Il treno lo trasporta verso il mare; cade una limpida sera d'autunno, grave di melanconia; i dentellati monti della Gallura sfumano nelle lontananze violacee, l'aria odora di brughiere; un ultimo paesetto appare, grigio e nero su uno sfondo di cielo rossastro. Anania guarda gli strani profili dei monti, il cielo colorato, le macchie, le roccie, e solo il timore di apparire ridicolo agli altri due viaggiatori, un prete e uno studente già suo compagno di scuola, gli impedisce di piangere. Eppoi, ormai, egli è un uomo. È vero che egli si credeva un uomo fin da quando aveva quindici anni: ma allora si credeva un uomo giovane, mentre adesso si crede un giovine vecchio. Eppure la salute e la gioventù brillano nei suoi occhi; egli è alto, svelto, con due seducentissimi baffetti castanei dalle punte d'oro. La sera cadeva; già qualche stella appariva «sovra i monti di Gallura» e qualche fuoco rosseggiava tra il verde-nero delle brughiere. Addio dunque, terra natìa, isola triste, antica madre amata ma non abbastanza perché una voce potente d'oltre mare non strappi i tuoi figli migliori dal tuo grembo, incitandoli a disertare, come aquilotti, il nido materno, la roccia solitaria. Lo studente guardava l'orizzonte ed i suoi occhi si offuscavano a misura che s'offuscava il cielo. Da quanti anni egli aveva sentito la voce che lo attirava lontano! Ricordava l'avventura con Bustianeddu, il progetto della fuga infantile; poi i continui sogni, il desiderio mai spento di un viaggio verso la terre d'oltre mare: eppure sul punto di lasciar l'isola egli si sentiva triste, e si pentiva di non aver proseguito gli studi a Cagliari. Era stato così felice laggiù! Nell'ultimo maggio Margherita gli era apparsa tra lo splendore fantastico delle feste di Sant'Efes, e insieme con lei, fra allegre brigate di compaesani, egli aveva trascorso ore indimenticabili. Ella era elegante, molto alta e formosa; i suoi capelli splendenti e gli occhi turchini solcati dall'ombra delle lunghe ciglia nere attiravano l'attenzione dei passanti che si voltavano a guardarla. Anania, meno alto e più sottile di lei, le camminava al fianco, trepidante di piacere e di gelosia; gli pareva impossibile che la bella creatura regale e taciturna, nei cui occhi sdegnosi brillava tutta la fierezza d'una razza dominatrice, si abbassasse ad amarlo e neppure a guardarlo. Margherita parlava poco; non era civetta, non cambiava aspetto né voce, quando gli uomini le rivolgevano lo sguardo o la parola; e Anania l'amava anche per questo, e non vedeva che lei, non guardava altra donna che per paragonarla a lei e trovarla inferiore; e più egli diventava uomo e lei donna, e più la passione lo infiammava: spesso gli sembrava impossibile che anni ed anni dovessero ancora passare prima che ella diventasse sua. Durante le ultime vacanze si erano spesso trovati soli, nel cortile di Margherita, favoriti dalla serva che facilitava la loro corrispondenza. Di solito essi tacevano, ma mentre Margherita, o per paura o per pudore tremava, vigile e melanconica, Anania sorrideva completamente dimentico del tempo, dello spazio, delle cose e delle vicende umane. «Perché non mi ripeti le parole che mi scrivi?», le domandava. «Taci! ... Ho paura ... » «Di che? Se tuo padre ci sorprende io mi getterò per terra, gli dirò: "no, non facciamo del male; siamo già uniti per l'eternità ... ". Non aver paura; io sarò degno di te, io ho un avvenire davanti ... Io sarò qualche cosa!» Margherita non rispondeva, e vedendola così bella e gelida, con gli occhi illuminati dalla luna come gli occhi di perla d'un idolo, egli non osava baciarla, ma la fissava silenzioso e sussultava, non sapeva bene se di angoscia o di felicità. «Il mare è calmo. Dio sia lodato!», disse uno dei viaggiatori. Anania si scosse dai suoi ricordi e guardò la distesa verde- dorata del mare, che nel crepuscolo pareva una pianura illuminata dalla luna. Le rovine d'una chiesetta, un sentiero attraverso le macchie, perduto sull'estremo limite della costa, quasi tracciato da un sognatore che l'avesse condotto fin laggiù con la speranza di proseguirlo sul velluto marezzato delle onde, attirarono gli sguardi di Anania. Egli pensò a Renato del quale gli parve intravedere il triste profilo su una roccia guardante il mare ... No, non è lui, è un altro eroe di Chateaubriand, Eudoro, che sulle roccie marine della Gallia selvaggia sogna le rose dell'Ellade lontana ... Ebbene, no, non è neppure Eudoro ... è un poeta che si domanda: Questa roccia granitica erta sul mar che fa? ... Ma la roccia, la chiesetta ed il sentiero sono già spariti e con essi il profilo dell'incerto personaggio ... La tristezza dello studente aumentava: domande gravi e inutili gli attraversavano la mente, cadevano senza risposta, come pietre buttate nell'acqua. Perché non poteva egli fermarsi su quella costa selvaggia, dolcemente melanconica, e perché il profilo intraveduto sulla roccia non poteva essere il suo? Perché non poteva egli costrurre una casa sulle rovine della chiesetta? Perché pensava a queste stupide romanticherie, perché andava a Roma, perché studiava, perché studiava leggi? Chi era lui? Che cosa era la vita, la nostalgia, l'amore, la tristezza? Che cosa faceva Margherita? Perché egli l'amava? E perché suo padre era servo? E perché suo padre lo aveva replicatamente avvertito di visitare, appena giunto a Roma, quei luoghi dove si conservano monete d'oro ritrovate sotterra o nelle antiche rovine? Suo padre era o no un delinquente, o un pazzo affetto dall'idea fissa dei tesori? Che aveva egli ereditato da suo padre? L'idea fissa in forma diversa? Era dunque soltanto un'idea fissa, una malattia mentale, il pensiero costantemente rivolto a quella donna? Ma trovavasi ella veramente a Roma, e la ritroverebbe egli? «Anninia», disse con voce beffarda l'altro studente, dando ad Anania il nomignolo che i compagni gli avevano affibbiato, «fai la nanna? Su, via, non piangere, la vita è fatta così: un biglietto per viaggio circolare, con diritto di fermate più o meno lunghe. Consolati almeno che il mal di mare non verrà a interrompere i tuoi sogni d'amore ... » Infatti il mare era calmissimo e la traversata cominciò coi migliori auspici. La luna nuova calava illuminando fantasticamente le coste e la roccia enorme di Capo Figari, sentinella ciclopica vigilante il melanconico sonno dell'isola abbandonata. Addio, addio, terra d'esilio e di sogni! Anania rimase immobile, appoggiato al parapetto del piroscafo, finché l'ultima visione di Capo Figari e delle isolette, sorgenti azzurre dalle onde come nuvole pietrificate, svanirono tra i vapori dell'orizzonte; poi sedette sulla panchina, battendosi dispettosamente un pugno sulla fronte per ricacciar dentro le lagrime che gli velavano gli occhi; e rimase lì, pallido e sconvolto, intirizzito dalla brezza umida, finché vide la luna, rossa come un ferro rovente, calare in una lontananza sanguigna. Finalmente si ritirò, ma tardò ad assopirsi; gli pareva che il suo corpo s'allungasse e si restringesse incessantemente, e che una interminabile fila di carri passasse sopra il suo petto indolenzito; i più tristi ricordi della sua vita gli tornarono in mente: gli sembrava di udire, nello scroscio delle acque frante dal piroscafo, il rumore del vento sopra la casetta della vedova, a Fonni ... Oh, come, come la vita era triste, inutile e vana! Che cosa era la vita? Perché vivere? Così, tristemente, si assopì; ma svegliandosi si sentì un altro, agile, forte, felice. Si era addormentato in un tetro paese di dolore, fra onde livide vigilate da una luna sanguigna: si svegliava in mezzo ad un paese d'oro, in un paese di luce, - vicino a Roma. «Roma!», pensò, palpitando di gioia. «Roma, Roma! Patria eterna, abisso d'ogni male e fonte d'ogni bene!» Gli pareva di poterla abbracciare tutta, di muovere alla conquista del mondo intero. Già a Civitavecchia, attraversando la città umida e nera sotto il cielo mattutino, tutto gli sembrava bello, e diceva allo studente Daga: «Vedi, mi par d'essere nel vestibolo d'una grotta marina meravigliosa». Il Daga, che aveva già vissuto un anno a Roma, sorrideva beffardo, invidiando l'entusiasmo enfatico del suo compagno. L'arrivo rombante del diretto diede al giovane provinciale sardo un senso di terrore, la prima impressione vertiginosa d'una civiltà quasi violenta e distruggitrice. Gli parve che il mostro dagli occhi rossi lo portasse via, come il vento porta la foglia, lanciandolo nel turbine della vita. A Roma i due studenti andarono ad abitare al terzo piano di una casa in Piazza della Consolazione, presso una vedova, madre di due graziose ragazze telegrafiste, maestre, dattilografe, civette. I due studenti dormivano nella stessa camera, vasta, ma poco allegra, divisa da una specie di paravento formato con una coperta gialla; la loro finestra guardava su un cortile interno. La prima volta che Anania guardò da quella finestra provò un senso disperato di sgomento. Non vedeva che muri altissimi, d'un giallo sporco, bucati da lunghe finestre irregolari, e panni miseri, d'un candore equivoco, appesi a fili di ferro; uno di questi fili, con anelli scorrevoli, dai quali pendevano laccetti di spago attorcigliati, passava davanti alla finestra degli studenti. Mentre Anania guardava con disperata tristezza i muri perdentisi sul pallido cielo della sera, Battista Daga scosse il filo e cominciò a ridere: «Guarda, Anninia, guarda come gli anelli e i laccetti di spago ballano. Sembrano vivi. Così è la vita: un filo di ferro attraverso un cortile sporco: gli uomini si agitano, sospesi sopra un abisso di miserie». «Non rompermi le scatole», disse Anania, «sono abbastanza melanconico! Usciamo, mi par di soffocare.» Uscivano, camminavano, si stancavano, storditi dal rumore delle carrozze e dallo splendore dei lumi, dal passaggio violento e dal rauco urlo delle automobili. Anania si sentiva triste, tra la folla; gli pareva d'essere solo in un deserto, e pensava che se si fosse sentito male e avesse gridato nessuno lo avrebbe udito e soccorso. Ricordava Cagliari con nostalgia struggente; oh, balcone incantato, orizzonte marino, dolce occhio di Venere! qui non esistevano più né stelle, né luna, né orizzonte: solo un disgustoso ammasso di pietre, un pullulamento di uomini che allo studente barbaricino parevano d'una razza diversa e inferiore alla sua. Veduta attraverso lo sbalordimento, la stanchezza dei primi giorni, la suggestione melanconica del buio appartamentino di Piazza della Consolazione, Roma gli dava una tristezza quasi morbosa; nella città vecchia, dalle vie strette, dalle botteghe puzzolenti, dagli interni miserabili, dalle porte che parevano bocche di caverne, dalle scalette che sembrava si perdessero in un tenebroso luogo di dolore, egli ricordava i più miseri villaggi sardi; nella Roma nuova si sentiva smarrito, tutto gli appariva grande, le strade tracciate dai giganti per giganti, le case montagne, le piazze tancas sarde; anche il cielo era troppo alto e troppo profondo. Anche all'Università, dove egli cominciò a frequentare assiduamente i corsi di Diritto civile e penale e le lezioni di Enrico Ferri, lo aspettava una delusione. Gli studenti non facevano altro che rumoreggiare e ridere e beffarsi di tutto. Pareva si beffassero della vita stessa. Specialmente nell'aula IV, mentre si aspettava il Ferri, il chiasso e il divertimento oltrepassavano il limite; qualche studente saliva sulla cattedra e cominciava una parodia di lezione accolta da urli, fischi, applausi, grida di «Viva il Papa», «Viva Sant'Alfonso de' Liguori», «Viva Pio IX». Qualche volta lo studente, dalla cattedra, con una faccia tosta indescrivibile imitava il miagolar del gatto o il canto del gallo. Allora le grida e i fischi raddoppiavano; venivano lanciate pallottole di carta, pennine, fiammiferi accesi, finché l'arrivo del professore, accolto da applausi assordanti, metteva fine alla scena. Anania si sentiva solo, triste fra tanta gioia, e gli sembrava di appartenere ad un mondo diverso da quello ove era costretto a vivere. Solo quando il professore cominciava a parlare, egli provava una commozione profonda, quasi un senso di gioia. Fantasmi di delinquenti, di suicidi, di donne perdute, di maniaci, di parricidi, passavano, evocati dalla voce possente del professore, davanti al pensiero turbato di Anania. E fra tante figure egli ne distingueva una, che passava e ripassava davanti a lui, ad occhi bassi. Ma invece di fissarla con orrore egli la guardava con pietà, col desiderio di stenderle la mano. Una sera lui e il Daga attraversavano Via Nazionale: lo splendore delle lampade elettriche si fondeva col chiarore della luna: le finestre del palazzo della Banca erano tutte vivamente illuminate. «Sembra, che tutto l'oro racchiuso nella Banca brilli attraverso le finestre», disse Anania. «Ma bbraaavooo! Si vede che la mia compagnia ti dirozza.» «Sono più che mai romantico stasera. Andiamo al Colosseo!» Andarono. Si aggirarono a lungo nel divino mistero del luogo, guardando la luna attraverso ogni arco; poi sedettero su una colonna lucente e sospirarono entrambi. «Io sento una gioia simile al dolore,» disse Anania. Il Daga non rispose, ma dopo un lungo silenzio disse: «Mi sembra d'essere nella luna. Non ti pare che nella luna si debba provare ciò che si prova qui, in questo gran mondo morto?». «Sì», disse Anania, con voce flebile. «Questa è Roma.» Al ritorno passarono ancora per Via Nazionale. Chiacchieravano in dialetto. Era tardi, e su e giù, attraverso i marciapiedi quasi deserti vagavano molte farfalle notturne, così le chiamava il Daga. A un tratto una di esse passò accanto a loro e li salutò in dialetto sardo. «Bonas tardas, pizzoccheddos!» Era alta, bruna, con grandi occhi cerchiati: la luce elettrica dava al suo piccolo viso, emergente dal collo di pelo d'un soprabito chiaro, un pallore cadaverico. Come a Cagliari, la sera in cui Rosa e la compagna lo avevano fermato, Anania sussultò, preso da un senso d'orrore, e trascinò via il Daga che rispondeva insolentemente alla donna. Era lei? Poteva esser lei? Era una sarda ... poteva esser lei! II. Sdraiato sul suo lettuccio, dopo ore ed ore di amarezza, di dubbio, di opprimente melanconia, egli pensava: «È inutile illudermi: non sono pazzo, no; ma non posso più vivere così; bisogna ch'io sappia ... Oh, fosse morta! fosse morta! Bisogna che io cerchi. Non sono venuto a Roma per questo? Domani! domani! Dal giorno che arrivai ripeto questa parola, e l'indomani arriva ed io non faccio niente. Ma che posso fare? Dove devo andare? E se la trovo?». Ah, era di questo che egli aveva paura. Non voleva neppur pensare a quanto poteva accadere dopo ... Improvvisamente si domandò: «E se mi confidassi col Daga? Se io ora gli dicessi: "Battista, devo uscire, devo recarmi in questura per chiedere informazioni ... ". Ah, non ne posso più! Sono tanti e tanti anni che io trascino con me questo peso: ora vorrei liberarmene, gettarlo via come si getta un carico opprimente ... liberarmene, respirare ... Bisogna snidarlo questo verme roditore. Mi diranno che sono uno stupido, mi convinceranno che lo sono, mi diranno di smettere ... Ebbene, tanto meglio se mi convinceranno ... Che giornata triste! Il cielo si abbassa ... si abbassa sempre più ... Avrei sonno? Bisogna ch'io vada subito». Pioveva dirottamente. Anche