Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Quando Enrico, al colmo della passione le ricingeva la vita e la copriva di insaziabili baci, ella si abbandonava per un istante alle voluttà di quell'adorazione e gemeva come donna a cui pel soverchio piacere sta per mancare la vita; poi si scioglieva a un tratto da lui, sicura ormai di non cedere. Era l'abbominazione d'una depravazione parigina, che, se Dio vuole, non è ancora comune fra le nostre donne! Questo giuoco andava da più settimane, quando avvenne un caso che diede una grande rinfiammata alla passione di Enrico. Nanà in quel tempo stava con lui buona parte del giorno. Essa andava al di lui studio al mattino e vi stava fino alle due. Al dopo pranzo Enrico tornava da lei fino a mezzanotte e ne partiva congedato sempre, e sempre più appassionato. Ma appena partito lui, un ombra d'uomo, che si spiccava da un angolo buio, dov'era stato a vedetta, scivolava lungo il muro della casa d'onde era uscito il sofferente giovine, lo seguiva da lungi per un tratto e quando lo vedeva bene avviato, e s'era assicurato che non pensava a spiare, tornava rapido, metteva la chiave nella toppa dello sportello di Nanà e spariva in esso. Quell'ombra, che alla luce appariva essere quella del marchesino Sappia, l'intimo amico di Enrico, usciva poi da quello sportello, verso le cinque del mattino. Enrico non aveva pensato ancora di essere geloso. Un'idea fissa lo consolava dei rifiuti costanti di quella donna, ch'egli amava ormai alla follia; un'idea che l'amor proprio gli faceva sembrare eminentemente logica e chiara. Se Nanà era tanto riservata con lui, come avrebbe potuto egli accogliere il sospetto ch'ella non lo fosse con tutti? Alle necessità della sua vita dispendiosa egli ci aveva già pensato assai. Era pronto a rinnovar la dose appena Nanà gli avesse lasciato intendere di non aver più danaro, e glielo aveva detto esplicitamente. Non le doveva mancar nulla! Perchè lo avrebbe essa tradito? A che scopo? Una sera Nanà gli disse: - Domani non posso venire allo studio. - Perchè? - È arrivata da Parigi una mia amica. Debbo passar la giornata con lei. - Chi è? - Madame Monrichard - rispose Nanà molto franca. - Dove stà? - Non so bene - disse la donna con un poco di impazienza. - Domani verrà qui e mi farò dire dov'è discesa ad alloggiare. - A che ora verrà domani da te? - Non lo so. Potrà venire prima di mezzo giorno e forse potrà venir dopo. È però necessario ch'io l'aspetti in casa. - Bene, verrò io da te all'ora che tu avresti dovuto venir da me. Nanà restò un poco perplessa, poi disse: - No, non voglio che tu la veda. - Perchè? - Perchè è molto bella. - Che idea! - Ho paura che la ti piaccia più di me. - Non c'è pericolo. Via! - No, non voglio assolutamente. La mattina dopo Enrico entrava alle dieci nell'andito della porta di Nanà, e il portinaio gli andava incontro porgendogli una lettera. Aveva le cifre di Nanà e diceva: "Caro Enrico" "Madame Monrichard è venuta alle otto e mezza e mi ha condotto con lei in campagna a godere gli ultimi giorni di autunno. Non torneremo a Milano che a notte. Amami. A rivederci domani al tuo studio." "LA TUA NANÀ." - A che ora è uscita stamattina la signora? - domandò Enrico scevro ancora da vero sospetto, ma col cuore molestato da un vago presentimento di sciagura... - È uscita alle nove con una signora. - Bella molto? - Oh no, tutt'altro; brutta e vecchia. - "Brutta e vecchia!" - sclamò fra sè Enrico il quale si ricordava che Nanà il giorno prima gli aveva detto madame Monrichard essere giovine e bella. - È andata in campagna n'è vero? - Non so. Non m'ha detto nulla. - Com'era vestita? - Come al solito, di nero. - Grazie - rispose Enrico, e uscì turbato. Era quello il primo attacco di gelosia che risentisse di sua vita. Ora come assicurarsi? Come avere le traccie di lei? Dove rincorrerla? Dove sperare di trovarla? Ricorse anche lui al solito mezzo comune, antico, volgare, come i sospetti negli innamorati e la cupidigia nelle cameriere, ma sicuro sempre, per quanto sfruttato da secoli. Tornò indietro, levò dal portamonete un biglietto da dieci lire, lo pose in mano al portinaio, che si guardò bene dal ritirarla senza di esso, e gli disse: - Stasera quand'essa torna a casa ne avrete il doppio se mi saprete dire da chi è accompagnata e se verrete ad avvisarmene subito. E gli diè l'indirizzo. - Signor conte illustrissimo - sclamò il portinaio cavando il berretto fino a terra - lei sarà servita. "Guadagnar trenta lire, solo per accontentare un capriccio di innocente curiosità ad un bel giovane... non c'è male" pensava il portinaio. "A Milano queste cose si vedono di rado." Verso la mezzanotte Enrico si vide comparir dinanzi, nel luogo fissato al convegno, il valentuomo sorridente, che gli narrò come avesse avuta la pazienza di stare dalle nove fino allora ad aspettar nella via il brougham, che doveva portar a casa la signora Nanà. - Ebbene? Con chi tornò? - È arrivata in un brougham, accompagnata da un signore, che è rimasto nel legno. Essa discese, senza farsi aiutare da lui, si volse gli disse À revoir entrò in casa; e il brougham partì di galloppo. A Enrico si aprivano gli occhi. Nanà lo tradiva. Diede al portinaio i venti franchi promessi, dicendogli: - Va bene. State attento che ne guadagnerete degli altri. E lo congedò con un gesto severo. Il povero giovane, non sapeva ancora per prova che cosa fosse gelosia. Non imaginava di quali morsi orrendi sia capace questo egoismo esimio, questo desiderio violento di conservare tutta per sè la donna che si ama e di impedire che altri ce la possano togliere. La Elisa, la vergine bella e pudica, scelta dal suo cuore adolescente, della quale egli aveva creduto per un pezzo d'essere innamorato, non gli aveva fatto provar mai neppure l'ombra di quell'uragano, di quella disperazione, che sentiva in quel punto sorgere nel cuore, e pigliarvi delle proporzioni rapide e spaventose. La Elisa non gli aveva fatto provare tutt'al più che una leggera puntura dell'amor proprio, quel giorno ch'ella s'era data a civettare con Aldo Rubieri, per tentar di smoverlo dalle freddezze, che a sua volta le davano tanto dolore! E si ricordò di quella leggera velleità di gelosia, e la paragonò allo spasimo atroce di quel momento in cui il portinaio, che pensava di poter guadagnare i venti franchi, era venuto sorridente e lieto a raccontargli il tradimento della sua donna. Passata la botta però, cominciò il dubbio che in simili casi, è, per così dire, di prammatica. La gelosia invero non esiste che allo stato di dubbio. Se fosse certezza non sarebbe più gelosia. La gelosia spinge la creatura alla ricerca della propria disgrazia, e finchè v'ha ricerca, v'ha dubbio. Quando la certezza è entrata, la disperazione o la guarigione sono vicine. Enrico, adunque, cominciò a dubitare e a cercare tutte le ragioni plausibili per scusare Nanà e per non crederla rea. Perchè, perchè lo avrebbe tradito? E non trovava risposta al perchè? Era invece così facile il trovarla, s'egli avesse conosciuto Nanà o avesse avuto soltanto una maggiore esperienza dell'animo femminile. Come al solito, dunque il paravento dell'orgoglio gli celò i molti perchè, dai quali una donna della tempra di Nanà può essere spinta a tradir un'amante, ch'ella abbia scelto a marito, e decise di aspettar a condannarla dopo di averla bene interrogata. La notte gli portò consiglio. Aspettò di piè fermo Nanà nel suo studio, cercando di nascondere sotto una calma completa la sua immensa emozione. Nanà alle dieci fece la sua comparsa più bella e più lieta che mai. Egli l'accolse, come il solito, andandole incontro e stendendole le due mani; Nanà gli presentò la fronte da baciare. Ella s'accorse ch'egli era pallido come un cadavere. Egli invece fece mostra di non accorgersi del moto gentile di Nanà, e la fece sedere: - Dunque ti sei divertita? - Quando?- domandò la donna col suo sorriso più sincero. - Ieri in campagna. - Ah sì, moltissimo. - A che ora sei tornata a Milano? - Coll'ultima corsa. - E chi è che ti accompagnò a casa? - Monrichard. - Il marito della tua amica? - Precisamente. Poco mancò che Enrico non mandasse un grido di gioia e non si curvasse ad abbracciare Nanà e a dimandarle scusa de' suoi sospetti. Tutto si spiegava perfettamente. Egli era stato geloso d'una vana ombra. Come mai non aveva pensato prima che quell'uomo che aveva accompagnata a casa la sua Nanà, era, doveva essere, il signor Monrichard? Rise fra sè di aver sofferto tanto! La sua gioia però doveva durar poco. Tutt'a un tratto si ricordò che la portinaia, il giorno prima, gli aveva detto che Nanà quella mattina era uscita di casa con una vecchia. Allora le domandò. - Ieri mattina a che ora è venuta a prenderti questa bellezza che tu non vuoi che io conosca? Nanà ebbe dal canto suo un sospetto. Quell'interrogatorio di Enrico, quel suo fare un po' diverso dal solito, non la lasciava tranquilla. - Son venuti a prendermi alle nove - rispose stando a cavallo sulle frasi. - E sei uscita con lei? Nanà non rispose subito. Il suo sospetto s'accresceva. - Ma perchè mi fai tante domande quest'oggi? - gli domandò. - Perchè mi interesso de' fatti tuoi - rispose Enrico colla voce più indifferente, che gli fu possibile di trovare in gola. Egli fingeva d'essere tutto intento a preparare la tavolozza. - Dunque? - Dunque che cosa? - domandò Nanà. - T'ho pregata di dirmi se fu madame Monrichard che venne a prenderti. - E con chi t'imagini che io sia uscita di casa? - sclamò Nanà levandosi. - Io non imagino nulla. Domando. - Ebbene no. Uscii con sua madre che è venuta a prendermi in vece sua. Enrico fu nuovamente sul punto di saltar al collo di Nanà. Ma ebbe vergogna di confessarsi reo, e non gliene disse nulla. E quel giorno passò senz'altri incidenti. Nell'animo di Enrico però era rimasto un lievito di inquietudine vaga, un'intuizione dell'inganno, un presentimento di sventura, che non lo lasciavano quieto. Tornò dal portinaio della casa di Nanà: - Questi sono quaranta franchi - disse. - Io ho bisogno di sapere chi viene a trovare la signora quando io non ci sono. - Se me l'avesse domandato prima glielo avrei già detto - rispose il portinaio. - Parla dunque? - Quando lei è partito, verso mezzanotte viene un signore che ha la chiave. Io sono a letto, ma lo sento entrare e montar piano, piano. - Possibile; - sclamò Enrico. - Ch'ella sia così imprudente? - Ella spera che io non glielo dica; ma lei è più generoso della signora, dunque.... - Ah, dunque la signora vi ha fatto dei regali per comperare il vostro silenzio? - Oh, no, signore - rispose il portinaio - perchè poi io sono un galantuomo, e se la signora mi avesse pagato per tacere, io avrei taciuto. Mi ha fatto un regalo sì, ma un'inezia, e non mi ha detto nulla di tacere, perchè essa spera forse che io non senta a entrare l'amico Ciliegia. - E voi siete certo che egli va da Nanà? - Può figurarsi! Dopo due o tre sere che l'avevo sentito a entrare, mi sono preparato giù dal letto a piè scalzi, e pian pianino sono uscito fuori e ho veduto che andava al primo piano. - Ma a che ora viene egli? - Un quarto d'ora dopo che lei è partito. - Non sareste capace di dirmi chi è? - Credo di saperne il nome. - Ed è? - È il signor Aldo Rubieri - rispose il portinaio confondendo un nome con un altro. Forse a bella posta? Chi lo sa! - Aldo Rubieri; - sciamò Enrico volgendo il dorso al portinaio e andandosene senza dirgli crepa: - "Lo avrei giurato!" - pensava. - "Ah! giustizia di Dio, egli dunque mi ha vilmente ingannato quand'io l'ho scongiurato di dirmi se fra lui e lei erano passate delle intimità?... E d'altronde?... Non ebbe il coraggio di posare nuda dinanzi a lui? Non ci sono che le modelle o le amanti che posino nude. Ma modella non è. Dunque! Stupido, idiota che fui finora a non capirlo." Enrico a quel punto si sentì assalito da una violentissima smania di piangere; e per soffocare l'esplosione del dolore che lo soffocava e per non farsi scorgere per la via coi lucciconi, che nessuna forza umana è valida a trattenere quando il cordoglio è al colmo, si cacciò in un brougham, brougham,disse al cocchiere: - Va a casa del marchese Sappia. E gli indicò la via calando le cortine. Ferdinando Sappia era in casa. Enrico fece irruzione nella sua camera allo stesso modo e peggio di quel giorno ch'era andato da lui a chiedergli diecimila franchi da prestare a Nanà. Vedendolo entrare pallido, cogli occhi rossi, sottosopra, convulso, il marchese, che in quel punto stava studiando sulla carta geografica un certo suo progettato viaggio in Europa, si volse, mise le due mani sui fianchi e stette ad aspettare che Enrico si spiegasse. Enrico si lasciò cadere, un po' drammaticamente, ma pur senza aria di posare, in una sedia e taceva. - Cosa c'è? - domandò il Sappia. - Nanà è una gran p....! - sclamò Enrico. Il Sappia capì che si trattava forse di lui stesso e si armò di dissimulazione. L'autore dei Promessi Sposi scrisse che: l'uomo onesto in faccia al malvagio piace generalmente imaginarselo con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo scilinguàgnolo bene sciolto. Il marchese Sappia non era un malvagio, ma sentiva, da quella frase appassionata di Enrico, di avere verso di lui tutto il torto che un amico può confessare a sè stesso di avere in faccia all'amico tradito. Sciaguratamente, in questa nostra vita contemporanea, la morale amorosa ha create tali e tante leggi in contrasto flagrante fra di loro, che il raccappezzarne una assoluta e fissa nel caso di Sappia sarebbe opera superiore ad ogni filosofico criterio. Sappia tradiva davvero l'amico? Non faceva egli quello che volgarmente - chiamasi il suo mestiere di uomo elegante? Non aveva egli un diritto su Nanà, anteriore a quello di Enrico? Poteva egli in coscienza credersi reo di lesa amicizia? Avrebbe egli avuto il dovere di raccontare ad Enrico il perchè ed il come Nanà fosse stata obbligata a riceverlo lui, di notte, mentre s'era mostrata sempre restìa e inflessibilmente, se non casta, cauta, con lui? Tutte queste domande si erano affollate nel cervello di Sappia nel breve spazio di tempo, che scorse fra l'esclamazione di Enrico e quella che egli fu obbligato di rispondergli, per non metterlo in sospetto. - Te l'avevo pur detto di guardarti! - sclamò Sappia. - Ora spiegati. Enrico gli raccontò tutto sinceramente. - Ma chi è costui che va da lei di notte? - domandò il Sappia con finta indifferenza. - Il portinaio ti ha detto chi sia? - Sì - rispose Enrico - è lo scultore. - Lo scultore? - Aldo Rubieri! Il marchese tirò dai precordi un gran fiato; egli intanto si sentì sollevato da un bel peso. La tempesta che vedeva scatenarsi sul proprio capo, si scioglieva in sereno per andar a devastare il campo del vicino. E il primissimo moto del suo egoismo fu di lietezza. Ma il secondo, repentissimo, nel suo animo fu di sorpresa e di rabbia. L'amor proprio pigliò tosto il sopravvento. Così subitaneo, a dir vero, che si confuse col primo e gli fece sclamare con accento sincero: - Dici vero? Aldo Rubieri? Ah, canaglia! Non lo sapevo! Enrico scambiò l'interesse, che la voce, lo sguardo e il gesto del marchese gli dimostravano come una commiserazione per la propria sventura, e rispose ingenuamente: - Ti pare? Tu che sai tutto di me; dimmi che nome merita Nanà? Dillo che nome merita quella donna infame? A questo punto la chimica - per modo di dire - amorosa di que' due amici diventava assai complessa e confusa. Enrico si credeva di fronte ad un amico senza colpa. Il marchese che non aveva "il buono testimonio della propria coscienza, nè il sentimento della giustizia della propria causa" era rimasto leggermente imbarazzato e silenzioso. O'Stiary proseguiva: - Tu che ne dici? Che cosa mi resta a fare? Levarmela dalla mente ora è impossibile! Non avrei mai creduto che una donna potesse rendermi così vile e stupido! Lo riconosco.... Ma è più forte di me, è più forte della mia volontà! Oramai non posso più far senza di lei. - Non c'è che un viaggio! - disse Sappia - Va via... va a Parigi. Vengo anch'io. - Impossibile! Ci ho pensato. Ma ritornerei dopo tre giorni. Che cosa vorresti facessi in viaggio se ella mi ha come... ammaliato? - Capisco, capisco! - ripetè il Sappia sopra pensiero. - Ma sai bene, Enrico, in queste cose non si possono dare consigli. Io non ho mai provato che cosa sia questo tormento. La mia Luisa io non l'amo abbastanza per esserne geloso. E stettero silenziosi entrambi per un cinque minuti. La conclusione fu che il Sappia non diede altro consiglio ad Enrico e che Enrico si accontentò per quel giorno d'essersi sfogato coll'amico traditore. Così, e non altrimenti, corre ai giorni nostri la vita vera E chi desideroso di non trovarla tanto sconclusionata e smorta volesse caldeggiarla e idealizzarla, per seguire i dettami di chi odia la pretta verità, correrebbe rischio di dipingere una società di fantasia, mille e mille altre volte descritta dai maestri del passato, ma sterile poi e vuota di ammaestramenti ai filosofi socialisti.

