Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Malombra

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

A Lui, a Lui si abbandonava. Curva sul banco la flessuosa persona, pareva una Tentazione penitente. La contessa Fosca le dava delle occhiate oblique, lavorando a più potere di ventaglio e battendo via con le labbra frettolose un chiacchierio muto di preghiere interminabili. Si compiaceva di vederle quell'attitudine pia. Immaginava gl'inchini che il vecchio nonzolo di S. Maria Formosa avrebbe fatto a sua nuora. Nepo era alla tortura; si portava e riportava al naso il fazzoletto profumato, guardava sottecchi i suoi vicini colossali e, quando si buttavano ginocchioni con tutti gli altri fedeli, egli non osava stare ritto, calava adagio adagio, pieno di angoscia pei suoi calzoni color tortora. Che differenze dall'ultima Messa di S. Filippo, da quel giardino di tote e di madame eleganti, da quell'ambiente di cristianesimo depurato! Si consolava pensando alla cugina. "Natura aristocratica" diceva tra sé. "Debbo essere il suo ideale, il suo Messia. Non vuole che me ne accorga troppo, è naturale." Suonò il campanello dell'elevazione. Nepo, in ginocchio, col capo devotamente chino, pensava: "Milleduecento ettari in Lomellina, ottocento nel Novarese, palazzo a Torino, palazzo a Firenze." Invece Edith non abbassò il viso. Era pallidissima, guardava davanti a sé con occhio grave e tranquillo. Solo un tremito delle mani tradiva il fervore dell'accorata preghiera che passava su tutte le teste chine, moveva diritto a Dio, gli diceva in faccia: "Signore, Signore, tu che sai quanto l'hanno offeso, non sarai pietoso con lui?". Il suo viso pensoso non esprimeva la rassegnazione ascetica, ma una volontà ferma e intelligente, velata di tristezza. E lui intanto, il nostro onesto amico Steinegge, ascoltava Messa in excelsis, seduto fra gli allori, abbracciandosi le ginocchia. Egli era proprio uscito di chiesa perché il pavimento gli scottava. Da quanti anni non aveva posto piede nelle prigioni, come diceva lui, di Domeneddio! Non aveva osato lasciar sua figlia sull'entrata della chiesa; ma, appena oltrepassata la soglia, quando Edith si avviò a pigliar posto nei banchi riservati alle donne, egli si pentì di aver male presunto delle sue forze. Non eran o tanto i suoi odii fieri quanto un sentimento d'onore che lo spingeva indietro. Il buon vecchio lupo uscì dal gregge. Accovacciato lassù come un lupo malinconico, non curava affatto la deliziosa scena di monti, di acque, di prati che rideva davanti a lui; né udiva i blandimenti delle frondi che gli sussurravano intorno. Guardava giù il tetto della chiesa e ascoltava il suono confuso di canti e d'organo che ne saliva tratto tratto. Aveva un pensiero solo e lo lavorava per tutti i versi: "Agli occhi suoi sono un reprobo." Pensiero amaro. Aver tanto combattuto, tanto sofferto, custodito l'onore contro la fame atroce, contro tutte le violente voglie del corpo estenuato, tutte le viltà della stanchezza; averlo così custodito quasi più per lei che per sé, amarla come l'amava, ed esserne giudicato un reprobo! Dovrebbe egli dunque umiliarsi davanti ai preti che l'avevano fatto maledire dai parenti suoi e da sua moglie ed erano in colpa degli stenti, della morte di lei? "Finirò così" pensò "mi avvilirò, purché Edith mi voglia bene. " Gli venne un'idea. "Se dicessi una parola a questo Dio, posto che ci sia?!" Si alzò in piedi e si mise a parlare in tedesco, a voce alta: "Signor Dio, ascoltatemi un poco. Non siamo amici? Sia. Io ho detto molto male dei preti, di Voi, né a Voi non ho mai parlato. Se tuttavia Voi volete trattarmi da nemico, io Vi prego di fare i conti. Dicono che siete giusto, e lo credo, signor Dio. Guardate nel vostro libro la partita Andrea Steinegge fu Federico di Nassau; guardate se non ho pagato abbastanza. Voi siet e molto grande; io molto piccolo; Voi sempre giovane, io sono vecchio e stanco. Cosa volete prendermi ancora? L'amore di mia figlia Edith! Non ho altro, signor Dio. Guardate se potete lasciarmelo. Se non potete, spazzatemi via, per Dio, e finiamola". Al suono della propria voce Steinegge si commoveva e s'inteneriva sempre più. Mise un ginocchio a terra. "Vi conosco poco, signor Dio, ma la mia Edith Vi vuol bene e io posso adorarvi, se volete. Vedete, m'inginocchio; ma intendiamoci noi e lasciamo da banda i preti. Forse posso darvi qualche altra cosa. Io ho la mia salute ch'è di bronzo. Pigliate questa. Fatemi morire a poco a poco, ma non mettetevi fra Edith e me. Io non posso inginocchiarmi davanti ai preti e mentire. Sono leale, sono soldato." "Signor Dio" qui Steinegge posò a terra anche l'altro ginocchio e abbassò la voce. "Io ho paura d'aver molto peccato nella mia giovinezza. Ho amato il giuoco e le donne peggiori. Tre volte, sulle dodici che mi son battuto in duello, ho provocato io, ho ferito l'altro e avevo torto. Credo che questi siano stati tre peccati; li ho sempre avuti nel cuore. Signor Dio della mia Edith, Vi domando perdono." Non disse altro e tornò a sedere, commosso, ma contento di sé. Gli pareva d'aver fatto un gran passo. Parlando a Dio, la sua scarsa fede si era tanto accresciuta ch'egli ora ne aspettava qualche risposta. Provava almeno la soddisfazione dell'uomo povero che ha necessità di parlare a un potente di cui teme lo sdegno, e, per non essere ribattuto dai servi, lo affronta sulla via, gli dice le sue ragioni con la brusca brevità che il tempo richiede, n'è ascoltato in silenzio e pensa quel silenzio copra un princi pio di combattuta pietà. Accese un sigaro per vincere la commozione che gli stringeva la gola. Il capitano Steinegge non doveva piangere. Fumò con furia, con rabbia. Appena chetato l'animo, guardando a terra con il sigaro fra l'indice e il medio della destra, gli parve che i fili d'erba tra sasso e sasso uscissero a dir qualche cosa di solenne o di incomprensibile e che rispondesse loro il mormorar dei cespugli. Ed egli, benché tedesco, non aveva mai compreso il linguaggio della natura, non era mai stato se ntimentale! Il sigaro gli si spense in mano. Che voleva dir questo? Si scosse, si alzò in piedi e discese verso la chiesa. La gente ne usciva; prima gli uomini che si fermavano sul sagrato in capannelli, poi le donne. Steinegge ristette sul sentiero a guardare la corrente variopinta che sboccava dalla porta maggiore; aspettava il cappellino nero di Edith. La corrente si venne rallentando e diradando. Quando cessò il pericolo di urtarsi a gomiti villani, comparvero la contessa Fosca e Marina, seguite da Nepo; poi tre o quattro vecchierelle: poi più nessuno. Anche i capannelli si sciolsero, il sagrato si votò. Steinegge, inquieto , venne a dare un'occhiata in chiesa. Non v'erano più che due persone, il curato inginocchiato sul primo banco presso l'altar maggiore e, otto o dieci banchi più indietro, Edith. Steinegge si ritirò adagio adagio e sedette sul muricciolo del sagrato. Gli batteva il cuore. Qual viso gli farebbe Edith! Ella uscì subito, frettolosa e sorridente; gli disse che s'era accorta di lui senza vederlo, perché aveva già imparato a conoscere il passo suo, e gli domandò scusa d'averlo fatto attendere. Nella fretta d'uscire aveva dimenticato l'ombrellino. "Signor papà" diss'ella scherzando "Le rincrescerebbe?". Il signor papà corse in chiesa e, prima di giungere al banco dov'era stata Edith, incon trò il curato che gli veniva incontro porgendogli l'ombrellino e gli fece due o tre inchini. "È Suo?" disse il curato. "È di mia figlia." "Se volesse vedere il coro, la sagrestia... Abbiamo un Luino, un Caravaggio... dico, se crede..." "Oh grazie, grazie" disse Steinegge che all'udire Luino e Caravaggio era rimasto a bocca aperta. "Allora, se vuol dirlo alla Sua signora figlia..." Steinegge s'inchinò, uscì a fare l'ambasciata e ritornò subito con Edith. Il curato si fece loro incontro con certa cordialità impacciata, strofinandosi le mani e suggendo l'aria con le labbra strette, come chi ha messo un dito nell'acqua troppo calda. Mostrava presso a sessant'anni. Aveva fronte alta, sguardo vivace e ingenuo, il viso, la voce, il passo della sincerità. Da tutta la sua persona spirava non so quale energia temperata di timidezza. Mostrò a Steinegge e a Edith i due quadri, che portavano alla meglio i loro nomi pomposi. Il Caravaggio del coro era un Martirio di S. Lorenzo, barocco nel disegno e nei lumi, ma pieno di vita. Steinegge non capiva niente di pittura e ne fece grandi elogi. Edith tacque. Il Luino della sagrestia era una bionda testa della Vergine, luinesca senza dubbio, soave. Edith ne fu commossa. Disse al curato con la sua voce quieta, ch'era straniera e che sentiva allora per la prima volta la dolcezza dell'Italia. Come mai quella povera chiesa di campagna poteva possedere un tesoro tale? Il curato divenne rosso e rispose che veramente il quadro era stat o suo, un ricordo di famiglia; che gli era parso ispirato da Dio e degno perciò di un luogo santo; e che nella sua chiesa tanto povera e umile Maria ci stava opportunamente. Poi chiese permesso alla signorina, con accento d'ingenuo desiderio, di farle vedere la biancheria più fine e i paramenti più ricchi. Tutto era distribuito col massimo ordine nel grande cassettone della sagrestia, dai purificatori candidi e odorati di lavanda sino al piviale delle maggiori solennità appena giunto da Novara. Il curato sp iegava e ripiegava ogni cosa con garbo femminile. "Vedo bene, signore" diss'egli a Steinegge "vedo bene, che Ella vorrebbe dirmi: Ad quid perditio haec? Un vecchio prete non deve avere i gusti di una giovane signora. Che vuole? Questa povera gente ha piacere così. Intendono di onorar Dio, e Dio vede il cuore." Non disse quanto avesse aiutato il voto dei parocchiani con le proprie economie pertinaci e dure; perché egli, nato da famiglia signorile, aveva abbandonata ai molti fratelli la sua parte dell'eredità paterna. I fratelli, che lo conoscevano bene e lo amavano, gli avevan regalato, poco tempo prima della visita degli Steinegge, un bell'organo di Serassi. Al primo Dominus vobiscum della prima Messa solenne celebrata con l'organo nuovo, don Innocenzo era rimasto per due minuti fermo con le braccia aperte a bearsi dell'onda sonora e del luccicar delle canne, là sopra la porta maggiore. Ora volle mostrare agli Steinegge anche l'organo. Edith era così affabile, suo padre tanto compito, che don Innocenzo vinse presto del tutto la propria timidezza, e uscito di chiesa con essi, dimenticò il caffè che l'aspettava, per far loro mille domande curiose sulla Germania, sui luoghi, sui costumi, sulle arti, persino su Goethe, Schiller e Lessing, soli autori tedeschi di cui conoscesse il nome e avesse letto qualche opera. Pareva a lui che un tedesco dovesse conoscer tutta la Germania da capo a fondo e ogni fatto, ogni parola de' suoi compatrioti illustri d'ogni tempo. Un altro nome tedesco ricordava, Beethoven. S'informò anche di quello. Raccontò che a sedici anni aveva s entito eseguire da una signora una suonata di Beethoven che gli era parsa piena di voci sovrumane. Povero don Innocenzo! Arrossiva ancora. Gli occhietti chiari di Steinegge scintillavano di contentezza. Rispondeva a tutte le domande del curato con una foga, una parlantina vibrante d'orgoglio nazionale. Edith sorrideva talvolta in silenzio e talvolta faceva, in omaggio al vero, qualche osservazione pacata che garbava poco al curato. A lui piacevano i giudizi assoluti e le pitture esagerate di Steinegge che lo portavano violentemente in un mondo affatto nuovo, affascinante. "Lasci stare via, signorina" disse una volta quasi impazientito. "Mi las ci credere alle belle cose che dice il suo signor padre. Io sono un prete che non ha visto niente, non ha udito niente e non sa niente; mi pare però che debba aver ragione lui." Steinegge al sentirsi dir questo e chiamare signor padre, fu per abbracciarlo malgrado la tonaca nera. Intanto la piccola comitiva era giunta al cancelletto di legno che mette nell'orto della canonica. Don Innocenzo pregò i suoi compagni di entrar a prendere il caffè. Steinegge accettò subito; a lui e al prete pareva già d'esser vecchi conoscenti. Piccina, tutta bianca, a mezz'altezza fra il paesello e la chiesa, ma alquanto in disparte, la canonica di R... volta le spalle al monte e guarda, acquattata nel suo orticello fiorito, i prati che si spandono fino al fiume. L'orto, quadrato, è chiuso da un muriccio lo basso. Dalie e rosai vi fan la guardia, lungo i cordoni di bosso, agli erbaggi e ai legumi. Dietro alla casa ascende il declivio erboso, ombreggiato da meli, peschi e ulivi. Le stanzette sono pulite e chiare. Quelle della fronte hanno un paradiso di vista. Il curato la fece ammirare a' suoi ospiti con grande compiacenza, mostrò loro il suo salotto, il suo studio dove teneva parecchi cocci di tegami preistorici trovati in certi scavi presso il lago e ch'egli stimava un tesoro. La sua segreta amarezza era di non aver trovato alcun ciottolo sì tagliente da potersi onestamente chiamare arme preistorica. Steinegge pigliava grande interesse alle sue spiegazioni che avrebbero fatto sorridere un dotto, perché il povero prete entusiasta si accendeva di ogni novità che penetrasse, per mezzo di qualche libro o di qualche giornale, nella sua solitudine, e su bricioli di dottrina spezzata e guasta tirava su i soliti edifici assurdi del pensiero solitario. Edith preferiva guardare i prati macchiati dalle ombre di grossi nuvoloni, i tetti neri del paesello, quasi appiattiti fra gelsi e noci; a sinistra e più abbasso della canonica, il lembo di lago che di colà si vede, come lamina d'acciaio brunito, mordere il verde chiaro delle praterie. "Che Le pare, signorina, di questa Italia?" disse il curato. "Non lo so" rispose Edith "ne avevo in mente un'altra, più diversa dal mio paese. Ho veduto in Germania molti paesaggi italiani di pittori nostri, ma i soggetti eran presi sempre a Roma o a Venezia o a Napoli. I viaggi di Goethe o di Heine non me li hanno lasciati leggere. Mi vergogno a dirlo; la più profonda impressione me l'ha lasciata un pessimo acquerello, la prima cosa