il Daga sonnecchiava sul suo lettuccio, al di là del paravento. «Battista», disse Anania, sollevandosi, col gomito sul guanciale, «tu non esci?» «No.» «Mi presti il tuo ombrello?» Sperava che il compagno gli chiedesse dove voleva andare, con quel tempo orribile, ma il Daga disse: «Non potresti farmi il piacere di comprartene uno?» Anania sedette sul letto, rivolto al paravento, e mormorò: «Devo andare in questura ... ». E sperò ancora che una voce fraterna gli chiedesse il suo segreto ... Ecco, egli palpitava già pensando come cominciare ... Ma attraverso il paravento una voce beffarda chiese: «Vai a far arrestare la pioggia?». Il segreto gli ripiombò sul cuore, più amaro e grave di prima. Ah, non un paravento, ma una muraglia insuperabile lo divideva dalla confidenza e dalla carità del prossimo. Non doveva chiedere né aspettare aiuto da nessuno; doveva bastare a se stesso. S'alzò, si pettinò accuratamente e cercò nel cassetto la sua fede di nascita. «Prendilo pure, l'ombrello. Ma perché vai?», chiese l'altro, sbadigliando. Egli non rispose. Sulle scale buie si fermò un momento, ascoltando lo scroscio sonoro dell'acqua sull'invetriata del tetto: pareva il rombo d'una cascata, che dovesse di momento in momento precipitarsi entro la casa, già inondata dal fragore dell'imminente rovina. Una tristezza mortale gli strinse il cuore. Uscì e vagò lungamente per le strade lavate dalla pioggia: salì su per una viuzza deserta, passò sotto un arco nero, guardò con infinita tristezza i chiaroscuri umidi di certi interni, di certe piccole botteghe, nella cui penombra si disegnavano pallide figure di donne, di uomini volgari, di bimbi sudici: antri ove i carbonari assumevano aspetti diabolici, dove i cestini di erbaggi e di frutta imputridivano nell'oscurità fangosa, ed il fabbro e il ciabattino e la stiratrice si consumavano nei lavori forzati, in un luogo di pena più triste della galera stessa. Anania guardava: ricordava la catapecchia della vedova di Fonni, la casa del mugnaio, il molino, il misero vicinato e le melanconiche figure che lo animavano; e gli pareva d'esser condannato a viver sempre in luoghi di tristezza e tra immagini di dolore. Dopo un lungo ed inutile vagabondare rientrò a casa e si mise a scrivere a Margherita. «Sono mortalmente triste: ho sull'anima un peso che mi opprime e mi schiaccia. Da molti anni io volevo dirti ciò che ti scrivo adesso, in questo triste giorno di pioggia e di melanconia. Non so come tu accoglierai la rivelazione che sto per farti; ma qualunque cosa tu possa pensare, Margherita, non dimenticare che io sono trascinato da una fatalità inesorabile, da un dovere che è più terribile d'un delitto ... » Arrivato alla parola «delitto» si fermò e rilesse la lettera incominciata. Poi riprese la penna, ma non poté tracciare altra parola, vinto da un gelo improvviso. Chi era Margherita? Chi era lui? Chi era quella donna? Cosa era la vita? Ecco che le stupide domande ricominciavano. Guardò lungamente i vetri, il filo di ferro, gli anellini ed i lacci bagnati e saltellanti su uno sfondo giallastro, e pensò: «Se mi suicidassi?», Lacerò lentamente la lettera, prima in lunghe striscie, poi in quadrettini che dispose in colonna, e tornò a fissare i vetri, il filo di ferro, i laccetti che parevano marionette. Rimase così finché la pioggia cessò, finché il compagno lo invitò ad uscire. Il cielo si rasserenava; nell'aria molle vibravano i rumori della città rianimatasi, e l'arcobaleno s'incurvava, meravigliosa cornice, sul quadro umido del Foro Romano. Al solito, i due compagni salirono per Via Nazionale e il Daga si fermò a guardare i giornali davanti al Garroni, mentre Anania proseguiva distratto, andando incontro ad una fila ciangottante di chierici rossi, uno dei quali lo urtò lievemente. Allora egli parve destarsi da un sogno, si fermò e aspettò il compagno, mentre i chierici s'allontanavano, e il riflesso dei loro abiti scarlatti dava uno splendore sanguigno al lastrico bagnato. «Nella mia infanzia ho conosciuto il figliuolino d'un bandito famoso; il bimbo era già arso da passioni selvaggie, e si proponeva di vendicare suo padre. Ora invece ho saputo che si è fatto frate. Come tu spieghi questo fatto?», domandò Anania. «Quell'individuo è pazzo!», rispose il Daga con indifferenza. «Ebbene, no!», riprese Anania animandosi. «Noi spieghiamo o vogliamo spiegare molti misteri psicologici, dando il titolo di matto all'individuo che ne è soggetto.» «Per lo meno, però, è un monomaniaco. D'altronde anche la pazzia è un mistero psicologico complicato; un albero il cui ramo più potente è la monomania.» «Ebbene, ammetto. Ma l'individuo in questione aveva la monomania del banditismo; aggiungi, monomania atavica. Facendosi frate egli, sebbene uomo quasi primitivo, ha voluto liberarsi dal suo male ... » «E finirà con l'impazzire davvero, quel frate. Un uomo cosciente, colto dal malanno di un'idea fissa qualunque, deve liberarsene secondandola.» «Tu forse hai ragione», disse Anania, pensieroso. E non parlò più finché non arrivarono all'angolo di Via Agostino Depretis. Allora disse, svoltando strada: «Voglio prendere ... mi hanno incaricato di prendere l'indirizzo di una persona ... Devo andare in questura». Il compagno lo seguì, curioso. «Chi è questa persona? Chi ti ha incaricato? È del tuo paese?» Ma Anania non si spiegava. Arrivati davanti a Santa Maria Maggiore il Daga dichiarò che non sarebbe andato oltre. «Allora aspettami qui», disse Anania, senza fermarsi, «ti dirò poi ... » Messo in curiosità il Daga lo seguì per un tratto, poi lo aspettò sulla gradinata della chiesa. «Il dado è gettato?» chiese con enfasi, quando Anania ricomparve. Ma nonostante le sue domande e i suoi scherzi non riuscì a sapere che cosa il suo compagno era andato a fare in questura. Appoggiato al muro Anania guardava l'orizzonte e ricordava la sera in cui, bambino, era salito sulle falde del Gennargentu ed aveva veduto un pauroso cielo tutto rosso, animato da spiriti invisibili. Anche adesso sentiva un mistero aleggiargli intorno, e la città gli sembrava una foresta di pietra attraversata da fiumi pericolosi, e sentiva paura. III. Sì, come si legge nelle vecchie storie romantiche, il dado era gettato. La questura, dopo la domanda e le indicazioni di Anania, fece ricerca di Rosalia Derios, e verso la fine di marzo informò lo studente che al numero tale di Via del Seminario, all'ultimo piano, abitava una donna sarda, affitta-camere, il cui passato e i connotati corrispondevano a quelli di Olì. Questa signora si chiamava, o si faceva chiamare, Maria Obinu, nativa di Nuoro. Abitava in Roma da quattordici anni, e nei primi tempi aveva vissuto un po' irregolarmente. Da qualche anno, però, menava vita onesta - almeno in apparenza - affittando camere mobiliate e facendo pensione. Anania non si commosse troppo nel ricevere queste informazioni. I connotati combinavano; egli non ricordava precisamente la fisonomia di sua madre, ma ricordava che ella era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari: e la Obinu era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari. Inoltre egli sapeva che a Nuoro non esisteva alcuna famiglia Obinu, e che nessuna donna nuorese viveva e affittava camere a Roma. Evidentemente quindi la Obinu falsava il suo nome e la sua origine ... Tuttavia egli sentì che la donna indicatagli dalla questura non era, non poteva essere sua madre; questa non viveva a Roma dal momento che la questura non riusciva a scoprirla. Dopo giorni e mesi di attesa e di ansia, egli provò come un senso di liberazione. La primavera penetrava anche nel cortile melanconico di Piazza della Consolazione, in quell'enorme pozzo giallo esalante odori di vivande, animato dal canto delle serve e dal gorgheggio dei canarini prigionieri. L'aria era tiepida e dolce; sul cielo azzurro passavano nuvolette rosee, e il vento portava fragranze di rose e di viole. Affacciato alla finestra, Anania si abbandonava ai suoi sogni nostalgici. L'odore delle viole, le nuvole rosee, il tepore della primavera, tutto gli ricordava la terra natìa, i vasti orizzonti, le nuvole che dalla finestra della sua cameretta egli vedeva affacciarsi o tramontare fra gli elci dell'Orthobene. Poi ricordava la pineta di monte Urpino, il silenzio delle cime coperte d'asfodeli e di iris violette, il mistero dei viali vigilati dal puro sguardo delle stelle. E la figura diletta di Margherita dominava i freschi paesaggi natii, circondata di asfodeli e di gigli selvatici, coi capelli di rame sfumati nel fulgore del cielo metallico. La primavera romana non lo commoveva che per le rimembranze: gli sembrava una primavera artificiale, troppo ardente e luminosa, troppo abbondante di fiori e di profumi. Piazza di Spagna, ornata come un altare, con la scalinata coperta di petali di rose mosse dalla brezza, il Pincio con gli alberi avvolti di fiori violacei, le vie profumate dai cestini di narcisi e di ranuncoli che le fioraie, ferme sull'orlo dei marciapiedi, offrivano ai passanti, - tutta questa ostentazione, tutto questo mercato della primavera, dava allo studente l'idea di una festa banale, che a lungo andare rattristava e disgustava. La primavera palpitava al di là dell'orizzonte; giovinetta selvaggia e pura ella scorrazzava attraverso le tancas coperte d'erbe alte aromatiche, e cantava con gli uccelli palustri in riva ai torrenti, e scherzava coi mufloni e con le lepri, fra i ciclamini, sotto le immense quercie sacre ai vecchi pastori della Barbagia, e si addormentava all'ombra delle roccie fiorite di musco, nei voluttuosi meriggi, mentre intorno al suo letto di felci e di pervinche gli insetti dorati ronzavano amandosi, e le api suggevano le rose canine estraendone il miele amaro; amaro e dolce come l'anima sarda. Anania amava e viveva in questa primavera lontana; seduto accanto alla finestra guardava le nuvolette rosee, e s'immaginava di essere un prigioniero innamorato. Una sonnolenza piacevole gli velava lo spirito, togliendogli la forza e la volontà di pensare a determinate cose. Le idee venivano e passavano nella sua mente, - così come le persone passano per la via; lo interessavano per un attimo, ma non si fermavano ed egli le dimenticava subito. Più che mai amava la solitudine; e persino la presenza del compagno lo irritava, anche perché il Daga lo derideva continuamente. «Noi vediamo la vita sotto aspetti ben diversi», gli diceva, «cioè io la vedo e tu non la vedi. Io sono miope e vedo, attraverso lenti fortissime, le cose e le umane vicende, nitidamente, rimpicciolite; tu sei miope e non possiedi neppure un paio d'occhiali.» Talvolta infatti pareva ad Anania di aver un velo davanti agli occhi; egli viveva di diffidenza e di dolore. Anche la sua passione per Margherita, in fondo, era composta di tristezza e di paura. Un giorno, agli ultimi di maggio, egli sorprese il compagno stretto in tenero amplesso con la maggiore delle padroncine. «Sei un bruto», gli disse con disprezzo. «Non amoreggi anche con l'altra sorella? Perché ti burli di entrambe?» «Scusami, stupido: son loro che vengono a buttarmisi fra le braccia, le posso respingere?», chiese cinicamente il Daga. «Poiché il mondo è diventato un gambero, profittiamone. Ora son le donne che seducono gli uomini; ed io sarei più stupido di te se non mi lasciassi sedurre ... fino ad un certo punto ... » «Ma perché certe cose non accadono che a certi tipi? A me no, per esempio.» «Perché agli asini non può succedere ciò che succede agli uomini: eppoi le nostre soavi padroncine hanno, in fondo, l'onesto desiderio di trovarsi un marito e sanno che tu sei fidanzato.» «Io fidanzato? ... », gridò Anania, «chi lo ha detto?» «Chi lo sa? E di una Margherita, anche, che questa volta, meno male, va gettata ante asinos.» «Ti proibisco di ripetere quel nome!», proruppe Anania, andando addosso al Daga. «Capisci, te lo proibisco!» «Abbassa le dita, ché mi cavi gli occhi! Il tuo amore è feroce!» Fremente di collera Anania si mise a impacchettare i suoi libri e le sue carte. «Ah», diceva, a denti stretti, «me ne vado subito, subito. Io non so vivere fra gente curiosa e volgare.» «Addio, dunque!», disse Battista, gettandosi sul letto. «Ricordati almeno che nei primi giorni che siamo giunti, se non c'ero io rimanevi vilmente schiacciato da una carrozza.» Anania uscì, col cuore gonfio di fiele: si diresse automaticamente verso il Corso, e quasi senza avvedersene si trovò in Via del Seminario. Era un pomeriggio ardente; lo scirocco sbatteva le tende dei negozi: l'aria odorava di vernici, di droghe e di vivande. Anania sentiva i suoi nervi fremere come corde metalliche. In Via del Seminario passò in mezzo a uno stormo di chierici e di preti dalle mantelline svolazzanti e mormorò dispettosamente: «Corvi!», A un tratto, accanto a una piccola porta che dava su un andito buio, egli vide un numero, il numero della casa ove abitava Maria Obinu. Entrò, salì all'ultimo piano e suonò. Una donna alta e pallida, vestita di nero, aprì: egli si turbò, sembrandogli di aver veduto altra volta i grandi occhi verdastri di lei. «La signora Obinu?» «Sono io», rispose la donna con voce grave, «No», egli pensò, «non è lei; non è la sua voce.» Entrò. La Obinu gli fece attraversare un piccolo vestibolo buio e lo introdusse in un salottino grigio e triste; egli si guardò attorno, vide una testa di cervo e una pelle di muflone attaccate al muro, e immediatamente sentì i suoi dubbi rinascere. «Vorrei una camera; io sono sardo, studente», disse, esaminando la donna da capo a piedi. Ella era pallida e scarna, col collo lungo, il naso affilato quasi trasparente; ma i folti capelli neri, pettinati ancora alla sarda, cioè a trecce strette appuntate fortemente sulla nuca, le davano un'aria graziosa. «Lei è sardo? Ho piacere ... », rispose disinvolta. «Adesso non ho camere disponibili, ma se lei può pazientare una quindicina di giorni, ho una signorina inglese che deve partire ... » Egli chiese ed ottenne di veder la camera; il letto stava al centro, fra due cataste di libri vecchi e d'oggetti antichi; entro una vasca di gomma, ancora piena d'acqua insaponata, olezzava un fascio di gaggie; dalla finestra si scorgeva un giardinetto melanconico. Sul tavolino Anania vide, fra gli altri, un volumetto che egli amava con passione dolorosa. Erano i versi di Giovanni Cena: Madre. «Ho bisogno di andar subito via dalla casa dove sto; prenderò questa camera, ma intanto, non potrebbe darmene un'altra, fosse anche un buco? ... » Rientrarono nel salottino, ed egli si fermò a guardare la testa imbalsamata del cervo. «È un ricordo di mio padre, che era cacciatore», disse la donna, sorridendo con bontà. «È di Nuoro, lei?» «Sì, ma sono nata là per caso.» «Anch'io sono nato per caso nel villaggio di Fonni», egli disse, guardandola in viso. «Sì, sono nato a Fonni; mi chiamo Anania Atonzu Derios.» Ella non batté palpebra. «No, non è lei!», egli pensò, e si sentì felice. «Per questi quindici giorni le darò la mia camera», disse finalmente la Obinu, cedendo alle insistenze di lui, ed egli accettò. La cameretta pareva la cella d'una monaca; il lettino candido, odorante di spigo, ricordava i semplici giacigli di certe patriarcali abitazioni sarde. E come in quelle abitazioni, Maria Obinu aveva appeso lungo le pareti grigie della sua camera una fila di quadretti e di immagini