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LE ULTIME FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Dapprincipio metteva una mano davanti alla bocca, per contegno; poi abbandonava il capo su la spalliera della poltrona e si sfogava: -Ahaa! Ahaaa! Ahaaaa! E, allora, i Ministri, uno dietro all'altro: - Ahaa! Ahaaa! Ahaaa! - con le mani davanti alla bocca, per rispetto di Sua Maestà, fino a quando, non potendo resistere, sbadigliavano senza nessun ritegno, in coro col Re. Arrivato il momento che non ne potevano più, fatto un inchino, scappavano via, per paura che gli sbadigli non squarciassero loro le bocche. E quasi ogni giorno tenevano consulti, discutendo lunghe ore intorno a quel che avrebbero potuto proporre a Sua Maestà per vederlo uscire da quello stato. - Per me - disse un giorno uno dei Ministri - l'unico rimedio è trovare una diecina di Buffoni, di quelli che con le lor smorfie, coi salti, con gli strilli farebbero ridere un morto, e condurglieli improvvisamente davanti. Ne vedremmo subito gli effetti. - Ma che! Ma che! - Sinora il popolo non sa niente di questa gran noia del suo Sovrano. Dobbiamo fargliela apprendere tutt'a un tratto? - Dite bene. Potrebbero sospettare chi sa che cosa! - E se ci travestissimo noi da Buffoni? Non ci vuole poi grand'arte per fare quattro smorfie e quattro salti! L'idea del Primo Ministro fu approvata: e ognuno di loro si procurò - segretamente - il vestito adatto. Indossatili, si dipinsero il viso col nerofumo e col rossetto, e nella sala dove solevano tenere riunioni per gli affari di Stato, cominciarono a provarsi, imitando i gesti, i salti, gli strilli dei Buffoni più noti. Il Re passeggiava, a capo chino, con le braccia dietro la schiena, su e giù per un salone del suo appartamento, quando vide irrompere dall'uscio quei sette - i Ministri erano sette - che parevano tanti indemoniati. Saltavano, sghignazzavano, facevano capriole, si prendevano per mano e giravano giravano attorno al Re, che, còlto alla sprovvista, non sapeva in che modo schermirsi. Ma invece di ridere, come quelli avevano sperato, diventava in viso sempre più tetro, quasi feroce. All'ultimo, diede un pugno a questo, un calcio a quello, uno spintone a due altri, e appena la rabbia gli permise di parlare, gridò: - Sapevo di avere Ministri ladri ... ma buffoni, no davvero! - Perdono, Maestà! - L'intenzione era buona! - Ci dispiace di vederlo così oppresso dalla noia; e potrebbe essere l'uomo più felice della terra! - Ve l'ho detto, ve l'ho ripetuto: Vorrei avere una cosa che! ... E nessuno è buono di trovarmela! - Una cosa ... che ...? - Non mi fate il verso! E i Ministri si stillavano il cervello: - Che cosa poteva mal essere quella cosa ... che ...? Forse :non lo sapeva neppur lui. Ogni volta che i Ministri ne facevano una troppo grossa, il popolo mormorava forte: - Ma il Re non ha occhi per vedere? Non ha orecchi per sentire? Uomini, donne, vecchi, bambini si affollavano davanti al palazzo reale, gridando: - Viva il Re! Vogliamo vedere il Re! Si affacciava a un balcone il più vecchio dei Ministri: - Silenzio! Il Re riposa; non lo disturbate! - Vogliamo vederlo! - Ha un forte mal di capo! - Vogliamo vederlo! Almeno vederlo! Quel giorno, in mezzo alla folla, c'era una vecchina che strillava più di tutti e agitava per aria il corto bastone che le serviva da appoggio camminando. Nessuno la conosceva, nessuno l'aveva mai vista, e sentendola gridare e vedendo quel suo scarno braccio che agitava il bastone, a poco a poco, la gente era stata presa dalla curiosità, e aveva fatto cerchio attorno a lei, dimenticandosi di gridare: - Vogliamo vedere il Re! - come quella vecchina, che pareva una spiritata e continuava a strillare, agitandosi per conto suo. Dal palazzo reale era uscito un drappello di guardie con le daghe sfoderate per disperdere la folla. Vedendo che, ormai, soltanto quella vecchina insisteva a gridare con quanta voce aveva in gola, le guardie si fecero largo fino a lei. - State zitta, vecchiaccia! Come se dicessero a un muro. Vedendo che non c'era verso di farla tacere, una guardia la prese per un braccio, un'altra per un polso, e la condussero dentro il portone del palazzo reale. - Chi siete? Che volete? - Voglio vedere il Re! Salgo su. E prima che le guardie potessero impedirglielo, essa si slanciava rapidamente pel grande scalone - pareva che avesse le ali! - entrava nell'anticamera, infilava un largo corridoio - lei avanti, le guardie dietro, ansimanti, quasi avessero corso parecchie miglia, - e poteva essere fermata a stento, davanti all'uscio delle stanze del Re. Alle grida, al rumore, erano accorsi i Ministri. - Chi siete? Che volete? - Voglio parlare con Re! - Il Re dorme. - Svegliatelo! I Ministri si misero a ridere; quella donna andava per le spicce. - Sua Maestà non vuol essere mal svegliato; si sveglia da sé, alla sua ora. - Aspettiamo la sua ora! È dormiglione? I Ministri si misero a ridere nuovamente. - Dico così, perché ho fretta, e non posso tornare un'altra volta. - Tali cose d'importanza dovete dire a Sua Maestà? Intanto potreste dirle a noi che siamo i suoi Ministri. Gliele riferiremo appena sarà sceso dal letto. - Allora! ... E la vecchina cominciò a picchiare forte ad un uscio, chiamando: - Maestà! ... Dormiglione! ... Maestà] I Ministri si contorcevano dalle risa. E la lasciavano fare, sperando che con quei modi da matta riuscisse a distrarre e a far ridere il Re. Il Re spalancò l'uscio con stizza e comparve su la soglia. Si fermò, stupito di vedersi davanti quella vecchina trasandata, col bastone per appoggiarsi camminando. - Ben levata, Maestà! Hai dormito bene, Maestà? Il Re, sentendosi dare del tu, guardò negli occhi il Primo Ministro, che fece un gesto con la mano per indicare: È uscita di cervello. - Mi seggo, Maestà! Sono stanca. E tu hai sempre dattorno questi figuri? I Ministri, ora, non risero. - Volevano sapere prima di te quel che devo dirti a quattr'occhi. Il Re stava ad ascoltarla e, di tratto in tratto, provava strani abbagliamenti, come se quella donna gli si trasformasse davanti, ora con magnifici capelli biondi, ora con lunga chioma corvina, ora giovanissima, esile, ora di forme piene, robuste. E il colore dei vestiti mutava dal bianco, al celeste, al giallo, al rosso vivo, passando da questo a quello rapidissimamente. Il Re chiudeva gli occhi, se li strofinava e si rivedeva davanti la vecchina vestita di nero, trasandata, col bastone che le serviva per appoggiarsi camminando. - Sei stato molto malato, Maestà; ed ora ti annoi mortalmente ... Qui stai bene, con tante finestre, con tanti saloni, uno più bello dell'altro. Lasciami vedere. S'inoltrava di salone in salone, seguita dal Re, il quale, zitto, accigliato, tornava ad avere altri bagliori, a vedersela trasformare sotto gli occhi, bionda, bruna, vestita di rosso, di giallo, di bianco, di celeste, di stoffe tramate d'oro, e non sapeva che pensare. - Sono stanca: torno a sedermi. Puoi sederti anche te, Maestà: sei in casa tua. Dunque dicevo? ... Oh, su! scaccia via queste malombre. Perché ci vengono dietro? Ma poi continuava, senza più curarsi della presenza dei Ministri: - Io ti ho voluto sempre bene! Ti ho visto nascere, ti ho visto crescere. Venivo a trovarti nei sogni. Ricordi? No? Mi chiamavi: Faccia bella. Ricordi? No? Scherzo. Penso che i bambini vedono tante cose nei sogni; e che forse potresti aver veduto anche :me, o persona che mi rassomigliasse. No? ... No? ... Non sognavi da bambino? Per questo sogni ora, anche ad occhi aperti; ti si legge in viso! Il Re stava ad ascoltarla sbalordito; i Ministri erano là, a bocca aperta, più sbalorditi di lui. - La malattia di cui sei guarito, è cosa da niente, a petto di quella che ti rode l'anima e il cuore! Tu, Maestà, vuoi sapere chi sono io? Te lo dirò un'altra volta. E, se vuoi, ti porterò la cosa che ... Tu smanii per averla; pensi ad essa il giorno; la sogni, la notte. Ti figuri che non potrai continuare a vivere, se non avrai finalmente la cosa che ... Oh! Quasi quasi sarebbe meglio che tu continuassi a desiderarla senza mai giungere a possederla ... - No! No! - E se poi ti dispiacerà di averla avuta? E se poi ti pentirai di averla avuta? Dovrai prendertela con te stesso. Intanto, lo sai che hanno fatto costoro? Hanno messo nuovi balzelli, col pretesto che il Re ha bisogno di molto danaro. - Perdono, Maestà! - L'intenzione era buona. - Volevamo fare un bando: Chi portava a Sua Maestà la cosa che ... riceveva per ricompensa tant'oro quanto egli pesa. - E l'oro è pronto? - domandò la vecchina. - Per voi, basterebbe metà di quello già pronto. - Vogliamo provare? Sarà un divertimento per Sua Maestà. - Proviamo pure, giacché Sua Maestà lo permette. Fecero portare una gran bilancia che due servi robusti reggevano a spalla con una stanga, e parecchi cesti ricolmi di monete d'oro. Che? La vecchina pesava di più? Pareva impossibile! Aggiunsero nella coppa un altro cesto, e poi un altro ... E la coppa dov'era accoccolata la vecchina non si sollevava affatto. Se non che nei cesti le monete si muovevano tintinnando, quasi rimescolate da mani febbrili e invisibili. - Vedi, Maestà? Non servono. È meglio farle tornare nelle tasche della gente. Su, volate via poverine, ognuna al suo posto! Parvero sciami di api che scappassero dalla finestra, tintinnando, luccicando, sbattendo sui vetri spalancati. I Ministri che, approfittando dell'occasione, se n'erano prese, di nascosto, due manciate per uno, se le sentivano scappar via di tasca, e non facevano il minimo gesto per fermarle, dalla grande paura di esser scoperti dal Re. E quando le monete d'oro furono volate tutte via, la vecchina prese il bastone, si mise a cavalcioni di esso, e dicendo: - A rivederci fra otto giorni, Maestà! - volò via anch'essa per la finestra, e sparì. Quella giornata fu allegra per tutti, meno che pei Ministri. La gente sentiva un peso nelle tasche, ficcava una mano: - To'! Una moneta! - To'! Due, tre monete! E non sapevano spiegarsi quel prodigio! Otto giorni dopo, la vecchina ricomparve nel portone del palazzo reale. - Salgo su, dal Re! E prima che le guardie potessero impedirglielo, montava rapidamente pel grande scalone e pareva che avesse le ali! -lei avanti, le guardie dietro, ansimanti per la corsa, e picchiava all'uscio della stanza del Re. -Maestà! ... Dormiglione! ... Maestà! Accorse ansiosamente il Re, che rimase male non vedendole niente in mano, fuorché il bastone. - E la cosa che ...? - Non l'hai vista? È in camera tua, sul tavolino. Il Re si precipitò là, ma la vecchina lo trattenne a certa distanza. Su una larga striscia di panno scuro, tremolava, formicolando di mille colori, una gran bolla di sapone. Tutte le pietre preziose - smeraldi, rubini, topazi, zaffiri, ametiste, turchesi - ridotte liquide, parevano rincorrersi attorno, in alto, in basso, e davano a quella gran bolla l'aspetto di cosa vivente. - Vedi Maestà? - disse la vecchina: - là c'è tutto: speranze, lusinghe, gioie, dolori, disinganni, sciocchezze ... tutto! Che ti eri immaginato? Là c'è tutto ... e non c'è niente. Un soffio più forte dell'ordinario, un piccolo urto basteranno a farla scoppiare. - Oh, com'è bella! Com'è bella! Il Re non si saziava di ammirarla. - L'hai avuta dentro di te e non ti sei accorto di possederla ... - soggiunse la vecchina. Ed ecco che il Re prova nuovamente gli abbagliamenti dell'altra volta, come se quella vecchina gli si trasformasse davanti, ora bionda, ora bruna, ora giovanissima, esile, ora di forme piene, robuste; ora vestita di rosso, o di giallo, o di bianco, o di celeste, di stoffe tramate di oro ... e non sapeva che pensare! Chiudeva gli occhi, se li strofinava, e si rivedeva davanti la vecchina vestita di nero, trasandata, col bastone che le serviva di appoggio camminando. Ma la cosa che - egli non sapeva esprimersi altrimenti - era ancora là, formicolante dei più vivi colori. Se non che, ammirando: - Oh, com'è bella! Com'è bella! - egli non poteva far a meno di soggiungere: - E non è altro! Una gran bolla di sapone! Non è altro! La vecchina ha ragione. L'ho avuta dentro di me, per anni ed anni, e non mi son mai accorto di possederla! - Chi siete? Voi siete una Fata benefica! - egli esclamò, buttandosi ai piedi della vecchina. - La vera Fata benefica è la tua giovinezza che non può più vivere fantasticando la cosa che ... La vecchina gli svaniva lentamente davanti quasi si allontanasse, si allontanasse sorridendo. E dietro ad essa, un leggero soffio spinse, per poco, la bolla iridata, che all'aria aperta scoppiò, lasciando cascar giù poche stille di acqua torbida. Da principio, il Re sentì un vuoto nel suo cuore, e nel suo cervello; ma di mano in mano ch'egli riprendeva la vita attiva provava un gran sollievo, si sentiva più giovane, più vivo, più uomo; e quando voleva indicare qualcosa di triste, di vuoto, esclamava sdegnosamente: - Come al tempo della cosa che ...! E per ciò questa fiaba vien chiamata: La fiaba del Re Che voleva una cosa che ...

EH!La vita...(Novelle)

662358
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
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Lei gli si abbandonava sul petto, singhiozzante: - Ha parlato anche di un viaggio in Svizzera! - Ah, se tu volessi! - Uno scandalo, no! Per mia madre. Ne morrebbe! - E forse il nostro amore perderebbe la sua più grande attrattiva, uscendo dal mistero che ora lo circonda! - Non dire così. Anche al cospetto del cielo e della terra.... Soltanto per mia madre! - Perché vuole condurti via? È impossibile che io viva, anche per qualche mese, lontano da te. - Resisterò... Mi ammalerò... più gravemente. E così dicendo sorrideva. Allora, a poco a poco, il cielo delle loro anime si schiariva, assumeva una limpidezza raggiante di sole; e tutti e due dimenticavano il mondo, come se quella camera, quell'appartamentino (a cui si accedeva da due vie e sembrava fatto a posta per eludere i sospetti della gente) rimanesse così lontano lontano da dar l'illusione che essi fossero i soli esseri viventi in un'isola, in un continente, in un pianeta sperduto nello spazio. E quando la piccola soneria dell'orologio, mezzo soffocata da un panno per attutirne lo squillo, li destava dal dolcissimo sogno, ella spesso ripeteva: - Sì, sì, basta! Si può morire di felicità! - Sarebbe il più bel morire! - rispondeva Rosselli. - Vivere dobbiamo. Per morire c'è sempre tempo! E lei gli faceva un inchino: - Addio... antipatico! Addio... opprimente! - Addio.... leziosa! Addio.... pretenzionosa! Si staccavano a stento. Era stato un colpo improvviso, e le loro due giovinezze si eran esaltate sempre più in quel mistero che le circondava. Ella gli aveva detto parecchie volte: - Non ho rimorsi. L'ho sposato per amore, ed egli ha fatto di tutto per stancarmi, per allontanarmi da sé. Non credo ci sia mai stato al mondo, o che ci sia, un tiranno peggiore di lui; tiranno delle piccole cose, dalle inutili manìe, dalle continue, irritanti esigenze che ti tolgono il respiro. Sin dalle prime settimane. Non posso ricordare senza fremere il nostro viaggio di nozze: venti giorni!.... un'eternità! Continuamente: - Ma Gina! Ma Gina! - quasi lo spostare un oggetto, il trascurare di riporne uno dove, secondo lui, era indispensabile riporlo... Da principio ridevo, rimettevo l'oggetto al suo posto, eseguivo allegramente la manovra da lui voluta.... Ma che? Dovevo ridurmi un meccanismo pronto ai suoi stupidi voleri? Mi sentii chiudere il cuore. Una irritazione sorda; poi odio a dirittura! Andavo a piangere in casa di mia madre. La cara e buona mamma non sapeva dirmi altro: - Fa la volontà di Dio! - Era Dio forse lui? Dio sei stato tu, tu la luce, l'amore, la vita! Ah, se non fosse per la mamma.... Non ho rimorsi. Sono orgogliosa di quel che faccio. Se occorresse, glielo griderei in viso! Lui tentava di rabbonirla, d'impedirle di commettere un'imprudenza, nei giorni in cui ella arrivava nel loro rifugio più irritata del solito. Ormai aveva voluto staccarsi completamente dal marito; non sapeva più vincere la ripugnanza ch'egli le ispirava. E in questo Rosselli era d'accordo con lei: tremava al solo pensiero di saperla alla mercé della violenza di colui che l'aveva in potestà sua, protetto dalle leggi umana e divina. La vera legge umana era il loro amore; la vera legge divina il loro amore, sempre, il loro amore! Non era anche troppo sacrificio il mentire davanti a lui, davanti alla società? Non era un miracolo di amore il non essersi mai traditi un solo istante? Per un nonnulla, al suo solito, Tonghi aveva fatto una gran scenata con la moglie. Essa, già pronta per andar fuori, non aveva risposto una sola parola, terminando di aggiustarsi la veletta davanti allo specchio, quasi suo marito non parlasse con lei. Egli aveva interpretato quel silenzio a modo suo, come un'acquiescenza alla sua sfuriata, abituato a credere di aver sempre ragione. Si era accorto da un pezzo, che qualcosa era venuto meno tra loro, ma pensava che, pur troppo, doveva esser così nel matrimonio. Non gli passava pel capo che fosse colpa del suo strambo carattere se quel qualcosa era avvenuto. Sofisticava intorno a tutto, riteneva che, per esempio, il lasciare un volume su una seggiola invece che sul tavolino dov'egli l'aveva posato, o nello scaffale dov'era stato collocato, fosse una storditezza imperdonabile da scompigliare tutto l'ordine della casa; non sapeva persuadersi che con l'interminabile trovar da ridire su ogni piccola cosa, con l'esagerazione degli sfoghi, che diventavano spesso escandescenze, egli era l'artefice della sua e dell'altrui infelicità; no, non gli passava pel capo. Fortunatamente il suo orgoglio non gli permetteva di dubitare che sua moglie potesse tentar di cercare altrove quelle dolcezze, quella tranquillità che ormai non trovava più in famiglia. - Va a dir male di me da sua madre! Il suo più nero sospetto era questo. Perciò accolse con un scettico sorriso la rivelazione di Collini che quella mattina, a bruciapelo, venne a dirgli: - Tua moglie ha un amante! Collini si era lasciato cascare su una seggiola, quasi lo sforzo per quest'accusa avesse esaurito le sue forze. - Che interesse hai tu di farmi tale rivelazione?... - disse Tonghi. E soggiunse sùbito: - Di calunniare mia moglie? - Sono un miserabile! - esclamò Collini. - Che interesse? La ho amata inutilmente un anno, più. Credevo che mi resistesse per dignità di donna onesta. Ma ora che ho scoperto.... Nè io, nè lui!... - Se tu mentisci!... E Tonghi gli si slanciò addosso, mettendogli le mani alla gola. - Nè io, nè lui! - replicò Collini. - So che commetto un'infamia..... - Chi, lui ? - Rosselli! È stato un caso... Potrai sorprenderli quando vorrai. - Se tu mentisci!... Va' via! Sei un gran vigliacco; mi fai schifo. Non comparirmi più dinanzi. E non ti sfugga con altri una sola sillaba di quel che sei venuto a dirmi. Al mio onore penserò io, provvederò io. Va' via! Collini, atterrito, si era mosso per uscire; ma Egidio Tonghi lo fermò per un braccio. - Prima, dimmi tutto! Gli era parso che un profondo abisso gli si fosse spalancato davanti e ch'egli stesse per precipitarvi. Che fare? Sorprenderli? Ucciderli?... Andar in carcere per loro? Si aggirava in casa come una belva nella sua gabbia di ferro, pensando che in quel momento essi erano là, nel loro nido, felici, senza sospetto!... Si fermò tutt'a un tratto davanti a una stampa che rappresentava il Santuario dell'Immacolata in cima alla rupe di Raceno. Un'idea diabolica gli balenò nel cervello, e rimase assorto, quasi vedesse già compiuto quello che fantasticava da un'ora. Per questo potè dominarsi vedendo rientrare con qualche ritardo sua moglie. - La mamma sta poco bene - ella disse, per scusarsi. - Niente di grave, spero. - Oh! Niente di grave. Il vecchio frate, custode del Santuario, li aveva ammoniti: - Non s'inoltrino troppo avanti da quella parte. L'altezza dà la vertigine. - Non siamo bambini - aveva risposto Egidio Tonghi. Pochi scalini e poi una piccola spianata semicircolare, senza nessun riparo, aperta sul gran vuoto della ristretta vallata dove la roccia scendeva a picco. - Avremmo dovuto far colazione qui - disse la signora Gina - invece che nel refettorio dell'eremo. S'inoltrava cautamente, dopo aver preso il braccio di Rosselli. - Sarà buono a trattenermi se mi prenderà la vertigine? - Le verrò dietro, in ogni caso. - Oh! Così cavalleresco! Era felice di poter passare una giornata intera assieme con lui, sotto gli occhi del marito. Tonghi, risalito gli scalini, aveva tirato fuori della tasca la rivoltella, e con gli occhi quasi fuori dell'orbita, iniettati di sangue, con voce roca, imperiosa, gridò alla moglie e all'amico: - Buttatevi giù! Vi ho condotti qui a posta.... Buttatevi, o vi ammazzo! I due amanti improvvisamente impalliditi, capirono che non si trattava di uno scherzo di cattivo genere, di una minaccia da burla, e si voltarono stringendosi l'uno all'altro. - Buttatevi!.... O vi ammazzo!... Il turpe inganno è finito! - Inganno? - Zitta! - Inganno? - riprese la signora Gina non dando retta a Rosselli che le stringeva forte il braccio. - Ma è stato unicamente.... - Zitta! Zitta! - ....per mia madre.... Si, ci butteremo giù, felici di morire insieme, al tuo cospetto, in un abbraccio e in un bacio supremo!... - Sputandoti in viso il nostro odio, il nostro disprezzo! - soggiunse Rosselli. Non c'era via di scampo; si sentivano presi; qualunque loro movimento in quel ristrettissimo spazio voleva dire la morte. E colui, brandendo l'arma, minacciava, ripetendo: - Buttatevi! Buttatevi! Senonchè la sua voce più non era imperiosa, sicura. Di fronte a quel deciso contegno, davanti a quell'altera proclamazione del loro amore e alla gioia di morire insieme si sentiva sfuggire la piena soddisfazione della vendetta: e quando li vide avvinghiarsi in un abbraccio e incollare in un violento bacio le loro labbra, chiudendo gli occhi, indietreggiando, indietreggiando lentamente, quasi per assaporare in quel modo la dolcezza della morte imminente, Egidio Tonghi buttò via la rivoltella e, senza sapere quel che facesse, emise un rauco grido: - No! No! Fermatevi! Troppo tardi! Il vecchio frate, vistolo ricomparire solo, domandò: - E gli altri due? - Sono scesi giù; risaliranno dall'altra parte. Li attendo qui. E si sedè sul banco di pietra davanti a la chiesetta, borbottando: - Han fatto il salto.... Io non volevo.... Risaliranno dall'altra parte... Li attendo qui! Egidio Tonghi era impazzito.

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GIACINTA

662561
Capuana, Luigi 2 occorrenze

Si abbandonava. Ogni giorno che passava le pareva tanto di guadagnato. Andrea mostravasi buono, affettuoso? Mostravasi freddo, quasi indifferente? Era lo stesso per lei. - Mi pare che tu non stia bene - le disse una sera la signora Villa. - No - rispose Giacinta. - Che ti passa pel capo? Rideva, scoteva la testa, come se Ernesta Villa avesse detto qualcosa d'assurdo. Ma colei la guardava un po'incredula, un po' intrigata: in quel riso, in quella vivacità di risposta c'era un che di cosí sforzato, di cosí eccessivo da far pena. Giacinta se n'accorse. - E tu? Come ti trovi ora? - le domandò, per deviare il discorso. - Chiodo schiaccia chiodo - rispose la signora Villa tranquillamente. - Dev'esser una cosa assai triste! - La prima volta sí; ma ci si abitua subito. Gli uomini, cara mia, al giorno d'oggi ... Provatone uno, gli hai provati tutti. Comincio a credere che i mariti (sia detto tra noi) valgono piú degli amanti. Se non che, capisci? ... Giacinta non capiva nulla. Nei momenti piú desolati, quando giungeva ad esclamare: - Perché non faccio come le altre? - all'idea d'un secondo amante abbrividiva. - Come fanno a mutar d'amante ogni stagione? Allora non si abbandonava piú alla fatalità della sua sorte, non si lasciava andare come un corpo morto in balia delle circostanze e del caso; la impotenza della rassegnazione si mutava in furore. E voleva riprenderselo tutto per sé quell'uomo, che tentava di fuggirle; trattenerlo fermo, col valido polso d'una volta, anche a dispetto di lui; fargli sentire nuovamente la saldezza del suo carattere, la prepotenza del suo affetto, domarlo, prostrarlo, attaccarselo con ogni mezzo, poiché sapevasi la piú forte. E la tempesta scoppiava. - Come sei ingiusta!- disse Andrea uno di questi giorni. - Sta zitto! ... Non recitar la commedia! - Come sei ingiusta! Ella lo squadrava da capo a piedi, fieramente. Era già sicura ch'egli mentiva; pure replicò! - Se tu menti, commetti un'infamia! Se tu menti, commetti un'infamia! - Ah! ... Commetto un'infamia? - esclamò Andrea, scattando in piedi. - Ma l'ho commessa egualmente, peggio, avvilendo la mia giovinezza con questa catena strascicata al piede sei anni! L'ho commessa nel darti tutto il mio cuore, tutta la mia vita, tutto il mio avvenire, nel sacrificarti la mia dignità d'uomo, la mia coscienza, ogni cosa ... corpo e anima ... ogni cosa! Ma la commetto tuttavia, non tentando di ribellarmi, non osando d'alzare il capo, continuando nel sagrifizio, mentre il mio cuore mutato, la mia coscienza scossa mi torturano, m'insultano, non mi lasciano in pace un momento! ... E tu mi rimproveri? E tu levi la voce? Non ti accorgi dunque ch'io soffro piú di te? E che, se mento, è per te, unicamente per te? ... Per pietà di noi? ... - Taci! Taci! - ella gridò. Un groppo di pianto la strozzava. Andrea, sbalordito a quell'incredibile suo impeto di sincerità e di coraggio, scappava via per le scale, come se avesse commesso un delitto.

Ma intanto gli si abbandonava sul petto, con la testa indietro broncia broncia, vinta da un languore dolce: - Sai, Andrea? Quel mio sospetto ... sai? Non mi stringere cosí: mi fai male! Io lo credo già una certezza ... - Oh! Voleva baciarla, ma ella era scappata. Andrea le corse dietro. Presi da matta allegria, si inseguivano ridendo e battendo le mani, come due ragazzi. E la vecchia contadina, che stava seduta sopra un corbello rovesciato davanti alla porta della casa rustica, aguzzava gli occhietti maliziosi verso quel diavolino di signora che non si lasciava chiappare.