che mi colpì in una casa dove sono stata dodici anni. Rappresentava il Vesuvio e v'era scritto sotto Scene d'Italia. Era come una picco la macchia rossa sopra una grande macchia azzurra. Solo guardando ben da vicino si potevano discernere le linee della montagna, il mare e una barca piena di figure stranamente vestite. Per lunghissimo tempo non ho potuto figurarmi l'Italia né gli italiani diversi da quella pittura." "È naturale" disse don Innocenzo, che entrava avidamente in tutti gli argomenti curiosi di conversazione. "Guardi; a ragazzi d'ingegno molto acuto io non farei mai vedere negli anni più teneri immagine alcuna di Dio né di Santi, perché quelle immagini possono restar loro profondamente, ostinatamente impresse nella fantasia, a segno, in qualche caso, da rendere assai difficile, più tardi, lo sviluppo di una elevata fede religiosa. Quel vecchione barbuto appiccicato all'idea di Dio, aiuta molto, senza che se ne accorgano, il loro razionalismo nascente. V'ha chi diffida del culto dei Santi per non poterli affatto concepire come spiriti puri, operanti nell'universo; e questo in grazia delle impressioni riportate in fanciullezza dalle immagini che li rappresentano spesso brutti e mal vestiti, seduti sulle nuvole a guardar per aria. Non crede, signore?" Steinegge costretto a ragionar di Santi e non osando scusarsene, stava per dire qualche grossa corbelleria; ma Edith si affrettò a parlare. "Pure" diss'ella "se tutte le immagini fossero di Dürer o del Suo Luino! Colla impressione dei sensi resterebbe una impressione religiosa." "Non lo credo, signorina" rispose don Innocenzo sorridendo e arrossendo. Edith indovinò subito il suo pensiero. Ella riconobbe che in Germania il sentimento artistico era retaggio di pochi, ma soggiunse che lo credeva comune in Italia, benché da quando aveva passato le Alpi fossero apparsi più volte indizi del contrario. Don Innocenzo le confessò ch'egli stesso non ne aveva punto. Il suo Luino gli dava sicuramente gran piacere, ma questo gli accadeva pure davanti ad altri dipinti mediocrissimi. "Non sarà così" osservò Edith "ma se fosse così, Le mancherebbe il buon giudizio artistico e non il sentimento. Sarebbe un fuoco senza luce." Don Innocenzo non conosceva la grazia delicata dell'ingegno femminile colto. A prima giunta Edith non gli era piaciuta moltissimo; gli pareva un po' fredda nella sua affabilità. Conversando con lei mutò presto, come sogliono gli uomini della sua tempra, il primo giudizio. Adesso era ammirato di quella sua parola sempre corretta e semplice ma viva di un sentimento riposto, di un'intelligenza molto fine, molto ardita. "S'Ella venisse al Palazzo, signor curato" disse Steinegge "vedrebbe molti quadri, oh moltissimi belli quadri che ha il signor conte." "Ci vado un paio di volte l'anno e mi pare d'averla veduta anche Lei, colà! ci andrei più spesso, ma so che il signor conte non ama molto i preti..." Steinegge diventò rosso; gli dispiacque d'aver provocate queste parole. "Eh" disse don Innocenzo facendosi alla sua volta di bragia "eh, cosa importa? Non li amo neppure io i preti, sa!" "Ah" esclamò Steinegge stendendogli le braccia come se il curato gli avesse dato una notizia più lieta che credibile. "Non si scandolezzi, signorina" continuò questi. "Parlo degl'italiani. In Italia i preti" (don Innocenzo, con gli occhi accesi, co' denti stretti, faceva suonar l'erre come trombe di guerra) "non tutti, ma molti sa, e i giovani specialmente, sono una trista genìa, ignoranti, fanatici, ministri di odio..." "Si capisce che ne fu seminato" disse Edith, severa, mentre Steinegge metteva la sua gioia in gesti. "Lo hanno seminato e lo seminano" rispose don Innocenzo "e ci cresce intorno a tutti, dico intorno a tutti che portiamo quest'abito; e si perdono anime ogni giorno. Basta, basta, basta!" Guai quando il curato toccava questo tasto; la collera gli saliva alla testa, le parole gli uscivano aspre e violente oltre ogni misura. Ad irritarlo così bastava poco: un numero di qualche giornale clericale che il vicario foraneo, gesuita di tre cotte, gli mandasse facendo lo gnorri, con dei segni ammirativi a fianco degli articoli più acri; una lettera fremebonda di qualche collega bandito dalla curia a parole e perseguitato a fatti per opinioni politiche. Allora cominciava a soffiare, a bollire, a ringh iare sinché rompeva tutti i freni con queste sfuriate gagliarde e finiva come aveva cominciato, buttando fuori frasi rotte, invettive stroncate, stritolate dai denti. Si rasserenava poi subito e rideva con gli amici presenti della propria collera. "Non è mica sempre così cattivo. La vede, signorina" disse piano a Edith, in dialetto, la vecchia serva di don Innocenzo, portando via il vassoio del caffè. Edith non capì. "Dice che sono cattivo, ed è purtroppo vero. Non posso frenarmi. Spero che mi compatiranno. Si fermano qualche tempo al Palazzo?" "Non sappiamo" rispose Edith. "Non sappiamo" ripeté a caso Steinegge. "Scusino; è perché spererei di poter trovarmi con Loro qualche altra volta." Steinegge, conquistato, si confuse in complimenti. "Mio amico, io spero" diss'egli stendendo la mano. "Certo, certissimo" rispose il prete, stringendogliela forte. "Ma prima di partire vengano a vedere i miei fiori." Questi famosi fiori erano due pelottoni di gerani e di vaniglie schierati lungo il muro della casa; oltre alle dalie, rosai e ai begliuomini disseminati per l'orto. "Belli, non è vero?" disse don Innocenzo. "Bellissimi" rispose Steinegge. "Prenda una vaniglia per la Sua signorina." "Oooh!" "Prenda, via, andiamo, ch'io non le so fare, no, queste cose." "Edith, il signor parroco..." Così dicendo Steinegge, con la vaniglia in mano, si avvicinò a sua figlia, che stava un po' discosto presso il muricciuolo. Edith ringraziò sorridendo, prese la vaniglia, l'odorò, ne guardò il gambo spezzato, e sussurrò: "Questo è mite di cuore." Don Innocenzo capì. "Ha ragione" diss'egli umilmente. "Oh no" esclamò Edith, dolente d'aver dette quelle parole e d'essere stata subito intesa. "Mi dica, dove sta Milano?" "Milano... Milano..." rispose don Innocenzo schermendosi gli occhi dal sole con la mano destra. "Milano è laggiù a mezzogiorno, un po' verso ponente, dritto oltre quel gruppo di colline." "Signori" gridò la fantesca da una finestra "se vogliono andare al Palazzo, sarà meglio che facciano presto, perché vuol piovere." Piovere! Splendeva il sole, nessuno s'era accorto di minacce. Pure la vecchia Marta aveva ragione. Dalle montagne del lago venivan su certi nuvoloni più densi e più neri dei soliti che il vento meridiano vi porta in giro. "Marta!" chiamò il curato. "Un ombrello per i signori." Steinegge protestò. Marta fece al padrone un cenno che l'ingenuo uomo non intese. "Cosa c'è? Un ombrello, dico!" Marta fece un altro segno più visibile, ma in vano. "Eh? Che avete?" Marta, indispettita, lasciò la finestra brontolando contro gli uomini di talento che non capiscono niente. Poi comparve in orto con un coso verde in mano e lo porse sgarbatamente al curato, dicendogli: "A Lei! Che tolga! Bella roba da offrire! Cosa hanno a dire di noi al Palazzo?" "Cos'han da dire? Che non ne ho altri. Gran cosa! Ecco, quod habeo tibi do." Infatti don Innocenzo aveva più cuor che ombrello. Quello sconquassato arnese di tela verde non ne meritava più il nome. Marta non si tenne da dire piano a Edith: "Ne aveva uno di bello. L'ha dato via. Dà via tutto!" Gli Steinegge scesero per un viottolo che gira nei prati intorno al paese, tocca il lago e risale un poco sino a raggiungere la stradicciuola del Palazzo. Intanto Marta sfogava il suo corruccio col padrone, che rispondeva mansueto: "Ho fatto male? Bene, sì, via, tacete, avete ragione". Egli era contento della nuova amicizia e pensava che per via degli Steinegge gli si aprirebbero forse più spontaneamente le porte del Palazzo secondo il suo vivo desiderio; perché quella casa smarrita fuor del gregge gli stav a più a cuore delle altre novantanove raccolte sotto la chiesa. Il cielo rideva ancora alle spalle degli Steinegge e li minacciava in viso. Ad una volta del sentiero Edith si fermò a guardare indietro. "Vedi, papà" diss'ella sorridendo "andiamo dall'idillio nella tragedia." "Oh, no, no, non c'è tragedia: Drauss ist alles so prächtig Und es ist mir so wohl!" "Ancora ti ricordi le nostre canzoni, papà?" Egli si mise a cantare: Aennchen von Tharau hat wieder ihr Herz Auf mich gerichtet in Freud, und in Schmerz, Aennchen von Tharau, mein Reichtum, mein Gut. Du meine Seele, mein Fleish und mein Blut. Cantava con gli occhi pieni di riso e di lagrime, camminando due passi avanti a Edith per non lasciarsi vedere in viso da lei. Pareva un ragazzo ubbriacato dall'aria odorosa dei prati e dalla libertà. Edith non pensò più alla tragedia, malgrado la faccia scura dei monti e qualche grosso gocciolone che cadeva sul fogliame dei pioppi presso al lago e segnava di grandi cerchi le acque tranquille. Ella fu presa dall'allegria commossa di suo padre. La piova rara e tepida, suscitando intorno ad essi una fragranza di vegetazione, li eccitava. Chi avrebbe riconosciuto la Edith del giorno prima? Ella coglieva fiori, li gettava a suo padre, correva, cantava, come una bambina. Si fermò ad un tratto guardando il lago e cominciò una canzone triste: Am Aarensee, am Aarensee. "No, no" gridò Suo padre, e corse a lei. Ella fuggì ridendo e ripigliò più lontano: Da rauschet der vielgrüne Wald. Si compiaceva che suo padre non le permettesse quella canzone triste e si divertiva a stuzzicarlo. Inseguita da lui continuò fuggendo: "Da geht die Jungfrau". Rallentò la corsa e la voce sulle parole "Und klagt", si lasciò raggiungere prima di dire "ihr Weh" e baciò la mano che le chiudeva la bocca. "Mai, mai, papà" diss'ella poi "sin che mi tieni con te. Non sai che siamo un po' matti tutti e due? Piove!" Steinegge non se n'era accorto. Aperse a grande stento lo sgangherato ombrello verde che brontolò sotto la piova, fra il sussurro dei prati e il bisbiglio degli alberi, sullo stesso tono, presso a poco, della vecchia Marta. Pure poteva esser contento di quello che udiva sul conto del suo padrone. Steinegge singolarmente non rifiniva di lodarne l'aspetto e le parole oneste, a segno che Edith gli domandò se l'onestà fosse tanto rara in Italia. Egli protestò con un fiume d'eloquenza per togliere ogni sospetto che potesse pensar male degli italiani, ai quali professava gratitudine sincera perché, in fin dei conti, erano i soli stranieri da cui avesse ricevuto benefici. Da tutte le sue calde parole usciva questo, che egli non credeva rara l'onestà fra gl'italiani, ma fra i preti. Questa conclusione non la disse, o gli parve, nella sua ingenuità, Edith non l'avesse a capire. S'affrettò di soggiungere che sperava poter vedere presto il signor curato. "Ma, papà" disse Edith fermandosi su' due piedi e fissando i suoi begli occhi gravi in quelli di suo padre "possiamo noi restar qui?" Steinegge cadde dalle nuvole. Non aveva ancora pensato a questo. La felicità d'aver seco sua figlia oscurava nella sua mente ogni pensiero dell'avvenire. Edith, col suo delicato e acuto senso delle cose, dovette ricondurlo dalle nuvole in terra, fargli comprendere com'ella non potesse lungamente approfittare della ospitalità del conte, presa prima che offerta. Disse che le doleva essergli causa di questo e forse di altri sacrifici ancora; e rise dolcemente nel vedere a questo punto suo padre gittar l'ombrel lo ed afferrarle, stringerle le mani senza poter articolar parola. "Hai ragione, caro papà", diss'ella "temo di essere una giovane ipocrita." Allora gli raccontò che quel signore della Legazione prussiana le aveva consigliato di por dimora a Milano, dove c'era una numerosa colonia tedesca molto ricca e legata alla cittadinanza. Affiderebbero a una buona banca il tesoro dei Nibelunghi, come chiamava la sua eredità; ella darebbe lezioni di tedesco e il signor papà vivrebbe come un caro vecchio Kammerrath, col locato a pipare dopo lunghe fatiche. Piglierebbe un quartierino lontano dai rumori, alto se occorre, ma tutto aria e luce. Si farebbe cucina tedesca e il signor Kammerrath avrebbe ogni giorno a pranzo la sua birra di Vienna o di Monaco. Steinegge diventò rosso rosso e diede in un grande scoppio di riso agitando l'ombrello e gridando: "no, ah no, questo no". Edith non sapeva che suo padre era un antico dispregiatore di tutte le birre più famose della gran patria tedesca. Intese quindi male quell'esclamazione e insistette, dicendo che si darebbero ben altri sfoggi d'opulenza. Nelle domeniche della buona stagione si uscirebbe di città, si farebbero delle corse bizzarre attraverso i campi per finire in qualche solitario paesello silenzioso. Chi sa? Se gli affari prosperassero molto, il signor capitano potrebbe tre o quattro volte l'anno uscire a cavallo con la signorina sua figlia. "Tu cavalchi?" disse Steinegge stupefatto. Edith sorrise. "Sai, caro papà" diss'ella "da bambina che passione avevo per i cavalli! Quando i miei cugini imparavano a cavalcare, il povero nonno ha voluto che insegnassero anche a me. Ho imparato subito. Sa cosa mi diceva, quando mi vedeva a cavallo, il mio maestro di musica?" "Tu sai la musica?" esclamò Steinegge ancora più stupefatto. "Ma, papà, non ho mica più otto anni, sai! Mi diceva che si vedeva ben di chi ero figlia. E del mio italiano non mi parli? Sai che l'ho imparato in questi ultimi sei mesi?" Appunto di questo suo padre non s'era ancora ben persuaso; ch'ella non avesse più otto anni. E del vario sapere che veniva sorprendendo in lei si sorprendeva come d'un miracolo, si inteneriva, con quel senso di timida ammirazione che aveva provato insieme alla gioia del rivederla! Povero Steinegge! Al cancello del Palazzo si trasse da banda per lasciar passare Edith e si tolse involontariamente il cappello. "Papà!" disse Edith ridendo. "Che?" Steinegge non capiva. "Ma, il cappello?" "Ah!.... Oh... Sì!" Il pover'uomo se lo ripose in testa, proprio mentre il conte Cesare salutava Edith e le veniva incontro nel cortile col sorriso più benevolo che abbia illuminato una faccia severa.