sacre; tre ceri, poi, e tre crocefissi, un ramo d'olivo e un rosario che pareva di confetti, pendevano in capo al letto; in un angolo ardeva una lampadina davanti ad una immagine dove le Sante Anime del Purgatorio, tinte di livido da un lapis turchino, pregavano tra fiamme insanguinate da un lapis rosso. Anania prese possesso della camera, e ben presto fu riassalito dai suoi dubbi. Perché la Obinu gli cedeva la sua camera? perché si mostrava così premurosa con lui? Mentre egli metteva a posto i suoi libri, Maria bussò e, senza avanzare, gli domandò se desiderava che la lampadina delle «Sante Anime» venisse spenta. «No», egli rispose con voce forte, «venga avanti, anzi, che le faccio vedere una cosa.» Ella entrò, pallida, sorridente; pareva avesse sempre conosciuto il suo inquilino e gli volesse bene. Egli teneva fra le mani uno strano oggetto, un sacchettino di stoffa unta, attaccato ad una catenina annerita dal tempo. Disse, mettendosi l'amuleto al collo: «Veda, anche io sono devoto, questa è la ricetta di San Giovanni, che allontana le tentazioni.» La donna guardava. Improvvisamente cessò di sorridere, ed Anania sentì il suo cuore battere forte. «Lei non crede a queste cose?», domandò Maria. «Ebbene, se non ci crede, almeno non se ne burli. Sono cose sacrosante.» Steso sul lettino odorante di spigo, Anania pensava continuamente al suo segreto. ... E se Maria Obinu era Olì? Se era lei? Così vicina e così lontana! qual filo misterioso lo aveva condotto fino a lei, fino al guanciale su cui ella doveva qualche volta piangere ricordando il figliuolo abbandonato? Che strana cosa la vita! Egli era dunque giunto così al suo destino, solo per forza di una volontà misteriosa che lo aveva guidato quasi a sua insaputa. Ma non era pazzo, dunque? Che sciocchezze, che puerilità! No, non era lei, non poteva esser lei. Ma se lo era? Se ella già sapeva di essere vicina a suo figlio, mentre egli si dibatteva nel dubbio? No, non poteva essere lei. Una madre non può non tradirsi, non può non gridare nel rivedere suo figlio. Era assurdo. - Sciocchezze, idee convenzionali. Una donna sa dominarsi anche tra le più violente emozioni. Essa, poi, che aveva abbandonato e buttato via la sua creatura! Appunto per questo doveva tradirsi, gridare, sussultare. Una madre è sempre una madre. Eppoi Olì, una selvaggia, una semplice figlia della natura, non poteva aver assimilato la perfidia delle donne di città, tanto da fingere come una commediante, da sapersi dominare così! Impossibile. Era assurdo, Maria Obinu era Maria Obinu, simpatica donna, mite e incosciente, che aveva avuto la fortuna, più che la forza, di emendarsi. Non poteva esser lei. Ma intanto egli ricordava la prima notte passata a Nuoro e il bacio furtivo di suo padre, e di momento in momento aspettava che l'uscio s'aprisse, e un'ombra si avanzasse, nel chiarore della lampadina, e un bacio rivelatore gli sfiorasse la fronte! ... «E se ciò fosse ... che farei io?» si chiedeva trepidando. I rumori della città si affievolivano, s'allontanavano, quasi ritirandosi anch'essi, stanchi, verso un luogo di riposo. Anania sentì rientrare i tardivi inquilini, poi tutto fu silenzio, nella casa, nella via, nella città. Ed egli vegliava ancora! Ah, forse quella lampadina? ... «Ora la spengo ... » Si alzò. Un rumore, un fruscio ... È l'uscio che si apre? Oh, Dio! Egli si gettò nuovamente sul letto, chiuse gli occhi e attese. Il cuore e la gola gli pulsavano febbrilmente. Ma l'uscio rimase chiuso, ed egli si calmò e rise di sé. Però non spense la lampadina.

Nell'arco del mantice si disegnava lo stesso paesaggio che egli aveva intraveduto quel giorno, mentre abbandonava la testolina sulle ginocchia di lei, e stendevasi lo stesso cielo di un azzurro chiaro melanconico. Ecco la cantoniera: nel paesaggio, a linee forti, ondulato, verde di macchie selvaggie, s'intravede qua e là qualche filo d'acqua violacea; s'odono fischi d'uccelli palustri; un pastore, bronzeo su uno sfondo luminoso, guarda l'orizzonte. La corriera si fermò un momento davanti alla cantoniera. Seduta sul gradino della porta, una donna in costume tonarese, tutta fasciata nelle ruvide vesti come una mummia egiziana, scardassava un mucchio di lana nera con due pettini di ferro: poco distante tre bimbi laceri e sporchi giocavano, o meglio si accapigliavano fra loro. Ad una finestra apparve un viso scarno e giallo di donna ammalata, che guardò la vettura con due grandi occhi verdognoli, pieni di stupore. La cantoniera desolata pareva l'abitazione della fame, della malattia e del sudiciume. Anania si sentì stringere il cuore: egli conosceva perfettamente il dramma tristissimo svoltosi ventitré anni prima in quel luogo solitario, in quel paesaggio rude e fresco, che sarebbe stato così puro senza l'immondo passaggio dell'uomo. La corriera riprese il viaggio: ecco Mamojada, emergente tra il verde degli orti e dei noci, col campanile chiaro disegnato sull'azzurro tenero del cielo; da lontano il quadretto aveva le tinte delicate d'un acquerello, ma appena la corriera si inoltrò su per lo stradale polveroso, il profilo del paesetto prese tinte cupe, ancor più forti di quelle del paesaggio. Davanti alle casette nere costrutte sulla roccia s'aggruppavano caratteristiche figure di paesani: donne graziose, coi capelli lucenti attortigliati intorno alle orecchie, scalze, sedute per terra, cucivano, allattavano, ricamavano. Due carabinieri, uno studente annoiato, un vecchio nobile, che era anche contadino, chiacchieravano davanti alla bottega d'un falegname, intorno alla cui porta stavano appesi molti quadretti sacri dipinti a vivi colori. Dopo mezz'ora di fermata la corriera ripartì. Ecco le rovine della chiesetta, ecco gli orti, ecco la piantagione di patate dove l'altra volta Olì ed Anania si erano fermati. Egli ricordò la donna che zappava, con le sottane cucite fra le gambe, e il gatto bianco che si slanciava contro la lucertolina verde guizzante sul muro. Nell'arco del mantice i paesaggi si disegnavano sempre più freschi, con sfondi luminosi: la piramide grigiastra di monte Gonare, le linee cerule e argentee della catena del Gennargentu apparivano come incise sul metallo del cielo, sempre più vicine, sempre più maestose. Ah, sì: ora davvero Anania respirava l'aria natìa, e sentiva tutti gli istinti atavici.. «Vorrei balzare giù dalla vettura, correre su per le chine, fra l'erba ancora fresca, tra le macchie e le roccie, gridando di gioia selvaggia, imitando il puledro sfuggito al laccio e ritornato alla libertà delle tancas. Sì», egli pensava, mentre la corriera rallentava la corsa su per la strada in salita, «io ero nato per fare il pastore. Sarei stato un poeta, forse un delinquente, forse un bandito fantasioso e feroce. Oh, contemplare le nuvole dall'alto d'un monte! Figurarsi d'essere il pastore d'una torma di nuvole: vederle errare sul cielo argenteo, incalzarsi, svolgersi, passare, scomparire!» Poi pensò: «E non sono un pastore di nuvole? Fra le nuvole ed i miei pensieri che differenza c'è? Ed io stesso non sono una nuvola? Se fossi costretto a vivere in queste solitudini mi dissolverei, diventerei una stessa cosa con l'aria, col vento, con la tristezza del paesaggio. Sono io vivo? Che cosa è, dopo tutto, la vita?». Come sempre, egli non seppe rispondere alla sua domanda: la corriera saliva lentamente, sempre più lentamente, con moto dolce, quasi cadenzato; il cocchiere sonnecchiava, e pareva che anche il cavallo camminasse dormendo. Dal sole alto verso lo zenit calava uno splendore eguale, melanconico; le macchie ritiravano le loro ombre; un silenzio profondo e una sonnolenza ardente pervadevano l'immenso paesaggio. Ad Anania pareva in realtà di dissolversi, di diventare una stessa cosa con quel panorama sonnolento, con quel cielo luminoso e triste. Ecco, egli aveva sonno; e come l'altra volta finì col chiudere gli occhi e addormentarsi infantilmente. «Zia Grathia? Nonna!», chiamò con voce ancora assonnata, entrando nella casetta della vedova. La cucina era deserta: la straducola soleggiata; deserto tutto il villaggio che nella desolazione del meriggi pareva una stazione preistorica da secoli abbandonata. Anania guardò curiosamente intorno. Nulla era cambiato: miseria, stracci, fuliggine, un po' di cenere sul focolare, grandi tele di ragno fra le scheggie del tetto; e, imperatore truce di quel luogo di leggende, il lungo e vuoto fantasma del gabbano nero appeso al muro terreo. «Zia Grathia, dove siete?», gridò Anania, aggirandosi intorno. «Zia Grathia?» Finalmente la vedova, ch'era andata ad attingere acqua ad un pozzo vicino, rientrò, con un malune sul capo e la secchia in mano. Era sempre la stessa, stecchita, giallastra, col viso spettrale circondato da una benda di tela sporca: gli anni erano passati senza invecchiare oltre quel corpo già disseccato ed esaurito dalle emozioni della lontana giovinezza. Nel vederla Anania si turbò: un fiotto di ricordanze gli salì dalle profondità dell'anima; gli parve di ricordare tutta una esistenza anteriore, di rivedere uno spirito che aveva già albergato nel suo corpo prima dello spirito che lo animava al presente. «Bonas dies!», salutò la vedova, guardando meravigliata il bel giovine sconosciuto. E depose prima la secchia, poi il malune, lentamente, guardando sempre lo straniero. Ma appena egli sorrise chiedendole: «Ma non mi riconoscete dunque?», zia Grathia diede un grido ed aprì le braccia: Anania l'abbracciò, la baciò, la investì di domande. E Zuanne? Dov'era? Perché si era fatto monaco? Veniva a trovarla? Era felice? E il figlio maggiore? E i figli del fabbricante di ceri? E questo e quell'altro? E come era trascorsa la vita a Fonni durante quei quindici anni? E chi era il pretore? E si poteva l'indomani far la gita sul Gennargentu? «Figlio mio caro!», cominciò la vedova, dandosi attorno. «Ah, come trovi la mia casa! Nuda e triste come un nido abbandonato! Siediti dunque, lavati; ecco l'acqua pura e fresca, vero argento puro; lavati, bevi, riposati. Io ora ti preparerò un boccone: ah, non rifiutare, figlio delle mie viscere; non rifiutare, non umiliarmi. Per cibarti io vorrei darti il mio cuore; ma tu accetta quel che posso offrirti; ecco, asciugati, ora, anima mia! Come sei grande e bello! Dicono che tu debba sposare una ricca e bella fanciulla: ah, non è stata stupida quella fanciulla. Ma perché non mi hai tu scritto prima di venire? Ah, figlio caro, tu almeno non hai dimenticato la vecchia abbandonata!» «Ma Zuanne, Zuanne?», insisteva Anania, lavandosi con l'acqua freschissima della secchia. La vedova diventò cupa. Disse: «Ebbene, non parlarmene! Egli mi ha fatto tanto soffrire! Era meglio che ... egli avesse seguito l'esempio del padre ... Ebbene, no, non parliamone. Egli non è un uomo; sarà un santo, come dicono, ma non è un uomo! Se mio marito sollevasse il capo dalla tomba e vedesse suo figlio scalzo, col cordone, con la bisaccia, frate mendicante e stupido, che direbbe mai? Ah, lo fustigherebbe, in verità». «Dove si trova ora frate Zuanne?» «In un convento lontano; sulla cima d'un monte. Almeno fosse rimasto nel convento di Fonni! ma no, è destino che tutti debbano abbandonarmi; anche Fidele, l'altro figliuolo, ha preso moglie e raramente si ricorda di me: il nido è deserto, abbandonato; la vecchia aquila ha veduto volar via i suoi poveri aquilotti e morrà sola ... sola ... » «Venite a viver con me!», disse Anania. «Quando sarò dottore vi prenderò con me, nonna.» «In che potrei servirti? Almeno un tempo ti lavavo gli occhi e ti tagliavo le unghie; ora invece tu dovresti fare altrettanto a me ... » «Mi raccontereste delle storie ... a me ed ai miei bambini ... » «Anche le storie non so più raccontarle, adesso. Sono rimbambita del tutto: il tempo, vedi, il tempo s'è portato via il mio cervello come il vento porta via la neve dai monti. Ebbene, ragazzino mio, mangia; non ho altro da offrirti, accetta di buon cuore. Oh, questo cero, è tuo? Dove lo porterai?» «Alla Basilica, nonna, davanti all'immagine dei santi Proto e Gianuario. Viene di lontano, nonna; me lo diede una vecchia donna sarda che vive a Roma: anch'essa mi narrava delle storie, ma non belle come le vostre.» «Vive a Roma? E come fece ad andarci? Ah, io morrò senza aver veduto Roma! ... » Dopo il modestissimo pasto, Anania cercò la guida, con la quale combinò per l'indomani l'ascensione sul Gennargentu: poi si avviò alla Basilica. Nell'antico cortile, sotto i grandi alberi, susurranti, sui gradini corrosi, nelle loggie rovinate, entro la chiesa odorante d'umido come una tomba, da per tutto silenzio e desolazione. Anania depose il cero di zia Varvara sopra un altare polveroso, poi guardò i primitivi affreschi delle pareti, gli stucchi dorati da una luce melanconica, le rozze figure dei santi sardi, tutte le cose infine che un tempo gli avevano destato meraviglia e terrore, e sorrise, ma col cuore oppresso da una languida tristezza. Ritornato nel cortile vide, attraverso una finestra aperta, il cappello d'un carabiniere e un paio di stivali appesi al muro d'una cella, e nella memoria gli risuonò ancora l'aria della Gioconda: «A te questo rosario». L'odor della cera vagava nel cortile solitario; dov'erano i bimbi, compagni d'infanzia, gli uccelletti seminudi e selvatici, che un tempo animavano i gradini della chiesa? Anania non desiderava di rivederli; ma con quanta dolcezza ricordava i giuochi fatti con loro, mentre dagli alberi le foglie secche cadevano come ali d'uccelli morti! Una donna scalza, con un'anfora sul capo, passò in fondo al cortile. Anania trasalì, sembrandogli di riconoscere sua madre. Dove era sua madre? Perché egli non aveva osato, pur desiderandolo, parlarne alla vedova, - e perché questa non aveva accennato alla sua ingrata ospite? Per sfuggire ai ricordi amari egli andò alla posta e inviò una cartolina illustrata a Margherita; poi visitò il Rettore, e verso il tramonto percorse la strada che guardava sulla immensità delle valli. Vedendo le donne fonnesi che andavano alla fontana, strette nelle tuniche bizzarre, egli ripensò ai suoi primi sogni di amore, quando desiderava d'esser lui un mandriano e Margherita una paesana, fine ed elegante sebbene con l'anfora sul capo, simile alla figurina d'uno stucco pompejano. Come il passato era lontano e come diverso dal presente! Un tramonto meraviglioso illuminava l'orizzonte: pareva un miraggio apocalittico. Le nuvole disegnavano un paesaggio tragico; una pianura ardente solcata da laghi d'oro e da fiumi porpurei, e sul cui sfondo sorgevano montagne di bronzo profilate d'ambra e di neve perlata, qua e là squarciate da aperture fiammanti che sembravano bocche di grotte e dalle quali sgorgavano torrenti di sangue dorato. Una battaglia di giganti solari, di formidabili abitanti dell'infinito, si svolgeva entro quelle grotte aeree: balenava il corruscare delle armi intagliate nel metallo del sole, ed il sangue sgorgava a torrenti, inondando le infuocate pianure del cielo. Col cuore balzante di gioia Anania rimase assorto nella contemplazione del magnifico spettacolo, finché le ombre della sera, fugato il miraggio, stesero un drappo violaceo su tutte le cose: allora egli rientrò nella casa della vedova e sedette accanto al focolare. I ricordi lo riassalirono. Nella penombra, mentre la vecchia preparava la cena e parlava con voce tetra, egli rivedeva