IL BENEFATTORE

662584
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
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O la donna che si abbandonava tutta alla sua passione con l'indefinito acre piacere d'un pericolo sfidato e non potuto credere immaginario, per quanto il contegno del marito l'affidasse? Egli non aveva saputo indovinarlo; ma si sentiva felice anche lui. Niente era mutato in casa sua e nei rapporti con quell'amico. La loro intimità anzi, da allora in poi, era divenuta più stretta, più cordiale. Quegli doveva certamente essergli grato della creduta cecità di marito; Bertagni gli era gratissimo della felicità di Lucia ... - Questo sconvolge tutti i tuoi pregiudizi sociali; te lo leggo in viso ... ma non importa! - egli esclamò interrompendosi. Sfido! Quel che avevo udito mi sembrava enorme; rovesciava ogni mia convinzione, ogni mia esperienza psicologica; e intanto colui che seguitava a farmi la incredibile rivelazione parlava con calma, come chi ragiona di cose affatto naturali per lui, pur accorgendosi che non debbano nè possano apparir tali anche agli occhi degli altri. Finalmente, Bertagni intravede che le parole da lui pronunciate il giorno della confessione di Lucia, sono già sul punto di avverarsi: - Tutto finisce quaggiù! Finirete di amarvi anche voi! - Non aveva però mai pensato al caso che potesse essere lui il primo a finire! Ed ora intuiva qualche cosa che non avrebbe saputo precisare, una lontana minaccia da quella parte; e ne era profondamente turbato. Una mattina aveva detto alla moglie: - Che faresti ... se lui non ti amasse più? - Mi ammazzerei! - Perchè? - Perchè non vorrei rifarmi daccapo, con un altro; e tornar tua non saprei. Tu mi disprezzi. - Da che cosa lo deduci? - Dalla tua insensibilità. Ci ho pensato a lungo, spessissimo. - T'inganni. - Va bene. Che significa dunque questa tua domanda? Ti compiaci di spaventarmi? - No, faccio soltanto un'ipotesi. - Tu sai qualche cosa! - ella proruppe. - Niente. - Giuralo! - Lo giuro! Era impallidita, e le lagrime che le tremavano nella voce già le sgorgavano dagli occhi. - Mi hai fatto una gran paura! - esclamò. E lo guardava ancora incredula, ansiosa. - E allora? domandai io, con vivissima curiosità. - Non dev'essere lui a finire il primo, no! - Entratagli in testa questa fissazione, il povero Bertagni non ebbe più pace. L'amante si era stancato? C'era qualcuna che lo contendeva a Lucia? ... Questa relazione però non gli costava niente ... Egli era covato tra la bambagia ... Ma, spesso, l'uomo si stanca della felicità posseduta senza nessuno sforzo e di cui si stima sicuro ... Un'altra? Chi? ... Più bella, più buona di Lucia? Oh, voleva vederla! E cominciò a osservarlo, a spiarlo, a notare ogni mossa, ogni gesto, ogni parola dell'amante di sua moglie, per strappargli il segreto. E a un saluto, a un sorriso, a un complimento rivolto da colui a qualche signora, Bertagni vibrava di indignazione. Non erano furati a sua moglie? Capiva di esagerare: ma, da lì a poco, dovette convincersi che faceva benissimo; la esagerazione lo costringeva a spalancare gli occhi, ad aguzzare lo sguardo, a tendere l'orecchio. E così ora soffriva lui - Lucia non sospettava affatto, e si lasciava illudere dalle apparenze! - soffriva lui tutte le torture, tutte le lacerazioni, tutti gli strappi al cuore prodotti dalla gelosia allorchè ci si rizzano davanti agli occhi misteriosità terribili, e per poco la nostra intelligenza non si smarrisce tra le tenebre della pazzia! - Che hai? - gli domandava Lucia. - Nulla. - Che ha? - gli domandava anche l' altro . - Nulla. E il più profondo dolore del Bertagni era quel turbamento che involontariamente egli doveva cagionare nell'animo della moglie col silenzio, con le reticenze, con l'aspetto rannuvolato; giacchè, per quanto si sforzasse di dissimulare, non sempre riusciva. - Sai tu qualcosa? ... Puoi tu indicarmi qualche traccia? Non essere pietosamente crudele! Parla! - mi disse all'ultimo. - Te ne supplico: parla! Non sapevo che rispondergli e lo guardavo stralunato. E mi raccontò che il giorno avanti avea voluto ammonire colui , senz'averne l'aria, fingendo di ragionare intorno a un caso molto simile al suo. - Il seduttore - gli aveva detto.- è vigliacco, se tradisce senza nessuna ragione. Offende due volte la donna amata; prima, rendendola colpevole; poi, posponendola a un'altra che, forse, vale assai meno di quella. Io, marito, se avessi la disgrazia ... - Che discorsi! - lo aveva interrotto l'amico. - Io, marito, - egli continuò - se avessi la disgrazia ... (oh, non tanto pel tradimento - novantanove volte su cento, il seduttore è un amico! - quanto per l'offesa dell'abbandono ... ) Io marito ... - Che discorsi! - tornò ad interromperlo colui, imbarazzato. - Io marito, che potrei essere indulgente nel primo caso, sarei proprio inesorabile nel secondo, se mai avessi la disgrazia ... - Non mi ha lasciato finire - esclamò dolorosamente - e mi ha voltato le spalle!:.. Ho fatto male? Forse, ahimè, ho accelerato la catastrofe che avrei voluto impedire! ... E per ciò oggi che ho il cuore assai più oppresso, e sento un gran bisogno di sfogarmi nel seno di un amico fidato, sono venuto da te. Scusami! ... Povera Lucia! Non l'ho riveduto più, nè ho mai saputo la soluzione di questo caso, forse unico, di gelosia maritale. Io dovetti lasciare Torino alcune settimane dopo, e non vi sono più ritornato. Appresi a San Francisco che il buon Bertagni era morto di nefrite, nel '50@. '50.

Il Marchese di Roccaverdina

662628
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Alla Cappelletta, la marchesa si abbandonava, singhiozzante e sfinita dalla corsa, tra le braccia di Maria; non avevano potuto raggiungerlo. Per alcuni istanti la marchesa poté udire la voce di Titta che gridava: «Signor marchese! Eccellenza!», e il rumore dei passi dei contadini che correvano assieme con lui; poi, nell'oscurità, udì soltanto lo stridere delle ruote di carretto che saliva lentamente per lo stradone; e l'abbaio di un cane.

PROFUMO

662645
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Rimanendo sola, si tormentava sordamente, fantasticando; in compagnia, si lasciava distrarre, si abbandonava alle impressioni esteriori, piene per lei del dolce sapore della novità, dopo tanti mesi d'isolamento quasi claustrale e di afflizioni di cuore. E al ritorno, stanca, con la interna ripercussione di tutto quel che aveva veduto e sentito, appena il suo dispetto tentava di riaccendersi, ella alzava le spalle, rinunciando sdegnosamente a indovinare il senso delle enimmatiche parole di Patrizio: "Se tu lo comprendessi, non lo diresti!" che le rivenivano frequenti alla memoria. "Forse non sa neppur lui che cosa significano!" conchiudeva. Rifletteva però che l'altra volta egli s'era subito accorto e impensierito della tristezza di lei; ora lasciava correre, o non se ne dava per inteso. Avesse potuto almeno leggergli un'ombra di preoccupazione sul viso! Niente, niente! Da quella sera, dal ritorno dal Santuario della Madonna delle Grazie, neppure un lontano accenno al soggetto della mutua spiegazione rimasta interrotta. Ah! La credeva tuttavia malata. Che idea! Per questo il dottor Mola aveva ripreso le visi- te e le minuziose inchieste. Ella gli ripeteva: "Stia tranquillo; mi sento benissimo!" "All'aspetto, non si direbbe" rispose una volta il dottore. "Ormai vi conosco bene, signora mia. Vuol dire che prima avevate maggiore fiducia in me ... sì, sì!" "Oh, dottore!" Protestava per cortesia; ma quella faccia magra, schiacciata ai lati, che col gran naso adunco pareva volesse spinger- si a scrutarla nel profondo petto, cominciava a divenirle un tantino antipatica. "Tu e lui" disse con stizza a Patrizio "vi siete ficcati in testa che io stia ancora male; lasciatemi stare!" "Dovresti ringraziarlo" egli rispose. "Più che medico, è amico." "Tenga i suoi intrugli per sè; ne ho a bastanza!" Due giorni dopo, il dottore venne a farle un predicozzo: "Honora medicum" dice la Bibbia. "Chi trascura la propria salute pecca gravemente." Anche su questo punto s'era rassegnata! Chi sa? Forse avevano ragione. E se pure avessero avuto ragione? Non glie- ne importava. In certi momenti ... arrivava fino a invidiare colei che giaceva sotterrata nel camposanto e non ve- deva e non sentiva più nulla, felice lei! Per ciò Eugenia sorrideva amaramente allorquando si sentiva invidiata da Giulia, che esclamava alla sua volta: "Fe- lice lei!" e le susurrava queste parole in un orecchio, abbracciandola, quasi vedesse nella supposta felicità dell'amica un'anticipata rappresentazione della propria felicità, e in lei intendesse abbracciare con la immaginazione Corrado Favi, che appunto in quei giorni doveva prendere la laurea! Gliel'aveva già ripetuto allo stesso modo poc'anzi, lungo lo stradone della Cava, avviandosi, insieme con le sorelle, Ruggero e la zia Vita, verso un fondicello di lei a mangiarvi i fichi primaticci, come solevano fare ogni anno in quella stagione. "Sentirete che fichi, donna Eugenia! Innesti delle mani benedette della buon'anima." "E quando ti picchiava, zia, che mani aveva?" la interruppe Ruggero. "Dio non gliene chieda conto lassù, figliuolo mio!" E continuava, rivolta a Eugenia: "Due spanne di terreno: paradiso! Peri, meli, prugni, nespoli del Giappone, melagranati di tutte le specie. Fichi poi! ... Vittorio Emanuele, re bell'e qual è, non ne mangia frutta simile: ve ne assicuro io!" "Dovresti mandargliela, zia" disse Giulia, scoppiando a ridere. "A quello scomunicato? Se la compri, se pure ne trova, coi denari delle tasse che ci smunge!" "Come se li mettesse in tasca lui, povero Vittorio Emanuele!" "Tu, si sa, figliolo mio, sei liberale! Suo padre è sindaco" continuò ironicamente la zia Vita, tornando a rivolgersi a Eugenia "suo nonno era carbonaro. Chi se li prende, insomma? Garibaldi? Faranno a mezzo ... So assai! Io sono donna, e non capisco certi pasticci. Pago fondiaria, ricchezza mobile, focatico ... Che cosa non pago? Come quan- do viveva la buon'anima. Sono vedova per nulla, da questo lato." "Allora rimaritati, zia. Con tanti partiti che hai!" disse Giulia, strizzando il braccio a Eugenia e ridendo. "Ti pare che vogliano me? Vogliono quel po' che possiedo." "Non far la modesta; sei forse vecchia?" soggiunse Ruggero per incitarla. "Quanti anni hai?" "Ho quelli che ho: ma mi sento più giovane di quelle là. Vedi? Angelica e Benedetta sono già stanche, e hanno tro- vato da sedere. Io potrei fare fin dieci miglia, con tutta questa ciccia che ho addosso." "Qui siamo in discesa. Alla salita ti voglio!" Lo stradone prendeva la china, sinuoso, tra le alte rupi a picco di qua e di là, bigie, coronate di capperi che spenzola- vano i tralci su le bocche delle grotte, facendovi cortinaggi di verdura; impennacchiate di oleastri e di fichi d'India, po- polate di taccole che gracchiavano saltellando da un ramo all'altro e, volato a stormo e fatto un giro per l'aria, tornavano a posarsi, continuando a gracchiare. Eugenia, di tanto in tanto, levava gli occhi in alto, compresa dalla paura che qualcuno di quei massi sporgenti dalle rupi non si staccasse di lassù e non precipitasse a schiacciarli. "Dovrebbe visitare una di queste grotte" le disse Ruggero. "Sono grandi quanto una chiesa. Mi dia la mano; non è pratica, come noi, di arrampicarsi." Egli la fissava negli occhi, sorridendo degli sforzi di lei mentre l'aiutava a salire dal ciglione; ed Eugenia provava un senso d'imbarazzo sotto quegli sguardi che lasciavano trasparire più ingenuamente la sincera ammirazione; imbarazzo che aumentò, non appena ella si vide sola con lui dentro la vasta grotta affumicata. "S'inoltri; qui hanno rizzato una fornace da gesso" disse Ruggero dal fondo. "Questa buca, guardi, introduce in u- n'altra grotta anche più vasta." Ella esitava; però non volendo farsi scorgere, si avanzò fin davanti alla buca, voltandosi spesso indietro, sperando che Giulia si fosse decisa a seguirli; e si sentì sollevata, vedendola apparire su la soglia della grotta, con lo scialle al braccio e una mano su gli occhi a mo' di visiera. "Dove siete?" domandava. "Ecco: ora ci sbircio. Pare così buio qui dentro, venendo dall'aria aperta!" Girarono attorno alla fornace, ridendo a ogni inciampata nelle scorie del gesso che ingombravano il suolo; poi, pre- cedute da Ruggero e passando, curve, una dietro l'altra, per la stretta buca, entrarono nella grotta accanto che prendeva luce da un'apertura praticata proprio sotto la volta e mezza velata da piante selvatiche. Giulia avrebbe voluto affacciarsi; ma gli scalini intagliati nel vivo masso erano talmente corrosi, che, dopo due inu- tili tentativi, dovette rinunziare al suo capriccio. Ruggero si chinò, prese un sassolino e lo tirò in alto. Tre grossi pipistrelli, che sembravano grumi neri appesi alla volta, si misero a volare all'impazzata tra gli strilli di Giulia e di Eugenia che scappavano via. La zia Vita" di fuori, urlava: "Che cosa è stato? Venite, si fa tardi." "Sempre spericolata!" esclamò Benedetta, mentre Giulia raccontava la paura avuta. "A che servivano quelle cellette orizzontali scavate simmetricamente nelle pareti e disposte a due piani?" domandò Eugenia. "Servivano ai primi abitatori della Sicilia per seppellirvi i loro morti" rispose Ruggero. "Oh Dio!" ella fece con mossa di ribrezzo. "Ora i morti stanno lassù, su la nostra testa" disse la zia Vita, additando il muro del camposanto che biancheggiava su l'orlo della rupe. "Al sole e alla pioggia, quasi non si trattasse di gente battezzata, morta con tutti i sacramenti, in gra- zia di Dio! Anche questo c'è toccato di vedere: non essere più seppelliti nelle chiese!" E accorgendosi che il viso di Eugenia si era rattristato all'inopportuno richiamo, soggiunse subito ridendo: "Lasciamo stare i morti, pensiamo piuttosto ai fichi!" Eugenia era rimasta sovrappensiero. E procedendo a occhi bassi, tra Giulia e la signora Vita, si sentiva ancora ad- dosso gli sguardi di Ruggero, quel giorno più insistenti del solito. All'improvviso alzò la testa per accertarsi se s'ingan- nava. Ruggero, che la guardava fissamente, a quell'atto si era voltato subito altrove, quasi vergognoso di essere stato scoperto. Questi sguardi, ora fugaci, ora insistenti, ella li aveva notati da qualche settimana senza dare ad essi nessuna impor- tanza. Oggi intanto ne provava una sensazione confusa, non sapeva se di lusinga o di leggero dispetto, o dell'una o del- l'altro insieme. E ci pensava, vagamente, guardando a destra e a sinistra l'orrido che allargava la sua gola di mano in mano che le rupi, fiancheggiate da carrubbi, da ulivi, da pioppi, diminuivano d'altezza. Ci ripensava, vagamente, pre- stando sbadato orecchio alla parlantina della zia Vita, alle risposte e alle risate di Giulia, di Angelica e di Benedetta, ai motti di Ruggero che provocava la zia intorno alle sue famose tentazioni. "Anche il dottor Mola? ..." "Anche il dottor Mola! Che meraviglia? Non è un uomo come gli altri? C'è mancato poco non mi decidessi per lui. È persona seria il dottore ... Intendiamoci: parlo di anni fa! Portavo ancora il lutto." A un tratto, scoppiò dietro il ciglione il suono festivo di un cembalo. "Ecco quella matta di Pina che ci viene incontro" disse la zia. Giulia, presa Eugenia sotto braccio, la trascinò avanti quasi di corsa, mormorandole all'orecchio: "Se fosse qui anche Corrado! ..." Ed ecco Pina, coi bambini della mezzadra afferrati alla gonna, che saltellava e faceva smoffiacce per la viottola, tra le stoppie, picchiando su la cartapecora del cembalo ora con le sole punte delle dita, ora con la palma della mano, ora levandolo in alto per far tremolare le girelline di latta. E quel suono diffondeva allegria per la campagna attorno; e la campagna pareva più ilare sotto il sole che dorava il giallo delle stoppie, le tenere foglie degli albicocchi, dei peri e dei meli affollati su pel declive, dove ormai della roccia si scorgeva appena qualche masso rossastro, emergente qua e là, tra l'erbe e le pianticine selvatiche. Alla vista delle signorine, Pina si era messa a saltare più lesta e a girare, tenendo alte le braccia per suonare furiosa- mente il cembalo, facendo rigonfiare la gonna. "Basta, mi fai venire il capogiro!" gridò la signora Vita, che aveva un colpo di tosse dal troppo ridere. "Basta, basta, mattaccia!" Pina fece fronte indietro e prese a sgambettare, picchiando il suolo coi piedi, continuando a suonare il cembalo, agi- tando la testa finché il fazzoletto di cotone a fiorami rossi e gialli non le cadde sulle spalle e dalle spalle per terra. Così erano arrivati trionfalmente davanti a la casa rustica. Cestini colmi di fichi, pane e salame, bottiglie con vino e con acqua, bicchieri, tovaglioli si trovavano già pronti, disposti da Pina in bell'ordine sopra una gran tavola di pietra, sostenuta ai quattro angoli da rozzi pilastri. Era venuta avanti per questo e per avvertire i contadini dell'arrivo delle si- gnore. La mezzadra, col lattante al petto, mosse incontro alla padrona. Giulia, preso in braccio il bambinello avvolto nelle fasce, lo mostrava a Eugenia. "E lei, quando si risolverà a farne uno come questo?" "Non sembra figliuolo di contadini" disse Angelica. "Qui si vede la grazia di Dio!" sentenziò Benedetta. Eugenia accarezzava il bambino, che la guardava con gli occhietti celesti, agitando le manine; lo accarezzava trista- mente, invidiando quella mamma che forse ne avrebbe fatto a meno nella sua povertà, mentre lei ... oh, lei ne sa- rebbe stata felice! E anche allora i suoi occhi s'incontrarono con quelli di Ruggero. Questa volta però era toccato a Eugenia abbassarli, con tanta compiacenza Ruggero aveva seguitato a guardarla. "Su! Non perdiamo tempo" esclamò la signora Vita. "Ve lo dicevo io che fichi come questi Vittorio Emanuele non ne ha visti e non ne vedrà mai! È quasi peccato mortale mangiarli." "Pecchiamo allegramente!" esclamò Giulia. "Il mio confessore è di manica larga." "E lei?" domandò Eugenia alla zia Vita. "Io? Ah signora mia, io debbo contentarmi di vederli mangiare agli altri! Col mio stomaco, dice il dottore, un fico, uno solo, sarebbe veleno." "E tu, zia, dai retta al dottore?" fece Ruggero ammiccando a Eugenia. "Via! Non sia detto che son venuta qui per nulla. Ne mangerò uno, proprio uno, in nome di Dio. Ah, che miele!" "Zia, zia, almeno tre!" la pregava Giulia ridendo. "Questo qui pare di cera." "E sia! ... Tre, in nome della Santissima Trinità!" "No, zia; non darle ascolto" disse Benedetta atteggiando gli occhi e le labbra a severità. "Poi starai male." "Quest'altri due soli! ... Tre e due cinque, per le cinque piaghe di Gesù Cristo! ... Ed è finita" esclamò, pulendosi le labbra col tovagliuolo. Ruggero serviva Eugenia scegliendole i fichi migliori, mescendole il vino; intanto, sotto voce, le diceva: "Ora tocca a lei. Rideremo. Gliene offra uno e insista un po'." Giulia, vista la mossa di Eugenia, prese con due dita un altro fico e lo presentò nello stesso tempo alla zia, che co- minciò a strillare: "No, no, cara donna Eugenia! ... No, no, nipote mia! ... Che mi fate fare? ... Dio mio! ... Cin- que e due sette, pei sette dolori di Maria ... Bella Madre Santissima, beneditemeli voi!" E mangiatili golosamente uno appresso all'altro e levatasi da sedere, giurando che non sarebbe andata più in là dei sette dolori, si mise a distribuire fette di pane e di salame alla mezzadra, a Pina, ai bambini. E se Giulia e Ruggero le additavano il cestino coi fichi, si faceva subito il segno della croce, ripetendo: "Via, via, tentazionacce!" Quando però giunse massaro Santi con un altro bel panierino di quelli degli innesti di due anni, la tentazione la vin- se, povera zia! Sicché alla fine ella era passata pei dieci comandamenti di Dio, per le opere della misericordia, insomma per tutto il catechismo, e ne aveva mangiato anche parecchi alla salute dell'Agente che aveva avuto il torto di non venire con loro. "Glielo dica che sono in collera perché non è venuto; glielo dica, donna Eugenia!"