Brano Tratto da: Milano visione

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Galateo, Antonio 1 occorrenze

*** Una sera dell'anno scorso in una sala superiore della Fiaschetteria Toscana oltre una cinquantina d'amici, fra cui tutta la letteratura militante, salutava Roberto Sacchetti che, chiamato a Torino a dirigere un giornale, abbandonava Milano. Stordito dalla dimostrazione commovente che gli si faceva, Sacchetti ringraziò con parole che avevano ricercato nel fondo del suo cuore la nota dominante della sua vita milanese. Egli diceva di sentirsi oramai fatto milanese; lasciando Milano lasciava la culla della sua matura, ma della sua più bella giovinezza. - Io sento - egli diceva - che con Milano è la mia gioventù che io perdo definitivamente. Io ed un altro dei più vecchi amici colà di Sacchetti, ci guardammo contrariati, intanto che Broglio recitava o leggeva un suo delizioso pasticcio, metà affetto d'amico e metà cronaca del Pungolo. Anche Sacchetti………………………………………………………………. Le parole mi si confondono……………………………………….………….. *** Ho passata la notte fra queste memorie, e quest'alba fredda che sorge è quella che tante volte salutava, febbrilmente intento ancora a finire un capitolo, il mio ottimo Roberto; è l'alba che inspirava a Praga gli ultimi versi tristissimi. *** Mi volto indietro a contemplare questo breve cammino di vita milanese percorso, e questo breve cammino mi pare lungo più che tutto il resto della mia vita. Quanti morti ho lasciato addietro! Manzoni, Rovani, Pinchetti, Tarchetti, Camerini, Praga, Sacchetti. Dio mio! Ce ne sono ancora? Sì: ci sono i morti alla spensieratezza, alla fraterna gajezza d'un giorno. Non parliamone. Seppelliamoci anzi, noi, perchè altri sottentri. Ma quali sono i nuovi venuti? Ahi! Questo è il peggio, non ci conosciamo. In mezzo alla Milano vera che mi ha assorbito, cerco ancor io la mia Milano visione, e non la trovo. Dall'estremo bastione orientale contemplo disegnarsi nel tramonto tutto il profilo gigantesco del duomo. Ricordo la montagna, che, sbucando da un labirinto di vie, mi comparve la prima volta innanzi, nel 1866. Penso all'allegra spianata della stazione, col caffè in legno, con l'altra linea del bastione dinanzi, penso all'entrata maestosa in Milano per Principe Umberto, che mi fece sognare una tale residenza, come una voluttà ineffabile. Penso al rumore che ci si sollevava intorno e all'anelito di ambizione che ci soffocava ad ogni sprazzo di luce che il genio di Milano mandava intorno a sè. Penso infine alla mesta carovana degli ingegni e delle opere che passarono, alle follie, alle risa, alle voluttà - e confondo sognando antichi anni e giorni recenti, Pindaro, Fidia, Apelle, Venere e Frine, e i miei poveri amici, taluni di essi con le loro chiome fulve e brune soffuse ancora nelle pupille moribonde, povere chiome ora pur esse vinte dalla suicida ebbrezza giovanile. Quanti, quanti caduti! E dal bastione dell'estremo oriente di Milano discendo alle vecchie ortaglie. Ivi i miei buoni amici giuocano schiammazzando alle boccie, e birrichine voci femminili fra pianta e pianta ombreggiate, notano i punti. O giovinezza! primavera! amore! Cadano sui sepolti e sulle sepolte le foglie delle rose! *** E il cieco brancolando sulla soglia Della contrada - smarrirà la strada Come uom che sogna... Tale, fra tante memorie, smarrita rimane l'anima mia. L'alba, si è accentuata: - sopravviene l'aurora. Sul piazzale della stazione, sgombro delle antiche catapecchie in legno, si fa innanzi una nuova locomotiva che traina alla Esposizione vagoni e vagoni di merci. La riga fantastica del fumo passa sulla linea dell' antico bastione. - Le case nuove si assiepano. Gli alveari di piazza del Duomo sparirono e non resta nemmeno più l'eco della poesia di Fontana. Esco all'invito del mattino, mi addentro per cento vie, incontro amici vecchi e amici nuovi, e vado, e vado ancora cercando e non trovo. - Ahimè! Frammezzo alla fastosa realtà che mi circonda, quello che io cerco, quello cui sempre anelo con la memoria e con la fantasia, - si è la mia visione, - e al martellare insistente di una ideale campana che nel suo rombo risente della merlata linea longobarda vibrante di patrio entusiasmo, mi si rifà nella immaginazione ciò che non trovo, e vagheggio, e auguro, e spero : - il convegno placido della intelligenza, il porto delle giovanili frenesìe, dome alla battaglia della vita; il fragoroso plauso e il decoroso compenso, la fratellanza nello studio e nell'arte, la generosa, la bella, la incantata e incantatrice spensieratezza giovanile, e fra, le bufere e le ombre, fra i nocchieri intenti e le ciurme travagliate, fra i naufraghi e i sepolti, - il faro ampio, inestinguibile, di luce serena, il luminoso, aereo pinnacolo bianco, fra la sterminata vaporosa pianura dai lembi dorati.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

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Praga, Emilio 2 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Egli non fu sorpreso di trovarla in quel soave rifugio dove egli dava da quindici anni convegno ai sogni della sua gioventù; e si abbandonava alle vaghe carezze della fantasia. La fantasia fu la galeotta. Egli non seppe mai bene ciò che gli accadesse colà. La realtà si perdette nei limbi profondi di un misticismo inebbriante. Il pietoso inganno per cui la povera Rosilde fe' sagrificio di tutta sè stessa, non sarebbe mai svanito se non erano gli sciagurati avvenimenti di questi giorni. I loro ritrovi, liberi di ogni estraneo ritegno, presero una intonazione assai più ardente. Quando Rosilde arrivava per sentieri remoti e veniva a sedersi presso di lui, spesso chinava il bel capo sulle sue ginocchia e passavano delle ore in silenzio, oppure ella narrava del teatro, gli raccontava le favole da lei eseguite. Una fra l'altre aveva la preferenza. Quella del poema di Guarini, che era stata la sorgente del suo primo successo a Venezia. Ella si godeva di ripeterne le scene gentili: di fingersi Silvia e chiamare Aminta il suo compagno. La funesta fantasia la sedusse al punto che un giorno tirato fuori dal suo baule il costume in cui aveva sostenuta la parte della ninfa - ella lo teneva sempre come ricordo - lo recò alla Carbonaia prima dell'ora del ritrovo, e indossatolo quando Luigi venne a sedersi sotto le querele centenarie, ella sfilò in mezzo alle macchie, e gli si presentò in quella foggia, col gonnellino azzurro, i biondi capelli intrecciati di rose bianche e coperti di un lungo velo sottilissimo, bella, affascinante, smagliante di amore. Al povero uomo parve una visione, egli cadde sbalordito, delirante ai suoi piedi. Da quel giorno essi non vissero più su questa terra. In casa non si incontravano quasi più: Rosilde, per convenienza non erasi mai seduta alla mensa del presbiterio. Ella evitava con cura di lasciarsi trovare in giardino: temeva i confronti, voleva che la sua gioia fosse fuori della vita, lontana dal reale, immensa, senza limiti. E tal fu per due mesi, in cui il povero Luigi spesse volte si sentì venire meno dinanzi all'altare e visse come rapito in un sogno. Egli non viveva più veramente che alla Carbonaia, dove dimenticava la vita, dove obblioso del suo cielo muto, impassibile egli trova un paradiso di delizie ardenti. La povera Rosilde fu la prima a risvegliarsi - e pur troppo toccò a me il tristo ufficio di richiamarla alla triste realtà. Un giorno ch'io mi recavo al Fontanile la incontrai per istrada: dapprima parve volesse cansarmi, - ma poi mi venne incontro ella stessa e mi accompagnò per un buon tratto. Le chiesi della sua salute con premura. - Benissimo, rispose, ma impallidì un poco. L'esaminai attentamente, le feci qualche altra interrogazione. Sembrava avesse a dirmi qualcosa e non ardisse. Allora presi il suo polso fra le mie mani, la costrinsi con delle violenze a levare la fronte, le fissai uno sguardo penetrante negli occhi. Una febbriciuola le serpeggiava per le vene: le sue palpebre avevano dei toni lividi. Il mio sospetto si mutò in certezza. - Povera amica mia, sclamai con accento di dolore e di sorpresa. Ella capì, diventò smorta come fosse di cera e mormorò: - Lo sapevo ... Mi parve intravvedere nel tono della sua voce subitamente risoluta, una così profonda disperazione che mi sgomentai e per un pezzo non seppi trovar parola. Ma quando ella mi porse la mano per congedarsi le dissi con tutto il calor dell'amicizia ch'io avevo per lei: - Rosilde, badate ad avervi cura ... promettetemi di aver confidenza in me. Qualunque cosa vi occorra - ricordatevi del vostro amico. - Io ripasserò a prender vostre nuove. Chinò il capo distrattamente e ritornò indietro frettolosa. Due giorni dopo ripassai da Sulzena e chiesi di lei: era sparita. Ma prima che la settimana finisse una sera per un caso stranissimo, fui dal sospetto di un tentativo funesto condotto in una casupola del sobborgo qui di Zugliano e vi ritrovai Rosilde. Ella s'era posta nelle mani di un'empirica per troncare le conseguenze del suo fallo. La rampognai vivamente. Ella per un po' stette chiusa, negò, ma le vedevo la triste risoluzione negli occhi. Mi incollerii e mi lasciai sfuggire qualche parola contro Don Luigi. Allora, vedendo che io conosceva il suo segreto, mi si buttò piangendo ai piedi, e mi scongiurò di non tradirla, di rispettare la pace dell'uomo per cui ella stava morendo. - Egli non sa nulla, mi disse torcendosi le mani, non sa nulla ..... io sola ..... io sola ..... E la piena della emozione le mozzava le parole. Era angosciata; le chiesi perdono, la levai da terra, cercai di calmarla, di dissipare i suoi timori, di farle coraggio, di prendere con leggerezza la cosa. - Giuratemi, disse, ch'egli nè altri non saprà mai nulla. La guardavo sorpreso. - Ella mi afferrò le mani e mi guardò supplichevole in modo ch'io mi affrettai a prometterle tutto quel che voleva. Sedette, chinò la testa stanca sul petto ansante e pianse lungamente, angosciosamente. Mi alzai. Ella si riscosse, e mi pregò di rimanere. - Debbo dirvi, soggiunse, com'è stato, voi non dovete sospettare che di me ..... Allora ella mi narrò le deplorevoli vicende che erano seguite dopo il nostro ultimo colloquio sulla strada del Fontanile. Già da alcuni giorni ella aveva avuto presentimento della disgrazia. Le mie parole le avevano tolto le ultime illusioni. La buona creatura, al primo affacciarsi della terribile certezza, aveva subito pensato: - che si dirà di lui? Ella non si inquietava di sè, della sua vita, della sua salute, ma della riputazione di lui - povera martire! Ella che aveva voluto dargli la gioia, si trovava repentinamente di fronte alla probabilità di nuocergli. Questo pensiero la disperava. Ella fargli del male? ella rovinarlo? - lo vide colpito dalle dicerie dei malevoli, dallo scandalo, dalle condanne della disciplina ecclesiastica, che si immaginava crudele, implacabile, e disse a sè stessa: - orsù, tu hai fatto il male, e tu devi scontarlo: ma come? Il come si affacciò con una orribile limpidezza alla sua mente: sparire colle prove che accusavano il suo Don Luigi. - Ella non arretrò: - ebbene, disse colla calma della disperazione, sparirò. Ma per lei, senza mezzi, in quello stato, sola al mondo, senz'altri parenti che la Mansueta, la quale non doveva saper nulla, lo sparire, equivale a morire. Vide la necessaria conseguenza della risoluzione e l'accettò tutta quanta. Riunì le sue robe migliori e venne a Zugliano, si pose in casa di una lavandaia che aveva conosciuto quando stava qui con noi. Ella era risoluta di morire - ma non poteva andare lontano, eppoi temette che il suicidio non facesse rumore, e questo ella non voleva per niun conto. Così si apprese al mezzo che mi condusse a scoprire il suo rifugio. Io cercai di confortarla dicendo che si sarebbe potuto riparar tutto, evitare i sospetti. Ella non vi pensava; ma mi ringraziava e mi scongiurava: - fatelo per lui - egli è innocente ... io sola ... io sola ... Venni da lei qualche volta nei giorni seguenti, - ma dovevo usare molte precauzioni per non suscitar le ciarle così micidiali della provincia. E una sera non la trovai più. La donna che l'aveva ospitata mi disse che era andata con un uomo di cui non mi volle dire il nome. Seppi poco dopo ch'ella viveva quasi matrimonialmente col De Boni in una cascina poco lontana di qui e che non faceva mistero alcuno della sua sciagurata condizione. A tutta prima questa notizia mi rivoltò contro di lei, e mi ispirò dei giudizi che poveretta non meritava davvero ... ma il cuore mi diceva che Rosilde non era la donna volgare che allora sembrava a tutti, che nella sua repentina