Zuanne dalle grandi orecchie, intento a cuocer le castagne, ed un'altra figura silenziosa e incerta come un fantasma. «Dunque hanno ammazzato tutti i banditi nuoresi?», chiedeva la vecchia. «Ma credi tu che passerà lungo tempo prima che nuove compagnie sorgano qua e là? Tu ti inganni, figlio mio. Finché vivranno uomini dal sangue ardente, abili al bene ed al male, esisteranno banditi. È vero che ora essi sono così cattivi, talvolta vili, ladroni e spregevoli! Ah, ai tempi di mio marito era altra cosa, sai! Come erano coraggiosi allora! Coraggiosi e benefici. Una volta mio marito incontrò una donna che piangeva perché ... » Anania s'interessava mediocremente ai ricordi di zia Grathia: altri pensieri gli passavano per la mente. «Sentite», egli disse, appena la vedova ebbe finito la pietosa storia della donna che piangeva, «non avete saputo mai nulla di mia madre?» Zia Grathia era intenta a rivoltare una piccola frittata, e non rispose. «Ella sa qualche cosa!», pensò Anania, turbandosi. Ma dopo un istante di silenzio zia Grathia osservò: «Se niente ne sai tu, come vuoi che ne sappia qualche cosa io? E adesso, figlio, mettiti qui, davanti a questa sedia, ed accetta il buon cuore». Anania sedette davanti al canestro che la vedova aveva deposto sopra una sedia, e cominciò a mangiare. «No», disse, confidandosi con la vecchia come non s'era mai potuto confidare con nessuno, «per lungo tempo io non seppi nulla di lei. Ora però credo di essere sulle sue traccie. Dopo che mi ebbe abbandonato ella partì dalla Sardegna, ed un uomo la vide a Roma, vestita da signora.» «Ma la vide davvero?», chiese vivacemente zia Grathia. «Le parlò?» «Altro che le parlò!», rispose amaramente Anania. «Egli disse d'aver passato qualche ora con lei. Dopo non si seppe più nulla; ma io, mesi fa, la feci ricercare dalla Questura e venni a sapere che ella vive a Roma, sotto un falso nome. Però si è emendata, sì, si è emendata, e adesso vive onestamente lavorando.» Zia Grathia era venuta a porsi davanti alla sedia, ed a misura che Anania parlava ella spalancava gli occhietti foschi, e si curvava e trasaliva, e apriva le mani come per raccogliere le parole di lui. Egli si rasserenava pensando a Maria Obinu: quando disse «ella ora si è emendata» provò un impeto di gioia, sicuro, in quel momento, di non ingannarsi supponendo che Maria e Olì fossero la stessa persona. «Ma sei sicuro, ma sei proprio sicuro?», chiese la vecchia, sbalordita. «Ma sì! Ma sìii! ... », egli rispose, imitando Margherita nel pronunziare quel sì lieto e un po' canzonatore. «Ho vissuto due mesi in casa sua.» Si versò da bere, guardò il vino attraverso la luce rossastra della lucerna di ferro, e sembrandogli torbido lo assaggiò appena; poi nel pulirsi la bocca vide che il vecchio tovagliolo grigiastro era bucato, e se ne coprì scherzosamente il viso. «Ricordate quando io e Zuanne ci mascheravamo?», chiese, guardando attraverso il buco. «Io mettevo sul viso questo tovagliolo. Ma che avete?», esclamò subito con voce mutata, scoprendosi il volto lievemente impallidito. Egli vedeva il viso della vedova, di solito impassibile e cadaverico, animarsi in modo strano, e dopo una profonda meraviglia esprimere la pietà più intensa; e capì immediatamente che l'oggetto di questa pietà quasi violenta era lui. Di un colpo l'edifizio del suo sogno rovinò. «Nonna! Zia Grathia! Voi sapete!», gridò con aria spaventata, stirando nervosamente il tovagliuolo quanto era lungo. «Finisci di mangiare, adesso: parleremo poi, figlio. Non ti piace quel vino?» Ma Anania la guardò con rabbia e balzò in piedi. «Parlate!», le impose. «Ah, Santissimo Signore», si lamentò zia Grathia, sospirando e schioccando le labbra, «che cosa vuoi ch'io ti dica? Perché non finisci di cenare, Anania, figlio caro? ... Parleremo poi ... » Egli non sentiva e non vedeva più nulla. «Parlate! Parlate! Voi sapete tutto, dunque? Dov'è? È viva, è morta, dov'è? Dov'è? Dov'è?» Quel «dov'è?» lo ripeté almeno venti volte, mentre s'aggirava automaticamente intorno alla cucina, piegando, spiegando, stirando il tovagliuolo, mettendolo sul viso, guardando attraverso il buco: pareva un po' impazzito, ma più irritato che commosso. «Calmati», cominciò a dirgli la vecchia, andandogli appresso, «io credevo che tu sapessi ... Sì, ella è viva, ma non è la donna che ti ha ingannato fingendosi tua madre.» «Non è stata lei a ingannarmi, nonna! L'ho creduto io ... Ella non sa neppure che io abbia supposto ... Ah, dunque non è lei?», aggiunse a bassa voce, con meraviglia, come se fino a quel momento fosse stato certo che Maria Obinu era sua madre. «Ma parlate dunque!», esclamò poi. «Perché mi tenete così sulla corda? Perché non mi avete parlato ancora di lei? Dov'è? dov'è?» «Ma se non ha mai lasciato la Sardegna!», disse la vedova, camminandogli sempre a fianco. «In verità, io credevo che tu lo sapessi. Io l'ho riveduta quest'anno, ai primi di maggio; ella venne a Fonni per la festa dei Santi Martiri, e conduceva un cantastorie, un giovine cieco suo amante. Essi erano venuti a piedi da un villaggio lontano, da Neoneli; ella soffriva le febbri di malaria, e sembrava una vecchia di sessanta anni. Terminate le feste, il cieco, che aveva guadagnato assai, abbandonò Olì per seguire una comitiva di mendicanti diretti ad un'altra festa campestre. So che ella, in giugno e luglio, fece la mietitrice nelle tancas di Mamojada. La febbre la distruggeva: stette lungamente malata nella cantoniera e ci sta ancora ... » Anania si fermò, sollevò il viso e aprì le braccia con atto disperato. «Ed io ... io ... l'ho ... vista!», gridò. «Io l'ho vista! L'ho vista! ... Siete certa di quanto mi dite?», chiese poi fissando la vedova. «Certissima: perché dovrei ingannarti?» «Ditemi», egli insisté, «ma c'è davvero? Io vidi alla finestra una donna febbricitante, gialla, terrea, con due occhi da gatto ... Era lei? Ne siete certa?» «Certissima, ti dico. Era lei certamente.» «Ed io ... io l'ho vista!», egli ripeté, e si strinse il capo fra le mani, torcendoselo, preso da una collera violenta contro se stesso che si era così lungamente, così stupidamente ingannato; che aveva cercato sua madre al di là dei monti e dei mari, mentre ella trascinava la sua miseria e il suo disonore attraverso l'isola natìa; che si era commosso davanti a tanti volti stranieri e non aveva sentito un palpito nello scorgere il volto della mendicante, della miseria viva, di sua madre, incorniciato dalla finestruola tetra della cantoniera. Che cosa dunque era l'uomo? E il cuore umano? E la vita, l'intelligenza, il pensiero? Ah, sì, ora che queste domande gli salivano non più oziosamente alle labbra, ora che la realtà batteva intorno a lui le sue ali funebri e squarciava i vapori dell'illusione, ora egli rispondeva alle sue domande e sapeva che cosa era l'uomo, il suo cuore, la sua vita: inganno, inganno, inganno. A un tratto zia Grathia lo prese per un braccio e lo costrinse a sedersi: poi gli si accoccolò davanti, gli strinse una mano, e lo guardò di sotto in su, lungamente, pietosamente. «Bambino mio», gli disse, «piangi, piangi. Ti farà bene. Come sei freddo!». Anania strappò la mano dal morso duro delle mani della vedova. «Ma per chi mi prendete?» domandò offeso. «Non sono un ragazzino, io! Perché devo piangere?» «Eppure ti farebbe bene, figlio! Ah, sì, io so quanto fa bene piangere! Quanto fu picchiato alla mia porta, una notte, ed una voce che pareva quella della Morte mi disse: "Donna, non aspettare più!" io diventai di pietra. Per ore ed ore non potei piangere; e furono le ore più terribili per me: mi pareva che il cuore, dentro il petto, fosse diventato di ferro rovente, e mi bruciasse, mi bruciasse le viscere, mi lacerasse il petto con la sua punta acuta. Ma poi il Signore mi concedé le lagrime, ed esse rinfrescarono il mio dolore come la rugiada rinfresca le pietre arse dal sole. Figlio, abbi pazienza! Siamo nati per soffrire: e cosa è mai questo tuo dispiacere in confronto di tanti altri dolori?». «Ma io non soffro!», egli protestò. «Dovevo aspettarmelo, questo colpo; me lo aspettavo anzi, vedete! Sono stato spinto a venir qui quasi da una forza misteriosa; una voce mi diceva: va, va, là saprai qualche cosa! Certo, ho provato un colpo ... un po' di sorpresa ... ma adesso è passato: non datevi pena.» Ma la vedova lo fissava, lo vedeva livido in viso, con le labbra pallide contratte, e scuoteva il capo. Egli prosegui: «Ma perché nessuno mi ha detto mai nulla? Eppure qualche cosa dovevano sapere. Il carrozziere, per esempio, possibile che non sapesse nulla?». «Forse. Ella sola poteva farti sapere qualche cosa; ma no, essa ha paura di te. Quando venne qui, per la festa, con quel miserabile cieco che si fece condurre da lei e poi la abbandonò, nessuno qui la riconobbe, tanto sembrava vecchia, piena di stracci, istupidita dalla miseria e dalla febbre. Del resto, neppure tu l'hai riconosciuta. Il cieco la chiamava con un brutto nomignolo: soltanto a me ella confidò il suo vero essere, mi raccontò la sua triste storia e mi scongiurò di non farti mai saper nulla di lei. Essa ha paura di te.» «Perché ha paura?» «Ha paura che tu la faccia mettere in prigione perché ti ha abbandonato. Ha anche paura dei suoi fratelli che sono cantonieri della ferrovia ad Iglesias.» «E suo padre?», domandò Anania, che non aveva mai pensato a questi suoi parenti. «Oh! è morto da tanti anni, morto maledicendola. E Olì crede sia stata questa maledizione a perseguitarla.» «Sì! È lei che è pazza! Ma che ha ella fatto durante tutti questi anni? Come ha vissuto? Perché non ha lavorato?» Egli sembrava di nuovo calmo, e faceva le sue domande senza curiosità, pensando alle conseguenze di questo disastroso avvenimento. Ma quando la vedova sollevò un dito e disse solennemente: «Tutto sta nelle mani di Dio! Figlio, c'è un filo terribile che ci tira e ci tira ... Forse che mio marito non avrebbe voluto lavorare, e morire sul suo letto, benedetto dal Signore? Eppure! ... Così di tua madre! Ella certo avrebbe voluto lavorare e vivere onestamente ... Ma il filo l'ha tirata ... », egli s'accese in volto, e di nuovo contorse le dita e si sentì soffocare da un impeto di vergogna e di spasimo. «Tutto ... tutto è finito per me, dunque!», singhiozzò. «Che orrore, che orrore! Che miseria, che onta! Ma raccontatemi, dunque, ditemi tutto. Come ha vissuto? ... Voglio sapere tutto ... tutto ... tutto, capite! voglio morire di vergogna, prima ancora che ... Basta!», disse poi scuotendo la testa, come per scacciare via da sé ogni turbamento. «Raccontatemi.» Zia Grathia lo guardava con infinita pietà: avrebbe voluto prenderselo sulle ginocchia, cullarlo, cantargli una nenia infantile, calmarlo, addormentarlo; ed invece lo torturava. Ma ... sia fatta la volontà del Signore: siamo nati per soffrire, e non si muore di dolore! Tuttavia la vedova cercò di raddolcire alquanto il calice amaro che Dio porgeva per le sue mani al disgraziato fanciullo. Disse: «Io non so raccontarti precisamente come ella visse e ciò che fece. So che ella, dopo averti lasciato, e fece benissimo, perché altrimenti tu non avresti avuto mai un padre e non saresti stato fortunato come lo sei ... ». «Zia Grathia! Non fatemi arrabbiare! ... », egli interruppe impetuosamente. «Tranquillità! Pazienza!», gridò la donna. «Non disconoscere la bontà del Signore, ragazzo mio! Se tu fossi rimasto qui, che avresti fatto? Forse avresti finito vilmente col farti anche tu frate ... frate mendicante ... frate poltrone! ... Basta, non parliamone più! Meglio morire che finire così! E tua madre avrebbe seguìto egualmente la sua via, perché quello era il suo destino. Anche qui, prima di partire, credi tu ch'ella menasse una vita santa? Ebbene, no: era questo il suo destino. Ella aveva qui, negli ultimi tempi, un amante carabiniere che fu trasferito a Nuraminis pochi giorni prima della vostra fuga. Dopo che ti ebbe abbandonato, almeno così la disgraziata mi raccontò, ella partì per Nuraminis, a piedi, nascondendosi di giorno, camminando di notte, attraversando metà della Sardegna. Raggiunse il carabiniere e la loro relazione continuò per qualche mese; egli aveva promesso di sposarla, ma invece si stancò presto di lei, la maltrattò, la percosse, poi l'abbandonò. Ella seguì la sua fatale via. Mi disse, - e piangeva, poveretta, piangeva da commuovere le pietre, - che cercò sempre del lavoro, ma che non poté trovarne mai. È il destino, te lo dissi! Il destino che priva del lavoro certi esseri disgraziati, come ne priva altri della ragione, della salute, della bontà. L'uomo e la donna inutilmente si ribellano. No, avanti, morite, crepate, ma seguite il filo che vi tira! Basta, ultimamente però ella si era emendata: s'era unita con un cieco cantastorie e vivevano da due anni come marito e moglie: ella lo conduceva per i paesi, per le feste campestri, da un luogo all'altro; camminavano quasi sempre a piedi, qualche volta soli, qualche volta in compagnia di altri mendicanti girovaghi. Il cieco cantava certe poesie che egli stesso componeva: aveva una bellissima voce. Qui, mi ricordo, cantò la Morte del re, una poesia che faceva piangere la gente. Il Municipio gli diede venti lire, il Rettore lo invitò a pranzo. Raccolse, in tre giorni che stette qui, più di venti scudi. Ed era un'immondezza! Anche lui prometteva di sposare la disgraziata; invece, quando la vide ammalata, che non poteva trascinarsi oltre, la piantò, per paura che lo costringessero a spendere per curarla. Di qui partirono assieme; andarono alla festa di Sant'Elia; là il cieco schifoso incontrò una compagnia di mendicanti campidanesi che dovevano recarsi ad una festa campestre nella Gallura, e andò via con loro, mentre la disgraziata moriva di febbre in una capanna di pastori. Dopo, come ti dissi, sentendosi meglio, ella vagò di qua e di là, mietendo, raccogliendo spighe, finché la febbre l'atterrò del tutto. L'altro giorno, però, mi mandò a dire che stava meglio ... » Un fremito, invano represso, percorreva tutte le membra di Anania. Quanta miseria, quanta vergogna, quanto dolore, e che iniquità divina ed umana nel racconto della vedova! Nessuno dei sanguinosi e tristi racconti ch'egli aveva sentito narrare nella sua infanzia dalla strana donna, gli era mai parso più spaventoso di questo: nessuno lo aveva mai fatto tremare come questo. Ad un tratto ricordò il pensiero balenatogli una volta in mente, in una dolce sera lontana, nel silenzio della pineta interrotto appena dal canto del galeotto pastore. «È stata anche in carcere?», domandò. «Sì, credo, una volta. Furon trovati in casa sua certi oggetti, che un suo amico aveva preso da una chiesa campestre; ma fu rilasciata perché provò di non sapere neppure di che si trattasse ... » «Voi mentite!», disse Anania con voce cupa. «Perché non dite tutta la verità? Essa è stata anche ladra ... ebbene, perché non dirlo! Credete che mi importi niente? Proprio niente, vedete, neppure così», aggiunse, mostrandole la punta del mignolo. «Che unghie, Signore!», osservò la vecchia. «Perché ti lasci crescere così le unghie?» Egli non rispose, ma balzò in piedi e camminò su e giù, furioso, mugolando come un toro. La vedova non si mosse, ed egli, dopo pochi istanti, tornò a calmarsi, e fermandosi davanti alla donna chiese con voce dolente ma rassegnata: «Ma perché son nato io? Perché mi hanno