Racconti 1

662686
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Racconti 2

662697
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Spesso abbandonava la bottega per seguire di nascosto sua moglie, e vedere se per caso non andasse dal cappellano nuovo. E se la prendeva con don Gregorio che non aveva piú voluto saperne delle monache per via dei tarocchi: - Per costui mi trovo ora in questo malanno! - Non gliela perdonava, e ne andava discorrendo con tutti, quasi l'affare del cappellano nuovo l'avesse visto coi propri occhi; fino a che un bel giorno il cappellano non andò a trovarlo in bottega con le narici aperte e le pupille torve, che pareva volessero mangiarselo vivo vivo: - Mastro ubbriacone! - vi chiamerò dopo col vostro nome - volete finirla, sí o no, con questa commedia? - Mastro Cosimo, preso alla sprovveduta, non seppe che rispondere, e balbettò: - Ma io! ... Ma io! ... - Non vi vergognate di disonorarvi con la vostra stessa bocca, e calunniare un servo di Dio? Pezzo di ubbriacone, che non siete altro! - E finí minacciandolo, se non smetteva, di prenderlo a schiaffi, come si meritava. Il povero mastro Cosimo era rimasto interdetto, anche un po' per rispetto dell'abito sacerdotale; piú tardi però la moglie lo trovò che arrotava la scure, mandando grugniti: - Uh! uh! - mentre Cecco, il figlio maggiore, girava la ruota. - Questa dovrà servire per te e pel tuo cappellano! - le disse appena la vide entrare, mostrando la scure. E continuò a grugnire in cadenza con lo stridío della ruota. La gna Carmela non gli diè retta e si mise a preparare il desinare: - Il Signore vuole cosí, in gastigo dei miei peccati! ... Intanto la panciaccia te la riempi, e il vino lo vuoi! ... Se continui a questo modo, le monache ci manderanno via dalla casa e dalla bottega, e cosí rimarremo sul lastrico a crepar di fame come prima, con questi quattro innocenti! Non hai viscere di padre? - Mi contento crepar di fame - rispose mastro Cosimo. - Non voglio esser becco! La scure, vedi? ora taglia come un rasoio. Vo' radergli la chierica con questa qui al tuo bel padre cappellano. - Scomunicato! Scomunicato! - Mastro Cosimo brandiva la scure che riluccicava come uno specchio. - Guarda, l'ho arrotata apposta. Eh! Eh! - continuava, stralunando gli occhi e sghignazzando cosí stranamente: - Eh! E! E! - che i bambini ebbero paura e si misero a strillare, e la 'gna Carmela si spaventò anche lei e corse alla finestra, urlando: - Aiuto! Aiuto! Vuole ammazzarmi! - Quella notte, per ismaltire il vino - come gli disse il brigadiere dei carabinieri - mastro Cosimo dovette dormire in caserma, sul tavolato; e, la mattina dopo, fu condotto dal sindaco, che gli fece un predicone di tre quarti d'ora: - Se il vino non sapete misurarvelo da voi, ve lo insegnerà la legge! - Per giunta, gli ordinò di andare, insieme col brigadiere, in casa del cappellano, a domandargli scusa. - Bella legge! Cornuto e bastonato! - brontolava mastro Cosimo camminando a capo chino. Il padre cappellano gli fece un altro predicozzo: - Sono infamità dei nemici della religione, oggi che non si vuol piú udire neppure il nome di Gesú Cristo! Io vi renderò ben per male, da vero cristiano. Però, prima di ragionare di questo, prendete un boccone -. Mastro Cosimo non disse di no, quantunque un po' insospettito di tanta dolcezza. E mentre, nella anticamera, intingeva il pane nelle uova fritte che la sorella del cappellano gli avea messo davanti, il cappellano passeggiava su e giú, senza zimarra, con le mani dietro la schiena, il berrettino di cotone bianco in testa, come un contadino, e le tasche a cintola dondolanti sui fianchi. - Voglio rendervi ben per male. Ho pensato a voi, ora che don Ignazio il sagrestano lascia la chiesa del monastero. Che ne dite? Vostra moglie portinaia e voi sagrestano; siete contento? - Mi canzona? ... - Vi parlo seriamente. - Che ne so io dei dominu spapiscu? - Quando dirò: "Dominus vobiscum", voi risponderete: "Amen"! Vi insegnerò in quattro giorni -. Mastro Cosimo, all'idea di vedersi col collare e con la cotta, s'era messo a ridere: - Chè! Chè! Voglio fare il falegname, il mestiere di mio padre ... - Picchia e ripicchia però, in una settimana s'era lasciato persuadere; e cosí, invece di radere la chierica al cappellano con la scure arrotata a posta, mastro Cosimo prese anche il "don" allorché si attaccò il collare e si mise in testa lo zucchetto di panno nero. La gente rideva vedendolo passare per le vie serio e impettito, perché il collare gli dava fastidio: - Mi par d'essere - diceva egli stesso - il cane corso di Saverio il macellaio, quello che afferra i maiali -. Fin le monache si contorcevano dalle risa, lassú nel coro, al vederlo sgambettare per la chiesa impappinato nella sottana, con la cotta arruffata, e quando stentava un'ora a accendere i ceri dell'altar maggiore per la benedizione. - Me n'importa poco che gli altri ridano. In questo modo, tocca a me andare a chiamare il cappellano ogni volta che occorre, e le cattive lingue non hanno piú niente da ridire intorno a mia moglie! - Non già che la pulce del sospetto non tornasse, di tanto in tanto, a ronzargli dentro l'orecchio; ma egli si rassicurava subito, pensando che aveva sempre tenuto tanto di occhi aperti e non si era mai accorto di niente, quantunque non mancassero i buoni cristiani che cercavano di metterlo su, per esempio il canonico Mazza: - Furbo il cappellano! Vi ha dato la pagnotta per turarvi la bocca -. - Ed è anche lui servo di Dio! - pensava mastro Cosimo. - Parla per invidia, perché non lo hanno voluto per cappellano -. Quella mattina però, dopo ch'egli aveva picchiato un buon quarto d'ora all'uscio del cappellano senza che nessuno venisse ad aprirgli, e Nina la Pollastra s'era affacciata alla finestra e gli aveva detto, ridendo: - C'è su vostra moglie che sta a confessarsi - don Cosimo, come già lo chiamavano, sentí rannuvolarsi gli occhi e rammollire le gambe ... E non picchiò piú; e, col cuore che gli tremava, si nascose sotto l'arco lí vicino, per vedere se mai era vero che sua moglie stesse lassú a confessarsi. La lingua gli era diventata arida a un tratto e gli pareva di avere il tossico in bocca: - Ah, scellerata! Ah, prete infame! - Si strappò il maledetto collare che lo soffocava, e lo buttò per terra; vide balenarsi davanti gli occhi la scure arrotata, riposta in un canto della bottega, e si diè a correre come un matto per andare a prenderla e far macello di quei due. - Lasciatemi! Voglio ammazzarli! - urlava tentando di svincolarsi dalle persone che lo trattenevano. Gli amici e i parenti del cappellano cominciarono a dire che il troppo vino lo faceva delirare; e Nina la Pollastra assicurò il brigadiere ch'ella aveva detto soltanto per chiasso: "C'è su vostra moglie che sta a confessarsi". In coscienza, non le constava. Ma sorrideva sotto il naso. Il brigadiere, che in certi pasticci non voleva metterci le mani, per amor della pace, disse a mastro Cosimo: - Lasciate vostra moglie alle monache e mettete bottega altrove, se volete farvi i fatti vostri e non andare in prigione. Sarà meglio. Infine, c'è la legge per tutti; non dovete farvi giustizia con le vostre mani -. E mastro Cosimo andò via come un cane bastonato. - Dov'è la legge per tutti, se il cappellano si è preso mia moglie, e le monache e la madre badessa tengono il sacco al cappellano, e il brigadiere pure? Non sapeva capacitarsene, ora che si vedeva in quella botteguccia buia avuta per carità, solo solo, coi quattro arnesi del mestiere attaccati a una parete e con quattro miseri pezzi di legname che non facevano ingombro. - Ah, mi sento le braccia rotte! ... - E passava le giornate sugli scalini della Collegiata, al sole, con la pipa in bocca, ragionando da sé da sé, come un pazzo: - Dov'è la legge per tutti? - Non ve lo dicevo? - riprese il canonico Mazza. - E io, sciocco, credevo che egli sparlasse per invidia, perché non era stato fatto cappellano invece dell'altro! - rifletteva mastro Cosimo. - Dovreste andare da monsignore, quando verrà per la visita. Soltanto monsignore può conciarlo per le feste il vostro padre cappellano -. Mastro Cosimo scrollava la testa; non sperava neppure in monsignore: - È prete anche lui! ... - Andate da monsignore! Andate da monsignore! - Intanto, crogiolandosi al sole, con la pipa in bocca, aspettando monsignore che non veniva, mastro Cosimo, dalla fame, dimagrava. I quattrini non potevano piovergli dal cielo; non c'era piú sua moglie che gli desse la minestra e il vino delle monache; e gli avventori diventavano rari, vedendosi serviti male. - Fate pace con vostra moglie! - gli diceva suo compare Capra. - Non è vero nulla, parola di sangiovanni. - Come? Non è vero ch'è andata ... a confessarsi? Non è vero che vi andava tutte le mattine, col pretesto di portargli il caffè e i biscottini della abbadessa? - Date retta alle male lingue? - Do retta a quest'occhi! E se il Signore mi leva per poco la mano d'addosso, farò uno sproposito; non ne posso piú! Lo vedete dove mi tocca dormire? Su questo strame, come una bestia, mentre colei si ravvoltola fra le lenzuola comprate col mio sangue! - Volete perdere la libertà? Pazzo! pazzo! - Quella sera infatti riprese la scure e cominciò a arrotarla di nuovo: - Se monsignore non mi fa giustizia! ... - Piuttosto dovreste bere meno vino - gli ripeteva il compare. - Il vino vi dà alla testa e vi consuma -. Si stordiva cosí, bevendo e ribevendo, appena buscava quattro soldi. E quando aveva bevuto e acceso la pipa, su quegli scalini della Collegiata faceva il predicatore contro il prete ladro che gli aveva rubato la moglie e intanto beveva tranquillamente tutte le mattine, con sacrilegio, il sangue di Gesú Cristo. - Se monsignore non mi fa giustizia! ... Monsignore finalmente venne, e mastro Cosimo aspettò che fosse arrivato davanti la Collegiata sotto il baldacchino portato dal sindaco e dagli assessori, con la banda musicale dietro; e mentre tutti baciavano la mano a monsignore che non potea fare un passo tra la folla, egli cominciò a urlare: - Monsignore, giustizia! - Il brigadiere, che si trovò là, gli diede un ceffone e lo prese per le spalle. - Monsignore, giustizia! ... - La gente, parte rideva, parte, indignata, gridava: - Zitto, zitto! - E accadde una gran confusione, perché mastro Cosimo, che voleva giustizia a ogni costo, si dibatteva, agitando con una mano il berretto per aria, rivoltandosi contro il brigadiere ... La giustizia gli fu fatta con metterlo in gattabuia per ordine del sindaco, che ve lo lasciò un giorno e una notte: - Cosí guarirete dai fumi del vino! - In quelle ventiquattr'ore, mastro Cosimo era invecchiato di dieci anni. Aveva la febbre, tremava tutto, come se qualcosa lo scotesse dentro; e, dopo due giorni di quel fuoco divoratore, non aveva piú forza di parlare. Si lamentava, si lamentava, senza trovar ristoro su lo strame duro, in fondo alla botteguccia buia, dove moriva a poco a poco, abbandonato come un cane, con gli occhi rivolti alla scure che luccicava dalla parete: - Se campo, mi farà giustizia quella lí! - E gli occhi fissi e spalancati parevano ancora vivi! Roma, 10@ 10 maggio 1883@. 1883.

Racconti 3

662760
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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O la donna che si abbandonava tutta alla sua passione con l'indefinito acre piacere d'un pericolo sfidato e non potuto credere immaginario, per quanto il contegno del marito l'affidasse? Egli non aveva saputo indovinarlo; ma si sentiva felice anche lui. Niente era mutato in casa sua e nei rapporti con quell'amico. La loro intimità anzi, da allora in poi, era divenuta piú stretta, piú cordiale. Quegli doveva certamente essergli grato della creduta cecità di marito; Bertagni gli era gratissimo della felicità di Lucia ... «Questo sconvolge tutti i tuoi pregiudizi sociali; te lo leggo in viso ... ma non importa!» egli esclamò interrompendosi. Sfido! Quel che avevo udito mi sembrava enorme; rovesciava ogni mia convinzione, ogni mia esperienza psicologica; e intanto colui che seguitava a farmi la incredibile rivelazione parlava con calma, come chi ragiona di cose affatto naturali per lui, pur accorgendosi che non debbano né possano apparir tali anche agli occhi degli altri. Finalmente, Bertagni intravede che le parole da lui pronunciate il giorno della confessione di Lucia, sono già sul punto di avverarsi: «Tutto finisce quaggiú! Finirete di amarvi anche voi!» Non aveva però mai pensato al caso che potesse essere «lui» il primo a finire! Ed ora intuiva qualche cosa che non avrebbe saputo precisare, una lontana minaccia da quella parte; e ne era profondamente turbato. Una mattina aveva detto alla moglie: «Che faresti ... se "lui" non ti amasse piú?» «Mi ammazzerei!» «Perché?» «Perché non vorrei rifarmi daccapo con un altro; e tornar tua non saprei. Tu mi disprezzi». «Da che cosa lo deduci?» «Dalla tua insensibilità. Ci ho pensato a lungo, spessissimo». «T'inganni». «Va bene. Che significa dunque questa tua domanda? Ti compiaci di spaventarmi?» «No, faccio soltanto un'ipotesi». «Tu sai qualche cosa!» ella proruppe. «Niente». «Giuralo!» «Lo giuro!» Era impallidita, e le lagrime che le tremavano nella voce già le sgorgavano dagli occhi. «Mi hai fatto una gran paura!» esclamò. E lo guardava ancora incredula, ansiosa. «E allora?» domandai io, con vivissima curiosità. «Non dev'essere lui a finire il primo, no!» Entratagli in testa questa fissazione, il povero Bertagni non ebbe piú pace. L'amante si era stancato? C'era qualcuna che lo contendeva a Lucia? ... Questa relazione però non gli costava niente ... Egli era covato tra la bambagia ... Ma, spesso, l'uomo si stanca della felicità posseduta senza nessuno sforzo e di cui si stima sicuro ... Un'altra? Chi? ... Piú bella, piú buona di Lucia? Oh, voleva vederla! E cominciò a osservarlo, a spiarlo, a notare ogni mossa, ogni gesto, ogni parola dell'amante di sua moglie, per strappargli il segreto. E a un saluto, a un sorriso, a un complimento rivolto da colui a qualche signora, Bertagni vibrava di indignazione. Non erano rubati a sua moglie? Capiva di esagerare: ma, da lí a poco, dovette convincersi che faceva benissimo; la esagerazione lo costringeva a spalancare gli occhi, ad aguzzare lo sguardo, a tendere l'orecchio. E cosí ora soffriva lui - Lucia non sospettava affatto, e si lasciava illudere dalle apparenze! - soffriva lui tutte le torture, tutte le lacerazioni, tutti gli strappi al cuore prodotti dalla gelosia allorché ci si rizzano davanti agli occhi misteriosità terribili, e per poco la nostra intelligenza non si smarrisce tra le tenebre della pazzia! «Che hai?» gli domandava Lucia. «Nulla». «Che ha?» gli domandava anche l'«altro». «Nulla». E il piú profondo dolore del Bertagni era quel turbamento che involontariamente egli doveva cagionare nell'animo della moglie col silenzio, con le reticenze, con l'aspetto rannuvolato; giacché, per quanto si sforzasse di dissimulare, non sempre riusciva. «Sai tu qualcosa? ... Puoi tu indicarmi qualche traccia? Non essere pietosamente crudele! Parla! - mi disse all'ultimo. - Te ne supplico: parla!» Non sapevo che rispondergli e lo guardavo stralunato. E mi raccontò che il giorno avanti avea voluto ammonire «colui», senz'averne l'aria, fingendo di ragionare intorno a un caso molto simile al suo. «Il seduttore - gli aveva detto - è vigliacco, se tradisce senza nessuna ragione. Offende due volte la donna amata; prima, rendendola colpevole; poi, posponendola a un'altra che, forse, vale assai meno di quella. Io, marito, se avessi la disgrazia ... » «Che discorsi!» lo aveva interrotto l'amico. «Io, marito, - egli continuò - se avessi la disgrazia ... (oh, non tanto pel tradimento - novantanove volte su cento, il seduttore è un amico! - quanto per l'offesa dell'abbandono ... ) Io marito ... » «Che discorsi!» tornò ad interromperlo colui, imbarazzato. «Io marito, che potrei essere indulgente nel primo caso, sarei proprio inesorabile nel secondo, se mai avessi la disgrazia ... » «Non mi ha lasciato finire, - esclamò dolorosamente, - e mi ha voltato le spalle! ... Ho fatto male? Forse, ahimè, ho accelerato la catastrofe che avrei voluto impedire! ... E per ciò oggi che ho il cuore assai piú oppresso, e sento un gran bisogno di sfogarmi nel seno di un amico fidato, sono venuto da te. Scusami! ... Povera Lucia!» Non l'ho riveduto piú, né ho mai saputo la soluzione di questo caso, forse unico, di gelosia maritale. Io dovetti lasciare Torino alcune settimane dopo, e non vi sono piú ritornato. Appresi a San Francisco che il buon Bertagni era morto di nefrite, nel '50@. '50.

SCURPIDDU

662783
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Lo stormo era già lontano, e Scurpiddu , immobile, con gli occhi gonfi di lagrime, credeva di veder luccicare ancora la catenina di fil di rame al collo dell'ingrata che lo abbandonava ... - Paola ! - gridò con voce soffocata dai singhiozzi. Ma Paola era già sparita dietro i fichi d'India che facevano siepe su l'orlo delle rocce nella gola della Caldaietta. - Vergogna! Piangere per una tàccola? - le disse la massaia. - Non sei più un bambino! A letto, prima di spegnere il lume, Scurpiddu si sentiva solo senza Paola . Guardava il paniere vuoto infisso nel muro e crollava il capo. Pure non disperava di rivederla. - Tornerà! - pensava. - Qui stava calduccia. A una buca della roccia non saprà adattarsi certamente. Tornerà! E la mattina, avanti di avviarsi coi tacchini al pascolo, si affacciò dal ciglio del precipizio dietro il frantoio per richiamare la fuggitiva, caso mai la scorgesse. Gli rispose soltanto l'eco, due o tre volte. Scurpiddu tornò addietro a capo chino, e sfogò la stizza coi tacchini che quella mattina non andavano diritto, o indugiavano a pascolare tra le erbe ai fianchi della strada. Guappo si buscò un bel colpo di canna, Vittorio Emanuele un calcio, Garibaldi un urto con la gamba. E per via, Scurpiddu guardava in alto, osservando gli stormi di tàccole che passavano gracchiando allegramente. Ma Paola non era tra essi; l'avrebbe sùbito riconosciuta. Con un groppo alla gola, dimenticava di cavar dalla tasca la colazione; non c'era più Paola che venisse a beccargli la fetta di pane nero tra le mani. Più tardi però l'appetito si fece sentire. Scurpiddu a ogni boccone, masticando lentamente, quasi il pane o le olive nere salate avessero sapore amaro, guardava attorno, lontano, lusingandosi ancora che da un momento all'altro Paola comparisse; ma l'infamaccia, - così egli diceva internamente, - non si faceva vedere! E sarebbe stato meglio, se non si fosse fatta più vedere. Sul tardi un piccolo stormo di tàccole, sei o sette, venne a posarsi sui mandorli di Rossignolo. Una di esse si staccò dal ramo poco dopo, e si mise ad aliare sul branco dei tacchini che pascolavano. Si accostava, tornava indietro rapidamente, riveniva esitante…Era Paola , con la catenina di rame che luccicava al collo! Scurpiddu non aveva forza di chiamarla, tanto la commozione gli paralizzava la lingua, dandogli frèmiti di gioia. Due o tre volte, Paola tornò a posarsi con le altre sul ramo del mandorlo, riprese ad aliare gracchiando, pareva attendesse il richiamo; poi le compagne spiccarono il volo e la condussero via. - Infamaccia! - singhiozzò Scurpiddu . Da quel giorno in poi la infamaccia non si fece vedere più.

CENERE

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Deledda, Grazia 3 occorrenze

Ma Anania non abbandonava l'idea che Maria e Olì potessero formare la stessa persona. «Eppure bisogna sapere», pensava, camminando distratto per le vie animate da una folla sempre più scarsa. «Se non è lei perché mi tormento? Ma dove, dove è lei? Che fa? È vicina o lontana? Al fragore della città, a questo rombo che mi sembra la voce di un mostro dalle mille e più mila teste, è mescolato il respiro, il gemito, il riso di lei? E se non qui, dove?» Una notte egli ebbe un po' di febbre, e nell'incubo gli parve di vedere più volte la figura di Maria curva sul suo guanciale. Era delirio o realtà? Il chiarore della lampada rischiarava la camera. Egli vedeva altre figure fantastiche, ma pensava «ho la febbre» e solo la figura di Maria Obinu gli sembrava reale. Visioni apocalittiche sorgevano, s'incalzavano, si mescolavano, sparivano, come nuvole mostruose, intorno a lui. Fra le altre cose egli vedeva il nuraghe col gigante ed il San Giorgio del sogno febbrile di zia Varvara; ma la luna si staccava dalla figura del Santo e volava sul cielo; altre due lune, rosse e immense, la seguivano. Era imminente un cataclisma. Una folla enorme si pigiava su una spiaggia di mare in tempesta. Le onde erano cavalli marini che lottavano contro spiriti invisibili. Ad un tratto un urlo salì dal mare, Anania sussultò d'orrore, aprì gli occhi e gli parve di averli azzurri. «Che stupidaggini!», pensò. «Ho la febbre.» Maria Obinu riapparve nella camera, si avanzò, silenziosa, si curvò sul lettuccio. Allora Anania cominciò a delirare. «Ti ricordi, mamma, tu mi insegnavi la piccola poesia: Luna luna Porzedda luna Perché non vuoi dirmi che sei la mia mamma, tu? Dimmelo dunque; tanto io lo so, che tu sei la mia mamma, ma devi dirmelo anche tu. Ricordi l'amuleto? Possibile che tu non ricordi quella mattina, quando scendevamo ... e il fringuello cantava fra i castagni umidi e le nuvole volavano via dietro il monte Gonare? Ma sì che ti ricordi! dimmelo dunque ... non aver paura ... Io ti voglio bene, vivremo assieme. Rispondi.» La donna taceva. Il sofferente fu assalito da un vero spasimo di tenerezza e d'angoscia. «Madre ... madre, parla; non farmi soffrire oltre: sono stanco ormai. Se tu sapessi che pena! Tu sei Olì, non è vero? E inutile che tu dica il contrario; tu sei Olì. Che cosa hai fatto sinora? Dove sono le tue carte? Ebbene, non parliamo del passato; tutto è finito. Ora non ci lasceremo più ... ma tu vai via? No, no, Dio, aspetta ... non andartene ... » E si sollevò sul letto, con gli occhi spalancati, mentre la figura si allontanava lentamente e scompariva ... Soltanto pochi minuti prima di partire prese la solenne decisione di lasciare in sospeso, fino al ritorno, tutte le ricerche e tutti i vani progetti. Si sentiva stanco, disfatto; il caldo, gli esami, la febbre, le fantasticherie lo avevano esaurito. «Mi riposerò», pensava, preparando rapidamente la valigia e ricordando i lunghi preparativi della sua prima partenza da Nuoro. «Ah, quanto vorrò dormire queste vacanze! Non voglio diventare nevrastenico. Salirò sulle montagne natìe, sul Gennargentu vergine selvaggio. Da quanto tempo sogno quest'ascensione! Visiterò la vedova del bandito, il fraticello Zuanne, il figlio del fabbricante di ceri. E il cortile del convento? ... E quel carabiniere che cantava A te questo rosario?» Il pensiero poi di riveder fra poco Margherita, di immergersi tutto nel fresco amore di lei come in un bagno profumato, gli dava una felicità così intensa che lo faceva spasimare. Pochi momenti prima della partenza zia Varvara gli consegnò un piccolo cero, perché lo offrisse per lei alla Basilica dei Martiri, a Fonni, e Maria gli diede una medaglia benedetta dal pontefice. «Se lei non la vuole, miscredente, la porti alla sua mamma», gli disse, sorridendo, un po' commossa. «Addio, dunque, e buon viaggio e buon ritorno. Si ricordi che la camera resta a sua disposizione. E faccia da bravo, e mi scriva subito una cartolina.» «Arrivederci!», egli gridò dal basso della scala, mentre Maria, curva sulla ringhiera, lo salutava ancora con la mano. «Figlio del cuoricino mio», disse zia Varvara, accompagnandolo fino alla porta, «saluta per me la prima persona che incontri in terra sarda. E buon viaggio e ricordati del cero.» Lo baciò lievemente sulla guancia, piangendo, ed egli fu tentato di risalire le scale per vedere se anche Maria Obinu piangeva: poi sorrise della sua idea, abbracciò zia Varvara, chiedendole scusa se qualche volta l'aveva fatta stizzire, e si allontanò. Tutto sparve; la vecchia che piangeva il suo esilio dalla patria diletta, la strada melanconica, la piazza in quell'ora deserta e ardente, il Pantheon triste come una tomba ciclopica; e Anania, col viso accarezzato dal vento di ponente, provò un senso di sollievo, come svegliandosi da un incubo.