arrendevolezza ci doveva essere un perchè non ordinario, - mi diceva il cuore che doveva essere qualche nuovo sagrifizio. Diffatti! ..... Io non potevo per diverse ragioni approfondire la cosa: fra l'altre il timore di adombrare il De Boni, così permaloso. Ma circa sette mesi dopo venne egli stesso a cercarmi e mi condusse nella stamberga dove aveva nascosto, come un lupo la sua preda, la povera Rosilde e dov'ella era agonizzante. Egli mi fe' visitare la donna e s'informò da me minutamente del suo stato e delle origini di esso. Mi tenni sulle generali - uno sguardo supplice dell'inferma mi aveva messo sull'avviso. Tornai da solo l'indomani. Appena mi vide mi trasse vicino e mi disse sommessamente: - Son sicura che voi non avete detto nulla al De Boni: ma perdonatemi, ho bisogno che me lo promettiate solennemente ... egli deve credere quello che voglio io ..... Mi ritrassi vivamente e la guardai con isgomento. Avevo intravveduto il suo disegno. Frode orribile ed ammirabile! La sua abnegazione mi schiacciava; non sapevo se doveva rimproverarla o benedirla. Era una cosa enorme. Ella aveva trovato sette mesi prima, mentre dimorava dalla lavandaia, il De Boni un giorno che errava forsennata per la campagna cercando con continua e disperata cura una morte certa e completa. L'omaccio l'aveva perseguitata altra volta e qui, quando stava con noi e a Sulzena dove si recava tutte le settimane. Egli aveva per lei una di quelle sue feroci concupiscenze che sapete per il caso della povera Gina. Il luogo era solitario. Quella bestiaccia si lanciò su lei, le attenagliò il braccio e le disse balbettando: - Bella ragazza, lasciate ch'io vi faccia un bacio. Rosilde alzò di terra il suo occhio smarrito e rispose con un'occhiata - un'occhiata aguzza di lince alla sua d'orso furioso. Un pensiero, tutto un progetto le si era affacciato alla mente ad un tratto. Per sopprimere i sospetti sul fatto di Don Luigi, ella meditava di uccidere sè stessa; ora aveva trovato un mezzo più sicuro; uccidere la sua riputazione. La maldicenza che avrebbe cercato i motivi del sagrifizio, sarebbe indotta nell'inganno dalla finta dissolutezza. Per questo ella aveva quasi ostentata la sua relazione col De Boni. Chi può sapere quel che l'infelice abbia sofferto in quei mesi! Fissa nel suo divisamento essa non tentennò un minuto: i maltrattamenti dello sciagurato non valsero a smuoverla; anzi servivano di scusa alla sua frode, a darle un acre sapore di vendetta. Ella persistette sino alla fine, fino alla morte ... Era riuscita ad acquistare una certa influenza su quella belva; a dominarlo ad intervalli col desiderio. E se ne giovò per strappargli delle confessioni scritte di una paternità supposta. Quando egli andava a Sulzena, gli scriveva fingendo una subita disperazione del suo stato ed esprimendo l'intenzione di sottrarsi alla vergogna di cui mostrava grande paura. Egli, imprudente, che non poteva rassegnarsi a perdere quest'insperata avventura, le rispondeva qualche volta ed ella conservava le lettere. S'era informata e sapeva che potevano servire come principio di prova legale. Quando ebbe finito il suo racconto, il sentimento del giusto si sollevò in me. - Rosilde, amica mia, le dissi con una certa severità, quel che fate non istà bene, e io non posso in coscienza farmi complice vostro. Il suo viso si contrasse paurosamente, - il pensiero ch'io potessi distruggere l'edifizio con tante pene innalzato, la mise alla disperazione. Mi guardò cupamente e disse: - Ebbene io mi ammazzerò e finirò ogni cosa ... E alzatasi repentinamente con una vivacità di cui non l'avrei creduta capace, sbattè il capo nel muro due o tre volte prima ch'io potessi trattenerla. Riuscii, con stento, a calmarla. È inutile dire che le giurai di tacere. Però qualche ora dopo, cercai d'intenerirla con altre ragioni: le parlai della creatura che stava per nascere: le feci presentire ciò che avrebbe avuto a soffrir dal De Boni a cui ella lo imponeva. Strano! ella non aveva mai pensato al frutto delle sue viscere! Fu tocca dalle mie osservazioni: - si raccolse dolorosamente; lagrime cocenti le sgorgarono dagli occhi. Ma subitamente si rasserenò e mi disse: - Ebbene voi siete buono, ci penserete un po' voi a difenderlo. Fu la prima volta, credo, che parlasse di suo figlio che nacque quella sera stessa. Ma in quegli ultimi giorni della sua vita se ne occupò assiduamente e lo raccomandò a me ed alla Mansueta che le avevo condotta. La vigilia della morte, disse a Mansueta di porgli nome Aminta, nell'agonia essa pensava ancora alla Carbonaia! Volle rivedere Don Luigi: il suo occhio moribondo si spense in uno sguardo di amore per lui! ... Il dottore fu ancora lui a rompere il silenzio e disse ad Attilio: Signor avvocato, se avesse veduto la Rosilde in quei tali momenti avrebbe promesso come me di non funestare la vita dell'uomo ch'ella ha tanto amato. Quanto a Don Luigi è superfluo dirle che egli, appena sospettò i vincoli che lo legavano ad Aminta mise a repentaglio la sua pace, per sottrarlo alle torture del De Boni. Attilio era commosso quanto me. Egli disse che era persuaso e che non avrebbe tenuto conto della calunnia del Sindaco. Io partii quella stessa sera per Milano e l'indomani cercai un avvocato per il povero Beppe. Il dibattimento si fece due mesi dopo alle Assise di Novara, ed io assisteva. Beppe fu assolto. Quando lo rilasciarono in libertà, gli andai incontro gli chiesi: - Non siete contento? - Non so cosa mi faccia, rispose, non ho più nessuno ... e si guardava attorno smarrito, come un uomo che non sa raccapezzarsi a vivere. Partì quella stessa primavera per l'America e non seppi altro di lui.

Vita letteraria

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Sacchetti, Roberto 1 occorrenze

artista sempre, abbandonava lui primo la causa dell'autore! mentre la burrasca imperversava in teatro e gli attori rientravano barcollanti, sbalorditi dagli urli e cacciati dai proiettili lanciati dalla platea, Praga si contorceva dalle risa, e pigliava uno spasso infinito dal comico della propria disgrazia; non serbava rancore al pubblico anzi gli acquistava stima per lo spirito che aveva dimostrato accoppando il suo aborto. Fallito il tiro, ne mulinava un altro. Una volta fece, in collaborazione con Arrigo Boito, una commedia, intitolata, credo, Le madri galanti e fu recitata al Carignano di Torino da una compagnia la cui prima donna era analfabeta e bisognava metterle in gola la parte. I due poeti confidavano tanto nel successo che avevano portato con sè, per la rappresentazione, le loro famiglie. Subito al primo atto scoppiò il finimondo. Arrigo Boito, bravo fino alla temerità s'era avanzato tra le quinte più sulla scena, e là, le mani nelle tasche dei calzoni, una sigaretta sfatta tra le labbra sottili, gli occhi aguzzi luccicanti dietro gli occhiali, ritto, impassibile sfidava l'uragano. Praga venne a prenderlo per il braccio dicendo: « Vieni, Arrigo, prima che ci accoppino » e discesero al vicino caffè del Cambio e cenarono allegramente mentre a due passi si faceva della commedia l'estremo scempio. Però mi ricordo che Praga conservava una particolare tenerezza per questa commedia e non diceva, come dell'altre sue, « era una famosa porcata, » ci aveva messo mano il suo Arrigo, per il quale ebbe sempre una devozione fraterna e un'ammirazione senza limiti. Gli amici, ai quali raccontava i particolari buffi dei propri rovesci, sanno che non perdonò mai al pubblico della Scala la condanna del Mefistofele e dopo sei anni il suo sdegno per quel sacrilegio aumentava ancora. Non sapeva rider bene che di sé stesso. Emilio Praga scrisse parecchi libretti per musica, e in questi soventi lo aiutò il Boito, perché il poeta delle Penombre capace di passare una notte intorno al congegno di una strofa, non poteva assolutamente far cosa che richiedesse l'attività continuata e regolare di qualche settimana. Respinto dal teatro si rivolgeva al giornale: aveva nella stampa degli amici dispostissimi a pubblicare qualunque cosa sua, perchè gli volevano bene e perchè il suo nome era pur sempre un valore. Si metteva con ardore a imbastir novelle e racconti per appendice ; era sicuro del fatto suo, avrebbe guadagnato tesori, ci contava, e ne disponeva: offriva generalmente a' suoi più intimi a Boito, a Fontana, a Torelli di collaborare con lui ; un giorno ch' io ero in angustie mi propose candidamente di fare insieme un romanzo per lettera come fosse una miniera da scavare. Lui scrisse la prima lettera; io passai la notte a far la seconda, se la pose in tasca e non se ne parlò più. Il mestiere non era cosa per lui; l' arte ci s'infiltrava a sua insaputa, ci metteva, come dissi, troppo del suo, gli costava più fatica delle sue liriche migliori, e tirati i conti questa pretesa letteratura alimentare non serviva che ad alimentare le sue illusioni. In quindici anni menò a fine, credo, due novelle pubblicate dal Pungolo nel 1867 cominciò nell' appendice della Platea un romanzo, le Memorie del Presbiterio Alla settima appendice il romanzo fe' una sosta: il giornale morì e Praga vendette il romanzo incominciato al Pungolo Per nove anni di seguito ad ogni Natale egli portava al Fortis lo scartafaccio e ne riceveva una cinquantina di lire, poi passato il primo dell' anno lo ritirava per finirlo, l'allungava d' un paio d' appendici e lo lasciava lì. Veniva una cosa ineguale, stravagante, stiracchiata dalle idee più lontane e diverse, ma ricca d'immagini, di pagine splendidissime; l'intreccio gli si arruffava sotto mano sempre più: e lui si compiaceva di smarrirsi in quel labirinto di poesia. Quando era in angustie si risolveva ad un tratto d' uscirne. Avesse campato cent'anni non ne sarebbe mai venuto a capo. Voleva ch' io lo aiutassi a sbrigarsene alla peggio: poi lo diede a Ferdinando Fontana, e questi, quando il nostro povero amico morì nel novembre del 1875, restituì lo scartafaccio sempre monco al Pungolo Anche I. Ugo Tarchetti collocava i suoi romanzi nelle appendici del Pungolo ed era riuscito ad averne trecento lire caduno. Se la tisi e il tifo non lo avessero ucciso a ventinove anni, ora glieli pagherebbero tre volte tanto. L'uno e l'altro ebbero indole schiettamente ed esclusivamente poetica, furono i temperamenti più refrattari agli inviti della realtà. Pure incontrarono sovente le buone occasioni ; perchè Milano è un mercato letterario dove, seguendo le leggi della domanda e dell'offerta, si può procacciarsi colla penna una discreta posizione; lo scrivere non è qui, come altrove, una mania solitaria, ma una professione riconosciuta e quasi regolare. E se il compenso non è tanto, ciò dipende dalla poca estensione della coltura in Italia, dalla scarsità del pubblico che legge e dalla nessuna espansione della nostra lingua all'estero. Ma sarebbe ingiusto l'ostinarsi in un pessimismo senza fondamento, mentre le condizioni dei letterati vanno rapidamente migliorando. A Milano hanno conquistata una decorosa agiatezza Salvatore Farina, Giuseppe Ghislanzoni e altri parecchi; a Milano mandano i loro scritti Ruggero Bonghi, De Amicis, Bersezio, Carducci, Guerrini, Verga, Capuana, quasi tutti i veri scrittori italiani, e sono bene accolti e discretamente retribuiti. * Risolta la quistione dei mezzi di sussistenza, lo scrittore trova qui ogni maniera d'incoraggiamenti e di conforti. E prima la notorietà facile e pronta. Giovanni Verga aveva pubblicato a Torino, a Napoli, a Firenze parecchi racconti senza che il suo nome fosse uscito dalla cerchia de' suoi amici; nel 1873 venne qui, diede al Treves i manoscritti dell' Eva e della Storia d'una capinera e pochi giorni dopo le due maggiori case editrici milanesi si disputarono i suoi romanzi. Luigi Capuana, scrisse per degli anni stupende rassegne settimanali nella Nazione di Firenze, quando Firenze era la capitale, e fuori nessuno lo conosceva: soltanto la sua grande sincerità gli aveva attirato le inimicizie e i sarcasmi solitari di qualche autore impermalito; ebbene ora scrive nel Corriere della Sera e tutti i giovani colti sanno che il Capuana è il più dotto, il più pensatore, il più coraggioso e sincero critico letterario che abbia l'Italia. Milano è finora la sola città nostra dove ci sia un vero pubblico la classe colta coi novantamila italiani delle diverse regioni vi formano un tutto omogeneo, armonico, che vibra e risponde tutto insieme, ad un tratto alla stessa commozione, alla stessa provocazione. Basta un titolo felice, un tratto di spirito, una parola opportuna, un aneddoto piccante, un'arguzia, magari una sciocchezza un po' gustosa per indicarvi all'attenzione di tutti ; uno è subito conosciuto per quel che merita e si può spendere per il suo valore. Certo queste notorietà durano quel che possono durare; vi sono delle glorie d'un anno e delle riputazioni d'un giorno: il pubblico spazza e butta i cocci che gli hanno dato tutto il diletto che contenevano; però è un gran bene quello di non dover lottare e languire nell' indifferenza, di non dover profondere un tesoro di vergini forze nei tentativi sterili, ignorati; il poter misurarsi col giudizio del pubblico, il potente interrogare dà agli spiriti timidi, agli intelletti schivi una giusta misura della propria capacità li rinfranca, li preserva dalle divagazioni solitarie, dagli smarrimenti che avviliscono. La facile notorietà non può far male che ai vanesi, i quali, perchè un bel giorno si sono spinti a galla, credono di poterci rimanere. Milano crea delle riputazioni effimere, ma non dimentica le meditate. Il nome di Manzoni non ha perduto raggio della sua apoteosi; tutti gli anni al 23 di maggio una folla riverente visita la palazzina in via del Morone. Il nome di Carlo Cattaneo conserva tutta la sua autorità; quello del Rovani è pronunziato in tutte le discussioni artistiche : i giovani ricordano con tenerezza Praga e Tarchetti. Al Cimitero monumentale, ne' giardini rialzati c'è una colonnetta mozza con l'epigrafe: Qui giace un poeta e il poeta che giace là è l'autore della Fosca Un brav' uomo di custode mi diceva l'anno passato: Chi insci gh ven semper gent, di giovin, di donn e ghoo vist de quii bei dolor!... Milano, profondamente ignara di quanto accade fuori del dazio, conosce bene tutti i suoi e predilige in particolar modo gli artisti : questa bohême di principi del pensiero, che hanno l' aria di amare l'incognito, ha una grande ansietà, anzi un bisogno assoluto e continuo della pubblica attenzione. Praga, più ingenuo e più sincero di tutti i suoi confratelli diceva: « Io bacerei chi mi loda; » la lode è la vera rugiada dell' ingegno. Qui lo scrittore trova non solamente degli stimoli e dei compensi ai travagli dell'ingegno ma anche dei sollievi continui per la vita d'ogni giorno; una schietta bonarietà, una sincera illimitata indulgenza per le sue ineguaglianze di condotta, per le sue inevitabili incoerenze per le sue necessarie stravaganze di artista. E, quando egli lascia questa città, s'accorge, per la dolorosa esperienza del contrario, come gli fosse necessaria questa amorosa, questa benedetta tolleranza lombarda, e quanto conferisse alla feconda operosità del suo spirito. In nessun altro luogo come qui si combina l'attenzione con la tolleranza; il rispetto con l' indulgenza. Oggi voi fate un marrone, un' imprudenza, e tutti vi gridano la croce addosso: stringetevi nelle spalle, lasciate passar l' uragano ; l' indomani nessuno vi rinfaccia più l'errore della vigilia, qualcuno lo rammenta scherzando, i più lo dimenticano; fate qualcosa di buono e tutti daccapo a ricantare le vostre lodi, tutti premurosi a ridonarvi la considerazione di prima, a risarcirvi dello strapazzo inflittovi momentaneamente. Eppoi nessuna rigidezza aristocratica, nessuna sciocca burbanza borghese: qui tutte le persone educate si conoscono, formano una società sola dove gli artisti non solo sono ammessi ma godono di particolari immunità e si perdona loro volentieri qualche infrazione alle leggi della moda e delle convenienze. Tutti, uomini politici e uomini di affari, nobili e borghesi, avvocati, banchieri, impiegati ricercano la compagnia degli artisti, degli scrittori, dei giornalisti, s' interessano alle loro passioni, si riscaldano alle loro discussioni, vengono ogni sera a pigliare una scintilla alla fiamma sempre viva dei loro ideali, a interrompere la monotonia delle proprie faccende con la cronaca delle loro eccentricità, a ritemprarsi nella loro giovialità schietta e rumorosa. Basta che due di loro si trovino alcune sere di seguito al caffè, alla birreria, alla fiaschetteria perchè tosto si formi intorno ad essi un crocchio composto de' più svariati elementi. In qualche altra città, dove pure la vita artistica prospera e cresce da parecchi anni, gli artisti fanno società a parte. La società che s'intitola da sè stessa la buona società, si degna bensì di ricorrere al loro spirito per interrompere la noia sempiterna delle proprie futilità; ma solo di tanto in tanto, in giorni determinati, giorni di saturnali nei quali ci si permette una certa mescolanza, e in luoghi neutri di dove si esce senza impegni ulteriori : ed anche lì gli artisti si chiamano per precauzione col titolo cavalleresco, ne hanno oramai tutti qualcuno, si antepone al loro nome illustre, la volgarità di un cavaliere, commendatore magari avvocato ed essi hanno la bontà di prestarsi a questa mascherata umiliante, di accettare un formalismo perfettamente grottesco. A Milano non si commette la ridicolaggine di chiamare il conte Maffei, il cavaliere Boito, il cavaliere Ponchielli, il cavaliere Verga. Si dice Boito, Verga .... e si crede di dir molto. Conversazioni esclusivamente letterarie, come a Firenze, non ce ne sono: ma la letteratura non è esclusa mai. Nelle sale della Krammer, in quella società squisitamente mondana s'incontravano Guerzoni, Giovanni Visconti Venosta, Verga, Navarro della Miraglia, la signora Torelli-Viollier più nota col pseudonimo di marchesa Colombi, la signora Speraz (Bruno Sperani) ed altri. Alle domeniche di Cesare Cantù in via dei Morigi ci vanno medici, avvocati, professori d'ogni scienza, il nipote Celso, ufficiale dei bersaglieri ci porta qualche volta dei compagni d'arme, ci vanno delle giovinette, delle mammine, e delle nonne venerande, e tutti si trovano bene nella compagnia degli accademici più laureati. Nel celebre crocchio della contessa Maffei tutte le arti hanno oramai delle tradizioni, perchè da quasi mezzo secolo quei due salottini modesti e ricchi di preziosi ricordi hanno ospitato tutte le notorietà italiane e tutti gli stranieri distinti che sono venuti a Milano. Nel 1835 c'è stato il Balzac; egli ha dedicato alla contessa Clara Maffei uno dei suoi più squisiti lavori La fausse maîtresse e le ha mandato poi le bozze corrette di un altro suo racconto; era, dice lui stesso, il regalo che serbava per i suoi intimi. In que' due salottini sono passate d'allora in poi le generazioni d'illustri che ci hanno lasciato qualche scintilla del loro genio, qualche fine parola, qualche arguzia profonda, qualche aneddoto piccante. La loro memoria è colà viva e famigliare la signora li rammenta con un dolce e tranquillo rammarico come fossero parenti perduti da molti anni. Però questo cumulo di passato non opprime il presente: la conversazione non vi è punto invecchiata, si rinnova sempre e comprende e rispetta e favorisce le idee nuove. Uomini diversissimi per animo, intelletto, occupazioni, divisi nel terreno dell'arte, della scienza, delle convinzioni, degli interessi, s' incontrano in casa della contessa e diventano garbati fra loro, quasi cordiali. Molti non si parlarono mai altrove che fra quelle pareti; fuori di là non si conoscono più. Il ricevimento degli ospiti distinti avviene senza preparativi, senza cerimoniale, senza le solite freddure plebee, colle quali anche in molte case per bene si disgustano gli amici più cari per far la corte al personaggio. Non si offende la modestia nè l'amor proprio di nessuno; ci vanno dei giovani, dei ricchi signori, di quelli che vivono del proprio lavoro, e sono tutti ricevuti allo stesso modo ; nemmeno si annunzia ; entrate e la signora vi porge la mano con una bontà sempre uguale per tutti e vi presenta a quelli che non conoscete. Certe sere trovate la marchesa Visconti, e la Tessero, le nipoti di Manzoni e qualche povera musicista venuta a Milano per tentare un concerto. La presentazione in casa Maffei non implica alcun formalismo, alcun vincolo; la contessa riceve ogni giorno dalle due alle cinque e poi dalle otto alla mezzanotte invariabilmente tutto l' anno salvo tre mesi di estate : ci andate quando volete ; non si è tenuti nè a visite periodiche, nè ad assiduità impossibili. Molti, distolti dalle occupazioni non ci vanno che un paio di volte l' anno: ma l'ultima sera dell'anno tutti i suoi conoscenti ci vanno non fosse che un minuto per augurare alla contessa tutte le prosperità che si merita e a quel suo crocchio gentile un altro mezzo secolo di vita. Colla morte del Tarchetti, del Rovani e di Emilio Praga che in diverso modo e con diversissimi intenti rappresentarono la lotta contro l' indifferenza e il pregiudizio, si sciolsero i tre crocchi che si raccoglievano intorno a loro. Iginio Ugo Tarchetti morì nel 1869. Giuseppe Rovani l'ho visto una volta sola al caffè Gnocchi, nel gennaio del 1874 pochi giorni innanzi che si mettesse in letto dell'ultima malattia: disfatto, appena l'ombra, mi dissero, di quel ch'era stato; pure quel viso accigliato e accidioso aveva ancora uno strano fascino di simpatia e quell'occhio ottenebrato de' baleni che non dimenticherò mai. Alla fine di quel mese in una triste giornata invernale che veniva un' acquetta gelida e penetrante l' accompagnammo accompagnammo al Cimitero Monumentale. C'era anche il Praga, il quale mi ricordo fece una scenata che poteva aver conseguenze, perché un tale recitando l'elogio sulla bara del defunto voleva con l'esempio d' Orazio scusarne « le classiche voluttà dell' intemperanza » e lui, infuriato, si mise a gridare : te voeut fenilla, o asen! Per fortuna il discorso era finito davvero, portavano il feretro nel Famedio, tutti si movevano e l'oratore non intese l'apostrofe. Emilio non ammetteva che si dicesse di uno che aveva il vizio di bere, neppure per iscusarlo. Il povero Praga allora in un periodo di serenità, l' ultimo che abbia avuto, voleva persuadermi e certo era riuscito a credere egli stesso d'essere un uomo ordinato, sobrio, d'abitudini regolari e casalinghe. Teneva la cattedra d'estetica drammatica al Conservatorio di musica - misera cattedra che gli fruttava novanta lire al mese! - e in quel tempo passavamo insieme quasi l' intera giornata; ma lui ad ogni momento, a proposito d' ogni appuntamento ch'io gli chiedevo: « Aspetta che pensi se non è giorno di lezione. » Aveva scritto - e scriveva - un dramma in versi intitolato Altri tempi cinque atti lunghi lunghi, e carezzava amorosamente lo scartafaccio voluminoso. Lo leggeva volentieri a tutti, la sera in quel suo salotto decorato all'antica con mobili Louis XV al lume tremolante d'un candeletto e come la fiammella anche la sua voce aristocratica dolcemente blesa aveva delle incertezze fantastiche, affiochiva di quando in quando, s'addormentava in un mormorio che dava una malinconia profonda e nessuno ardiva interrompere. La sua bella mano si smarriva allora in un gesto vago, come l' ala spossata di una rondine che ripiega il volo: poi ad un tratto egli la portava vivamente alla fronte, se la passava sul viso e, con una facezia meneghina, rompeva l'incanto. Si trattava di un soggetto spagnolo quanto mai, un intrigo di uno studente, di Salamanca intende, con la figlia d' un conte, superbo come un ragno, fiancheggiata della indispensabile duena e il dramma aveva lieto fine. In mezzo a questo polveroso arsenale di logora scenografia, l'autore che a poco a poco s' era innamorato dell'opera sua aveva messo qua e là della vera e splendida poesia; la bizzarra e briosa ispirazione ispirazione rinchiusa in quella bottega di rigattiere, fioriva i davanzali di rose fresche ed odorose. C'era poi una buona vena di comico due personaggi figli prediletti di quel suo umorismo dolce e malinconico, un vecchio zio mezzo scemo o, come il Praga avvertiva, spiritíco; poi un Pilade gobbo, maniaco di classicismo e ubriacone convinto, il quale ne faceva di cotte e crude e quando l'autore s'accorgeva dai nostri occhi che i tiri birboni e le stramberie del suo originale passavano il segno s'affrettava a soggiungere: Te set l'è goeub Con quest'immagine di disunità fisica ch'egli coloriva incurvando le spalle, ribatteva e preveniva tutte le nostre obbiezioni. Venuta la bella stagione trovò un'ortaglia vicino a Monforte, dietro il palazzo Cicogna e là, dopo pranzo, si passava qualche ora allegramente a giocare alle boccie o a fare una partita di chiacchiere in compagnia d'artisti, bravi giovani sempre cordiali e sempre di buon umore. A due passi dalla Prefettura, a dieci dal Corso Vittorio Emanuele, pareva d'essere in fondo a una campagna remota. Alcuni vecchi alberi bellissimi che forse una volta appartenevano al parco del palazzo vicino avevano, là dimenticati, disteso i loro rami da tutte le parti e per questo