fatto nascere? Vedete, io ora sono un uomo rovinato: tutta la mia vita è distrutta. Non potrò proseguire gli studi, e la donna che dovevo sposare, e senza la quale non potrò più vivere, ora mi lascerà ... cioè devo lasciarla io». «Ma perché? Non sa chi sei tu?» «Sì, lo sa, ma crede che quella donna sia morta o così lontana da non udirne più neanche il nome. Ed ora invece ecco che essa ritorna! Come volete voi che una fanciulla pura e delicata possa vivere vicino ad una donna infame?» «Ma che cosa vuoi fare? Non hai tu stesso detto che non ti importa nulla di lei?» «E voi che cosa mi consigliate?» «Io? Che cosa ti consiglio? Di lasciarle proseguire la sua via», rispose ferocemente la vedova: «non ti ha abbandonato lei? Se tu lo vorrai, la tua sposa non incontrerà mai la disgraziata, e tu stesso non la vedrai mai più ... ». Anania la guardò, a sua volta pietoso ma anche sprezzante. «Voi non capite, non potete capire!» disse. «Lasciamo andare; ora bisogna pensare al modo di vederla; bisogna ch'io vada là domani mattina.» «Tu sei matto ... » «Voi non capite ... » Si guardarono; entrambi reciprocamente sdegnati e pietosi. Allora cominciarono a discutere e quasi a litigare. Anania voleva partire subito, o al più tardi la mattina dopo; la vedova proponeva di far venire Olì a Fonni senza dirle il perché. «Giacché ti ostini! Ma va là! io la lascerei tranquilla; come ha camminato sinora camminerà d'ora in avanti ... Lasciala stare ... Mandale qualche soccorso ... » «Nonna, pare che anche voi abbiate paura. Quanto siete semplice! Io non le torcerò un capello; io la prenderò con me; ella vivrà con me ed io lavorerò per lei: le voglio fare del bene, non del male, perché tale è il mio dovere ... » «Sì, questo è il tuo dovere; ma d'altronde, figlio, pensa, rifletti. Come vivrete voi? Come camperete?» «Non pensateci!» «Come, come farete?» «Non pensateci!» «Bene, allora! Ma ti ripeto che essa ha una folle paura di te, e se tu vai ad affrontarla così, improvvisamente, è capace di commettere qualche pazzia.» «Ed allora facciamola venir qui: ma subito, domani mattina.» «Sì, subito, sulle ali d'un corvo! Come sei impaziente, figlio delle mie viscere! Va e riposati, adesso, e non pensare a niente. Domani notte a quest'ora ella sarà qui, non dubitare. Dopo, tu farai quel che vorrai. Domani tu salirai sul Gennargentu: io direi anzi di rimanerci fino a posdomani ... » «Vedrò io!» «Ora va ... va a riposarti», ella ripeté, dolcemente spingendolo. Anche nella stanzetta ove egli aveva dormito con sua madre nulla era cambiato; vedendo il misero giaciglio, sotto cui c'era un mucchio di patate ancora odoranti di terra, egli ricordò il lettino di Maria Obinu e le illusioni ed i sogni che lo avevano per tanto tempo perseguitato. «Come ero bambino!», pensò amaramente. «E dicevo di esser uomo! Ah, soltanto adesso sono uomo! Ah, soltanto ora la vita mi ha spalancato le sue orribili porte! Sì, sono un uomo, ora, e voglio essere un uomo forte! No, vile vita, tu non mi vincerai; no, mostro, tu non mi abbatterai! Tu mi perseguiti, tu mi hai finora combattuto a viso coperto, vigliacca, miserabile, e solo oggi, in questo giorno lungo come un secolo, solo oggi hai svelato il tuo volto orrendo! Ma non mi vincerai, no, non mi vincerai!» Aprì le imposte tentennanti che davano su un balcone di legno, del quale rimanevano appena i sostegni; si afferrò a questi e si sporse fuori. La notte era limpidissima, fresca, chiara e diafana come sono in montagna le notti sul finir dell'estate. Nel silenzio indicibile che regnava, la visione delle montagne vicine e le linee vaghe delle montagne lontane sembravano più solenni e grandiose. Ad Anania, che vedeva quasi ai suoi piedi le valli profonde, pareva di star sospeso sopra un abisso: e mentre le linee delle montagne lontane gli destavano in cuore una dolcezza strana, e gli davan l'idea di versi immensi scritti dalla mano onnipotente d'un divino poeta sulla pagina celeste dell'orizzonte, il vicino colosso nero-turchiniccio di Monte Spada, protetto dalla formidabile muraglia del Gennargentu, lo opprimeva, gli sembrava l'ombra del mostro al quale poco prima aveva lanciato la sua sfida. E pensava a Margherita lontana, a Margherita sua, non più sua, che in quell'ora sognava certamente di lui guardando anch'essa l'orizzonte; e sentiva una grande pietà per lei, più che per se stesso, e lagrime soavi e amare come il miele amaro gli salivano agli occhi; ma egli le respingeva, queste lagrime, le respingeva come un nemico felino e sleale che tentasse vincerlo a tradimento. «Son forte!», ripeteva, fermo sul balcone senza ringhiera. «Mostro, sono io che ti vincerò, ora che mi stai davanti!» E non si accorgeva che il mostro gli stava alle spalle, inesorabile. VIII. Nella lunga notte insonne egli decise, o credette decidere, il proprio destino. «Io la costringerò a viver qui, presso zia Grathia, finché non avrò trovato la mia via. Parlerò francamente al signor Carboni e a Margherita. Ecco, dirò loro, le cose stanno così: io ho intenzione di far vivere mia madre presso di me, appena la mia posizione me lo permetterà: questo è il mio dovere, ed io lo compio, caschi l'universo. Essi mi scacceranno come si scaccia una bestia immonda; io non mi illudo. Allora io cercherò un impiego, e lo troverò bene, e prenderò con me la disgraziata, e vivremo assieme di miseria, ma pagherò i miei debiti, e sarò un uomo. Un uomo!» pensò amaramente. «O un cadavere vivente!» Gli pareva d'esser calmo, freddo, già morto alla gioia di vivere; ma in fondo al cuore sentiva una crudele ebbrezza d'orgoglio, una smania di stolto combattimento contro la fatalità, contro la società e contro se stesso. «L'ho voluto io, dopo tutto!», pensava. «Sapevo bene che doveva finir così: mi sono lasciato trascinare dalla fatalità. Guai a me! Devo espiare io: espierò.» Questa illusione di coraggio lo sostenne tutta la notte, ed anche il giorno dopo, durante l'ascensione al Gennargentu. La giornata era triste, annuvolata e nebbiosa, ma senza vento: egli volle partire egualmente, con la speranza, diceva, che il tempo si rasserenasse, ma in realtà per cominciare a dar a se stesso una prova di fermezza, di coraggio e di noncuranza. Che gli importava oramai delle montagne, degli orizzonti, del mondo intero? Ma egli voleva fare ciò che aveva stabilito di fare. Solo un momento, prima della partenza, esitò. «E se ella, avvertita della mia presenza, non venisse e fuggisse ancora? E io non prendo forse del tempo perché ciò avvenga?» La vedova lo rassicurò impegnandosi a far venire Olì al più presto possibile, ed egli partì. La guida, su un cavallino forte e paziente, precedeva per gli erti sentieri, talvolta dileguandosi fra la nebbia argentea delle lontananze silenziose, talvolta disegnandosi sullo sfondo del sentiero come una figura dipinta a guazzo sopra una tela grigia. Anania seguiva: tutto era nebbia intorno a lui, dentro di lui, ma egli distingueva attraverso quel velo fluttuante il profilo ciclopico del Monte Spada, e dentro di sé, fra le nebbie che gli avvolgevano l'anima, scorgeva quest'anima come scorgeva il monte, grande, immensa, dura, mostruosa. Un silenzio tragico circondava i viaggiatori, interrotto soltanto, a intervalli, dal grido degli avoltoi. Forme strane apparivano qua e là fra la nebbia, ai lati del sentiero roccioso, e il grido degli uccelli carnivori sembrava la voce selvaggia di quelle misteriose parvenze, disturbate dal passaggio dell'uomo. Anania credeva di camminare fra le nuvole, sentiva qualche volta il senso del vuoto, e per vincere la vertigine doveva guardare intensamente il sentiero, sotto i piedi del cavallo, fissando le lastre umide e lucenti dello schisto e i piccoli cespugli violetti del serpillo la cui acuta fragranza profumava la nebbia. Verso le nove, fortunatamente pei viaggiatori che in quell'ora percorrevano un sentiero strettissimo tagliato sul dorso immenso di Monte Spada, la nebbia diradò: Anania diede un grido di ammirazione, quasi strappatogli violentemente dalla bellezza magnifica del panorama. Tutto il monte apparve coperto da un manto violetto di serpillo fiorito; e al di là, la visione delle valli profondissime e delle alte cime verso cui si avvicinavano i viaggiatori, pareva, tra il velo squarciato della nebbia luminosa, fra giuochi di sole e d'ombra, sotto il cielo turchino dipinto di strane nuvole che si diradavano lentamente, un sogno d'artista impazzito, un quadro d'inverosimile bellezza. «Come la natura è grande, e come è bella e come è forte!», pensò Anania, intenerito. «Nel suo cuore immenso tutto è puro: ah, se ci trovassimo qui soli, tutti e tre, io, Margherita e lei, chi più penserebbe alle cose impure che ci separano?» Un soffio di speranza gli attraversò lo spirito: e se Margherita lo amasse davvero tanto quanto aveva dimostrato d'amarlo in quegli ultimi giorni, e se acconsentisse? ... Con questa folle speranza in cuore camminò lungo tratto, finché raggiunse il fondo del versante di Monte Spada per ricominciare la salita verso la più alta cima del Gennargentu. Un torrente passava in fondo alla valle, fra enormi roccie e boschi di ontani che un improvviso soffio di vento scuoteva. Nel silenzio profondo del luogo misterioso il mormorio degli ontani diede ad Anania una bizzarra impressione; gli parve che la sua speranza animasse le cose intorno, e che gli alberi tremassero, come sorpresi da una gioia arcana. Ma ad un tratto ricadde nelle sue cupe idee e un progetto stravagante gli attraversò la mente: farsi romito. «Se mi nascondessi su queste montagne e vivessi solo, cibandomi d'erbe e di uccelli? Perché l'uomo non può viver solo, perché non può spezzare i lacci che lo avvincono agli altri uomini e lo strangolano? Zarathustra? Sì, ma anch'Egli una volta scrisse: "Oh, quanto sono solo! Non ho più nessuno con cui possa ridere, nessuno che mi consoli dolcemente ... "» Per tre ore l'ascesa continuò, lenta e pericolosa. Il cielo si rasserenò completamente, il vento soffiò: le cime schistose brillarono al sole, profilate di argento sull'azzurro infinito; l'isola svolse i suoi cerulei panorami, disegnati di montagne chiare, di paesi grigi, di stagni lucenti, e qua e là sfumati nella linea vaporosa del mare. Ogni tanto Anania si distraeva, ammirava, seguiva con interesse le indicazioni della guida e guardava col binocolo; ma appena egli cercava di godere la dolcezza del panorama magnifico, il dolore gli dava come una zampata da tigre per riafferrarlo interamente a sé. Verso mezzogiorno arrivarono alla vetta Bruncu Spina. Appena smontato, Anania s'arrampicò fino al mucchio di lastre schistose del punto trigonometrico, e si gettò per terra onde sfuggire alla furia del vento che lo assaltava d'ogni parte. Sotto il suo sguardo irrequieto stendevasi quasi tutta l'isola, con le sue montagne azzurre e il suo mare argenteo, rischiarata dal sole allo zenit: sopra il suo capo brillava il cielo turchino, vuoto e infinito come il pensiero umano. Il vento rombava furiosamente nel vuoto, e le sue raffiche investivano Anania con rabbia pazza: pareva l'ira violenta d'una belva formidabile che cercasse di scacciare ogni altro essere dall'antro aereo dove voleva dominare sola. Anania resisté a lungo: la guida gli si trascinò accanto, gettandosi anch'essa carponi sulle lastre schistose, e cominciò a indicare le principali montagne ed i paesi ed i borghi dell'isola. Il vento rapiva le parole e mozzava il respiro ai due uomini. «Quella è Nuoro?», gridò Anania. «Sì: la collina di Sant'Onofrio la divide in due.» «Sì, è vero. Si vede distintamente.» «Peccato che questo vento sia così rabbioso! Va al diavolo, vento maledetto!», urlò la guida. «Altrimenti si poteva mandare un saluto a Nuoro, tanto oggi sembra vicina!» Anania ripensò alla promessa fatta a Margherita: « ... Dalla più alta cima sarda ti manderò un saluto; griderò ai cieli il tuo nome ed il mio amore, come vorrei gridarlo dalla più eccelsa cima del mondo affinché tutta la terra ne restasse attonita ... ». E gli sembrò che il vento gli portasse via il cuore, sbattendolo contro i colossi granitici del Gennargentu. Al ritorno egli credeva di trovare sua madre presso la vedova, e ansiosamente, dopo aver lasciato il cavallo presso la guida, attraversò il paese deserto e si fermò davanti alla porticina nera di zia Grathia. La sera scendeva triste, un vento gagliardo soffiava per le straducole erte, rocciose: il cielo era pallido: pareva d'autunno. Anania, fermo davanti alla porticina, ascoltava. Silenzio. Attraverso le fessure scorgevasi il chiarore rosso del fuoco. Silenzio. Anania entrò e vide soltanto la vecchia, che filava seduta sul solito sgabello, tranquilla come uno spettro. Sulle brage gorgogliava la caffettiera, e da un pezzo di carne di pecora, infilato in uno spiedo di legno, sgocciolava il grasso sulla cenere ardente. «E dunque? ... Nonna, dunque?» «Pazienza, gioiello d'oro! Non ho trovato una persona fidata che potesse andare laggiù. Mio figlio non è in paese.» «Ma il carrozziere?» «Pazienza, ti ho detto, oh!», esclamò la vedova, alzandosi e deponendo il fuso sullo sgabello. «Ho pregato appunto il carrozziere di dirle che venga assolutamente, domani. Gli dissi: "La pregherai a nome mio che venga, poiché ho da comunicarle cose importantissime che la riguardano. Non le dirai che qui c'è Anania Atonzu; va, figlio, che Dio ti ricompensi perché fai un'opera di carità".» «E lui? E lui?» «Lui ha promesso di condurla qui in vettura.» «Ella non verrà! Vedrete che non verrà», disse Anania, inquieto. «Purché non fugga ancora. Ho fatto male a non recarmi io stesso ... ma sono ancora a tempo ... » E voleva partire subito: ma poi si lasciò facilmente convincere a rimanere, e attese. Un'altra triste notte passò. Nonostante la stanchezza che gli fiaccava le membra, egli dormì pochissimo, - su quel duro giaciglio dove era tristamente nato e sul quale avrebbe voluto quella notte stessa morire. Il vento urlava sul tetto, con boati da mare in tempesta, e la sua voce rombante , ricordava ad Anania l'infanzia melanconica, i terrori lontani, le notti d'inverno, il contatto di sua madre che lo stringeva a sé più per paura che per amore. No, ella non lo aveva amato: perché illudersi? ella non lo aveva amato; ma forse questa era stata la più orrenda sventura e la perdita inesorabile di Olì. Egli lo sentiva, lo sapeva; e provava una tristezza mortale, un'improvvisa pietà per lei che era vittima del destino e degli uomini. S'ella fosse arrivata quella notte, mentre la voce del vento destava nel cuore di Anania impeti di terrore e di pietà, egli l'avrebbe accolta con tenerezza; ma la notte passò, e spuntò una giornata che il vento rendeva melanconica, ed egli trascorse ore che mise fra le più tristi e irrequiete della sua vita. Durante quelle ore egli girò per le viuzze, come spinto dal vento, andò in qualche casa, bevette molta acquavite, ritornò dalla vedova e sedette accanto al fuoco, assalito da brividi di febbre e da una acuta irritazione nervosa. Anche zia Grathia non trovava pace; vagava su e giù per la casa, e un'ora prima che arrivasse la corriera s'avviò per andare incontro ad Olì. Prima di uscire pregò Anania di tenersi calmo. «Bada che ella ha paura di te ... » «Andate, santa donna!», egli disse con disprezzo. «Non la guarderò neppure: le dirò soltanto poche parole.» Passò