Ogni sera, filando accanto al fuoco, ella narrava le gesta eroiche del bandito; i bambini ascoltavano avidamente, ma Olì non si commoveva più, anzi spesso rintuzzava la vedova, o abbandonava il focolare e andava a coricarsi nel suo giaciglio. Anania dormiva con lei, ai piedi del letto: spesso trovava sua madre già addormentata, ma fredda, gelida, e cercava di riscaldarle i piedi coi suoi piedini caldi. Talvolta la sentiva singhiozzare, nel silenzio della notte, ma non osava chiederle che avesse, perché aveva soggezione di lei: però si confidò con Zuanne, che a sua volta gli spiegò certe cose. «Devi sapere che tu sei un bastardo, cioè tuo padre non è marito di tua madre. Ce ne sono molti così, sai.» «E perché non l'ha sposata?» «Perché ha un'altra moglie: la sposerà quando questa muore.» «E quando muore, questa?» «Quando Dio vuole. Devi sapere che tuo padre prima veniva a trovarci, io lo conosco, sai.» «Com'è?» chiedeva Anania, corrugando le ciglia, con un impeto di odio istintivo verso quel padre sconosciuto che non veniva a trovarlo, e certo che sua madre piangeva per il suo abbandono. «Ecco», diceva Zuanne, interrogando i suoi ricordi, «è bello, alto, sai, con gli occhi come lucciole. Ha un cappotto da soldato.» «Dove si trova?» «A Nuoro. Nuoro è una città grande, che si vede dal Gennargentu. Io conosco il Monsignore di Nuoro perché mi ha cresimato.» «Ci sei stato tu, a Nuoro?» «Sì, io ci sono stato», mentiva Zuanne. «Non è vero, tu non ci sei stato. Io mi ricordo che tu non ci sei stato.» «Io ci sono stato prima che tu nascessi; ecco, se vuoi saperlo!» Anania, dopo questi discorsi, seguiva volentieri Zuanne anche quando aveva freddo, e continuamente gli domandava notizie di suo padre, di Nuoro, della strada che bisognava percorrere per arrivare alla città. E quasi ogni notte sognava questa strada, e vedeva una città con tante chiese, con palazzi, circondata da montagne ancora più alte del Gennargentu. Una sera, agli ultimi di novembre, Olì, dopo essere stata a Nuoro per la festa delle Grazie, litigò con la vedova; già da qualche tempo ella si bisticciava con tutte le persone che incontrava, e percuoteva i bambini. Anania la sentì piangere tutta la notte, e sebbene il giorno prima ella lo avesse bastonato, provò una grande pietà per lei: avrebbe voluto dirle: «Tacete, mamma mia: Zuanne dice che se fosse come me, quando sarebbe grande andrebbe a Nuoro per cercare il padre e imporgli di venirvi a trovare: io ci voglio andare ora, invece: lasciatemi andare, mamma mia ... ». Ma non osava fiatare. Era notte ancora quando Olì si alzò: scese in cucina, risalì, ritornò a scendere, rientrò con un fagotto. «Alzati», disse al ragazzetto. Poi lo aiutò a vestirsi e gli mise intorno al collo una catenella dalla quale pendeva un sacchettino di broccato verde, fortemente cucito. «Cosa c'è dentro?» chiese il bimbo, palpando il sacchettino. «Una ricetta che ti porterà fortuna; me la diede un vecchio frate che incontrai in viaggio ... Tieni sempre il sacchettino sul seno nudo; non perderlo mai.» «Come era il vecchio frate?», chiese Anania, pensieroso. «Aveva una lunga barba? Un bastone?» «Sì, una lunga barba, un bastone ... » «Che fosse lui?» «Chi lui?» «Gesù Cristo Signore ... » «Forse ... », disse Olì. «Ebbene, promettimi che non perderai né darai mai a nessuno il sacchettino. Giuramelo.» «Ve lo giuro, sulla mia coscienza!», rispose Anania gravemente. «È forte la catenella?» «È forte.» Olì prese il fagotto, strinse nella sua la manina del fanciullo e lo condusse in cucina dove gli diede una scodellina di caffè e un pezzo di pane. Poi gli gettò sulle spalle un sacchetto logoro e lo trascinò fuori. Albeggiava. Faceva un freddo intensissimo; la nebbia riempiva la valle, copriva l'immensa chiostra dei monti: solo qualche alta cresta nevosa emergeva argentea simile al profilo d'una nuvola bianca, ed il monte Spada appariva or sì or no come un enorme blocco di bronzo tra il velo mobile della nebbia. Anania e la madre attraversarono le viuzze deserte, passarono davanti al grande panorama occidentale sommerso nella nebbia, cominciarono a scendere lo stradale grigio e umido che si sprofondava giù giù, in una lontananza piena di mistero. Anania si sentì battere il cuoricino: quella strada grigia, vigilata dalle ultime case di Fonni i cui tetti di scheggie parevano grandi ali nerastre spennacchiate, quella strada che scendeva continuamente verso un abisso ignoto colmo di nebbia, era la strada per Nuoro. Madre e figlio camminavano frettolosi: spesso il bambino doveva correre, ma non si stancava. Era abituato a camminare, ed a misura che scendeva si sentiva più agile, caldo, vispo come un uccello. Più volte chiese: «Dove andiamo, mamma mia?». «A cogliere castagne», diss'ella una volta, e poi: «in campagna: lo vedrai». Anania scendeva, correva, inciampava, rotolava: ogni tanto si palpava il petto in cerca del sacchettino. La nebbia diradavasi; in alto il cielo appariva d'un azzurro umido solcato come da grandi pennellate di biacca: le montagne si delineavano livide nella nebbia. Un raggio giallo di sole illuminava finalmente la chiesetta di Gonare sulla cima del monte piramidale, che sorgeva su uno sfondo di nuvole color piombo. «Andiamo là?», domandò Anania, additando un bosco di castagni, umidi di nebbia e carichi di frutti spinosi spaccati. Un uccellino strideva nel silenzio dell'ora e del luogo. «Più avanti», disse Olì. Anania riprese le sue corse sfrenate: mai s'era spinto tanto avanti nelle sue escursioni, ed ora questo continuo scendere a valle, la natura diversa, l'erba che copriva le chine, i muri verdi di musco, le macchie di nocciuoli, i cespugli coperti di bacche rosse, gli uccellini che pigolavano, tutto gli riusciva nuovo e piacevole. La nebbia svaniva, il sole trionfante schiariva le montagne; le nuvole sopra monte Gonare avevano preso un bel colore giallo- roseo, sul cui sfondo la chiesetta appariva chiara e sembrava vicina a chi la guardava. «Ma dov'è questo diavolo di luogo?», chiese Anania, volgendosi a sua madre con le manine aperte, e fingendosi sdegnato. «Subito. Sei stanco?» «Non sono stanco!», egli gridò, rimettendosi a correre. Arrivò però il momento in cui egli cominciò a sentire un piccolo dolore alle ginocchia: allora rallentò la corsa, si pose a fianco di Olì e cominciò a chiacchierare; ma la donna, col suo fagotto sul capo, il viso livido e gli occhi cerchiati, gli badava appena e rispondeva distratta. «Torneremo stanotte?», egli chiedeva. «Perché non me lo avete lasciato dire a Zuanne? È lontano il bosco? È a Mamojada?» «Sì, a Mamojada.» «Ah, a Mamojada? Quando c'è la festa a Mamojada? È vero che Zuanne è stato a Nuoro? Questa è la strada di Nuoro, io lo so, e ci vogliono dieci ore, a piedi, per arrivare a Nuoro. Voi siete stata a Nuoro? Quando è la festa a Nuoro?» «È passata, era l'altro giorno», disse Olì, scuotendosi. «Ti piacerebbe stare a Nuoro?» «Altro che! E poi ... e poi ... » «Tu sai che a Nuoro c'è tuo padre», rispose Olì, indovinando il pensiero del fanciullo. «Ti piacerebbe stare con lui?» Anania ci pensò; poi disse con vivacità, corrugando le sopracciglia: «Sì!.» A che pensava egli dicendo quel «sì»? La madre non indagò oltre; chiese soltanto: «Vuoi che ti conduca da lui?». «Sì!» Verso mezzogiorno si fermarono presso un orto dove una donna, con le sottane cucite fra le gambe a guisa di calzoni, zappava vigorosamente: un gatto bianco le andava dietro, slanciandosi di tanto in tanto contro una lucertola verde che appariva e scompariva fra le pietre del muro. Anania ricordò sempre questi particolari. La giornata s'era fatta tiepida, il cielo azzurro; le montagne, come asciugantisi al sole, apparivano grigie, chiazzate di boschi scuri; il sole, quasi scottante, riscaldava l'erba e faceva scintillare l'acqua dei ruscelli. Olì sedette per terra, aprì il fagotto e chiamò Anania che si era arrampicato sul muro per guardare la donna ed il gatto. In quel momento apparve allo svolto della strada la corriera postale di Fonni, guidata da un omone rosso coi baffi gialli. Olì avrebbe voluto nascondersi; ma l'omone, che pareva ridesse continuamente perché aveva le guancie gonfie, la vide e gridò: «Dove vai, donnina?». «Dove mi pare e piace», ella rispose a voce bassa. Anania, ancora arrampicato sul muro, guardò entro la vettura, e vedendola vuota disse al carrozziere: «Prendetemi, zio Battista, prendetemi nella vettura, prendetemi». «Dove andate? Dunque?», gridò l'omone, rallentando la corsa. «Ebbene, che tu sii sbranato, andiamo a Nuoro. Vuoi farci la carità di prenderci un po' in vettura?», disse Olì, mangiando. «Siamo stanchi come asini.» «Senti», rispose l'omone, «va al di là di Mamojada, intanto che io faccio la fermata. Vi prenderò.» Egli tenne la promessa: giunto al di là di Mamojada fece sedere in serpe accanto a lui i due viandanti e cominciò a chiacchierare con Olì. Anania, veramente stanco, sentiva un vivo piacere nel trovarsi seduto fra sua madre e l'omone che scuoteva la frusta, davanti ai freschi paesaggi dallo sfondo azzurrino che si disegnavano nell'arco del mantice. Le grandi montagne erano scomparse, scomparse per sempre, ed il bambino pensava a quello che avrebbe detto Zuanne sapendo di questo viaggio. «Quando tornerò quante cose avrò da dirgli!», pensava. «Gli dirò: io sono stato in carrozza e tu no.» «Perché diavolo vai a Nuoro?», insisteva l'omone, rivolto ad Olì. «Ebbene, vuoi saperlo?», ella rispose finalmente. «Vado per mettermi a servire. Ho già fatto il contratto con una buona signora. A Fonni non potevo più vivere; la vedova di Zuanne Atonzu mi ha cacciato di casa.» «Non è vero», pensò Anania. Perché sua madre mentiva? Perché non diceva la verità, che cioè andava a Nuoro per cercare il padre di suo figlio? Basta, se ella diceva le bugie doveva aver le sue buone ragioni; e Anania non indagò oltre, tanto più che aveva sonno. Chinò la testina sul grembo della madre e chiuse gli occhi. «Chi c'è ora nella cantoniera?», chiese ad un tratto Olì. «Mio padre non c'è più?» «Non c'è più.» Ella diede un profondo sospiro: la vettura si fermò un momento, poi riprese la sua corsa, ed Anania finì di addormentarsi. A Nuoro egli provò una forte delusione. Era questa la città? Sì, le case erano più grandi di quelle di Fonni, ma non tanto come egli s'era immaginato: le montagne poi, cupe sul cielo violaceo del freddo tramonto, erano addirittura piccole, quasi per far ridere. Inoltre i bambini che s'incontravano per le strade, le quali, a dire il vero, gli parevano molto larghe, lo impressionavano stranamente perché vestivano e parlavano in modo diverso dai bambini fonnesi. Madre e figlio girovagarono per Nuoro fino al cader della sera, ed infine entrarono in una chiesa. C'era molta gente; l'altare ardeva di ceri, un canto dolce s'univa ad un suono ancor più dolce che veniva non si sa da dove. Ah, ciò parve veramente bello ad Anania, che pensava a Zuanne ed al piacere di narrargli quanto ora vedeva. Olì gli disse all'orecchio: «Vado a vedere se c'è l'amica presso cui andremo a dormire; non muoverti di qui finché non torno io ... ». Egli rimase solo in fondo alla chiesa; sentiva un po' di paura, ma si distraeva guardando la gente, i ceri, i fiori, i santi. Eppoi l'incoraggiava il pensiero dell'amuleto nascosto sul suo seno. Ad un tratto si ricordò di suo padre. Ah, dov'era egli? Perché dunque non andavano a trovarlo? Olì tornò presto; attese che la novena fosse terminata, prese Anania per la mano e lo fece uscire per una porta diversa da quella ov'erano entrati. Camminarono per diverse vie, finché non vi furono più case: era già sera, faceva freddo, Anania aveva fame e sete, si sentiva triste e pensava al focolare della vedova ed alle castagne ed alle chiacchiere di Zuanne. Arrivarono in un viottolo chiuso da una siepe, dietro la quale si vedevano le montagne che avevano colpito il bimbo per la loro piccolezza. «Senti», disse Olì, e la voce le tremava, «hai visto quell'ultima casa con quel gran portone aperto?» «Sì.» «Là dentro c'è tuo padre: tu vuoi vederlo, non è vero? Senti: ora torniamo indietro, tu entri nel portone, di fronte al quale vedrai una porta pure aperta: tu entri là e guardi; c'è un molino ove fanno l'olio; un uomo alto, con le maniche rimboccate, a capo scoperto, va dietro al cavallo. Quello è tuo padre.» «Perché non venite dentro anche voi?», domandò il bimbo. Olì cominciò a tremare. «Io entrerò dopo di te: tu va innanzi; appena entrato dici: "Io sono il figlio di Olì Derios". Hai capito? Andiamo.» Ritornarono indietro; Anania sentiva sua madre tremare e battere i denti. Giunti davanti al portone ella si chinò, accomodò il sacchetto sulle spalle del bimbo, e lo baciò. «Va, va», disse, spingendolo. Anania entrò nel portone; vide l'altra porta, illuminata, ed entrò: si trovò in un luogo nero nero, dove una caldaia bolliva sopra un forno acceso, e un cavallo nero faceva girare una grande e pesante ruota oleosa entro una specie di vasca rotonda. Un uomo alto, con le maniche rimboccate, a capo scoperto, con le vesti sudice, nere di olio, andava appresso al cavallo, rimuovendo entro la vasca, con una pala di legno, le olive frantumate dalla ruota. Altri due uomini andavano e venivano, spingendo in avanti e indietro una spranga infilata in un torchio, dal quale colava l'olio nero e fumante. Davanti al fuoco stava seduto un ragazzetto con un berretto rosso; e fu questo ragazzetto che primo si accorse del bimbo straniero. Lo fissò bene, e credendolo un mendicante gli impose aspramente: «Va via!». Anania, timido, immobile sotto il suo sacchetto, non rispose. Vedeva tutto confuso ed aspettava che sua madre entrasse. L'uomo dalla pala lo guardò con occhi lucenti, poi s'avanzò e chiese: «Ma che cosa vuoi?». Quello era suo padre? Anania lo guardò timidamente, pronunziando con vocina sottile le parole suggeritegli da sua madre: «Io sono il figlio di Olì Derios». I due uomini che giravano il torchio si fermarono di botto, e uno di essi gridò: «Tuo figliooo!». L'uomo alto gettò per terra la pala, si curvò su Anania, lo fissò, lo scosse, gli chiese: «Chi ... chi ti ha mandato? Cosa vuoi? Dove è tua madre?». «È fuori ... adesso verrà ... » Il mugnaio corse fuori, seguìto dal ragazzetto col berretto rosso; ma Olì era scomparsa e nulla più si seppe di lei. Avvertita del caso accorse zia Tatàna, la moglie del mugnaio, una donna non più giovane, ma ancora bella, grassa e bianca, con dolci occhi castanei circondati di piccole rughe, e un po' di baffi biondi sul labbro rialzato. Ella era tranquilla, quasi lieta; appena entrò nel molino prese Anania per gli omeri, si chinò, lo esaminò attentamente. «Non piangere, poverino», gli disse con dolcezza. «Or ora ella verrà. E voi zitti!», impose agli uomini e al ragazzetto che si immischiava forse un po' troppo nella faccenda e fissava Anania con due piccoli occhi turchini cattivi e un sorriso beffardo nel rosso visino paffuto. «Dov'è andata? Non viene dunque? Dove la ritroverò?», si domandava con disperazione il piccolo abbandonato, piangendo sconsolatamente. Ella avrà avuto paura. Dove sarà adesso? Perché non viene? E quell'uomo lurido, oleoso, cattivo, quello è suo padre? Le carezze e le dolci parole di zia Tatàna lo confortarono alquanto; cessò di piangere, si leccò le lagrime e se le sparse di qua e di là delle guance, col gesto che gli era abituale; poi subito pensò alla fuga. La donna, il mugnaio, gli uomini, il ragazzetto, tutti gridavano, imprecavano, ridevano e si bisticciavano. «È proprio tuo figlio. Tale e quale!», diceva la donna, rivolta al mugnaio. E il mugnaio gridava: «Non lo voglio, no, non lo vogliooo! ... ». «Sei ben scomunicato, sei senza viscere. Santa Caterina mia, è possibile che vi sieno uomini così malvagi?», diceva zia Tatàna, un po' scherzando, un po' sul serio. «Ah, Anania, Anania, sei sempre tu!» «E chi dunque vuoi ch'io sia? Ora vado subito in Questura.» «Tu non andrai in nessun posto, stupido! Tu vuoi tirar fuori di tasca le tue corna per mettertele sul capo!», osservò energicamente la donna. Ma siccome egli insisteva, ella disse: «Ebbene, andrai domani. Ora finisci il tuo lavoro, e ricordati ciò che diceva il re Salomone: "La furia della sera lasciala alla mattina ... "». I tre uomini tornarono al lavoro: ma spingendo sotto la ruota la pasta delle olive frante, il mugnaio gridava, borbottava, imprecava, mentre gli altri lo deridevano e la moglie gli diceva tranquillamente: «Via, non prenderti poi la porzione più grande. Dovrei arrabbiarmi io, Santa Caterina mia! Ricordati, Anania, che Dio non paga il sabato». «Taci, figliolino mio», disse poi al bimbo, che singhiozzava nuovamente, «domani aggiusteremo tutto. Ecco, così gli uccelli volano dal nido appena hanno le ali.» «Ma sapevate voi che quest'uccellino esisteva?», chiese ridendo uno dei due uomini che spingevano la spranga. «Dove sarà andata tua madre? Com'è fatta, dimmi?», domandò il ragazzetto, mettendosi davanti ad Anania. «Bustianeddu», gridò il mugnaio, «se non te ne vai ti mando via a calci ... » «E provate un po'!», diss'egli, spavaldo. «E diglielo dunque tu come è fatta Olì!», esclamò uno dei due uomini. L'altro rise tanto che dovette abbandonar la spranga e premersi il petto. Intanto zia Tatàna, premurosa e carezzevole, interrogava il bimbo, esaminandogli le povere vestine. Egli raccontò tutto con vocina incerta e lamentosa, ogni tanto interrotta da singhiozzi. «Poverino, poverino! Uccellino senz'ali: senz'ali e senza nido!», diceva pietosamente la donna. «Taci, anima mia; tu avrai fame, non è vero? Adesso andiamo a casa, e zia Tatàna ti darà da mangiare, e poi ti manderà a letto, con l'angelo custode, e domani aggiusteremo tutte le cose.» Con questa promessa ella lo condusse in una casetta vicina al molino, e gli diede da mangiare pane bianco e formaggio, un uovo ed una pera. Mai Anania aveva mangiato tanto bene: e la pera, dopo le carezze materne e le dolci parole di zia Tatàna, finì di confortarlo. «Domani ... », diceva la donna. «Domani ... », ripeteva il fanciulletto. Mentre egli mangiava, zia Tatàna, che preparava la cena per il marito, lo interrogava e gli dava buoni consigli, avvalorandoli con l'affermare che erano già stati dettati dal re Salomone ed anche da Santa Caterina. Ad un tratto, sollevando gli occhi ella scorse alla finestruola il visetto paffuto di Bustianeddu. «Va via», disse, «va via, piccola rana. Fa freddo.» «Lasciatemi dunque entrare», egli supplicò. «Fa freddo davvero.» «Va dunque al molino.» «No, c'è mio padre che mi ha mandato via. Ih, quanta gente è venuta là!» «Entra dunque, povero orfano, anche tu senza madre! Che cosa dice zio Anania? Grida ancora?» «E lasciatelo gridare!», consigliò Bustianeddu, sedendosi accanto ad Anania, e raccogliendo e rosicchiando il torso della pera, abbastanza rosicchiato e già buttato via dal piccolo straniero. «Son venuti tutti», raccontò poi, parlando e gestendo come un uomo maturo. «Maestro Pane, mio padre, zio Pera, quel bugiardone di Franziscu Carchide, zia Corredda, tutti vi dico insomma ... » «Che cosa dicevano?» chiese la donna con viva curiosità. «Tutti dicevano che dovete adottare questo bambino. E zio Pera diceva ridendo: "Anania, e a chi dunque lascerai i tuoi beni, se non tieni il bambino?". Zio Anania lo rincorse con la pala; tutti ridevano come pazzi.» La donna dovette esser vinta dalla curiosità, perché ad un tratto raccomandò a Bustianeddu di non lasciar solo Anania ed uscì per tornare al molino. Rimasti soli, Bustianeddu cominciò a fare qualche confidenza al piccolo abbandonato. «Mio padre ha cento lire nel cassetto del canterano, ed io so dove è la chiave. Noi abitiamo qui vicino, e abbiamo un podere per il quale paghiamo trenta lire di imposta: ma l'altra volta venne il commissario e sequestrò l'orzo. Cosa c'è qui, dentro il tegame, che fa cra-cra-cra? Ti pare che prenda fumo?», sollevò il coperchio e guardò. «Diavolo, ci son patate. Credevo fosse altro. Ora assaggio.» Con due ditina prese una fetta bollente, ci soffiò sopra più volte, se la mangiò; ne prese un'altra ... «Che cosa fai?», disse Anania, con un po' di dispetto. «Se viene quella donna! ... » «Noi sappiamo fare i maccheroni, io e mio padre», riprese imperturbato Bustianeddu. «Tu li sai fare? E il sugo?» «Io no», disse Anania, melanconico. Pensava sempre a sua madre, assediato da tristi domande. Dove era andata? Perché non era entrata nel molino? Perché lo aveva abbandonato e dimenticato? Adesso che aveva mangiato e sentiva caldo, egli aveva voglia di piangere ancora, di fuggire. Fuggire! Cercar sua madre! Questa idea lo afferrò tutto e non lo lasciò più. Poco dopo rientrò zia Tatàna, seguìta da una donna lacera, barcollante, che aveva un gran naso rosso ed una enorme bocca livida dal labbro inferiore penzolante. «È questo ... è questo ... l'uccellino? ... », chiese balbettando l'orribile donna: e guardò con tenerezza il piccolo abbandonato. «Fammi vedere la tua faccina, che tu sii benedetto! È bello come una stella, in verità santa! E lui non lo vuole? Ebbene, Tatàna Atonzu, raccoglilo tu, raccoglilo come un confetto ... » Si avvicino e baciò Anania, che torse il viso con disgusto perché l'enorme bocca della donna puzzava d'acquavite e di vino. «Zia Nanna», disse Bustianeddu, facendo cenno di bere, «oggi l'avete presa giusta!» «Co ... co ... cosa sai tu? Che fai qui? Moscherino, povero orfano, va a letto.» «Anche tu dovresti andare a letto!», osservò zia Tatàna. «Andate, andate via tutti e due: è tardi.» Spinse dolcemente l'ubriaca, ma prima d'uscire ella chiese da bere. Bustianeddu riempì d'acqua una scodella e gliela porse: ella la prese con buona grazia, ma appena v'ebbe guardato dentro, scosse il capo e la rifiutò. Poi andò via traballando. Zia Tatàna mandò via anche Bustianeddu e chiuse la porta. «Tu sarai stanco, anima mia; adesso ti metterò a dormire», disse ad Anania, conducendolo in una grande camera attigua alla cucina e aiutandolo a spogliarsi. «Non aver paura, sai; domani tua madre verrà, o andremo a cercarla noi. Sai farti il segno della croce? Sai il Credo? Sì, bisogna recitare il Credo tutte le notti. Poi io ti insegnerò tante altre preghiere, una delle quali per San Pasquale che ci avvertirà dell'ora della nostra morte. E così sia. Ah, tieni anche la rezetta? E come è bella! Sì, bravo, San Giovanni ti proteggerà: sì, egli era un bimbo ignudo come te, eppure battezzò Gesù Signore Nostro. Dormi, anima mia: in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Amen.» Anania si trovò in un gran letto dai guanciali rossi; zia Tatàna lo coprì bene ed uscì, lasciandolo al buio. Egli mise la manina sull'amuleto, chiuse gli occhi e non pianse, ma non poté dormire. Domani ... Domani ... Ma quanti anni erano trascorsi dopo la partenza da Fonni? Che pensava Zuanne non vedendo ritornare l'amico? Pensieri confusi, immagini strane gli passavano nella piccola mente; ma la figura della madre non lo abbandonava mai. Dov'era andata? Aveva freddo? Domani la rivedrebbe ... Domani ... Se non lo conducevano da lei egli fuggirebbe ... Domani ... Sentì il mugnaio rientrare e litigare con la moglie: il cattivo uomo gridava: «Non lo voglio! Non lo voglio!». Poi tutto fu silenzio. Ad un tratto qualcuno aprì l'uscio, entrò, camminò in punta di piedi, s'avvicinò al letto e sollevò cautamente la coperta. Un baffo ispido sfiorò lievemente la guancia di Anania, ed egli, che fingeva di dormire, socchiuse appena appena un occhio e vide che chi l'aveva baciato era suo padre. Pochi momenti dopo zia Tatàna entrò e si coricò nel gran letto, a fianco di Anania, che la sentì lungamente pregare bisbigliando e sospirando.