piacevano all'autore dei Paesaggi che trovava in quella libertà di fronde una certa somiglianza con la immaginosa abbondanza del suo stile. C'era a completare la scena campestre una rustica osteria, ma aveva una usanza deplorevolmente urbana; faceva credito agli avventori e rincarava il conto ai morosi. Praga cominciò coll' andarci anche alla mattina e finì col passarci le intere giornate; voleva rimettersi a dipingere, riprendere il filo da lunghi anni interrotto degli studi pittorici nei quali aveva esordito con lavori che sono pregevoli ancora, e si lusingava di far scontare ai pennelli la improduttività dei suoi versi. "Avrei dovuto far unicamente il pittore, diceva, questa almeno è arte che frutta da mantenere una famiglia. " Ed inutile è soggiungere che non ne fece nulla. In quell'ortaglia si fecero le più care festicciole ch'io abbia mai goduto. Quando venivano amici di fuori li menavamo là a desinare; mi ricordo di una volta che vennero da Torino il Giacosa, il Molineri, il Faldella ed erano con noi il Boito, il Torelli Viollier, Ferdinando Fontana, che fece in fin di tavola questa terribile dichiarazione: « Sono socialista e ne ho il diritto: è l'unica protesta della monade umana contro il dualismo sociale. » Praga era felice perchè Molineri, Giacosa e Torelli sapevano a mente le sue Penombre e Torelli per canzonarlo si mise a recitare i versi Brianza con la monotona e frettolosa cantilena dello scolare che sa la lezione. Povero amico, noi ci accorgevamo che il suo ingegno s'andava spegnendo e non viveva più che nei ricordi. Verso il fine delI' estate, andò in villa dalla Dandolo e ne tornò in uno stato deplorevole già preso dal male che poi lo finì. Mi mandò a chiamare, andai a casa sua in via della Cerva e trovai presso al letto il Cavallotti, col quale era da un pezzo un po' freddo. Il Praga gli leggeva il suo dramma: quando ebbe finito il Cavallotti se n'andò dicendogli qualche amichevole parola e lui poi sclamò tutto commosso: L'è un bon fioeu Lo accompagnammo dopo alcuni giorni a quella stessa Casa di salute dove l'anno prima era morto il Rovani. Tuttavia si riebbe ancora, in primavera esso prese casa fuori Porta Vittoria e ci sfuggiva; al principio dell'inverno, nel novembre 1875 morì ed è sepolto nel piccolo cimitero di Porta Magenta. * Il Teatro Milanese, fondato da alcuni dilettanti che si proponevano modestamente d'imitare a Milano l'esempio del torinese Toselli, e trasformato poi da Carlo Righetti in una regolare compagnia di autori ed attori col titolo solenne di Accademia, era, a dispetto del titolo, un ritrovo di matta e spiritosa scapigliatura. Il Righetti che ha trovato questa felicissima versione italiana della bohême e ci ha dato nel suo noto romanzo scene gustose della nostra vita letteraria, dovrebbe raccontare le vicende, almeno quelle che si possono dire, di quel crocchio del quale fu magna pars egli stesso. Uscito il Righetti, smessi gli intenti, o se volete le illusioni letterarie, il Teatro Milanese è, come locale il ritrovo della galanteria prezzolata, grossa e minuta, come repertorio il piedistallo d'un grande artista e quando questi ne scenderà, perderà ogni importanza. Bisogna però notare che per esso il Duroni scrisse qualche buona commedia e il Fontana vi fece le sue prime armi con la famosa Statoa del sur Incioda. * Ora i superstiti della scapigliatura milanese si raccolgono nel piccolo Caffè del Teatro Manzoni, dove convengono dei repubblicani e dei socialisti tranquilli e bonari come Napoleone Perelli e capita qualche volta, quando è a Milano, anche Ulisse Barbieri sempre in guanti chiari e sempre disperato d'aver ne' suoi drammi fatta strage di tutte le individualità storiche e mitologiche, non escluso il Padre Eterno. Ma il tipo del genere è Fulvio Fulgonio, predestinato fin dal battesimo alla letteratura dei libretti d'opera, ottima pasta d'uomo, indulgente con tutti, anche con la fortuna che lo maltratta da oltre quarant'anni, chè è sempre al verde e tien nota scrupolosa de' suoi debiti. Qualche anno fa aveva un conto piuttosto inveterato col caffettiere, e questi una sera gli fè negare il solito caffè : allora lui s'appressò al banco e avuta spiegazione e conferma dell'ordine disumano con tutta serietà gli disse : « Mi dia dunque venti centesimi perchè possa andarlo a prendere in un altro posto. » Alcune settimane dopo negoziò una buona transazione per un amico ricco che gli regalò, in premio, 2500 lire : lui pagò tutti i suoi creditori e la sera venne in caffè vestito di novo, colla borsa leggera e il cuore più leggero ancora. Ha un figlio in collegio e un suo parente paga per mantenervelo una pensione di ottocento franchi: Fulvio Fulgonio riscuote lui il semestre e lo spedisce regolarmente: non toccherebbe quei danari fosse digiuno da due giorni. Al suo stoicismo sereno fa contrapposto la malinconia curiosa di Cesare Tronconi l' autore di Passione maledetta e delle Madri per ridere perpetuamente in collera contro i critici che maltrattano i suoi romanzi e più contro quelli che non ne parlano. Fulgonio sorride, Tronconi sospira: l'uno fa il suo mestiere alla giornata, senza darsi fastidio del poi, l'altro è in pensiero del poi e se ne amareggia il presente. Nè questo è il solo contrasto di quel piccolo mondo : tutti fanno l' opposizione alle idee, ai sistemi, alle autorità riconosciute; opposizione di massima senz'altro impegno. Del resto tante idee quanti cervelli, e vogliono tutti dire la sua e ne nascono delle dispute che ogni sera ricominciano e non fluiscono mai. Però basta un'ondata di sentimenti per trascinarli tutti. La sera del 9 gennaio 1878 un repubblicano intransigente prese là dentro la difesa di Vittorio Emanuele contro un giornalista radicale e la compagnia gli battè le mani. Però le discussioni, per quanto vivaci, non trascendono in attacchi, non lasciano mai dietro a sé ombra di rancore; e questo è merito della bonarietà milanese. Anche la la massima tolleranza e cortesia: ci va Samuele Ghiron il moderatissimo Violino di spalla del Fanfulla a far pesca di barzellette e di aneddoti e tutti gli vogliono bene. Aforista, apologista, evangelista della compagnia è Felice Cameroni il Pessimista del Sole giornale commerciale, che, in grazia sua, ha accoppiato le rassegne drammatiche e le bibliografie ai listini di borsa e ai bollettini de' mercati senza l'intromissione della politica, acquistando una particolare competenza in materie così diverse da quelle che formano si può dire il suo vero ed unico intento. Tutte le sere verso l'otto il Cameroni è al suo posto, dentro il caffè d'inverno, e fuori l'estate colla faccia volta al pilastro dove sta il cartello del teatro : d'inverno prende un capiler, d'estate una marena invariabilmente. Perchè non conobbi mai uomo più metodico ed esatto di questo apostolo della rivoluzione verista in letteratura e della ribellione sociale in politica. Vorrebbe sovvertire il mondo ma non sarebbe capace di mancare alla garbatezza più scrupolosa; impiegato modello alla Cassa di Risparmio non froda l'orario d'un minuto: le sere di prima recita paga il supplente. E si assicura che questo partigiano della filosofia sensista più desolante, questo apologista degli scrittori che negano la famiglia è un figliuolo modello. Ve ne darò una prova ma non gliel'andate a dire chè gli farebbe dispiacere, non osava leggere a tavola per rispetto a sua madre : e fu lei a pregarlo di fare il suo comodo. Morto il Manzoni la società che si radunava tutte le sere da lui nella famosa casetta di via del Morone si sciolse. I suoi componenti non si vedono quasi più. Giulio Carcano, salvo qualche rara apparizione in Consiglio comunale, fa vita da sè, con la famiglia e alcuni vecchi e fidati amici. Il Cantù riceve, com'ho detto, tutte le domeniche in casa sua: frequenta qualche poco il teatro. Alle prime rappresentazioni lo si vede al Manzoni nel palchettone di seconda fila sopra l' ingresso della platea, e non perde sillaba della recita: quella testolina scarna, eretta, vivace, coi lineamenti fini, marcati, con quella ricca zazzera che appena comincia a incanutire, non è la testa d'un settantenne: ha l'espressione, l'energia fugace, la volontà, la fermezza d'una virilità forte che si direbbe, immortale. Certe volte, quando sulla scena il dramma di qualcuno dei nostri autori più in voga tira innanzi alla meglio, un sorriso arguto brilla nei suoi occhietti azzurri e increspa le sue labbra sottili. Allora, a guardarlo, mi piglia uno strano sgomento: mi pare che egli debba, giudice severo e implacabile, sopravvivere alla nostra generazione e che abbia il còmpito di sotterrarla e giudicarla come ha fatto delle due precedenti. Singolare destino il suo: egli non fu mai bene del suo tempo e la sua vita laboriosa è rimasta sempre in una solitudine morale che avrebbe fiaccato qualunque fibra pieno possente della sua. Per i letterati suoi coetanei, spiriti tranquilli, indulgenti, più studiosi che operosi era troppo giovane ed irrequieto: è era troppo rigido ed austero per i giovani. M' immagino che Cesare Cantù soffra, come altri illustri scrittori, la malinconia di credersi trascurato. Ma la nuova generazione, che, forse egli suppone sconoscente e irriverente, ha tutto il rispetto per lui, venera in lui l'artefice della più vasta opera storica del tempo nostro e non domanderebbe di meglio che poterlo conoscere più davvicino. * Il professore Giovanni Rizzi tiene un crocchio che è anche una scuola perchè composto quasi esclusivamente di allievi e di allieve. Fra queste, due signorine la Sormani e l'Albini, sono, la prima con due commedie, la seconda con alcune novelle, entrate onorevolmente nella vita letteraria. * Però i letterati seguono anch'essi la corrente positiva del tempo: si vedono meno tra loro e vivono un po' più cogli altri. Gli interessi, le faccende e la politica, a Milano specialmente, li separa più che un tempo li unisse la comunanza di studi e di aspirazioni. Il Cavallotti vive quasi esclusivamente co' suoi amici della Democratica. Paolo Ferrari dedica le sue giornate all'Accademia e al Consiglio comunale, le sue sere al bigliardo della Società, patriottica e le sue notti ai lavori drammatici: nessuno sa meglio di lui metter d'accordo nella vita il serio ed il comico, la barzelletta e l' assioma professorale. Al tempo preistorico, mitologico della tenebrosa Consorteria delle F (Fortis, Ferrari, Filippi, Faccio, Fano) il Ferrari era l' ordinatore di beffe graziose e solenni, n' ha fatte tante e così originali che ce ne sarebbe da fare un intero novelliere: ora, non si permette più d' insanire che semel in anno in martelliani al Risotto annuale della Patriottica. * Filippi si trova dappertutto, di giorno al Caffè delle Colonne, al Biffi, al Cova; la sera in tutti i teatri, dalla Scala al Milanese e al Santa Radegonda, entra col suo enorme cappello in testa, v'infligge un aneddoto che deve essere sempre nuovo, ed è detto con tanto garbo che lo si sente volentieri anche per la decina volta; se nel palco c' è un posto buono lo piglia senza farselo dire, ma non è indiscreto; fatta la sua comparsa, spacciato il suo frizzo, s' alza e se ne va senza salutare, se gli stendete la mano ve la stringe sbadato, se allungate un piede ve lo pesta, non vi chiede scusa e tira via sempre collo stesso passo posato e maestoso, collo stesso faccione sereno e sorridente di cuor contento. Perciò i giovani che non lo conoscono, lo credono superbo: a torto, perchè egli è molto più fiero della bellezza molto discutibile delle sue mani che non del suo talento incontestabile. Non ha goccia di fiele: è una buona pasta, e, non ostante la prima apparenza, alla mano con tutti; se fa bene una cosa, se ne compiace per il primo, se la fa notare, e la dimentica; se piglia un granchio, lo confessa, non si sgomenta nè ride, e lo dimentica. Vi rende servigio se può, piglia il suo bene dove lo trova, se lo gode, non invidia quello degli altri. Quando in quando scompare, e qualche giorno dopo compaiono sulla Perseveranza sue corrispondenze da Parigi, da Monaco, da Londra, magari da Madrid o dal Cairo; poi ritorna sempre fresco e tranquillo: egli ha girato così mezzo mondo senza scomporsi, senza affaccendarsi ; il suo cappellone lucido non ha un pelo arruffato, il suo gesto, il suo viso non serbano traccia di stanchezza o di fatica. Non manca ad alcuna festa, ad alcuna allegria: non ha fretta mai ed arriva a tutto e sempre in tempo. Egli è certo l' uomo più felice ch'io conosca, perchè è contento di sè e si contenta degli altri. Buontempone e girellone com'è, dove piglia il tempo di scrivere un articolo o due