più di un'ora. Anania ricordava con amarezza la dolce ora passata nell'attendere zia Tatàna: e mentre anelava l'arrivo di Olì, il triste arrivo che doveva una buona volta porre fine ai suoi tormenti, si sentiva divorato da un cupo desiderio: che ella non arrivasse, che fosse di nuovo fuggita, scomparsa per sempre! «Ma è anche malata», pensava con triste conforto, «morrà ben presto!» La vedova rientrò, sola, frettolosa. «Zitto, non arrabbiarti!», disse a voce bassa, rapidamente. «Viene! Viene! È qui: io le ho detto tutto. Zitto! Ha una paura terribile. Non farle del male, figlio!» Uscì di nuovo, lasciando aperta la porticina che il vento cominciò a sbattere, spingendola, attirandola, quasi trastullandosi con essa. Anania attese, pallido, incosciente. Ogni volta che la porta si apriva il sole ed il vento penetravano nella cucina, illuminavano e scuotevano ogni cosa, e sparivano per ricomparire subito. Per uno o due minuti Anania seguì incoscientemente il gioco del sole e del vento, ma ad un tratto s'irritò contro la porta e mosse per chiuderla, nervoso e col volto cupo d'ira. Egli apparve così alla misera donna che si avanzava tremando, timida e lacera come una mendicante. Egli la guardò: ella lo guardò: lo spavento e la diffidenza era negli occhi d'entrambi. Né l'uno né l'altra pensarono neppure a stendersi la mano, neppure a salutarsi: tutto un mondo di dolore e di errore era fra loro e li divideva inesorabilmente, come due mortali nemici. Anania tenne ferma la porta, appoggiandovisi, tutto inondato di sole e di vento, e seguì con gli occhi la misera figura di Olì, mentre ella, quasi spinta da zia Grathia, si avanzava verso il focolare. Sì, era ben lei, la pallida e scarna apparizione intravveduta nella finestra nera della cantoniera; nel viso giallo- grigiastro i grandi occhi chiari, sbiaditi dalla debolezza e dalla paura, parevano gli occhi d'un gatto selvatico ammalato. Appena ella si fu seduta, la vedova ebbe una magnifica idea: lasciò soli i suoi ospiti! Ma Anania sbatté la porta e corse irritatissimo dietro zia Grathia. «Dove andate? Venite, tornate subito, altrimenti vado via anch'io!» disse aspramente, raggiungendo la vecchia su per la scaletta. Olì dovette sentire la minaccia, perché quando Anania e la vedova rientrarono in cucina ella piangeva presso la porta, pronta ad andarsene. Cieco di vergogna e di dolore, Anania le si slanciò sopra, l'afferrò per un braccio e la spinse contro il muro, poi chiuse a chiave la porta. «Nooo!», egli gridò, mentre la donna s'accoccolava per terra, restringendosi tutta come un riccio e piangendo convulsa. «Non partirete più! Non farete più un passo senza il mio consentimento. Rimanete, piangete finché volete, ma di qui non vi muoverete più. I tempi allegri son finiti.» Olì pianse più forte, tutta scossa da un fremito di spasimo; ma nello scoppio del suo pianto risuonò quasi una frenetica irrisione alle ultime parole di Anania; ed egli lo sentì, e la vergogna subitanea per le mostruose parole pronunziate accrebbe il suo furore. Ah, il pianto della donna lo irritava, invece di commuoverlo; tutti gli istinti dell'uomo primitivo, barbaro e feroce, vibravano nei suoi nervi frementi: ed egli lo sentiva, ma non sapeva dominarsi. Zia Grathia lo guardava atterrita, domandandosi se Olì non avesse ragione a temerlo; e scuoteva la testa, minacciava con ambe le mani, s'agitava, pronta a tutto pur d'impedire una scena violenta; ma non sapeva che dire, non poteva parlare. Ah, era indiavolato quel bel ragazzo ben vestito: era più terribile d'un pastore orgolese con la mastrucca, più terribile dei banditi che ella aveva conosciuti sulla montagna. Ella s'era immaginata una scena ben diversa da quella! «Sì», egli riprese, abbassando la voce, e fermandosi davanti a Olì, «i vostri viaggi son finiti. Ragioniamo un po': è inutile piangere, anzi dovete rallegrarvi perché avete ritrovato un buon figliuolo che vi restituirà bene per male: quindi dovete aspettarvi da lui molto bene. Di qui voi non vi muoverete più, finché non l'ordinerò io. Capite? capite?», ripeté, sollevando di nuovo la voce, e battendosi la mano sul petto. «Adesso sono io il padrone: non sono più il bimbo di sette anni, che voi avete vilmente ingannato e abbandonato; non sono più l'immondezza che voi avete buttato via; sono un uomo ora, capite? e saprò difendermi, sì, saprò difendermi, saprò, perché voi finora non avete fatto altro che offendermi, uccidermi giorno per giorno, sempre a tradimento, sempre! sempre! e rovinarmi, capite, rovinarmi sempre più, sempre più, come si rovina una casa, un muro, così, pietra per pietra, così ... » Egli faceva atto di buttar giù un muro; si curvava, sudava, quasi oppresso da una vera fatica fisica; ma d'un tratto, improvvisamente, guardando Olì che piangeva sempre, sentì la sua ira sbollire, svanire. Un senso di gelo lo invase. Chi era quella donna che egli ingiuriava? Quel mucchio di stracci, quella lurida lumaca, quella mendicante, quell'essere senza anima? Poteva ella capire ciò che egli le diceva? ciò che ella aveva fatto? E d'altronde che poteva esserci di comune fra lui e quella creatura immonda? Era poi davvero sua madre, quella? E se lo era, che significava, che importava? Madre non è la donna che dà materialmente alla luce una creatura, frutto d'un momento di piacere, e poi la butta nel mezzo della strada, in grembo al perfido Caso che l'ha fatta nascere. No, quella donna lì non era sua madre, non era una madre, sia pure incosciente: egli non le doveva nulla. Forse non aveva diritto di rimproverarle i suoi errori, ma non doveva neppure sacrificarsi per lei. Sua madre poteva essere zia Tatàna, poteva essere zia Grathia, e magari Maria Obinu, e magari zia Varvara o Nanna l'ubriacona; tutte, fuorché la miserabile creatura che gli stava davanti. «Avrei fatto bene a non occuparmene, davvero, come consigliava zia Grathia», pensò. «E forse è meglio che essa riprenda la sua via. Che può importarmi di lei? No, non me ne importa niente.» Olì continuava a piangere. «Finitela», diss'egli freddamente, ma non più irato; e siccome ella piangeva più forte, egli si volse alla vedova e le fece cenno di confortarla e farla tacere. «Non vedi che ha paura?», mormorò la vedova, passandogli vicina. «Su! su!», disse poi, battendo una mano sulle spalle di Olì. «Finiscila, figlia. Fatti coraggio, abbi pazienza. È inutile piangere; egli non ti divorerà, poi; è figlio delle tue viscere, dopo tutto. Su! su! Adesso prendi un po' di caffè, poi discorrerete meglio. Fammi il piacere, figlio, Anania, va un po' fuori: poi ragionerete meglio. Va fuori, gioiello d'oro.» Egli non si mosse, ma Olì si calmò alquanto, e quando zia Grathia le portò il caffè, ella prese tremando la tazza e bevette avidamente, guardandosi attorno con occhi ancora spaventati, diffidenti, eppure attraversati da balenii di piacere. Ella era avida del caffè, come quasi tutte le donnicciuole sarde, ed Anania, che aveva un po' ereditato questa passione, la guardava e la studiava, ridiventato perfettamente cosciente; e gli pareva di scorgere una bestia selvatica e timida, una lepre rosicchiante l'uva nella vigna, trepida per il piacere del pasto e per la paura di venir sorpresa. «Ne vuoi ancora?», domandò zia Grathia, chinandosi e parlando ad Olì come ad una bambina. «Sì? No? Se ne vuoi ancora dimmelo pure. Da' qui la chicchera, e alzati, su, lavati gli occhi, sta tranquilla! Hai sentito? Su, figlia!» Olì si alzò, aiutata dalla vecchia, e andò diritta alla tinozza dell'acqua dove usava lavarsi venti anni prima: volle pulire la chicchera, poi si lavò, e s'asciugò col grembiale bucherellato. Le sue labbra tremavano, qualche singhiozzo le gonfiava ancora il petto, i suoi occhi arrossati e cerchiati, enormi nel viso piccolo, sfuggivano lo sguardo freddo di Anania. Egli guardava il grembiale bucherellato e pensava: «Bisognerà subito farle una veste: è veramente lurida. Ho ancora sessanta lire delle lezioni date a Nuoro: ho fatto bene a fare quelle ripetizioni ... Ne troverò anche altre. Venderò anche i libri ... Sì, occorre subito vestirla e calzarla ... Avrà anche fame ... ». Quasi indovinando il suo pensiero, zia Grathia disse ad Olì: «Hai fame? Se hai fame dimmelo pure, subito: non star lì vergognosa; chi si vergogna patisce. Hai fame? No?». «No», rispose Olì con voce rauca. Anania si turbò nell'udire quella voce: era ancora la voce d'un tempo, sì, la voce lontana, la voce di lei. Sì, quella donna era lei, era lei, la madre, la sola, la vera, l'unica madre! Era la carne della sua carne, il membro malato, il viscere fracido che lo straziava, ma dal quale non poteva staccarsi senza lasciar la vita. «Ebbene, allora siedi qui», disse zia Grathia avvicinando due sgabelli al focolare, «siedi qui, figlia, e tu siedi qui, gioiello mio. Sedete qui entrambi e discorrete ... ». Fece sedere Olì, e pretendeva di fare altrettanto con Anania, ma egli si scosse bruscamente. «Lasciatemi dunque; non sono un bimbo, vi ho detto! D'altronde», egli riprese, camminando su e giù per la cucina, «c'è poco da discorrere. Ho già detto quanto dovevo dire. Ella rimarrà qui finché io non ordinerò altrimenti: voi ora le comprerete le scarpe e un vestito ... vi darò i danari ... , ma di questo parleremo poi ... Intanto», e alzò la voce, per significare che si rivolgeva ad Olì, «rispondete voi: che cosa rispondete dunque?» Credendo che egli parlasse con la vedova, Olì non rispose. «Hai sentito?», le disse zia Grathia, con voce dolce. «Che cosa rispondi?» «Io?», ella chiese a bassa voce. «Sì, tu.» «Io ... nulla.» «Avete debiti?», domandò Anania. «No.» «Verso il cantoniere, no?». «No. Si hanno tenuto tutto quanto avevo.» «Che cosa avevate?» «I bottoni d'argento della camicia, le scarpe nuove, dodici lire in argento.» «Che cosa possedete ora?» «Nulla. Come mi vedi, mi scrivi», diss'ella, toccandosi il grembiale. La sua voce era cupa, cavernosa. «Avete qualche carta?» «Cosa?» «Qualche carta», spiegò zia Grathia. «Sì, la fede di nascita?» «Sì, la fede di nascita», ella rispose toccandosi il petto. «L'ho qui.» «Fate vedere». Ella trasse una carta gialliccia, macchiata d'olio e di sudore, mentre Anania ripensava amaramente alle ricerche e alle indagini fatte per scoprire se Maria Obinu possedeva carte rivelatrici. Zia Grathia prese la carta e gliela diede; egli la svolse, la lesse, la restituì. «Perché ve la siete procurata?», domandò. «Per sposarmi con Celestino ... » «Il cieco», spiegò la vedova, e aggiunse borbottando: «quell'immondezza vile». Anania tacque, e continuò a camminare su e giù per la cucina: il vento sibilava incessantemente intorno alla casetta; dalle fessure del tetto piovevano alcune striscie di sole che disegnavano fantastiche monete d'oro sul pavimento nero. Anania camminava divertendosi automaticamente a mettere i piedi su quelle monete, come usava una volta, da bambino: si domandava che cosa gli restava da fare e gli sembrava d'aver già esaurito una parte del suo grave compito. «Io ora chiamerò di là zia Grathia», pensava, «e le consegnerò i danari perché le compri le vesti e le scarpe e le dia da mangiare, poi partirò e vedrò ... Qui non mi resta altro da fare: è tutto fatto ... È tutto fatto!», ripeté fra sé con infinita tristezza. «Tutto è finito.» Gli venne in mente di sedersi accanto a sua madre, di chiederle come aveva vissuto, di rivolgerle una sola parola di dolcezza e di perdono: ma non poteva, non poteva: il solo guardarla lo disgustava; gli pareva che ella puzzasse (e in realtà ella emanava quello sgradevole odore tutto speciale dei mendicanti), e non vedeva l'ora di andarsene, di fuggire, di togliersi dagli occhi quella vista dolorosa. Eppure qualche cosa lo tratteneva; egli sentiva che la scena non poteva terminare così, dopo poche frasi; pensava che Olì forse, fra la sua paura e la sua vergogna, gioiva d'aver un figlio bello, forte, civile; e nel suo disgusto, nel suo dolore anch'egli provava un meschino conforto dicendo a se stesso: «Almeno non è sfrontata: forse si può redimere ancora. È incosciente, ma non sfrontata. Non si ribellerà». Eppure ella si ribellò. «Ecco», egli ricominciò, dopo un lungo silenzio, «voi rimarrete qui finché non avrò aggiustato i miei affari. Zia Grathia comprerà le vesti e le scarpe ... » La voce rauca e dolente risuonò forte: «Io non voglio nulla. Io no ... ». «Come no?», egli chiese, fermandosi di botto davanti al focolare. «Io non resto.» «Che cosa?», egli gridò sporgendosi in avanti, coi pugni stretti e gli occhi spalancati. «Spiegatevi meglio.» Ah, dunque non era tutto finito? Ella osava? perché osava? Ah, ella dunque non capiva che suo figlio aveva sofferto e lottato durante tutta la sua vita per raggiungere uno scopo: quello di ritirarla dalla via della colpa e del vagabondaggio, anche sacrificandole tutto il suo avvenire? Perché ora ella osava ribellarglisi, perché voleva sfuggirgli ancora? Non capiva che egli le avrebbe impedito di far ciò, anche a costo d'un delitto? «Spiegatevi!», egli ripeté, dominando a stento la sua collera. E stette ad ascoltare, fremente, esaltato, ficcandosi le unghie puntute sulle palme delle mani, mentre il suo viso andava di momento in momento deformandosi sotto la pressione di un dolore senza nome. Zia Grathia lo fissava, pronta anch'essa a gettarglisi sopra se egli osava toccare Olì. Fra le tre creature selvagge, riunite intorno al focolare, la fiamma di un tizzo sorgeva azzurrognola e cigolava: pareva piangesse. «Ascoltami», disse Olì animandosi, «non adirarti, tanto oramai la tua collera è inutile. Il male è fatto e nulla più lo può rimediare: tu puoi uccidermi, ma non ne ritrarrai alcun benefizio. L'unica cosa che tu possa fare è di non occuparti di me. Io non posso restare qui: me ne andrò e tu non udrai più mie notizie. Figurati di non avermi mai incontrata ... » «Dove vuoi andare?», chiese la vedova. «Anch'io gli ho detto queste cose, ma egli non capisce la ragione: ci sarebbe però un mezzo ... Rimani qui egualmente, invece di andar per il mondo: non diremo chi tu sei ed egli vivrà tranquillo come se tu fossi lontana. Perché, povera te, se vai via di qui, dove andrai?» «Dove Dio vuole ... » «Dio?», proruppe Anania, dandosi forti pugni sul petto. «Dio ora vi comanda di obbedirmi. Non osate neppur più ripetere che non volete restare qui. Non osate», egli disse come in delirio. «Credete che io scherzi, forse? Non osate muovere un passo senza ordine mio; altrimenti sarò capace di tutto ... » «Per il tuo bene», ella insisté. «Ascoltami almeno: non essere feroce con me, mentre sei indulgente con tuo padre, con quel miserabile che fu la mia rovina.» «Ella ha ragione!», disse la vedova. «Tacete!», impose Anania. Olì prese ancor più coraggio. «Io non so parlare, Ananì ... io ora non so parlare perché le disgrazie mi hanno reso stupida; ma una sola cosa ti domando: non avrei tutto da guadagnare restando qui? Se voglio andar via non è per il tuo bene? Rispondi. Ah, egli neppure mi ascolta!», disse poi, rivolta alla vedova. Anania camminava nuovamente su e giù per la cucina, e pareva non udisse davvero le parole di Olì; ma a un tratto trasalì e gridò: «Ascolto!». Ella riprese umilmente: «Perché dunque vuoi che io rimanga qui? Lasciami andare per la mia via: come un giorno ti feci del male, lascia che ora possa farti del bene. Lasciami andare: io non voglio