Anania si sentì triste, ma per scuotersi pensò intensamente al bacio di Margherita, il cui ricordo, del resto, non lo abbandonava un istante. A momenti però trasaliva. Non era stato tutto un sogno? Se ella dimenticava o si pentiva? Ma subito l'orgoglio gli ridonava la speranza. La sua ebbrezza durò parecchi giorni, finché durò lo stordimento della nuova esistenza. Tutte le cose gli andavano a seconda; appena arrivato a Cagliari trovò una bellissima camera con due balconi, da uno dei quali si godeva un paesaggio chiuso da colline e dal mare luminoso, talvolta così calmo che i piroscafi ed i velieri si disegnavano come incisi sull'acciaio, e dall'altro il panorama della rosea città, che coi suoi bastioni, il suo Castello, i palmizi, i giardini, rassomigliava ad una città moresca. Di fronte al palazzo nuovo dove egli abitava, sorgeva una fila di casette antiche ritinte di rosa, con balconi spagnuoli pieni di garofani e di stracci stesi ad asciugare al sole; ma egli non guardava laggiù; i suoi occhi ammaliati correvano sullo stupendo scenario della città, e si fermarono sulla linea dei bastioni e dei palazzi medioevali che chiudevano l'orizzonte grandioso. Tutto lassù era leggenda e poesia. Agli ultimi di ottobre faceva ancora caldo: l'aria odorava di alghe e di fiori; e le signore che passavano sotto il balcone d'Anania vestivano di mussolina e di stoffe leggere. Allo studente pareva di essere in un paese incantato, e l'aria fragrante e snervante, e le comodità nuove della sua camera, e le dolcezze della nuova vita, gli davano un senso di mollezza e di languore. Fu preso da una specie di sonnolenza voluttuosa: tutto gli sembrava bello e grande; e ricordando il molino e le sudice figure che vi si raccoglievano, si domandava come aveva potuto per tanto tempo vivere laggiù. La vita umile del povero vicinato proseguiva certamente il suo corso melanconico, mentre qui, nei caffè lucenti, nelle vie luminose, nelle alte case battute dal sole, dal riflesso del mare, tutto era luce, gioia, poesia. L'arrivo della prima lettera di Margherita accrebbe la sua gioia di vivere: era una lettera semplice e tenera, scritta su un gran foglio bianco, con caratteri rotondi, quasi maschili. Veramente Anania si aspettava una letterina azzurra, con un fiore dentro; e sul principio gli parve che Margherita volesse fargli sentire la sua superiorità e volesse dominarlo; ma poi, dalle espressioni semplici e affettuose della fanciulla, che pareva continuasse con quella lettera una lunga e ininterrotta corrispondenza, s'accorse che ella lo amava sinceramente, con ingenuità e con forza, e ne provò una dolcezza inesprimibile. Ella gli scriveva: «Ogni sera sto lunghe ore alla finestra, e mi sembra che tu debba da un momento all'altro passare, come usavi prima di partire; mi dispiace molto la nostra lontananza, ma mi conforto pensando che tu studi e prepari il nostro avvenire». Poi gli indicava dove indirizzare la risposta, e lo pregava del più gran segreto, perché naturalmente la famiglia di lei, venendo a sapere del loro amore, vi si sarebbe opposta. Anania rispose subito tutto vibrante d'amore e di felicità, sebbene un tantino oppresso dal rimorso di tradire il suo benefattore. Però sofisticava già: «Se amandola io rendo felice la figlia, non faccio male al padre ... ». Le descrisse le meraviglie della città e della stagione. «Mentre scrivo sento le rane gracidare ancora negli orti lontani, e vedo la luna salire come un volto d'alabastro sul cielo verdognolo del crepuscolo tiepido. È la stessa luna che vedevo salire sul solitario orizzonte nuorese, è lo stesso viso rotondo e melanconico che vedevo affacciarsi sopra le roccie dell'Orthobene, ma come ora mi sembra più dolce, diverso, quasi sorridente!» E di nuovo, appena impostata questa prima epistola, egli sentì un impetuoso desiderio di correre all'aperto, e salì sul colle di Bonaria. Una dolcezza orientale calava con la sera splendida; il viale che conduce al Santuario era deserto, e la luna cominciava a brillare attraverso gli alberi immobili: il cielo di un azzurro verdastro prendeva, sopra la linea madreperlacea del mare, una tinta d'un verde inverosimile, e nuvole rosse e violette lo solcavano. Pareva un sogno. Anania si fermò davanti al Santuario, e guardò il mare: le onde riflettevano la luminosità del cielo, delle nuvole colorate e della luna, e venivano ad infrangersi sotto il colle, come enormi conchiglie di madreperla che arrivate alla riva si scioglievano in liquido argento. E le barche veliere, allineate sullo sfondo luminoso, parevano ad Anania immense farfalle scese a riposarsi sull'acqua. Mai egli si sentì felice come in quell'ora: gli pareva che la sua anima fosse luminosa come il cielo, grande come il mare. Al bagliore della luna e dell'estremo crepuscolo decifrò qualche frase della lettera di Margherita; poi baciò il foglio, ed a malincuore si decise a ritornare in città. La luna seminava il viale di monete e disegni argentei; s'udivano ancora le rane e i canti dei pescatori; tutto era dolcezza, ma arrivato davanti alla sua casa, Anania udì grida, urli, strilli di donne, e voci d'uomini che pronunziavano parole infami: si volse e vide, davanti alle casette rosee che si scorgevano dal suo balcone, un gruppo di persone accapigliate. Alle finestre dei palazzi non si affacciava nessuno; pareva che gli abitanti del quartiere fossero abituati alla scena, all'ossessione di quella gente che si accapigliava in una mischia infernale, gridando le più luride ingiurie che l'uomo possa pronunziare contro il suo simile. Davanti al giardino un grosso uomo vestito di velluto nero, immobile alla luna, si godeva la scena con aria quasi beata. «Ma le guardie? Perché non vengono le guardie?», gli chiese Anania, turbato. «Che fanno le guardie?», rispose l'uomo senza guardare lo studente. «Ogni settimana son qui le guardie! Spintoni di qua, spintoni di là, tutto finisce e poi tutto ricomincia il giorno dopo. Bisogna mandar via quelle donne», riprese l'omone, minacciando da lontano i rissanti. «Aspettate, ve la do io, adesso! Aspettate che tutti abbiano firmato il ricorso alla questura!» «Ma che cosa è?» L'omone lo guardò con disprezzo. «Son donne perdute, dunque!» Anania rientrò a casa pallido e ansante, e la padrona si accorse del suo turbamento. «Ma che cosa ha?», gli disse. «Si è spaventato? Son donne allegre, coi loro ... giovanotti; e si azzuffano per gelosia. Ma le faranno andar via; abbiamo ricorso alla questura.» «Di che paese sono?», egli domandò. «Una è cagliaritana; l'altra, credo, del Capo di Sopra.» Le urla raddoppiavano; si distingueva la voce d'una donna che si lamentava quasi l'avessero ferita a morte ... Dio, che orrore! Anania tremava, e attratto da una forza irresistibile corse ad aprire il balcone. In alto, sul cielo purissimo, la luna e le stelle: in basso, ai piedi del vaporoso quadro della città, quel gruppo di demoni, quelle grida di rabbia, quelle parole abbominevoli ... Ed Anania stette a guardare angosciosamente, con l'anima oppressa da un tremendo pensiero ... «Fate che ella sia morta, Dio mio, Dio mio! Abbiate pietà di me, Signore!», singhiozzava egli a tarda notte, tormentato dall'insonnia e dai tristi pensieri. L'idea che una delle due donne che abitavano le casette rosee potesse essere sua madre era svanita, dopo le informazioni date, durante il pranzo, dalla padrona di casa; ma che importava? Se non qui, là, in un punto ignoto ma reale, a Cagliari, a Roma od altrove, ella viveva e conduceva, o aveva condotto, una vita simile a quella delle donne che gli abitanti di Via San Lucifero volevano scacciare dal loro quartiere. «Perché Margherita mi ha scritto?», egli pensava, «e perché le ho risposto? Quella donna ci dividerà per sempre. Perché ho sognato? Domani scriverò a Margherita, le dirò tutto. Ma che posso dirle? E se quella donna fosse morta? Perché devo rinunziare alla felicità? Non lo sa, forse, Margherita, che io sono figlio del peccato? Se si fosse vergognata di me non mi avrebbe scritto. Sì, ma certamente ella crede che mia madre sia morta, o che per me sia come morta; mentre io sento che è viva, e non rinunzio al mio dovere, che è quello di cercarla, trovarla, trarla dal vizio ... E se si è emendata? No, essa non si è emendata. Ah, è orribile; io la odio ... La odio, la odio!» Visioni truci gli attraversavano la mente: vedeva sua madre accapigliata con altre donne, con uomini luridi e bestiali, udiva grida terribili, e tremava d'odio e di disgusto. Verso mezzanotte ebbe una crisi di lagrime; soffocò i singhiozzi mordendo il guanciale, torse le braccia, si graffiò il petto; si strappò dal collo l'amuleto datogli da Olì il giorno della loro fuga da Fonni, e lo scaraventò contro il muro: oh, così avrebbe voluto strappare e buttare lontano da sé il ricordo di sua madre! Ad un tratto si meravigliò d'aver pianto; s'alzò e cercò l'amuleto, ma non lo rimise più al collo: poi si domandò se, senza il suo amore per Margherita, avrebbe sofferto egualmente al pensiero di sua madre: si rispose di sì. Di tanto in tanto avveniva una specie di vuoto nella sua mente; stanco di tormentarsi, allora egli vagava col pensiero dietro visioni estranee al crudele problema che lo urgeva: la voce del mare gli pareva il muggito di mille tori cozzanti invano contro la scogliera; e per contrapposto pensava ad una foresta scossa dal vento e inargentata dalla luna, e ricordava i boschi dell'Orthobene dove tante volte, mentre egli coglieva viole, il rumore del vento sugli elci gli aveva dato appunto l'illusione del mare. Ma all'improvviso il crudele problema tornava. « ... E se si fosse emendata? È lo stesso; è lo stesso. Io devo cercarla, trovarla, aiutarla. Ella mi ha abbandonato per il mio bene, perché altrimenti io non avrei avuto mai un nome, mai un posto nella società. Rimanendo con lei sarei andato a mendicare; sarei vissuto nella vergogna, forse; forse sarei diventato un ladro, un delinquente ... Sì ... e così come sono non è la stessa cosa? Non sono perduto lo stesso? ... No, no! Non è lo stesso! Così sono figlio delle mie azioni. Però Margherita non vorrà esser mia, perché ... Ma perché? ma perché? Perché non vorrà esser mia? Sono io forse disonorato? Che colpa ho io? Ella mi vuole, sì, ella mi vuole, appunto perché sono figlio delle mie azioni. Chi sa, del resto, che quella donna non sia morta? Ah, perché mi illudo? Essa non è morta, lo sento; è viva, è giovane ancora, quanti anni ha adesso? Trentatré anni, forse; ah, è ben giovane!» Quest'idea lo inteneriva alquanto. «Se ella avesse cinquant'anni non potrei perdonarle. Ma perché mi ha ella abbandonato? Se mi avesse tenuto con sé non sarebbe più caduta: io avrei lavorato, a quest'ora sarei un servo, un pastore, un operaio. Non conoscerei Margherita, non sarei infelice ... Mio Dio, mio Dio, fate che ella sia morta! Ma perché faccio questa stupida preghiera? No, ella non è morta. Ma perché dovrei io cercarla? Non mi ha ella abbandonato? Io sono un pazzo, e Margherita riderebbe se sapesse ch'io combatto una così stupida lotta. Ebbene, sono io forse il primo o l'ultimo figlio della colpa, che si innalza e si fa stimare? Sì, ma lei è l'ombra. Io devo cercarla e farla vivere con me, e una donna onesta non vorrà mai vivere con noi: io e lei saremo la stessa persona. Domani io devo scrivere a Margherita. Domani. Se ella mi volesse egualmente?» Questo pensiero lo colmò di dolcezza; ma subito dopo ne sentì tutta l'assurdità e ricadde nella disperazione. Né l'indomani né poi egli poté svelare a Margherita il segreto proposito che lo incalzava, lo sollevava e lo avviliva continuamente. «Glielo dirò a voce» pensava, ma sentiva che tanto meno a voce avrebbe avuto il coraggio di spiegarsi, e s'adirava per la sua viltà, ma nello stesso tempo si confortava nella vergognosa certezza che la sua viltà appunto gli avrebbe impedito di compiere quella che egli chiamava la sua missione. A volte, però, questa missione gli appariva così eroica che l'idea di rinunziarvi lo rattristava. «La mia vita sarebbe inutile, come per la maggior parte degli uomini, se io rinunziassi a ciò!» pensava. Ed in quei momenti di romanticismo non gli dispiaceva la lotta fra il suo dovere terribile e il suo amore ingrandito morbosamente dalla lotta. Dopo la sera della rissa non s'affacciò più al balcone sulla strada; la vista delle casette, dalle quali neppure i ricorsi alla questura riuscivano a snidare le triste inquiline, gli faceva male; tuttavia, rientrando a casa, egli vedeva spesso le due donne, o sul balcone, fra i garofani e gli stracci, o sedute sul limitare della porta. Una specialmente quella del Capo di Sopra alta e snella, coi capelli nerissimi e gli occhi d'un turchino vivo, attirava la sua attenzione. Si chiamava Maria Rosa; era quasi sempre ubriaca e a giorni vestiva miseramente e girava per le strade scarmigliata, scalza o in ciabatte rosse, a giorni usciva elegantemente vestita, in cappello, in mantellina di velluto viola guarnita di piume bianche, qualche volta si metteva sul balcone, fingendo di cucire, e cantava, con voce rauca, graziosi stornelli del suo paese, interrompendosi per gridare insolenze ai passanti che la molestavano coi loro scherzi, o alle vicine con le quali litigava continuamente perché ne seduceva i mariti ed i figli. La sua voce giungeva fino alla camera di Anania, ed egli l'ascoltava con dolore. Maria Rosa gli destava rabbia e pietà, e sebbene la sapesse del tal paese, della tale famiglia, qualche volta egli tornava nella folle supposizione che ella potesse essere sua madre. Sì, dovevano per lo meno rassomigliarsi ... Ah, che triste e terribile ossessione! Una sera poi, Maria Rosa e la compagna lo fermarono in mezzo alla strada, invitandolo a seguirle; egli fuggì, preso da un tremito di disgusto e d'orrore. Dio! Dio! Gli pareva fosse stata lei a fermarlo ... Egli studiava con ardore e scriveva lunghe lettere a Margherita. Il loro amore era perfettamente simile a centomila altri amori fra studenti poveri e signorine ricche: ma ad Anania pareva che nessuna coppia al mondo potesse amarsi come si amavano loro, e che nessun uomo avesse mai amato con l'ardore con cui egli amava. Nonostante il dubbio che Margherita potesse abbandonarlo se egli ritrovava sua madre, era felice del suo amore; la sola idea di riveder la fanciulla gli dava vertigini di gioia. Contava i giorni e le ore; in tutto il suo avvenire misterioso e velato non scorgeva che un punto luminoso: l'incontro con Margherita, al suo ritorno per Pasqua. Anche a Cagliari, durante il primo anno di liceo, egli non ebbe amici e neppure conoscenti; quando non studiava o non vagava solitario in riva al mare, sognava sul balcone, come una fanciulla. Un giorno, verso il tramonto, salì sulle colline di monte Urpino, al di là dei campi ove i mandorli fiorivano dal gennaio, e s'inoltrò nella pineta. Sul musco dei viali abbandonati il sole calante tra i pini rosei gettava riflessi delicati; a sinistra s'intravedevano prati verdi, mandorli in fiore, siepi rosse al tramonto; a destra boschetti di pini, e chine ombrose coperte di iris. Egli non sapeva dove fermarsi, tanto i posti erano deliziosi; colse un fascio d'iris, e infine salì sopra una cima verde di asfodeli, dalla quale si godeva la triplice visione della città rossa al tramonto, degli stagni azzurrognoli e del mare che pareva un immenso crogiuolo d'oro bollente. Il cielo ardeva; la terra esalava delicate fragranze; le nuvole azzurrastre, che disegnavano sull'orizzonte d'oro profili di cammelli e figure bronzee, davano l'idea d'una carovana e ricordavano l'Africa vicina. Anania si sentiva così felice che sventolò il fazzoletto e si mise a gridare salutando un essere invisibile, - che era l'anima del mare, del cielo, lo spirito dei sogni: Margherita. D'allora in poi le pinete di monte Urpino diventarono il regno dei suoi sogni: a poco a poco egli si considerò talmente padrone del luogo che si irritava quando incontrava qualche persona nei viali solitari: spesso rimaneva nella pineta fino al cader della sera, assisteva ai rossi tramonti riflessi dal mare, o seduto fra le iris guardava il sorgere della luna, grande e gialla, fra i pini immobili. Una sera, mentre stava seduto sull'erba di una china, al di là di un piccolo burrone, udì un tintinnio di greggie pascenti, e fu assalito da un impeto di nostalgia. Davanti a lui, al di là del burrone, il viale perdevasi in una lontananza misteriosa: i pini rosei sfumavano sul cielo puro, il musco aveva riflessi di velluto; Venere splendeva sull'orizzonte roseo, sola e ridente, quasi affacciatasi prima delle altre stelle per godersi la dolcezza della sera senza essere disturbata. A che pensava la solitaria stella? Aveva un amante lontano? Anania osò rassomigliarsi all'astro radioso, così solo nel cielo come egli era solo nella pineta. Forse in quell'ora Margherita guardava la stella della sera. E che faceva zia Tatàna? Il fuoco ardeva nel focolare, e la buona vecchia preparava melanconicamente il pasto della sera, pensando al suo caro fanciullo lontano. Ed egli, egli non pensava quasi mai a lei; egli era un ingrato, un egoista. Ah, ma che poteva farci? Se al posto di zia Tatàna ci fosse stata un'altra donna, il suo pensiero sarebbe volato costantemente a lei. Invece quella donna ... Dove era quella donna? Che faceva in quell'ora? Scorgevano anche i suoi occhi la stella della sera? Era morta? Era viva? Era ricca o mendicante? E se fosse in carcere? Egli si meravigliò di non arrossire a questo pensiero. Per la prima volta, dopo tanti anni, provò un senso di pietà, come quando, bambino, cercava di scaldare coi suoi piedini i piedi gelati di Olì ... Finalmente il giorno del ritorno arrivò. Egli partì, quasi oppresso dalla sua felicità: aveva paura di morire in viaggio, di non arrivare a rivedere le care montagne, la nota strada, il dolce orizzonte, il viso di Margherita ... «Se però io morissi ora», pensava, con la fronte appoggiata alla mano, «se morissi ora ella non mi dimenticherebbe mai più ... » Fortunatamente arrivò sano e salvo; rivide le care montagne, le valli selvaggie, il dolce orizzonte, il viso paonazzo di Nanna venuta ad incontrarlo alla stazione. Ella aspettava da più di un'ora; appena vide il bel volto di Anania aprì le braccia e cominciò a piangere. «Figliuolino mio! Figliuolino mio!» «Come la va? Prendi!», egli gridò, e per impedirle di abbracciarlo le gettò addosso la valigia, un involto, un cestino. «Avanti! Avanti! Va avanti, passa di qui; io devo passar di là. Andiamo.» Si mise quasi a correre, e sparve, lasciando la donna stupefatta. Ecco, ecco. Egli deve rivedere la nota strada: ella lo aspetta alla finestra, e non hanno bisogno di testimoni per rivedersi. Come le case di Nuoro sono piccole e le strade strette e deserte! Meglio! Fa quasi freddo, a Nuoro! La primavera c'è, ma è ancora pallida e delicata come una fanciulla convalescente. Ah, ecco alcune persone che s'avanzano: fra esse è Franziscu Carchide che, riconoscendo lo studente, comincia a far gesti di gioia. Che rabbia! «Ebbene, come stai? Ben tornato! Come ti sei fatto grande! Ed elegante, poi! E che scarpette da damerino! quanto le hai pagate?» Finalmente Anania è libero. Avanti, avanti! Il suo cuore batte, batte sempre più forte. Una donna s'affaccia al limitare di una porta, guardando curiosamente; ma Anania passa, fugge, e da lontano sente esclamare: «È lui, sì, proprio lui!». Ebbene, sì, è proprio lui, che vi importa? Ah, ecco, ecco; ecco la strada che conduce all'altra, alla nota, alla cara strada. Finalmente: non è un sogno? Anania sente dei passi e si stizzisce; è un bambino che attraversa di corsa la strada, lo urta, vola via. Egli vorrebbe correre così, ma non può, non deve. Prende anzi un aspetto rigido, composto, si accomoda la cravatta, si sbatte con due dita i risvolti del soprabito. Già; egli ha un soprabito lungo, chiaro, elegante che lei non ha ancora veduto. Lo riconoscerà subito con quel soprabito? Forse no. Ecco finalmente la nota strada! Ecco il portone rosso, ecco la casa bianca con le finestre verdi. Margherita non c'è! Perché? Perché, Dio mio? Egli si ferma, palpitando. Fortunatamente la strada è deserta: solo una gallina nera passeggia, alzando molto le zampe prima di posarle per terra, e si diverte a battere il becco sul muro ... Basta, bisogna passare oltre, a scanso di essere notato da qualche occhio curioso. Egli comincia a camminare lentamente come la gallina; e benché le finestre rimangano vuote egli non cessa di fissarle un istante, e si commuove e sente il cuore saltargli in gola. Ad un tratto gli parve di svenire. Margherita s'era affacciata, pallida di passione, e lo guardava con occhi ardenti. Egli impallidì e non pensò neppure a salutare, a sorridere; non pensò a nulla, e per parecchi istanti non vide che quegli occhi ardenti dai quali gli pioveva una voluttà ineffabile. Camminò automaticamente, voltandosi ad ogni passo, seguito da quegli occhi inebbrianti; e solo quando Nanna, con la valigia sul capo, l'involto in una mano e il cestino nell'altra, apparve ansante in fondo alla strada, egli trasecolò, sorpreso, e affrettò il passo. Parte Seconda I. Era nell'ora che volge il desìo ai naviganti ed a quelli che stanno per salpare verso ignoti lidi. Anania è fra questi. Il treno lo trasporta verso il mare; cade una limpida sera d'autunno, grave di melanconia; i dentellati monti della Gallura sfumano nelle lontananze violacee, l'aria odora di brughiere; un ultimo paesetto appare, grigio e nero su uno sfondo di cielo rossastro. Anania guarda gli strani profili dei monti, il cielo colorato, le macchie, le roccie, e solo il timore di apparire ridicolo agli altri due viaggiatori, un prete e uno studente già suo compagno di scuola, gli impedisce di piangere. Eppoi, ormai, egli è un uomo. È vero che egli si credeva un uomo fin da quando aveva quindici anni: ma allora si credeva un uomo giovane, mentre adesso si crede un giovine vecchio. Eppure la salute e la gioventù brillano nei suoi occhi; egli è alto, svelto, con due seducentissimi baffetti castanei dalle punte d'oro. La sera cadeva; già qualche stella appariva «sovra i monti di Gallura» e qualche fuoco rosseggiava tra il verde-nero delle brughiere. Addio dunque, terra natìa, isola triste, antica madre amata ma non abbastanza perché una voce potente d'oltre mare non strappi i tuoi figli migliori dal tuo grembo, incitandoli a disertare, come aquilotti, il nido materno, la roccia solitaria. Lo studente guardava l'orizzonte ed i suoi occhi si offuscavano a misura che s'offuscava il cielo. Da quanti anni egli aveva sentito la voce che lo attirava lontano! Ricordava l'avventura con Bustianeddu, il progetto della fuga infantile; poi i continui sogni, il desiderio mai spento di un viaggio verso la terre d'oltre mare: eppure sul punto di lasciar l'isola egli si sentiva triste, e si pentiva di non aver proseguito gli studi a Cagliari. Era stato così felice laggiù! Nell'ultimo maggio Margherita gli era apparsa tra lo splendore fantastico delle feste di Sant'Efes, e insieme con lei, fra allegre brigate di compaesani, egli aveva trascorso ore indimenticabili. Ella era elegante, molto alta e formosa; i suoi capelli splendenti e gli occhi turchini solcati dall'ombra delle lunghe ciglia nere attiravano l'attenzione dei passanti che si voltavano a guardarla. Anania, meno alto e più sottile di lei, le camminava al fianco, trepidante di piacere e di gelosia; gli pareva impossibile che la bella creatura regale e taciturna, nei cui occhi sdegnosi brillava tutta la fierezza d'una razza dominatrice, si abbassasse ad amarlo e neppure a guardarlo. Margherita parlava poco; non era civetta, non cambiava aspetto né voce, quando gli uomini le rivolgevano lo sguardo o la parola; e Anania l'amava anche per questo, e non vedeva che lei, non guardava altra donna che per paragonarla a lei e trovarla inferiore; e più egli diventava uomo e lei donna, e più la passione lo infiammava: spesso gli sembrava impossibile che anni ed anni dovessero ancora passare prima che ella diventasse sua. Durante le ultime vacanze si erano spesso trovati soli, nel cortile di Margherita, favoriti dalla serva che facilitava la loro corrispondenza. Di solito essi tacevano, ma mentre Margherita, o per paura o per pudore tremava, vigile e melanconica, Anania sorrideva completamente dimentico del tempo, dello spazio, delle cose e delle vicende umane. «Perché non mi ripeti le parole che mi scrivi?», le domandava. «Taci! ... Ho paura ... » «Di che? Se tuo padre ci sorprende io mi getterò per terra, gli dirò: "no, non facciamo del male; siamo già uniti per l'eternità ... ". Non aver paura; io sarò degno di te, io ho un avvenire davanti ... Io sarò qualche cosa!» Margherita non rispondeva, e vedendola così bella e gelida, con gli occhi illuminati dalla luna come gli occhi di perla d'un idolo, egli non osava baciarla, ma la fissava silenzioso e sussultava, non sapeva bene se di angoscia o di felicità. «Il mare è calmo. Dio sia lodato!», disse uno dei viaggiatori. Anania si scosse dai suoi ricordi e guardò la distesa verde- dorata del mare, che nel crepuscolo pareva una pianura illuminata dalla luna. Le rovine d'una chiesetta, un sentiero attraverso le macchie, perduto sull'estremo limite della costa, quasi tracciato da un sognatore che l'avesse condotto fin laggiù con la speranza di proseguirlo sul velluto marezzato delle onde, attirarono gli sguardi di Anania. Egli pensò a Renato del quale gli parve intravedere il triste profilo su una roccia guardante il mare ... No, non è lui, è un altro eroe di Chateaubriand, Eudoro, che sulle roccie marine della Gallia selvaggia sogna le rose dell'Ellade lontana ... Ebbene, no, non è neppure Eudoro ... è un poeta che si domanda: Questa roccia granitica erta sul mar che fa? ... Ma la roccia, la chiesetta ed il sentiero sono già spariti e con essi il profilo dell'incerto personaggio ... La tristezza dello studente aumentava: domande gravi e inutili gli attraversavano la mente, cadevano senza risposta, come pietre buttate nell'acqua. Perché non poteva egli fermarsi su quella costa selvaggia, dolcemente melanconica, e perché il profilo intraveduto sulla roccia non poteva essere il suo? Perché non poteva egli costrurre una casa sulle rovine della chiesetta? Perché pensava a queste stupide romanticherie, perché andava a Roma, perché studiava, perché studiava leggi? Chi era lui? Che cosa era la vita, la nostalgia, l'amore, la tristezza? Che cosa faceva Margherita? Perché egli l'amava? E perché suo padre era servo? E perché suo padre lo aveva replicatamente avvertito di visitare, appena giunto a Roma, quei luoghi dove si conservano monete d'oro ritrovate sotterra o nelle antiche rovine? Suo padre era o no un delinquente, o un pazzo affetto dall'idea fissa dei tesori? Che aveva egli ereditato da suo padre? L'idea fissa in forma diversa? Era dunque soltanto un'idea fissa, una malattia mentale, il pensiero costantemente rivolto a quella donna? Ma trovavasi ella veramente a Roma, e la ritroverebbe egli? «Anninia», disse con voce beffarda l'altro studente, dando ad Anania il nomignolo che i compagni gli avevano affibbiato, «fai la nanna? Su, via, non piangere, la vita è fatta così: un biglietto per viaggio circolare, con diritto di fermate più o meno lunghe. Consolati almeno che il mal di mare non verrà a interrompere i tuoi sogni d'amore ... » Infatti il mare era calmissimo e la traversata cominciò coi migliori auspici. La luna nuova calava illuminando fantasticamente le coste e la roccia enorme di Capo Figari, sentinella ciclopica vigilante il melanconico sonno dell'isola abbandonata. Addio, addio, terra d'esilio e di sogni! Anania rimase immobile, appoggiato al parapetto del