al giorno e delle appendici di quasi cinquecento linee l'una? Ma chi lo sa? Forse il segreto della sua attività, sensitiva, intellettiva, produttiva a moto continuo sta in questo : non si perde nel fantasticare che, dice bene il Goethe, fiacca l'energia della mente. Il lavoro non gli costa nulla; l'ho visto io dopo una giornata di strapazzo, che avevamo girato molte ore in una città di provincia, con una pioggia torrenziale, e c'eravamo rifugiati in un caffeino pieno di fango e di confusione, pigliare la penna e scrivere difilato quindici cartelle faceziando, facendoci pregustare i frizzi che andava trovando man mano. I suoi articoli hanno, a differenza di tanti altri più raffinati, un gran merito di sincerità e sono spacciati colla naturalezza che dimostrano. Che età ha il Filippi? L' età di chi non vuole invecchiare. Da giovane pareva, dicono persone per la loro età degne di fede, mostrare mostrare più anni di quel che avesse ; ma s'è fermato presto e da un gran pezzo. * Se, tra mezzogiorno e la una, vedete un brougham alla porta del Caffè Cova, è certo che aspetta Leone Fortis, che lo fa aspettare delle volte un buon paio d' ore. Se glielo rammentaste risponderebbe che non può tener carrozza propria. Ed è una vera ingiustizia, perché egli è nato per fare il gran signore. A quell' ora o mangia in silenzioso raccoglimento la sua bistecca quotidiana innaffiata con dei sorsellini del non meno quotidiano bordò, o fa il chilo, una gamba sull' altra, la mano sinistra sul polpaccio o magari sullo stivale, la destra che fa di quando in quando un gesto largo e ricade, la persona abbandonata , il ventre arrotondato, la testa rovesciata sulla spalliera in atto di noia suprema. È un atleta in riposo. Parla di rado e a pause, durante le quali, alza il labbro inferiore e si beve i baffi. Così pure sta la sera nel suo palco al Manzoni. Come tutti gli uomini d'indole dominatrice non è mai solo: è corteggiato come si conviene alla sua potenza. Molti che gli dicono dietro le spalle ira di Dio sono con lui manierosi e gentilissimi; lui non s'illude menomamente sulla sincerità di queste garbatezza, ma, sovrano indulgente, si contenta del loro omaggio ufficioso e lascia correre. Certe volte, quando qualcuno che ce l'ha con lui, affetta di non vederlo, gli pianta gli occhi addosso ed è ben difficile che non riesca a farsi salutare. Non ho mai visto alcuno passargli vicino proprio indifferente. Così stracco, tediato, uggito - queste sono le tre gradazioni della sua accidia apparente - sembra non si interessi a nulla, si secchi dell'universo mondo - eppure non gli sfugge parola del discorso e del gesto degli interlocutori ; spesso non vuol vedere - ma vede e osserva istintivamente e dopo anni ed anni vi riproduce il personaggio o la scena più impercettibile con un' esattezza prodigiosa. Se l'argomento è vivo e interessante davvero, v'accorgerete dall'articolo che scriverà l'indonmani che egli lo ha afferrato nelle mezze tinte più fine e delicate. È un lavoratore a scatti; sonnecchia un poco, ma quando si sveglia è d'una attività formidabile, scrive due, tre, quattro articoli di seguito con quella sua mano lenta, sdegnosa, risoluta, s'abbandona ma dice esattamente quel che vuole o come vuole, e trova degli accorgimenti, delle sottigliezze, che affascinano gli avversari e fanno qualche volta disperare gli amici politici. Nei giorni di lotta fa tutto il giornale lui e non c'è nè spazio, nè orario che peni: se non bastano quindici colonne si fa il supplemento e se il giornale non esce alle quattro escirà alle cinque, alle sei, alle sette - gli abbonati di provincia non lo ricevono, ma sta pur certo che in città lo leggono tutti e ciò gli basta: il suo regno è Milano, egli vi ha inaugurato la sovranità della stampa, la tiene e non dà segni di voler abdicare. Ci sono a Milano dei giornali solitamente più dotti e più precisi o più piacevoli; ma al tempo delle elezioni, o di una qualche viva quistione amministrativa o economica, o teatrale, o artistica, che stuzzichi particolarmente il sentimento, l' interesse, o anche solo la curiosità del pubblico - il Pungolo è ancora com' era quindici o vent' anni addietro, il leader della situazione. È articolista, polemista, critico tutto a modo suo e sempre impareggiabile. L'Illustrazione italiana era un foglio noto per i suoi disegni unicamente; dacchè il Fortis vi scrive quello sue famose Conversazioni è diventato anche un periodico letterario. Leone Fortis, Leo fortis come lo chiamava il Bianchi Giovini, un tempo suo avversario, è un nome felicissimo, tanto felice che par trovato apposta per lui: esprime tutto l' uomo. Infatti egli è buono, indulgente, tollerante, ha degli abbandoni d'una bonomia commovente, ma guai a stuzzicarlo, guai poi a cascargli sotto. Però perdona e, se non dimentica, trascura. Egli vuol bene a 'suoi amici, nessuno sa rendere un servigio con maggior garbo di lui e non lo rinfaccia. Quelli che non gli voglion bene lo temono o perchè ne hanno paura o perchè ne hanno bisogno. È entrato da quindici anni nel partito moderato non come recluta ma come capitano, anzi come potenza alleata; ha le sue schiere e ne dispone dispone, ha i suoi ufficiali e li impone. Alla Costituzionale benché s' inquietino della sua indisciplina e lo tengano quasi come uno eresiarca, gli fanno volentieri delle concessioni, perché sarebbe malagevole combattere senza di lui, e sarebbe causa disperata combattere contro di lui. In mezzo al parapiglia politico è rimasto l' artista del Cuore ed Arte ama le forme e un po' la scena, va tutte le sere al teatro, non scrive più drammi, drammatizza la vita per suo conto, e così la gusta in grazia della forma che lui gli sa dare. Detesta il realismo - se diventasse realista si annoierebbe troppo. * Al Cova nello stanzino in fondo si trovano la sera alcuni scrittori e ispiratori della Perseveranza il direttore Landriani, la modestia personificata, che si nasconde, scompare nell'opera sua tanto che molti lettori del suo giornale ignorano il suo nome e la sua esistenza; l' avvocato Zambaldi, gentilissima persona, moderato estremo, scrittore mordacissimo; Camillo Boito, il dotto critico artistico, architetto, novelliere, scrittore possente, a cui la Costituzionale ruba molte ore che l'arte saprebbe rendere più utili. La politica li unisce troppo tra loro e li divide troppo dagli altri. * Al Cova, verso le quattro ci va anche Arrigo Boito e vi si trattiene una mezz'ora. Fuori di lì non lo si vede in nessun posto eccetto che a casa sua in via Principe Amedeo n. 1 dove del resto non è facile penetrare : i suoi amici picchiano in un certo modo convenuto alla finestra del suo stanzino che è a terreno verso strada. Perchè Arrigo Boito, con tutta la riputazione di pigrizia che s' è fatto, lavora indefessamente tutti i giorni dalle nove alle quattro ; chi passa sotto la sua finestra è quasi sicuro di sentire la voce flebile del suo pianoforte che gli ripete le armonie di Bach e ne riceve le gelose confidenze delle sue ispirazioni. Non già che abbia il lavoro stentato, tutt'altro, prova ne sia che l' anno passato ha scritto in poche settimane il libretto del Jago per il Verdi, ma è incontentabile dell'opera sua e il Nerone fu rifatto già tre o quattro volte da capo a fondo. Se parlate con lui lo trovate pieno di condiscendenza: non fa nè teorie nè dissertazioni, nè sproloqui d'arte; approva tutto quel che gli dite con dei frequenti: benissimo, perfettamente, sicuro, pronunziati con quel suo accento originale, marcato, sensibilmente enfatico, e forse pensa ad altro. Non discute che con sè stesso; si direbbe che, stanco della lotta quotidiana colle due mura che lo inebbriano e lo tiranneggiano, non voglia fare uno sforzo inutile per contraddirvi. La sua camera stretta e profonda, incomoda, con delle raffinatezze impercettibili, ha una scrivania su cui trovate una Bibbia, una raccolta di pentasdruccioli, i volumi di Bach e di Marcello e un diavolino di Cartesio, rappresenta bene le due faccie di quel suo prodigioso talento: la severità e la bizzarria. * Uno degli intimi suoi è Luigi Gualdo, il romanziere gran signore, che non pensa a ricavar guadagni dal suo lavoro per l'invidiabile ragione che ha da vivere del suo, ma che senza alcun scopo di lucro, lavora non per vanità, per un vero bisogno d'artista. Per Milano lo si vede di rado anche lui, qualche volta l' inverno verso le quattro quando fa bel tempo esce a fare un giro sul Corso tutto solo, le mani nelle tasche, astratto, pensoso, e per questo e per la sua singolare maniera di vestire, ha l'aria d'un forestiere. Vive solitamente rinchiuso, la sera fa delle visite. D'estate va sul lago, ogni anno passa alcuni mesi a Parigi e scrive da qualche anno in francese, per non commettere - dice lui - de' francesismi. * Lo scrittore più mondano dopo il Filippi è senza dubbio Giovanni Verga, che abita qui a intervalli, vi conosce e frequenta la società più aristocratica ma solamente quella. La prima volta che lo vidi fu in casa Maffei una domenica sera che le due salette erano piene di signore tra cui sei o sette giovani e molto belle, e queste lo circondavano in modo ch'io non mi potei appressare a lui. Lui stava lì contegnoso in silenzio in mezzo al vivace cicalio, e sorrideva di quel suo sorriso serio, a fior di labbra che fa malinconia. Per questo suo fare riservato misterioso che dimostra patimenti profondi non meno che per la eleganza squisita del suo sentimento artistico dicono che abbia delle avventure. Non gliene state a chiedere a lui ; è così poco vanesio che non ve ne direbbe nulla, anzi vi riderebbe discretamente sul viso. Però anche a Milano, nella più allegra e socievole città d'Italia, gli scrittori non fanno più la vita scioperata d'una volta. Gli è che la letteratura è diventata un lavoro e che lavoro aspro indiavolato! Non basta più scrivere qualche centinaio di versi e nemmeno un volume, per guadagnarsi un vitalizio di considerazione. Il pubblico è più vasto, legge di più, ma dimentica più facilmente. Anche a Milano s' è smesso il vizio di girellare tutto il giorno da un caffè all' altro e prima delle quattro sarebbe difficile trovare nella galleria altri che i soliti cantanti a spasso. Ci sono degli scrittori tuffati da mane a sera e tutto l'anno nell'opera propria, e ci dicono che il tempo passa troppo presto. Esempio: Luigi Archinti, il brioso e competentissimo critico artistico del Corriere della Sera non va in nessuna società, nessuno sa che vita faccia: o piuttosto si sa benissimo, lavora indefessamente: la scrittrice che tutta Italia conosce col pseudonimo di Neera e di cui ben pochi sanno il nome vero è una modesta madre di famiglia, molto seria benchè di carattere vivace e giovanissima, vive unicamente per la famiglia, lavora per la famiglia e come: tre o quattro romanzi all'anno, articoli per il Fanfulla, per il Corriere del mattino per la Gazzetta Letteraria per sei o sette giornali minori, e si lamenta che gli editori non gliene stampino quanto si sentirebbe di farne. * Uno che non s'incontra mai a ciondolarsi o ad ammazzar il tempo è Salvatore Farina. Si può quasi dire che non sta a Milano. Evita assolutamente le società letterarie: l'anno passato aveva preso gusto al giuoco del bigliardo e per soddisfarlo senza avere il rischio d' imbattersi con de' confratelli si associò a un certo circolo commerciale ed agricolo tutto di fittaioli, di bottegai in ritiro e mercanti di grano : ci andò per tre o quattro mesi tutte le sere un'oretta a far la sua partita beatissimo del suo supposto incognito. Ma una sera ch' era nata una discussione intorno a certa frase di giornale, dove si vanno a ficcare i critici! uno della compagnia si appressò a lui e lo interpellò: ch' el disa on po' lu che l'è on scritor an lu?... Inutile aggiungere che d' allora in poi non l' hanno più visto. È innamorato della propria casa e spende tutte le sue cure, tutti i cari momenti d' ozio per farla bella, comoda, confortevole e godersela in santa pace. Sarebbe felice se ci fossero dei felici a questo mondo: Salvatore Farina ha come tutti gli uomini soddisfatti del bene che hanno, il timore di perderlo; soffre di iponcondrie periodiche ora per il polmone, per gli occhi, per il ventricolo e che so io. Quando lo pigliano coteste malinconie consulta medici di cui non eseguisce le prescrizioni, butta via le loro ricette, si sottopone a delle cure eroiche di sua invenzione e naturalmente guarisce sempre. La famiglia non è soltanto il suo ideale letterario, è l'obiettivo, il sentimento dominante di tutta la sua vita. Se siete tristi, se avete la famiglia lontana, se