esserti d'impedimento: lasciami andare ... per il tuo bene ... ». «No!», egli ripeté. «Lasciami andare, te ne supplico: sono ancor buona a lavorare. Tu non saprai più nulla di me: sparirò come la foglia portata dal vento ... » Egli s'aggirò su se stesso; una terribile tentazione lo insidiò: lasciarla andare! Per un minuto secondo una folle gioia gli brillò nell'anima, al pensiero che tutto poteva considerarsi come un sogno maligno: una sola parola e il sogno svaniva e tornava la dolce realtà ... Ma subito ebbe vergogna di se stesso: la sua ira crebbe, il suo grido echeggiò nuovamente nella tetra cucina. «No!» «Tu sei una belva», mormorò Olì, «non sei un cristiano: sei una belva che morde le sue stesse carni. Lasciami andare, fanciullo di Dio, lasciami ... » «No!» «Una belva davvero!», confermò zia Grathia, mentre Olì taceva e pareva vinta. «C'è bisogno di urlare così? Nooo! Nooo! Nooo! Fuori, se sentono, crederanno che c'è un toro selvatico, chiuso qui dentro. Son queste le cose che ti hanno insegnato a scuola?» «A scuola mi hanno insegnato questa ed altre cose», egli disse, abbassando la voce che gli si era fatta rauca. «Mi hanno insegnato che l'uomo non deve lasciarsi disonorare, a costo di morirne ... Ma voi non potete capire certe cose! Infine, tagliamo corto, e state zitte tutt'e due ... » «Io non capisco? Io capisco benissimo», protestò la vecchia. «Nonna, voi capite davvero. Ricordatevi ... Ma basta, basta!», esclamò egli, agitando le mani, stanco, nauseato. Le parole della vecchia lo avevano colpito; egli ritornava cosciente, ricordava che si era sempre ritenuto un essere superiore, e voleva porre fine alla scena dolorosa e volgare. «Basta», ripeté a se stesso, lasciandosi cader seduto in un angolo della cucina e prendendosi la testa fra le mani. «Ho detto no e basta. Finitela ora», aggiunse con voce affranta. Ma Olì s'accorse benissimo che era invece il momento di combattere: ella non aveva più paura, e osò tutto. «Senti», disse con voce umile, sempre più umile, «perché vuoi rovinarti, "figlio mio?" (Sì, ella ebbe il coraggio di dir così, ed egli non protestò). Io so tutto ... Tu devi sposarti con una fanciulla ricca e bella: se ella viene a conoscere che tu non mi rinneghi, ti rifiuterà. Ed ha ragione: perché una rosa non può stare vicina ad una immondezza ... Fallo per lei; lasciami andare, ella crederà sempre che io non esista più. Ella è un'anima innocente; perché dovrebbe soffrire? Io andrò lontano, cambierò nome, sparirò portata via dal vento. Basta il male che ti feci involontariamente ... sì ... involontariamente; figlio mio, io non voglio farti più del male, no. Ah, come una madre può fare il male a suo figlio? Lasciami andare». Egli ebbe desiderio di gridare: «Eppure voi non mi avete fatto altro che del male», ma si vinse. A che serviva gridare? Era inutile e indecoroso; no, egli non voleva più gridare: solo, col capo sempre stretto fra le mani, con voce nello stesso tempo lamentosa e rabbiosa, continuò a rispondere: «No, no, no». In fondo sentiva che Olì aveva ragione, e capiva che ella veramente voleva andarsene per non renderlo infelice, ma appunto l'idea che in quel momento ella era più generosa e più cosciente di lui lo irritava e gliela rendeva odiosa. Ella si era trasformata: i suoi occhi illuminati lo guardavano supplichevoli e amorosi; quando ripeteva: «lasciami andare» la sua voce vibrava e tutto il suo volto esprimeva una tristezza senza nome. Forse un sogno soave, che giammai prima d'allora aveva rischiarato l'orrore della sua esistenza, le sfiorava l'anima: restare, vivere per lui, trovar finalmente pace. Ma dal profondo dell'anima primitiva un istinto di bene, - la scintilla che si cela anche nella selce, - la spingeva a non badare a quel sogno. Una sete di sacrifizio la divorava, ed Anania lo capiva, e sentiva finalmente che ella voleva a modo suo compiere il proprio dovere, come egli a modo suo voleva compiere il suo. Egli però era il più forte e voleva e doveva vincere con tutti i mezzi, anche con la violenza, anche con la necessaria crudeltà del medico che per guarire il malato gli apre la carne coi ferri. Ad un tratto ella si gettò per terra, ricominciò a piangere, supplicò, gridò. Anania rispose sempre no. «Che farò dunque io?», ella singhiozzò. «Nostra Signora mia, cosa farò io? Bisogna che ti abbandoni ancora con inganno, per farti il bene per forza? Sì, io ti lascerò, io me ne andrò. Tu non sei il mio padrone. Io non so chi tu sei ... Io sono libera ... e me ne andrò ... » Egli sollevò il volto e la guardò. Non era più irato; ma i suoi occhi freddi e il suo viso livido, improvvisamente invecchiato, incutevano spavento. «Sentite», disse con voce ferma, «finiamola. È deciso tutto, e non c'è da discutere oltre. Voi non muoverete un passo senza che io lo sappia. E badate bene, e tenete a mente le mie parole come se fossero le parole di un morto: se finora ho sopportato il disonore della vostra vita vergognosa era perché non potevo impedirlo, e perché speravo di por fine a tale obbrobrio. Ma d'ora in avanti sarà altra cosa. Se voi vi permettete di andar via di qui vi seguirò, vi ucciderò e mi ucciderò! Tanto non mi importa più nulla di vivere!» Olì lo guardava con terrore: in quel momento egli era rassomigliantissimo a zio Micheli, il padre, quando l'aveva cacciata via dalla cantoniera; gli stessi occhi freddi, lo stesso volto calmo e terribile, la stessa voce cavernosa, lo stesso accento inesorabile. Le parve di vedere il fantasma del vecchio, che risorgeva per castigarla, e sentì l'orrore della morte intorno a sé. Non disse più parola, e si accoccolò per terra, tutta tremante di spavento e di disperazione. Una triste notte cadde sul villaggio desolato dal vento. Anania, che non aveva potuto trovare un cavallo per ripartire subito, dovette passare la notte a Fonni, e dormì d'un sonno inquieto, simile al sonno di un condannato nella prima notte dopo la sentenza. Olì e la vedova vegliarono lungamente accanto al fuoco: Olì aveva il freddo foriero della febbre e batteva i denti, sbadigliava e gemeva. Come in una notte lontana, il vento rombava sopra la cucina vigilata dalla spoglia nera del bandito, e la vedova filava, alla luce giallognola del fuoco, impassibile e pallida come uno spettro: ma questa volta ella non narrava alla sua ospite le storie del marito, e non osava confortarla. Solo, di tanto in tanto, la supplicava inutilmente di andare a letto. «Andrò se mi fate una carità», disse finalmente Olì. «Parla.» «Chiedetegli se egli ha ancora la rezetta che gli diedi il giorno che siamo fuggiti di qui; e pregatelo di farmela vedere.» La vecchia promise, e Olì si alzò: tremava tutta, e sbadigliava tanto che le sue mascelle scricchiolavano. Tutta la notte vaneggiò, arsa dalla febbre; ogni tanto chiedeva la rezetta e si lamentava infantilmente perché zia Grathia, coricatale a fianco, non si alzava e non andava da Anania per chiedergliela. Un dubbio le attraversava la mente in delirio: che Anania non fosse suo figlio. No, egli era troppo crudele e spietato; ella, che era stata la vittima di tutti non poteva convincersi che suo figlio dovesse torturarla più degli altri. Nel delirio raccontò a zia Grathia che aveva attaccato al collo di Anania quel sacchettino per riconoscerlo quando sarebbe stato grande e ricco. «Io volevo andare a trovarlo un giorno, vecchia vecchia, col bastone. Dun! Dun! picchiavo alla sua porta. "Io sono Maria Santissima trasformata in mendicante!" I servi ridevano e chiamavano il padrone. "Vecchia, che cosa vuoi?" "Io so che tu hai un sacchettino così e così: io so chi te lo ha dato; se tu oggi hai tante tancas e servi e buoi lo devi a quella povera anima che ora è ridotta a sette once di polvere. Addio, dammi un po' di pane col miele. E perdona alla povera anima." "Servi, segnatevi, questa vecchia che indovina ogni cosa è Maria Santissima ... " Ah, ah, ah, la rezetta, la voglio ... Quel giovine non è ... lui! La rezetta ... la rezetta ... » All'alba zia Grathia entrò da Anania e gli raccontò ogni cosa. «Ah», diss'egli con un sorriso amaro, «ci voleva anche questa! che ella dubitasse! Gliela farò vedere io ... se sono io!» «Figlio, non essere snaturato: contentala almeno in questa piccola cosa ... », supplicò zia Grathia. «Ma io non l'ho più quel sacchettino; l'ho buttato via: se lo ritroverò ve lo manderò.» Zia Grathia insisté inoltre per sapere l'esito del colloquio che Anania avrebbe avuto con la fidanzata. «Se ella veramente ti vuol bene, si rallegrerà della tua buona azione», gli disse, per confortarlo. «No non ti rifiuterà, anche se tu le dici che non rinneghi tua madre. Ah, l'amore vero non bada ai pregiudizi del mondo: io amavo pazzamente mio marito quando tutto il resto del mondo lo disprezzava ... » «Vedremo», disse melanconicamente Anania, «vi scriverò ... » «Per carità, non scrivermi, gioiello d'oro! Io non so leggere, lo sai, e non voglio far sapere a nessuno i fatti tuoi. Piuttosto mandami un segno. Senti, se ella non ti rifiuta mandami la rezetta avvolta in un fazzoletto bianco; se ti rifiuta, mandala avvolta in un fazzoletto di colore ... » Egli promise di contentare la vecchia. «Ma tu quando tornerai?» «Non so; fra non molto certamente, appena avrò aggiustato i miei affari.» Egli partì senza aver riveduto Olì; un'angoscia infinita l'opprimeva; il viaggio gli sembrava eterno, e sebbene un tenue filo di speranza lo guidasse, non avrebbe voluto arrivare mai a Nuoro. «Ella mi ama», pensava, «forse mi ama come nonna amava suo marito. La sua famiglia mi disprezzerà, mi caccerà; ma ella mi dirà: "Ti aspetterò, ti amerò sempre ... ". Sì, ma che posso io prometterle? Oramai il mio avvenire è distrutto». Un'altra speranza inconfessabile, egli sentiva però in fondo al cuore: che Olì fuggisse ancora: egli non osava palesare a se stesso questa speranza, ma la sentiva, la sentiva; e se ne vergognava, e ne calcolava tutta la viltà, ma non poteva scacciarla ... Nel momento in cui aveva gridato: «Vi ucciderò e mi ucciderò», era stato sincero, ma ora gli pareva che tutto fosse stato un orribile sogno; e nel rivedere la strada e i paesaggi che tre giorni prima aveva attraversato con tanta gioia nell'anima, e nell'avvicinarsi a Nuoro, il senso della realtà lo stringeva acerbamente. Appena arrivato cercò il sacchettino, e per un'idea superstiziosa, - poiché egli credeva che le cose prevedute non avvengono, - lo avvolse in un fazzoletto di colore. Ma poi pensò che i tristi avvenimenti di quei giorni egli li aveva sempre attesi e preveduti, e si irritò contro la sua puerilità. «Del resto, perché debbo mandare il sacchettino? Perché debbo contentarla?», disse fra sé, sbattendo l'involto contro il muro. Ma subito lo raccattò, pensando: «Per zia Grathia. Alle quattro vado dal signor Carboni e gli dico tutto», decise poi. «Bisogna finirla oggi stesso. Bisogna esser uomini. Ed Ora dormiamo.» Si buttò sul letto e chiuse gli occhi. Eran circa le due; un meriggio caldissimo e silenzioso. Egli aveva ancora nelle orecchie il rombo del vento, ricordava il freddo della notte passata a Fonni, e provava una strana impressione. Gli pareva d'esser caduto in un abisso roccioso, fra montagne erte desolate che soffocavano il breve orizzonte; ricordi lontani gli risalivano dal profondo dell'anima: le notti di febbre a Roma, il fragore del vento su Bruncu Spina, una poesia del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa, la canzone del mandriano che era passato nella straducola la sera in cui zia Tatàna aveva chiesto la mano di Margherita. Ma nello sfondo della sua immaginazione nereggiava sempre la cucina della vedova, col cappotto nero e vuoto come un simbolo, con la figura di Olì dai grandi occhi di gatto selvatico. Che dolore e che tristezza gli causavano ora quegli occhi! Così rimase a lungo, senza poter dormire, ma con gli occhi ostinatamente chiusi, immerso in un cupo torpore. A un tratto pensò alla morte, meravigliandosi che questo pensiero non gli fosse ancora balenato in mente. «Nessuna cosa è più certa della morte; eppure ci tormentiamo tanto per cose che passano inesorabilmente. Tutto passerà: tutti morremo: perché soffrire così? ... E se alle quattro mi suicidassi? Sì.» Per qualche momento l'impressione della fine lo gelò tutto. Passò, ma gli lasciò una oppressione così spaventosa che egli sentì il bisogno di scuotersi per liberarsene. Solo allora si accorse che, in fondo, mentre gli pareva d'esser in preda alla più cupa disperazione, egli sperava sempre. «Margherita! Margherita! Parlerò con lei stanotte; ella mi dirà di tacere ogni cosa a suo padre, di aspettare, di fingere. No, non voglio essere vile. Voglio essere uomo. Alle quattro sarò dal signor Carboni.» Alle quattro, infatti, egli passò davanti alla porta di Margherita, ma non poté fermarsi, non poté suonare. E passò oltre avvilito, pensando di ritornare più tardi, ma convinto, in fondo, che non sarebbe riuscito giammai di aver il colloquio col padrino. Due giorni e due notti trascorsero così in una vana battaglia di pensieri cangianti come onde agitate. Nulla pareva mutato nella sua vita e nelle sue abitudini; egli aveva ripreso a dar lezioni agli studentelli in vacanza, leggeva, mangiava, passava sotto le finestre di Margherita e vedendola la guardava ardentemente: ma durante la notte zia Tatàna lo udiva camminare per la camera, scendere nel cortile, uscire, rientrare, vagare: pareva un'anima in pena, e la buona vecchia lo credeva ammalato. Che aspettava egli? Che sperava? Il giorno dopo il suo ritorno, vedendo un uomo di Fonni attraversare la viuzza, impallidì mortalmente. Sì, egli aspettava qualche cosa ... qualche cosa d'orribile: la notizia che ella fosse scomparsa nuovamente; e si accorgeva benissimo della sua viltà, ma nello stesso tempo era pronto ad eseguire la sua minaccia: «vi seguirò, vi ucciderò, mi ucciderò». In certi momenti gli pareva che niente fosse vero; nella casa della vedova c'era soltanto la vecchia, col suo cappotto e le sue leggende: niente altro ... niente altro ... La seconda notte dopo il suo ritorno udì zia Tatàna raccontare una fiaba ad un bimbo del vicinato: « ... La donna fuggiva, fuggiva, gettando dei chiodi che si moltiplicavano, si moltiplicavano, coprivano tutta la pianura. Zio Orco la inseguiva, la inseguiva, ma non arrivava a prenderla perché i chiodi gli foravan i piedi ... ». Che piacere angoscioso aveva destato quella fiaba in Anania bambino, specialmente nei primi giorni dopo il suo abbandono! Quella notte egli sognò che l'uomo di Fonni gli aveva portato la novella: ella era fuggita ... egli la inseguiva, la inseguiva ... attraverso una pianura coperta di chiodi ... Eccola, ella è là, all'orizzonte: fra poco egli la raggiungerà e la ucciderà; ma egli ha paura, ha paura ... perché ella non è Olì, è il mandriano passato nella viuzza mentre zia Tatàna era dal signor Carboni ... Anania corre, corre; i chiodi non lo pungono, eppure egli vorrebbe che lo pungessero ... Olì, trasformata in mandriano, canta: canta i versi del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa; ecco, egli sta per raggiungerla e ucciderla, e un gelo di morte lo agghiaccia tutto ... Si svegliò coperto da un sudore freddo, mortale; il cuore non gli batteva più, ed egli scoppiò in un pianto d'angoscia violenta. Il terzo giorno Margherita, meravigliata che egli non scrivesse, lo invitò al solito convegno. Egli andò, raccontò la gita, si abbandonò alle carezze di lei come un viandante stanco si abbandona alle carezze del vento, all'ombra d'un albero, sull'orlo della via; ma non poté dire una sola parola sul cupo segreto che lo divorava. 