piroscafo, finché l'ultima visione di Capo Figari e delle isolette, sorgenti azzurre dalle onde come nuvole pietrificate, svanirono tra i vapori dell'orizzonte; poi sedette sulla panchina, battendosi dispettosamente un pugno sulla fronte per ricacciar dentro le lagrime che gli velavano gli occhi; e rimase lì, pallido e sconvolto, intirizzito dalla brezza umida, finché vide la luna, rossa come un ferro rovente, calare in una lontananza sanguigna. Finalmente si ritirò, ma tardò ad assopirsi; gli pareva che il suo corpo s'allungasse e si restringesse incessantemente, e che una interminabile fila di carri passasse sopra il suo petto indolenzito; i più tristi ricordi della sua vita gli tornarono in mente: gli sembrava di udire, nello scroscio delle acque frante dal piroscafo, il rumore del vento sopra la casetta della vedova, a Fonni ... Oh, come, come la vita era triste, inutile e vana! Che cosa era la vita? Perché vivere? Così, tristemente, si assopì; ma svegliandosi si sentì un altro, agile, forte, felice. Si era addormentato in un tetro paese di dolore, fra onde livide vigilate da una luna sanguigna: si svegliava in mezzo ad un paese d'oro, in un paese di luce, - vicino a Roma. «Roma!», pensò, palpitando di gioia. «Roma, Roma! Patria eterna, abisso d'ogni male e fonte d'ogni bene!» Gli pareva di poterla abbracciare tutta, di muovere alla conquista del mondo intero. Già a Civitavecchia, attraversando la città umida e nera sotto il cielo mattutino, tutto gli sembrava bello, e diceva allo studente Daga: «Vedi, mi par d'essere nel vestibolo d'una grotta marina meravigliosa». Il Daga, che aveva già vissuto un anno a Roma, sorrideva beffardo, invidiando l'entusiasmo enfatico del suo compagno. L'arrivo rombante del diretto diede al giovane provinciale sardo un senso di terrore, la prima impressione vertiginosa d'una civiltà quasi violenta e distruggitrice. Gli parve che il mostro dagli occhi rossi lo portasse via, come il vento porta la foglia, lanciandolo nel turbine della vita. A Roma i due studenti andarono ad abitare al terzo piano di una casa in Piazza della Consolazione, presso una vedova, madre di due graziose ragazze telegrafiste, maestre, dattilografe, civette. I due studenti dormivano nella stessa camera, vasta, ma poco allegra, divisa da una specie di paravento formato con una coperta gialla; la loro finestra guardava su un cortile interno. La prima volta che Anania guardò da quella finestra provò un senso disperato di sgomento. Non vedeva che muri altissimi, d'un giallo sporco, bucati da lunghe finestre irregolari, e panni miseri, d'un candore equivoco, appesi a fili di ferro; uno di questi fili, con anelli scorrevoli, dai quali pendevano laccetti di spago attorcigliati, passava davanti alla finestra degli studenti. Mentre Anania guardava con disperata tristezza i muri perdentisi sul pallido cielo della sera, Battista Daga scosse il filo e cominciò a ridere: «Guarda, Anninia, guarda come gli anelli e i laccetti di spago ballano. Sembrano vivi. Così è la vita: un filo di ferro attraverso un cortile sporco: gli uomini si agitano, sospesi sopra un abisso di miserie». «Non rompermi le scatole», disse Anania, «sono abbastanza melanconico! Usciamo, mi par di soffocare.» Uscivano, camminavano, si stancavano, storditi dal rumore delle carrozze e dallo splendore dei lumi, dal passaggio violento e dal rauco urlo delle automobili. Anania si sentiva triste, tra la folla; gli pareva d'essere solo in un deserto, e pensava che se si fosse sentito male e avesse gridato nessuno lo avrebbe udito e soccorso. Ricordava Cagliari con nostalgia struggente; oh, balcone incantato, orizzonte marino, dolce occhio di Venere! qui non esistevano più né stelle, né luna, né orizzonte: solo un disgustoso ammasso di pietre, un pullulamento di uomini che allo studente barbaricino parevano d'una razza diversa e inferiore alla sua. Veduta attraverso lo sbalordimento, la stanchezza dei primi giorni, la suggestione melanconica del buio appartamentino di Piazza della Consolazione, Roma gli dava una tristezza quasi morbosa; nella città vecchia, dalle vie strette, dalle botteghe puzzolenti, dagli interni miserabili, dalle porte che parevano bocche di caverne, dalle scalette che sembrava si perdessero in un tenebroso luogo di dolore, egli ricordava i più miseri villaggi sardi; nella Roma nuova si sentiva smarrito, tutto gli appariva grande, le strade tracciate dai giganti per giganti, le case montagne, le piazze tancas sarde; anche il cielo era troppo alto e troppo profondo. Anche all'Università, dove egli cominciò a frequentare assiduamente i corsi di Diritto civile e penale e le lezioni di Enrico Ferri, lo aspettava una delusione. Gli studenti non facevano altro che rumoreggiare e ridere e beffarsi di tutto. Pareva si beffassero della vita stessa. Specialmente nell'aula IV, mentre si aspettava il Ferri, il chiasso e il divertimento oltrepassavano il limite; qualche studente saliva sulla cattedra e cominciava una parodia di lezione accolta da urli, fischi, applausi, grida di «Viva il Papa», «Viva Sant'Alfonso de' Liguori», «Viva Pio IX». Qualche volta lo studente, dalla cattedra, con una faccia tosta indescrivibile imitava il miagolar del gatto o il canto del gallo. Allora le grida e i fischi raddoppiavano; venivano lanciate pallottole di carta, pennine, fiammiferi accesi, finché l'arrivo del professore, accolto da applausi assordanti, metteva fine alla scena. Anania si sentiva solo, triste fra tanta gioia, e gli sembrava di appartenere ad un mondo diverso da quello ove era costretto a vivere. Solo quando il professore cominciava a parlare, egli provava una commozione profonda, quasi un senso di gioia. Fantasmi di delinquenti, di suicidi, di donne perdute, di maniaci, di parricidi, passavano, evocati dalla voce possente del professore, davanti al pensiero turbato di Anania. E fra tante figure egli ne distingueva una, che passava e ripassava davanti a lui, ad occhi bassi. Ma invece di fissarla con orrore egli la guardava con pietà, col desiderio di stenderle la mano. Una sera lui e il Daga attraversavano Via Nazionale: lo splendore delle lampade elettriche si fondeva col chiarore della luna: le finestre del palazzo della Banca erano tutte vivamente illuminate. «Sembra, che tutto l'oro racchiuso nella Banca brilli attraverso le finestre», disse Anania. «Ma bbraaavooo! Si vede che la mia compagnia ti dirozza.» «Sono più che mai romantico stasera. Andiamo al Colosseo!» Andarono. Si aggirarono a lungo nel divino mistero del luogo, guardando la luna attraverso ogni arco; poi sedettero su una colonna lucente e sospirarono entrambi. «Io sento una gioia simile al dolore,» disse Anania. Il Daga non rispose, ma dopo un lungo silenzio disse: «Mi sembra d'essere nella luna. Non ti pare che nella luna si debba provare ciò che si prova qui, in questo gran mondo morto?». «Sì», disse Anania, con voce flebile. «Questa è Roma.» Al ritorno passarono ancora per Via Nazionale. Chiacchieravano in dialetto. Era tardi, e su e giù, attraverso i marciapiedi quasi deserti vagavano molte farfalle notturne, così le chiamava il Daga. A un tratto una di esse passò accanto a loro e li salutò in dialetto sardo. «Bonas tardas, pizzoccheddos!» Era alta, bruna, con grandi occhi cerchiati: la luce elettrica dava al suo piccolo viso, emergente dal collo di pelo d'un soprabito chiaro, un pallore cadaverico. Come a Cagliari, la sera in cui Rosa e la compagna lo avevano fermato, Anania sussultò, preso da un senso d'orrore, e trascinò via il Daga che rispondeva insolentemente alla donna. Era lei? Poteva esser lei? Era una sarda ... poteva esser lei! II. Sdraiato sul suo lettuccio, dopo ore ed ore di amarezza, di dubbio, di opprimente melanconia, egli pensava: «È inutile illudermi: non sono pazzo, no; ma non posso più vivere così; bisogna ch'io sappia ... Oh, fosse morta! fosse morta! Bisogna che io cerchi. Non sono venuto a Roma per questo? Domani! domani! Dal giorno che arrivai ripeto questa parola, e l'indomani arriva ed io non faccio niente. Ma che posso fare? Dove devo andare? E se la trovo?». Ah, era di questo che egli aveva paura. Non voleva neppur pensare a quanto poteva accadere dopo ... Improvvisamente si domandò: «E se mi confidassi col Daga? Se io ora gli dicessi: "Battista, devo uscire, devo recarmi in questura per chiedere informazioni ... ". Ah, non ne posso più! Sono tanti e tanti anni che io trascino con me questo peso: ora vorrei liberarmene, gettarlo via come si getta un carico opprimente ... liberarmene, respirare ... Bisogna snidarlo questo verme roditore. Mi diranno che sono uno stupido, mi convinceranno che lo sono, mi diranno di smettere ... Ebbene, tanto meglio se mi convinceranno ... Che giornata triste! Il cielo si abbassa ... si abbassa sempre più ... Avrei sonno? Bisogna ch'io vada subito». Pioveva dirottamente. Anche il Daga sonnecchiava sul suo lettuccio, al di là del paravento. «Battista», disse Anania, sollevandosi, col gomito sul guanciale, «tu non esci?» «No.» «Mi presti il tuo ombrello?» Sperava che il compagno gli chiedesse dove voleva andare, con quel tempo orribile, ma il Daga disse: «Non potresti farmi il piacere di comprartene uno?» Anania sedette sul letto, rivolto al paravento, e mormorò: «Devo andare in questura ... ». E sperò ancora che una voce fraterna gli chiedesse il suo segreto ... Ecco, egli palpitava già pensando come cominciare ... Ma attraverso il paravento una voce beffarda chiese: «Vai a far arrestare la pioggia?». Il segreto gli ripiombò sul cuore, più amaro e grave di prima. Ah, non un paravento, ma una muraglia insuperabile lo divideva dalla confidenza e dalla carità del prossimo. Non doveva chiedere né aspettare aiuto da nessuno; doveva bastare a se stesso. S'alzò, si pettinò accuratamente e cercò nel cassetto la sua fede di nascita. «Prendilo pure, l'ombrello. Ma perché vai?», chiese l'altro, sbadigliando. Egli non rispose. Sulle scale buie si fermò un momento, ascoltando lo scroscio sonoro dell'acqua sull'invetriata del tetto: pareva il rombo d'una cascata, che dovesse di momento in momento precipitarsi entro la casa, già inondata dal fragore dell'imminente rovina. Una tristezza mortale gli strinse il cuore. Uscì e vagò lungamente per le strade lavate dalla pioggia: salì su per una viuzza deserta, passò sotto un arco nero, guardò con infinita tristezza i chiaroscuri umidi di certi interni, di certe piccole botteghe, nella cui penombra si disegnavano pallide figure di donne, di uomini volgari, di bimbi sudici: antri ove i carbonari assumevano aspetti diabolici, dove i cestini di erbaggi e di frutta imputridivano nell'oscurità fangosa, ed il fabbro e il ciabattino e la stiratrice si consumavano nei lavori forzati, in un luogo di pena più triste della galera stessa. Anania guardava: ricordava la catapecchia della vedova di Fonni, la casa del mugnaio, il molino, il misero vicinato e le melanconiche figure che lo animavano; e gli pareva d'esser condannato a viver sempre in luoghi di tristezza e tra immagini di dolore. Dopo un lungo ed inutile vagabondare rientrò a casa e si mise a scrivere a Margherita. «Sono mortalmente triste: ho sull'anima un peso che mi opprime e mi schiaccia. Da molti anni io volevo dirti ciò che ti scrivo adesso, in questo triste giorno di pioggia e di melanconia. Non so come tu accoglierai la rivelazione che sto per farti; ma qualunque cosa tu possa pensare, Margherita, non dimenticare che io sono trascinato da una fatalità inesorabile, da un dovere che è più terribile d'un delitto ... » Arrivato alla parola «delitto» si fermò e rilesse la lettera incominciata. Poi riprese la penna, ma non poté tracciare altra parola, vinto da un gelo improvviso. Chi era Margherita? Chi era lui? Chi era quella donna? Cosa era la vita? Ecco che le stupide domande ricominciavano. Guardò lungamente i vetri, il filo di ferro, gli anellini ed i lacci bagnati e saltellanti su uno sfondo giallastro, e pensò: «Se mi suicidassi?», Lacerò lentamente la lettera, prima in lunghe striscie, poi in quadrettini che dispose in colonna, e tornò a fissare i vetri, il filo di ferro, i laccetti che parevano marionette. Rimase così finché la pioggia cessò, finché il compagno lo invitò ad uscire. Il cielo si rasserenava; nell'aria molle vibravano i rumori della città rianimatasi, e l'arcobaleno s'incurvava, meravigliosa cornice, sul quadro umido del Foro Romano. Al solito, i due compagni salirono per Via Nazionale e il Daga si fermò a guardare i giornali davanti al Garroni, mentre Anania proseguiva distratto, andando incontro ad una fila ciangottante di chierici rossi, uno dei quali lo urtò lievemente. Allora egli parve destarsi da un sogno, si fermò e aspettò il compagno, mentre i chierici s'allontanavano, e il riflesso dei loro abiti scarlatti dava uno splendore sanguigno al lastrico bagnato. «Nella mia infanzia ho conosciuto il figliuolino d'un bandito famoso; il bimbo era già arso da passioni selvaggie, e si proponeva di vendicare suo padre. Ora invece ho saputo che si è fatto frate. Come tu spieghi questo fatto?», domandò Anania. «Quell'individuo è pazzo!», rispose il Daga con indifferenza. «Ebbene, no!», riprese Anania animandosi. «Noi spieghiamo o vogliamo spiegare molti misteri psicologici, dando il titolo di matto all'individuo che ne è soggetto.» «Per lo meno, però, è un monomaniaco. D'altronde anche la pazzia è un mistero psicologico complicato; un albero il cui ramo più potente è la monomania.» «Ebbene, ammetto. Ma l'individuo in questione aveva la monomania del banditismo; aggiungi, monomania atavica. Facendosi frate egli, sebbene uomo quasi primitivo, ha voluto liberarsi dal suo male ... » «E finirà con l'impazzire davvero, quel frate. Un uomo cosciente, colto dal malanno di un'idea fissa qualunque, deve liberarsene secondandola.» «Tu forse hai ragione», disse Anania, pensieroso. E non parlò più finché non arrivarono all'angolo di Via Agostino Depretis. Allora disse, svoltando strada: «Voglio prendere ... mi hanno incaricato di prendere l'indirizzo di una persona ... Devo andare in questura». Il compagno lo seguì, curioso. «Chi è questa persona? Chi ti ha incaricato? È del tuo paese?» Ma Anania non si spiegava. Arrivati davanti a Santa Maria Maggiore il Daga dichiarò che non sarebbe andato oltre. «Allora aspettami qui», disse Anania, senza fermarsi, «ti dirò poi ... » Messo in curiosità il Daga lo seguì per un tratto, poi lo aspettò sulla gradinata della chiesa. «Il dado è gettato?» chiese con enfasi, quando Anania ricomparve. Ma nonostante le sue domande e i suoi scherzi non riuscì a sapere che cosa il suo compagno era andato a fare in questura. Appoggiato al muro Anania guardava l'orizzonte e ricordava la sera in cui, bambino, era salito sulle falde del Gennargentu ed aveva veduto un pauroso cielo tutto rosso, animato da spiriti invisibili. Anche adesso sentiva un mistero aleggiargli intorno, e la città gli sembrava una foresta di pietra attraversata da fiumi pericolosi, e sentiva paura. III. Sì, come si legge nelle vecchie storie romantiche, il dado era gettato. La questura, dopo la domanda e le indicazioni di Anania, fece ricerca di Rosalia Derios, e verso la fine di marzo informò lo studente che al numero tale di Via del Seminario, all'ultimo piano, abitava una donna sarda, affitta-camere, il cui passato e i connotati corrispondevano a quelli di Olì. Questa signora si chiamava, o si faceva chiamare, Maria Obinu, nativa di Nuoro. Abitava in Roma da quattordici anni, e nei primi tempi aveva vissuto un po' irregolarmente. Da qualche anno, però, menava vita onesta - almeno in apparenza - affittando camere mobiliate e facendo pensione. Anania non si commosse troppo nel ricevere queste informazioni. I connotati combinavano; egli non ricordava precisamente la fisonomia di sua madre, ma ricordava che ella era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari: e la Obinu era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari. Inoltre egli sapeva che a Nuoro non esisteva alcuna famiglia Obinu, e che nessuna donna nuorese viveva e affittava camere a Roma. Evidentemente quindi la Obinu falsava il suo nome e la sua origine ... Tuttavia egli sentì che la donna indicatagli dalla questura non era, non poteva essere sua madre; questa non viveva a Roma dal momento che la questura non riusciva a scoprirla. Dopo giorni e mesi di attesa e di ansia, egli provò come un senso di liberazione. La primavera penetrava anche nel cortile melanconico di Piazza della Consolazione, in quell'enorme pozzo giallo esalante odori di vivande, animato dal canto delle serve e dal gorgheggio dei canarini prigionieri. L'aria era tiepida e dolce; sul cielo azzurro passavano nuvolette rosee, e il vento portava fragranze di rose e di viole. Affacciato alla finestra, Anania si abbandonava ai suoi sogni nostalgici. L'odore delle viole, le nuvole rosee, il tepore della primavera, tutto gli ricordava la terra natìa, i vasti orizzonti, le nuvole che dalla finestra della sua cameretta egli vedeva affacciarsi o tramontare fra gli elci dell'Orthobene. Poi ricordava la pineta di monte Urpino, il silenzio delle cime coperte d'asfodeli e di iris violette, il mistero dei viali vigilati dal puro sguardo delle stelle. E la figura diletta di Margherita dominava i freschi paesaggi natii, circondata di asfodeli e di gigli selvatici, coi capelli di rame sfumati nel fulgore del cielo metallico. La primavera romana non lo commoveva che per le rimembranze: gli sembrava una primavera artificiale, troppo ardente e luminosa, troppo abbondante di fiori e di profumi. Piazza di Spagna, ornata come un altare, con la scalinata coperta di petali di rose mosse dalla brezza, il Pincio con gli alberi avvolti di fiori violacei, le vie profumate dai cestini di narcisi e di ranuncoli che le fioraie, ferme sull'orlo dei marciapiedi, offrivano ai passanti, - tutta questa ostentazione, tutto questo mercato della primavera, dava allo studente l'idea di una festa banale, che a lungo andare rattristava e disgustava. La primavera palpitava al di là dell'orizzonte; giovinetta selvaggia e pura ella scorrazzava attraverso le tancas coperte d'erbe alte aromatiche, e cantava con gli uccelli palustri in riva ai torrenti, e scherzava coi mufloni e con le lepri, fra i ciclamini, sotto le immense quercie sacre ai vecchi pastori della Barbagia, e si addormentava all'ombra delle roccie fiorite di musco, nei voluttuosi meriggi, mentre intorno al suo letto di felci e di pervinche gli insetti dorati ronzavano amandosi, e le api suggevano le rose canine estraendone il miele amaro; amaro e dolce come l'anima sarda. Anania amava e viveva in questa primavera lontana; seduto accanto alla finestra guardava le nuvolette rosee, e s'immaginava di essere un prigioniero innamorato. Una sonnolenza piacevole gli velava lo spirito, togliendogli la forza e la volontà di pensare a determinate cose. Le idee venivano e passavano nella sua mente, - così come le persone passano per la via; lo interessavano per un attimo, ma non si fermavano ed egli le dimenticava subito. Più che mai amava la solitudine; e persino la presenza del compagno lo irritava, anche perché il Daga lo derideva continuamente. «Noi vediamo la vita sotto aspetti ben diversi», gli diceva, «cioè io la vedo e tu non la vedi. Io sono miope e vedo, attraverso lenti fortissime, le cose e le umane vicende, nitidamente, rimpicciolite; tu sei miope e non possiedi neppure un paio d'occhiali.» Talvolta infatti pareva ad Anania di aver un velo davanti agli occhi; egli viveva di diffidenza e di dolore. Anche la sua passione per Margherita, in fondo, era composta di tristezza e di paura. Un giorno, agli ultimi di maggio, egli sorprese il compagno stretto in tenero amplesso con la maggiore delle padroncine. «Sei un bruto», gli disse con disprezzo. «Non amoreggi anche con l'altra sorella? Perché ti burli di entrambe?» «Scusami, stupido: son loro che vengono a buttarmisi fra le braccia, le posso respingere?», chiese cinicamente il Daga. «Poiché il mondo è diventato un gambero, profittiamone. Ora son le donne che seducono gli uomini; ed io sarei più stupido di te se non mi lasciassi sedurre ... fino ad un certo punto ... » «Ma perché certe cose non accadono che a certi tipi? A me no, per esempio.» «Perché agli asini non può succedere ciò che succede agli uomini: eppoi le nostre soavi padroncine hanno, in fondo, l'onesto desiderio di trovarsi un marito e sanno che tu sei fidanzato.» «Io fidanzato? ... », gridò Anania, «chi lo ha detto?» «Chi lo sa? E di una Margherita, anche, che questa volta, meno male, va gettata ante asinos.» «Ti proibisco di ripetere quel nome!», proruppe Anania, andando addosso al Daga. «Capisci, te lo proibisco!» «Abbassa le dita, ché mi cavi gli occhi! Il tuo amore è feroce!» Fremente di collera Anania si mise a impacchettare i suoi libri e le sue carte. «Ah», diceva, a denti stretti, «me ne vado subito, subito. Io non so vivere fra gente curiosa e volgare.» «Addio, dunque!», disse Battista, gettandosi sul letto. «Ricordati almeno che nei primi giorni che siamo giunti, se non c'ero io rimanevi vilmente schiacciato da una carrozza.» Anania uscì, col cuore gonfio di fiele: si diresse automaticamente verso il Corso, e quasi senza avvedersene si trovò in Via del Seminario. Era un pomeriggio ardente; lo scirocco sbatteva le tende dei negozi: l'aria odorava di vernici, di droghe e di vivande. Anania sentiva i suoi nervi fremere come corde metalliche. In Via del Seminario passò in mezzo a uno stormo di chierici e di preti dalle mantelline svolazzanti e mormorò dispettosamente: «Corvi!», A un tratto, accanto a una piccola porta che dava su un andito buio, egli vide un numero, il numero della casa ove abitava Maria Obinu. Entrò, salì all'ultimo piano e suonò. Una donna alta e pallida, vestita di nero, aprì: egli si turbò, sembrandogli di aver veduto altra volta i grandi occhi verdastri di lei. «La signora Obinu?» «Sono io», rispose la donna con voce grave, «No», egli pensò, «non è lei; non è la sua voce.» Entrò. La Obinu gli fece attraversare un piccolo vestibolo buio e lo introdusse in un salottino grigio e triste; egli si guardò attorno, vide una testa di cervo e una pelle di muflone attaccate al muro, e immediatamente sentì i suoi dubbi rinascere. «Vorrei una camera; io sono sardo, studente», disse, esaminando la donna da capo a piedi. Ella era pallida e scarna, col collo lungo, il naso affilato quasi trasparente; ma i folti capelli neri, pettinati ancora alla sarda, cioè a trecce strette appuntate fortemente sulla nuca, le davano un'aria graziosa. «Lei è sardo? Ho piacere ... », rispose disinvolta. «Adesso non ho camere disponibili, ma se lei può pazientare una quindicina di giorni, ho una signorina inglese che deve partire ... » Egli chiese ed ottenne di veder la camera; il letto stava al centro, fra due cataste di libri vecchi e d'oggetti antichi; entro una vasca di gomma, ancora piena d'acqua insaponata, olezzava un fascio di gaggie; dalla finestra si scorgeva un giardinetto melanconico. Sul tavolino Anania vide, fra gli altri, un volumetto che egli amava con passione dolorosa. Erano i versi di Giovanni Cena: Madre. «Ho bisogno di andar subito via dalla casa dove sto; prenderò questa camera, ma intanto, non potrebbe darmene un'altra, fosse anche un buco? ... » Rientrarono nel salottino, ed egli si fermò a guardare la testa imbalsamata del cervo. «È un ricordo di mio padre, che era cacciatore», disse la donna, sorridendo con bontà. «È di Nuoro, lei?» «Sì, ma sono nata là per caso.» «Anch'io sono nato per caso nel villaggio di Fonni», egli disse, guardandola in viso. «Sì, sono nato a Fonni; mi chiamo Anania Atonzu Derios.» Ella non batté palpebra. «No, non è lei!», egli pensò, e si sentì felice. «Per questi quindici giorni le darò la mia camera», disse finalmente la Obinu, cedendo alle insistenze di lui, ed egli accettò. La cameretta pareva la cella d'una monaca; il lettino candido, odorante di spigo, ricordava i semplici giacigli di certe patriarcali abitazioni sarde. E come in quelle abitazioni, Maria Obinu aveva appeso lungo le pareti grigie della sua camera una fila di quadretti e di immagini sacre; tre ceri, poi, e tre crocefissi, un ramo d'olivo e un rosario che pareva di confetti, pendevano in capo al letto; in un angolo ardeva una lampadina davanti ad una immagine dove le Sante Anime del Purgatorio, tinte di livido da un lapis turchino, pregavano tra fiamme insanguinate da un lapis rosso. Anania prese possesso della camera, e ben presto fu riassalito dai suoi dubbi. Perché la Obinu gli cedeva la sua camera? perché si mostrava così premurosa con lui? Mentre egli metteva a posto i suoi libri, Maria bussò e, senza avanzare, gli domandò se desiderava che la lampadina delle «Sante Anime» venisse spenta. «No», egli rispose con voce forte, «venga avanti, anzi, che le faccio vedere una cosa.» Ella entrò, pallida, sorridente; pareva avesse sempre conosciuto il suo inquilino e gli volesse bene. Egli teneva fra le mani uno strano oggetto, un sacchettino di stoffa unta, attaccato ad una catenina annerita dal tempo. Disse, mettendosi l'amuleto al collo: «Veda, anche io sono devoto, questa è la ricetta di San Giovanni, che allontana le tentazioni.» La donna guardava. Improvvisamente cessò di sorridere, ed Anania sentì il suo cuore battere forte. «Lei non crede a queste cose?», domandò Maria. «Ebbene, se non ci crede, almeno non se ne burli. Sono cose sacrosante.» Steso sul lettino odorante di spigo, Anania pensava continuamente al suo segreto. ... E se Maria Obinu era Olì? Se era lei? Così vicina e così lontana! qual filo misterioso lo aveva condotto fino a lei, fino al guanciale su cui ella doveva qualche volta piangere ricordando il figliuolo abbandonato? Che strana cosa la vita! Egli era dunque giunto così al suo destino, solo per forza di una volontà misteriosa che lo aveva guidato quasi a sua insaputa. Ma non era pazzo, dunque? Che sciocchezze, che puerilità! No, non era lei, non poteva esser lei. Ma se lo era? Se ella già sapeva di essere vicina a suo figlio, mentre egli si dibatteva nel dubbio? No, non poteva essere lei. Una madre non può non tradirsi, non può non gridare nel rivedere suo figlio. Era assurdo. - Sciocchezze, idee convenzionali. Una donna sa dominarsi anche tra le più violente emozioni. Essa, poi, che aveva abbandonato e buttato via la sua creatura! Appunto per questo doveva tradirsi, gridare, sussultare. Una madre è sempre una madre. Eppoi Olì, una selvaggia, una semplice figlia della natura, non poteva aver assimilato la perfidia delle donne di città, tanto da fingere come una commediante, da sapersi dominare così! Impossibile. Era assurdo, Maria Obinu era Maria Obinu, simpatica donna, mite e incosciente, che aveva avuto la fortuna, più che la forza, di emendarsi. Non poteva esser lei. Ma intanto egli ricordava la prima notte passata a Nuoro e il bacio furtivo di suo padre, e di momento in momento aspettava che l'uscio s'aprisse, e un'ombra si avanzasse, nel chiarore della lampadina, e un bacio rivelatore gli sfiorasse la fronte! ... «E se ciò fosse ... che farei io?» si chiedeva trepidando. I rumori della città si affievolivano, s'allontanavano, quasi ritirandosi anch'essi, stanchi, verso un luogo di riposo. Anania sentì rientrare i tardivi inquilini, poi tutto fu silenzio, nella casa, nella via, nella città. Ed egli vegliava ancora! Ah, forse quella lampadina? ... «Ora la spengo ... » Si alzò. Un rumore, un fruscio ... È l'uscio che si apre? Oh, Dio! Egli si gettò nuovamente sul letto, chiuse gli occhi e attese. Il cuore e la gola gli pulsavano febbrilmente. Ma l'uscio rimase chiuso, ed egli si calmò e rise di sé. Però non spense la lampadina.