gli svaghi soliti non vi soddisfano, se le solite conoscenze sono in disaccordo col sentimento dell'animo vostro e Milano vi sembra una rumorosa solitudine, in questi momenti di sconforto e di accidia andate da lui e troverete la una vera famiglia, quasi un profumo di casa vostra, una buona e amorevole intimità, la migliore intimità, quella che non esclude i riguardi e implica la reciproca stima. Salvatore vi darà del lei, non mancherà di usarvi tutte le garbatezze ma per di più si interesserà alle cose vostre, potrete contargli i vostri fastidi, le vostre pene come a un fratello e a un amico d'infanzia. E lui s' interessa veramente a quel che gli direte e vi parlerà senza finte compassioni, senza tenerezze convenzionali, allegramente con franca e delicata giovialità, magari vi condurrà a scherzare del vostro sconforto; fatto sta che uscirete col cuore più leggero e quasi quasi non vi rammenterete le vostre pene. È uomo di spirito ma altrettanto buono: sarebbe difficile ingannarlo, conosce bene, da subito, le persone, ma per temperamento ha bisogno di crederle oneste e sincere. Ha poi la benevolenza memore ed operosa ; se gli confidate un bisogno, dopo qualche settimana quando credete se ne sia dimenticato e forse non ci pensate più, trovate alla porta un suo biglietto. Egli s'è ricordato di voi ed ha cercato e trovato il modo di rendervi il servigio che vi bisogna e che forse non gli avrete neppure domandato. In casa Farina il sabato sera, si riuniscono alcuni amici, tutte conoscenze della famiglia; ci va Eugenio Torelli Viollier, direttore del Corriere della Sera con la sua signora, la marchesa Colombi Giovanni De Castro, i due Ghiron e qualche altro. Non si parla nè di politica, nè di letteratura. Si fanno dei discorsi casalinghi, si parla di cucina, del tempo, dei figliuoli. Torelli ha sempre in tasca qualche nuovo rompicapo, egli è, lo si sa, appassionato degli indovinelli e delle mistificazioni innocenti, ciò che non gli impedisce d'essere un brillantissimo scrittore, un giornalista serio, dotto, studioso, coscienzioso come ce n'ha pochi; si dicono delle barzellette decenti, si gioca una partita a campana e martello, si fanno magari quattro salti e si concerta qualche desinaretto per le grandi solennità. * Ma non tutti hanno il temperamento, gli agi, i conforti necessari per vivere continuamente da sè; e Milano ha questo di buono che mentre potete star nascosto dei mesi e sottrarvi completamente alle molestie, agli oziosi, ai seccatori, se ad un tratto vi piglia, come piglia a molti lavoratori solitari, il bisogno assoluto e repentino di veder gente, voi potete a qualunque ora, dalle quattro della sera alle quattro del mattino trovare buona e gaia e confaciente compagnia. E, ne converrete, una facilità preziosa e che non si ha dappertutto. Il forestiere, chi è rimasto lontano molto tempo è sicuro di trovar qualche amico, qualche compagno che lo rimette al punto della vita milanese. Gualdo, Verga, capitano così al Biffi dopo mesi e anni di assenza e non manca mai chi alle tre del mattino li accompagni fin sull'uscio di casa loro. Al Biffi per tre o quattro anni è durato un crocchio dei più gioviali e dei più svariati; ci veniva, come ho detto, un po' di tutto; impiegati, avvocati, professori dell'Accademia, superstiti redattori del giornale la Vita Nuova giovani letterati, che sono usciti dalla vita letteraria, che non hanno ancora trovato il sentiero buono d'entrarne, il romanziere e critico Virgilio Colombo, DeMarchi poeta e scrittore valente e troppo modesto, Giovanni Pozza grande inventore di romanzi e di novelle bellissime, già tanto belle in embrione che è un vero peccato scriverle. Ma l'anima, o per meglio dire il pontefice di questo sinedrio era Luigi Capuana; difatti c'è in lui il misticismo, l'eloquenza, l'unzione del teurgo e del filosofo: conosce tutto, legge tutto; e se lo mettete sul discorso sa parlar di tutto e bene e profondamente. È perpetuamente innamorato, ma quando un intrigo gli va per le lunghe e gli riesce difficile - lui ha bell' e pronta una catastrofe di suo genio e ne fa .... una novella. Però tutte quelle sue novelle famose sono tutte cominciate in terra e terminate nelle nuvole; noi, per burla, lo chiamavamo il vecchio dacchè ha capelli pochi e canuti e baffi candidissimi in flagrante contraddizione non solo coi suoi quarant' anni ma col viso florido e giovanile. Qualche maligno aggiungeva che portava bene i suoi annetti, difatti a prima giunta ha l'aspetto di un vecchietto ben conservato. Poi lo si presentava come il nostro papà e lui pigliava la canzonatura con spirito. Ora la bella compagnia è un po' sbandata, ma se ne formano continuamente delle nuove, allo stesso posto, e al Gnocchi e alla fiaschetteria Toscana: e Samuele Ghiron ha la sera il suo da fare per girare dall' uno all'altro per cercare aneddoti, e spacciare quelli che ha raccolto. * Scontenti di Milano non ne conosco che uno: Dario Papa, l'irrequieto e valoroso dp del Corriere. È uno spirito ansioso di operosità febbrile, di progressi fulminei e colossali, desidera un mondo nuovo e sogna continuamente di andare in America. E ci anderà un giorno e forse troverà che somiglia ancora troppo a questo suo mondo vecchio, ma buono, e tornerà a desiderare e a ritrovare la sua Milano che ha saputo apprezzarlo e lo stima per quel che vale e gli darà certo l'avvenire che si merita. Fatto sta che quando siete stato un anno a Milano vi ci affezionate e la grande città vi ha adottato per sempre: lontano, voi avete sempre istintivamente dei confronti in suo favore, penserete ad essa come al paese veramente vostro perchè scelto da voi e se ci ritornate vi accoglierà come uno de' suoi figliuoli. ROBERTO SACCHETTI. Il 31 gennaio scorso, Roberto Sacchetti mi spediva da Roma questa monografia sulla Vita letteraria a Milano e mi dimostrava desiderio di vederne le bozze di stampa. Povero amico! Io riceveva le bozze da Firenze proprio il giorno in cui il telegrafo recava la triste notizia della sua morte che tanto addolorò quanti l'avevano conosciuto ed avevano avuto campo di pregiarne l'animo mite, l'aperto intelletto e le tante virtù. G. OTTINO.

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Poi cominciava a camminare, e lui la seguiva con gli occhi intenti, movendo i passi macchinalmente, concentrato tutto nell'attenzione; ella radeva appena la terra, abbandonava i sentieri noti, penetrava tra gli alberi, appariva e scompariva, voltandosi a sorridere, lasciando che il lembo bianco del suo abito radesse l'erba, con un piccolo e lusinghiero mormorìo. Egli non osava parlarle, tremava, la voce gli moriva nella gola; bastava alla sua felicità contemplare ardentemente, con la fissità della follia, con gli occhi aridi che gli bruciavano, il suo amore che fuggiva dinanzi a lui. Ella girava, girava pel bosco, arrestandosi soltanto un minuto, chinandosi a carezzare i fiori, ma non cogliendoli, non lasciando traccia sull'erbetta calpestata; appena egli la raggiungeva, ella riprendeva la sua corsa. Lui dietro, senza sentire la stanchezza delle sue gambe che diventavano pesanti come il piombo; lui dietro, sostenuto dall'indomita volontà, eccitato, esaltato, sospinto all'ultima e più acuta vibrazione dei nervi. Fino a che, approssimandosi al castello, il celeste fantasma cessava di sorridere, ed una malinconia si effondeva dal volto gentile; poi, entrato nel cupo androne, volgevasi per l'ultima volta, salutava, agitando la mano, e scompariva. Lui non osava gridarle: rimani, rimani! e s'abbandonava sopra un banco, spossato, abbattuto, morto. - Perché non siedi a me daccanto, o dolce amor mio? Perché non mi ti accosti? Non temere, non mi appresserò troppo. Sai che t'amo, so che m'ami; so che dobbiamo troppo avvicinarci. E neppure puoi parlarmi: così vuole il destino. Ma io t'amo; tu sei il mio cuore. L'anima mia è fatta di te; non sono io, sono te; se io muoio, tu morrai; se tu muori, io muoio. Come sei bianca, o divina fanciulla! I tuoi occhi sono trasparenti e chiari, non mi guardano; le tue guance hanno appena una trasparenza rosea, le tue labbra sono pallide pallide, le tue mani sono candide come la neve, ed un fiocco di neve è il tuo manto. Hai tu freddo, cuor mio? Non sai che io ho la febbre, che il, sangue schiuma e bolle nelle mie vene, come un'onda impetuosa? Sorridi? Puoi calmarmi così. Quest'ardor che m'infiamma, questo incendio che divampa in me, solo la carezza della tua gelida mano potrebbe domarlo, solo il tocco delle tue gelide labbra potrebbe assopirlo. No! Non allontanarti, resta, resta per pietà di chi t'ama. Non ti chiederò più nulla, creatura bianca ed innocente. Tu leggi in me, vedi che sono puro, che il mio cuore è candido come la tua veste, che non lo macchia desiderio di fango. Non fuggirmi, non rivolgere il, volto celestiale; quando tu m'abbandoni, ecco, la vita declina, in me: tutto diventa buio, tutto diventa muto, ed io piango sul mio sogno distrutto, sul mio cuore desolato. Donde vieni tu? Dove vai, quando mi lasci? E perché mi lasci? T'amo, non lasciarmi. Non parlava la fanciulla nei colloqui i d'amore. Ella ascoltava immobile, bianca, pronta sempre a partire; ogni tanto un sorriso indefinito le sfiorava le labbra, una mestizia le compariva in volto; ma sorriso e mestizia erano spostamento di linee, non corrugamento di fronte o espansione di labbra; era espressione, luce interna, quasi una lampada soave s'accendesse dietro un velo. Non parlava la fanciulla, ma ogni giorno ella restava più a lungo con colui che l'amava. Egli le parlava lungamente, poi stanco, la voce gli si abbassava a poco a poco, poi taceva. La contemplava, estatico. Ella si muoveva per andarsene. - Non partire, non partire! - supplicava lui. Ella restava ferma innanzi a lui, i piedini bianchi come ale di colombo, appena posati a terra, coi capelli vagamente adorni di rose bianche, con un lembo di abito sostenuto da rose bianche. - Siedi, siedi accanto a me! Ella non sedeva, immota, guardando dinanzi a sé coi grandi occhi senza pupilla. - Parlami, parlami - mormorava lui. Ella non aveva voce, non si muovevano le labbra. Invano egli la pregava, la scongiurava, s'inginocchiava, ella non gli rispondeva. Era inflessibile e serena. Ma in un crepuscolo d'autunno, egli trovò le frasi più eloquenti per esprimere la propria disperazione: batté la fronte a terra, sparse le lagrime più cocenti, adorò la fanciulla. Ella parea si trasformasse; dietro il candore della pelle pareva che cominciasse a correre il sangue. Egli, folle, morente di amore, le offerse la sua vita per una parola. - M'ami? - Sì - parve un sussurrìo. Allora, in un impeto di passione, egli l'abbracciò. Un orribile scricchiolìo s'intese e la divina fanciulla cadde al suolo, frantumata in tanti cocci di porcellana candida. Nella notte profonda, quando i custodi dormivano, nella deserta sala delle porcellane cominciò un mormorìo, un bisbiglio, un'agitazione. Correvano fremiti da una scansia all'altra, attraverso i cristalli; voci irose e sommesse si urtavano, fieri propositi, progetti di vendetta cozzavan l'un contro l'altro. Poco a poco la calma si ristabilì: tutto era deciso. La sfilata cominciò. Prima fu l'Aurora bianca sul suo carro tirato da quattro cavalli candidi; e discesa nel giardino dove lui giaceva svenuto accanto al suo idolo infranto, maledisse per sempre le sue albe; la seguirono le ventiquattro fanciulle che sono le Ore, e sfogliarono rose avvelenate sullo svenuto; dopo vennero gli Amorini, e gli conficcarono nel cuore i dardi acuti e dolorosi. Il gruppo passò. Secondi vennero i sette re di Francia, bianchi, sui cavalli bianchi, Carlomagno, S. Luigi, Francesco I, Enrico II, Enrico IV, Luigi XIII, Luigi XIV; galoppando pei viali, toccarono con lo scettro, con la spada l'infelice, ed ogni colpo gli rintronò nel cervello. Poi ogni statuina s'avviò, gli sputò in viso, lo insultò, lo calpestò; ogni tazza fu piena per lui di cicuta, ogni vassoio di cenere, ogni coppa da fiori contenne per lui fiori malefici e crudeli. Ed infine si mosse il grande gruppo dei Titani che vogliono scalare l'Olimpo: Giove, seduto sull'aquila, fulminò il moribondo, ed i Titani lo seppellirono sotto enorme sepolcro di massi. Poi ognuno riprese la sua via, i gruppi rientrarono nelle scansie e vi rimasero immobili. Fu questa la vendetta della fredda e candida porcellana su colui che aveva frantumata la fanciulla immortale. È questa la storia eterna e fatale. L'ideale raggiunto, toccato, va in pezzi - l'arte si vendica sulla vita - e l'anima muore sotto un immane sepolcro.

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