18 settembre, ore due di notte Margherita, Sono rientrato a casa adesso, dopo aver pazzamente errato per le strade. Mi pare d'impazzire da un momento all'altro ed è anche questa paura che mi spinge a confidarti, - dopo una lunga inenarrabile indecisione, - il dolore che mi uccide. Ma voglio esser breve. Margherita, tu sai chi io sono: figlio della colpa, abbandonato da una madre più disgraziata che colpevole, io sono nato sotto un astro terribile e devo espiare delitti non miei. Inconsapevole del mio triste destino, spinto dalla fatalità, io ho trascinato con me, nell'abisso dal quale io non potrò mai uscire, la creatura che ho amato sopra tutte le creature della terra. Te, Margherita ... Perdonami, perdonami! Questo è il mio più immenso dolore, il rimorso terribile che mi strazierà per tutto il resto della vita, se pure vivrò ... Senti. Mia madre è viva: dopo una esistenza di colpe e di dolori, ella è risorta davanti a me come un fantasma. Essa è miserabile, malata, invecchiata dal dolore e dalle privazioni. Il mio dovere, tu stessa lo dici a te stessa in questo momento, è di redimerla. Ho deciso di riunirmi con lei, di lavorare per sostenerla, di sacrificare la vita stessa, se occorre, per compiere il mio dovere. Margherita, che dirti altro? Mai come in questo momento ho sentito il bisogno di aprirti tutta l'anima mia, simile ad un mare in tempesta, e mai ho sentito mancarmi le parole come mi mancano in quest'ora decisiva della mia vita. La ragione stessa mi manca; ho ancora sulle labbra il profumo dei tuoi baci e tremo di passione e di angoscia ... Margherita, Margherita, la mia vita è nelle tue mani! Abbi pietà di me ed anche di te. Sii buona come io ti ho sempre sognata! Pensa che la vita è breve, e che la sola realtà della vita è l'amore, e che nessun uomo della terra ti amerà come ti amo e ti amerò io. Non calpestare la nostra felicità per i pregiudizi umani, i pregiudizi che gli uomini invidiosi inventarono per rendersi scambievolmente infelici. Tu sei buona, sei superiore: dimmi almeno una parola di speranza per l'avvenire. Ma che dico? Io divento pazzo; perdonami, e ricordati che, qualunque cosa accada, io sarò sempre tuo per l'eternità. Scrivimi subito ... A. 19 settembre Anania, La tua lettera mi sembra un orrendo sogno. Anch'io non trovo parole per esprimermi. Vieni stanotte, alla solita ora, e decideremo assieme il nostro destino. Sono io che devo dire: la mia vita è nelle tue mani. Vieni, ti aspetto ansiosamente ... M. 19 settembre Margherita, Il tuo bigliettino mi ha gelato il cuore; sento che il mio destino è già deciso, ma un filo di speranza mi guida ancora. No, non posso venire; anche volendolo non potrei venire. Non verrò se tu non mi dirai prima una parola di speranza. Allora correrò a te per inginocchiarmi ai tuoi piedi e per ringraziarti e adorarti come una santa. Ma ora no, non posso, e non voglio. Quanto ti scrissi la notte scorsa è la mia irrevocabile decisione; scrivimi, non farmi morire in questa attesa terribile. Il tuo infelicissimo A. 19 settembre, mezzanotte Anania, Nino mio, Ti ho aspettato fino a questo momento, palpitante di dolore e di amore, ma tu non sei venuto, tu forse non verrai mai più, ed io ti scrivo, in quest'ora soave dei nostri convegni, con la morte nel cuore e le lagrime negli occhi non ancora stanchi di piangere. La luna smorta cala sul cielo velato, la notte è melanconica e quasi lugubre e mi pare che tutto il creato si rattristi per la sventura che opprime il nostro amore. Anania, perché mi hai tu ingannato? Io sapevo sì, come tu dici, quello che tu sei, e ti amai appunto perché sono superiore ai pregiudizi umani, perché volevo ricompensarti delle ingiustizie che la sorte aveva tramato a tuo danno, e sopratutto perché credevo che anche tu, anche tu fossi superiore ai pregiudizi, e avessi riposto in me, come io avevo riposto in te, tutta la tua vita. Invece mi sono ingannata; o meglio sei stato tu ad ingannarmi, tacendomi i tuoi veri sentimenti. Ho sempre creduto che tu sapessi che tua madre viveva, e dove si trovava, e la vita che conduceva; ma ero certa che tu, vilmente abbandonato da lei, non facessi più caso d'una madre snaturata, tua sventura e disonore, e la ritenessi come morta per te e per tutti ... Non solo, ma ero certa che se ella osava presentarsi a te, come pur troppo é accaduto, tu non ti saresti degnato neppure di guardarla ... E invece, invece! Invece tu ora scacci chi ti ha lungamente amato e ti amerà sempre, per sacrificare la tua vita e il tuo onore a chi ti ha abbandonato, bambino inconsapevole; a chi ti avrebbe ucciso o lasciato in un bosco, in un deserto, pur di liberarsi di te. Ma è inutile che io ti scriva queste cose, perché tu certamente le capisci meglio di me; ed è inutile che tu continui ad illudermi e ad invocare sentimenti che io non posso avere dal momento che neppure tu li hai. Perché, vedi, io capisco benissimo che tu vuoi sacrificarti non per affetto, e neppure per generosità, - perché probabilmente tu odii giustamente la donna che fu la tua rovina, - ma spinto da quei pregiudizi umani inventati dagli uomini per rendersi scambievolmente infelici. Sì, sì: tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentir dire: "hai fatto il tuo dovere!". Tu sei un fanciullo, e il tuo è un sogno pericoloso ma anche, permettimi di dirtelo, anche ridicolo. La gente, sapendolo, ti loderà, sì, ma in fondo riderà della tua semplicità. Anania, torna in te, sii buono, con te e con me, come tu dici, e sopratutto sii uomo. No, io non dico di abbandonare tua madre, debole e infelice, come essa ti ha abbandonato: no, noi l'aiuteremo, noi lavoreremo per lei, se occorre, ma che essa stia lontana da noi, che essa non venga a mettersi fra noi, a turbare la nostra vita con la sua presenza. Mai! mai! Perché dovrei ingannarti, Anania? Io non posso neppure lontanamente ammettere la possibilità di vivere assieme con lei ... Ah, no! Sarebbe una vita orrenda, una continua tragedia; meglio morire una buona volta che morire lentamente di rancore e di disgusto. Io non ho mai amato quella disgraziata; ora ne sento pietà, ma non posso amarla; e ti scongiuro di non insistere nel tuo pazzo progetto, se non vuoi farmela nuovamente odiare mille volte più di prima. Questa la mia ultima decisione; sì, aiutarla, ma tenerla lontana, che io non la veda mai, che possibilmente il mondo dove vivremo noi ignori che ella esiste. Pensa che anche lei, forse, sarà più contenta di vivere lontana da te, la cui presenza le causerebbe un continuo rimorso. Tu dici che é invecchiata dal dolore, dalle privazioni, miserabile e malata; ma di chi la colpa se non sua? Per te, ed anche per lei, è meglio che ella si trovi in quello stato; così cesserà di vagabondare, e, non ti disonorerà più; ma che ella, dopo averti oltraggiato quando era sana e giovane, non si faccia un'arma della miseria e della debolezza per richiedere il sacrifizio della tua felicità! ... Ah, questo no, non devi permetterlo mai! No, non è possibile che tu compia una aberrazione fatale! A meno che tu non mi ami più e colga l'occasione per ... Ma no, no, no! Neppure voglio dubitare di te, della tua lealtà e del tuo amore! Anania, ritorna in te, ti ripeto, non essere malvagio e crudele con me, che ti diedi tutti i miei sogni, tutta la mia giovinezza, tutto il mio avvenire, mentre vuoi essere generoso verso chi ti ha odiato e rovinato. Abbi pietà ... vedi ... io piango, io ti imploro, anche per te, che vorrei veder felice come sempre sognai ... Ricordati tutto il nostro amore, il nostro primo bacio, i giuramenti, i sogni, i progetti, tutto, tutto ricorda! Fa che tutto non si risolva in un pugno di cenere; fa che io non muoia di dolore; fa che tu stesso non abbi a pentirti del tuo pazzo procedere. Se non vuoi dar retta ai miei consigli interroga persone serie, persone di Dio, e vedrai che tutti ti diranno qual è il tuo vero dovere, che tutti ti diranno di non essere ingrato, né malvagio. Ricorda, Anania, ricorda! Anche ieri notte mi dicevi che dalla vetta del Gennargentu gridasti il tuo amore, proclamandolo eterno. Dunque mentivi; anche ieri notte mentivi? E perché? ... Perché mi tratti così! Che ho fatto io per meritarmi tanto dolore? Possibile che tu non ricordi come ti ho sempre amato? Ricordi una sera che io stavo alla finestra e tu mi buttasti un fiore, dopo averlo baciato? Io conservo quel fiore per ornarne il mio vestito da sposa; e dico conservo perché son certa che tu sarai il mio sposo diletto, che tu non vorrai far morire la tua Margherita (e il tuo sonetto lo ricordi?), che saremo tanto felici, nella nostra casetta, soli soli col nostro amore ed il nostro dovere. Sono io che aspetto da te, subito, una parola di speranza. Dimmi che tutto fu un sogno tormentoso; dimmi che la ragione è ritornata in te, e che ti penti d'avermi fatto soffrire. Domani notte, o meglio stanotte, perché è già passata la una, ti aspetto; non mancare; vieni, adorato, vieni, diletto mio, mio amato sposo, vieni: io ti aspetterò come il fiore aspetta la rugiada dopo una giornata di sole ardente; vieni, fammi rivivere, fammi dimenticare; vieni, adorato, le mie labbra, ora bagnate d'amaro pianto, si poseranno sulla tua bocca amata come ... «No! no! no!», disse convulso Anania, torcendo la lettera senza leggerne le ultime righe. «Non verrò! Sei vile, vile, vile! Morrò ma non mi vedrai mai più.» Coi fogli stretti nel pugno si gettò sul letto, e nascose il viso sul guanciale, mordendolo, comprimendo i singhiozzi che gli gonfiavano la gola. Un fremito di passione lo percorreva tutto, dai piedi alla nuca; le invocazioni di Margherita gli davano un desiderio cupo dei baci di lei, e a lungo lottò acerbamente contro il folle bisogno di rileggere la lettera sino in fondo. Ma a poco a poco riprese coscienza di sé e di ciò che provava. Gli parve di aver veduto Margherita nuda, e di sentire per lei un amore delirante e un disgusto così profondo che annientava lo stesso amore. Come ella era vile! Vile sino alla spudoratezza. Vile e coscientemente vile. La Dea ammantata di maestà e di bontà aveva sciolto i suoi veli aurei ed appariva ignuda, impastata d'egoismo e di crudeltà; la Minerva taciturna apriva le labbra per bestemmiare; il simbolo s'apriva, si spaccava come un frutto, roseo al di fuori, nero e velenoso all'interno. Ella era la Donna, completa, con tutte le sue feroci astuzie. Ma il maggior tormento di Anania era il pensare che ella indovinava i suoi più segreti sentimenti e che aveva ragione: sopratutto ragione di rimproverargli l'inganno usatole, e di pretendere da lui il compimento dei suoi doveri di gratitudine e d'amore. «È finita!», pensò. «Doveva finire così.» Si rialzò e rilesse la lettera: ogni parola lo offendeva, lo disgustava e lo umiliava. Margherita dunque lo aveva amato per compassione, pur credendolo vile come era vile lei. Ella forse aveva sperato di farsi di lui un servo compiacente, un marito umile; o forse non aveva pensato a nulla di tutto questo; ma lo aveva amato solo per istinto, perché era stato il primo a baciarla, il solo a parlarle d'amore. «Ella non ha anima!», pensò il disgraziato. «Quando io deliravo, quando io salivo alle stelle e mi esaltavo per sentimenti sovrumani, ella taceva perché nella sua anima era il vuoto, ed io adoravo il suo silenzio che mi sembrava divino; ella ha parlato solo quando si destarono i suoi sensi, e parla ora che la minaccia il pericolo volgare del mio abbandono. Non ha anima né cuore. Non una parola di pietà: non il pudore di mascherare almeno il suo egoismo. Eppoi come è astuta! La sua lettera è copiata e ricopiata, sebbene riveli la grossolana ignoranza di lei: quanti "che", ci sono! Mi sembrano martelli, pronti a fracassarmi il cranio. Le ultime righe, poi, sono un capolavoro ... ella sapeva già, prima di scriverle, l'effetto che dovevano produrre ... ella è più vecchia di me ... ella mi conosce perfettamente, mentre io comincio appena adesso a conoscerla ... ella vuole attirarmi al convegno perché è sicura che se io ci vado mi inebrio e divento vile ... Inganno! inganno! inganno! Come la disprezzo ora! Non una parola buona, non uno slancio generoso, niente, niente! Ah, che rabbia!» (torse di nuovo la lettera) «Vi odio tutti; vi odierò sempre! Voglio essere cattivo anch'io; voglio farvi soffrire, schiantare, morire ... Cominciamo!» Prese il sacchettino ancora avvolto nel fazzoletto di colore, e poco dopo lo mandò a zia Grathia. «Tutto è finito!», ripeteva ogni momento. E gli pareva di camminare nel vuoto, fra nuvole fredde, come sul Gennargentu; ma adesso invano guardava sotto, intorno a sé: non via di scampo; tutto nebbia, vertigine, orrore. Durante la giornata pensò cento volte al suicidio; s'informò se poteva presentarsi subito agli esami per maestro elementare o per segretario comunale; andò nella bettola e presa fra le braccia la bella Agata (già fidanzata con Antonino), la baciò sulle labbra. Turbini di odio e di amore per Margherita gli attraversavano l'anima; più rileggeva la lettera più ella gli sembrava perfida; più sentiva d'allontanarsele più l'amava e la desiderava. Baciando Agata ricordava l'impressione violenta che il bacio della bella paesana gli aveva destato un giorno; anche allora Margherita era tanto lontana da lui, un mondo di poesia e di mistero li divideva; e questo stesso mondo, crollato, li divideva ancora. «Che hai?», gli chiese Agata, lasciandosi baciare. «Vi siete bisticciati, con lei? Perché mi baci?» «Perché mi piaci ... Perché sei puzzolente ... » «Tu hai bevuto», diss'ella, ridendo. «Se ti piacciono le donne così, puoi andare da Rebecca ... Se però Margherita viene a saperlo!» «Taci!», diss'egli, adirandosi. «Non pronunziar neppure il suo nome ... » «Perché?», chiese Agata, freddamente maligna. «Non diverrà mia cognata? È forse diversa da noi? È una donna come noi. Perché noi siamo povere? Chissà poi se anch'ella sarà ricca! Se fosse stata certa di ciò, forse ti avrebbe tenuto sempre a bada finché trovava un partito migliore di te!» «Se non la finisci ti batto ... », diss'egli furibondo. Ma l'insinuazione di Agata accrebbe i suoi sentimenti: oramai egli riteneva Margherita capace di tutto. Verso sera si mise a letto, con la febbre, deciso a non alzarsi, l'indomani, affinché Margherita venisse a sapere ch'egli era malato, e ne soffrisse. Giunse ad immaginarsi una segreta visita di lei; e pensando alla scena che ne sarebbe seguita, tremava di dolcezza. Ma ad un tratto questo sogno gli apparve qual era, puerilmente sentimentale, e ne provò vergogna. Si alzò ed uscì. Alla solita ora si trovò davanti al portone di Margherita. Ella stessa aprì. Si abbracciarono e si misero entrambi a piangere; ma appena Margherita cominciò a parlare, egli sentì un invincibile disgusto per lei, poi un senso di gelo. No, egli non l'amava più, non la desiderava più. Si alzò e andò via senza pronunziar parola. Giunto in fondo alla strada tornò indietro, s'appoggiò al portone e chiamò: «Margherita!». Ma il portone rimase chiuso.

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