Giacomo l'idealista

663180
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Quando capí che il padrone cominciava a veder qualcheduno, il brutto cane, che da cinque o sei giorni non abbandonava la loggetta, si fece coraggio e venne innanzi a fiutare il letto. Giacomo, aprendo gli occhi, incontrò quelli buoni e lagrimosi del fedele animale; sporse una mano dalla coltre, gli strinse il muso, lo carezzò, lo interrogò a lungo con uno sguardo, a cui il vecchio filosofo pessimista rispose con un tremito convulso di tutto il corpo e con un lento dimenar della coda. - Hai sentito, Blitz, quel che ci hanno fatto? - mormorò Giacomo, come se volesse provare la voce e le forze in presenza del suo prudente compagno. - Hai sentito quel che hanno fatto della nostra povera Celestina? E non è finita, ve', Blitz; ne vedrai di piú brutte. Se non propriamente pronunciate, queste tristezze furono espresse dallo sguardo dell'uomo, raccolte e compatite dallo spirito del cane, che, posate le due zampe pelose sulle coltri del letto, mandava un gemito come d'anima sofferente. Le forze fisiche tornarono a poco a poco e, insieme, andava crescendo, al tornare della coscienza del suo stato, il terrore e la vergogna dell'oltraggio ricevuto. L'animo, già cosí paziente e tollerante dei mali, correva, al divampare dell'odio, a pensieri di estrema violenza: l'occhio fissavasi in una sua idea lugubre: l'infermo stringeva ipugni sotto le coperte, o si metteva a sedere sul letto, come se cercasse di misurare le sue forze per una estrema battaglia. Non poteva finir cosí! Era un risveglio assai doloroso e grottesco per un filosofo idealista, che stava sognando l'amabile conciliazione degli uomini colle forze nemiche della natura! All'urto feroce della realtà egli si avvedeva d'aver riflesso nella sua filosofia le cose del mondo forse con una certa limpidezza, ma semplicemente capovolte! Aveva creduto nell'illusione fantastica della sua solitudine di stendere il volo ai piú alti cieli e invece era semplicemente la terra che gli mancava sotto i piedi. Mai ingenuità filosofica era stata piú punita! mai s'era vista una piú grande incapacità! Che gli restava di fare? egli non poteva restar eternamente cosí immerso in un morboso letargo, né chiudere gli occhi bastava per non vedere, né sprofondarsi in un sepolcro significava esser morto. Dalla rovina delle sue costruzioni fantastiche, come tra gli sconquassi d'un'immensa impalcatura posticcia, qualche cosa d'immobile e di massiccio era di sotto, contro cui ogni uomo va a battere la testa, ove non sappia edificarvi sopra la vita. Cadevano i vaghi pensieri, ma restava il dovere da compiere. Bisognava insomma far qualche cosa per sé, per Celestina, per il suo onore, per la famiglia, per l'opinione del mondo, per la pace dei buoni, per il riscatto della coscienza, per il sollievo dell'animo esulcerato, per la difesa degli innocenti, per il castigo dei tristi. Ma dove cominciare? a chi chiedere la forza dell'odio e della vendetta? come rompere le catene ormai irrugginite della sua antica schiavitú morale contro questi benefattori, che non poteva pagare? All'immagine laida del miserabile, che aveva vituperato con bestiale brutalità quanto di piú sacro e di piú puro può contenere il cuore d'un uomo sentiva a un tratto la sua volontà ingrandirsi, farsi di ferro; coll'occhio arroventato fisso nell'aria cercava il vile, lo ritrovava, gli si scagliava addosso, metteva le mani nel suo sangue e di questo sangue, di cui nella squisita debolezza nervosa vedeva le chiazze vermiglie vagolare sulle pareti e sul bianco del letto, provava una vertiginosa ebbrezza. A queste fiammate, da cui il suo spirito debole e titubante era trasportato a esagerate emozioni, seguivano molte ore di depressione morale e di sonnolenza, durante le quali la forza critica della sua mente, quella ch'egli era abituato ad adoperare di piú e di cui, come di un coltello del mestiere, si serviva per recidere i lacci e le corde degli inviluppi morali, rispondeva con una lunga e ironica argomentazione alle rodomontate del sentimento. "Un assassinio? una strage? un duello? Ci vuole un bel coraggio a liquidare con un delitto o con una elegante pantomima il crudele dolore dell'anima tua! Forseche il sangue ha mai potuto lavare una macchia e spegnere una sete? E deve proprio toccare a te questa parte di romantico Ernani, perché si tragga dall'agonia mortale di due cuori un drammaccio volgare, che rallegri e contristi di tragica pietà i lettori delle cronache e dei fatti diversi? A chi gioverebbe una vendetta volgare? poco a te, se pur ti pare che giovi al frenetico il rotolarsi nel fango; nulla agli altri, se non a rendere volgari le piú delicate sofferenze; nulla a pagare il danno d'una vita spezzata; nulla a soddisfare la legge morale; nulla a nessuno insomma, tranne che a far piacere agli invidiosi e agli imbecilli". Ma che poteva fare dunque per quella poverina? All'immagine di Celestina le lagrime gli correvano agli occhi, un nodo angoscioso minacciava di soffocarlo, pareva che le ultime forze della sua vita si ritirassero e lo lasciassero esangue. La voce malinconica, il viso sconvolto, quel tono di morta disperazione, con cui gli aveva parlato l'ultima volta nel viale del giardino, tutto questo tornava vivo e presente a scoraggiarlo di piú. Che cosa rimaneva di tutto il caro edíficio della sua vita di lavoro ideale, di quel loro amore cosí naturale e ridente, cosí tenero di tutte le dolcezze piú spontanee della vita? Questo loro affetto non intessuto di astruserie, come sogliono fabbricarne gli spiriti stanchi e sciupati, ma semplice come un fiore, era stato il suo orgoglio. Celestina, oltre alle virtú native della donna innamorata, che cede all'amore dell'uomo forte e sapiente, rappresentava per lui gli adunati desideri, la bellezza ideale, il sospirato riposo, quanto insomma di eletto sovrabbonda alla vigorosa virtú dell'uomo savio e che la donna raccoglie e conserva per i giorni della stanchezza e del dubbio. All'idea che di un cosí incantevole edificio non restava piú che un mucchio di cenere, egli si rivoltava nel letto, cacciava la testa sotto il cuscino, urlava come una belva ferita chiedendo: perché? perché? L'immaginazione gli procurava non minori tormenti nel fargli sentire quel che al propalarsi del sordido caso, i soliti beffardi avrebbero dovuto dire di lui, della ragazza, della burla giocata al filosofo, della superbia punita di casa Lanzavecchia. O Dio! qualche soddisfazione egli doveva pur domandare a questi signori. Nessun anacoreta avrebbe tollerato che una creatura debole e innocente rimanesse senza difesa e senza giustizia sotto l'obbrobrio di un simile oltraggio, senza assumere nella sua pigra sonnolenza morale una obbrobriosa responsabilità. Il male che si compie, accettando in silenzio il male, è una forma, e non la piú coraggiosa, di complicità. Molte ore restava cosí confitto, come un povero Cristo, alla croce dei suoi pensieri, cogli occhi fissi alla luce della finestra, in cui sbatteva irrigidito il candore della prima nevicata; e ripensando per un ozioso abbandono dello spirito ai fatti piú lontani della sua fanciullezza, evocava gli episodi di quel suo antico amore. Sul muro di quella stessa stanza, dove giaceva a invocare inutilmente la morte, erano rimaste le vecchie traccie di un altarino in due striscie dipinte in mattone rosso, simulanti un padiglione, tra le screpolature dell'intonaco. Celestina era venuta spesso ad ascoltare una messa, che il pretino recitava sopra due sedie con indosso il grembiale della mamma in luogo della sacra pianeta, con in testa un logoro berretto dello zio prete. Qualche altra volta egli l'aveva confessata, stando seduto in un vecchio armadio; poi l'aveva comunicata con un manus Christi della zia Veronica. Quante volte avevano preparato insieme le feste del mese di Maria, addobbando la loggetta di pezzuole, di frasche, di corone di fiori, o avevano preparata per la sera una lunga illuminazione di moccoletti, in mezzo alla quale sfilava una processione di ragazzine e di villanelli scalzi, nel frastuono d'una musica di coperchi, d'imbuti e di scatole di lucilina! Quando Giacomo predicava dall'alto del seggiolone, Celestina con sulla testa il grembialone della zia Santina, stava a sentirlo tutta raccolta e compunta, ridendo a qualche citazione in trappolorum gamberellis, che usciva di bocca al predicatore, con quel suo riso irresistibile che metteva in iscompiglio la divozione. Dal suo letto egli vedeva la chioma biancheggiante dell'antico frassino in fondo alla vignetta, in cui solevano ricoverarsi nelle ore calde e cercar nel fitto dei rami una aerea abitazione e fabbricare colla fantasia case e palazzi incantati, che tremolavano ad ogni soffio di vento. Venivano ad una ad una queste memorie e partivano da lui, come pietose visitatrici, che escano dalla casa di un morto. Che potevano dare questi signori in compenso di tanto bene perduto?

Malombra

670402
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

A Lui, a Lui si abbandonava. Curva sul banco la flessuosa persona, pareva una Tentazione penitente. La contessa Fosca le dava delle occhiate oblique, lavorando a più potere di ventaglio e battendo via con le labbra frettolose un chiacchierio muto di preghiere interminabili. Si compiaceva di vederle quell'attitudine pia. Immaginava gl'inchini che il vecchio nonzolo di S. Maria Formosa avrebbe fatto a sua nuora. Nepo era alla tortura; si portava e riportava al naso il fazzoletto profumato, guardava sottecchi i suoi vicini colossali e, quando si buttavano ginocchioni con tutti gli altri fedeli, egli non osava stare ritto, calava adagio adagio, pieno di angoscia pei suoi calzoni color tortora. Che differenze dall'ultima Messa di S. Filippo, da quel giardino di tote e di madame eleganti, da quell'ambiente di cristianesimo depurato! Si consolava pensando alla cugina. "Natura aristocratica" diceva tra sé. "Debbo essere il suo ideale, il suo Messia. Non vuole che me ne accorga troppo, è naturale." Suonò il campanello dell'elevazione. Nepo, in ginocchio, col capo devotamente chino, pensava: "Milleduecento ettari in Lomellina, ottocento nel Novarese, palazzo a Torino, palazzo a Firenze." Invece Edith non abbassò il viso. Era pallidissima, guardava davanti a sé con occhio grave e tranquillo. Solo un tremito delle mani tradiva il fervore dell'accorata preghiera che passava su tutte le teste chine, moveva diritto a Dio, gli diceva in faccia: "Signore, Signore, tu che sai quanto l'hanno offeso, non sarai pietoso con lui?". Il suo viso pensoso non esprimeva la rassegnazione ascetica, ma una volontà ferma e intelligente, velata di tristezza. E lui intanto, il nostro onesto amico Steinegge, ascoltava Messa in excelsis, seduto fra gli allori, abbracciandosi le ginocchia. Egli era proprio uscito di chiesa perché il pavimento gli scottava. Da quanti anni non aveva posto piede nelle prigioni, come diceva lui, di Domeneddio! Non aveva osato lasciar sua figlia sull'entrata della chiesa; ma, appena oltrepassata la soglia, quando Edith si avviò a pigliar posto nei banchi riservati alle donne, egli si pentì di aver male presunto delle sue forze. Non eran o tanto i suoi odii fieri quanto un sentimento d'onore che lo spingeva indietro. Il buon vecchio lupo uscì dal gregge. Accovacciato lassù come un lupo malinconico, non curava affatto la deliziosa scena di monti, di acque, di prati che rideva davanti a lui; né udiva i blandimenti delle frondi che gli sussurravano intorno. Guardava giù il tetto della chiesa e ascoltava il suono confuso di canti e d'organo che ne saliva tratto tratto. Aveva un pensiero solo e lo lavorava per tutti i versi: "Agli occhi suoi sono un reprobo." Pensiero amaro. Aver tanto combattuto, tanto sofferto, custodito l'onore contro la fame atroce, contro tutte le violente voglie del corpo estenuato, tutte le viltà della stanchezza; averlo così custodito quasi più per lei che per sé, amarla come l'amava, ed esserne giudicato un reprobo! Dovrebbe egli dunque umiliarsi davanti ai preti che l'avevano fatto maledire dai parenti suoi e da sua moglie ed erano in colpa degli stenti, della morte di lei? "Finirò così" pensò "mi avvilirò, purché Edith mi voglia bene. " Gli venne un'idea. "Se dicessi una parola a questo Dio, posto che ci sia?!" Si alzò in piedi e si mise a parlare in tedesco, a voce alta: "Signor Dio, ascoltatemi un poco. Non siamo amici? Sia. Io ho detto molto male dei preti, di Voi, né a Voi non ho mai parlato. Se tuttavia Voi volete trattarmi da nemico, io Vi prego di fare i conti. Dicono che siete giusto, e lo credo, signor Dio. Guardate nel vostro libro la partita Andrea Steinegge fu Federico di Nassau; guardate se non ho pagato abbastanza. Voi siet e molto grande; io molto piccolo; Voi sempre giovane, io sono vecchio e stanco. Cosa volete prendermi ancora? L'amore di mia figlia Edith! Non ho altro, signor Dio. Guardate se potete lasciarmelo. Se non potete, spazzatemi via, per Dio, e finiamola". Al suono della propria voce Steinegge si commoveva e s'inteneriva sempre più. Mise un ginocchio a terra. "Vi conosco poco, signor Dio, ma la mia Edith Vi vuol bene e io posso adorarvi, se volete. Vedete, m'inginocchio; ma intendiamoci noi e lasciamo da banda i preti. Forse posso darvi qualche altra cosa. Io ho la mia salute ch'è di bronzo. Pigliate questa. Fatemi morire a poco a poco, ma non mettetevi fra Edith e me. Io non posso inginocchiarmi davanti ai preti e mentire. Sono leale, sono soldato." "Signor Dio" qui Steinegge posò a terra anche l'altro ginocchio e abbassò la voce. "Io ho paura d'aver molto peccato nella mia giovinezza. Ho amato il giuoco e le donne peggiori. Tre volte, sulle dodici che mi son battuto in duello, ho provocato io, ho ferito l'altro e avevo torto. Credo che questi siano stati tre peccati; li ho sempre avuti nel cuore. Signor Dio della mia Edith, Vi domando perdono." Non disse altro e tornò a sedere, commosso, ma contento di sé. Gli pareva d'aver fatto un gran passo. Parlando a Dio, la sua scarsa fede si era tanto accresciuta ch'egli ora ne aspettava qualche risposta. Provava almeno la soddisfazione dell'uomo povero che ha necessità di parlare a un potente di cui teme lo sdegno, e, per non essere ribattuto dai servi, lo affronta sulla via, gli dice le sue ragioni con la brusca brevità che il tempo richiede, n'è ascoltato in silenzio e pensa quel silenzio copra un princi pio di combattuta pietà. Accese un sigaro per vincere la commozione che gli stringeva la gola. Il capitano Steinegge non doveva piangere. Fumò con furia, con rabbia. Appena chetato l'animo, guardando a terra con il sigaro fra l'indice e il medio della destra, gli parve che i fili d'erba tra sasso e sasso uscissero a dir qualche cosa di solenne o di incomprensibile e che rispondesse loro il mormorar dei cespugli. Ed egli, benché tedesco, non aveva mai compreso il linguaggio della natura, non era mai stato se ntimentale! Il sigaro gli si spense in mano. Che voleva dir questo? Si scosse, si alzò in piedi e discese verso la chiesa. La gente ne usciva; prima gli uomini che si fermavano sul sagrato in capannelli, poi le donne. Steinegge ristette sul sentiero a guardare la corrente variopinta che sboccava dalla porta maggiore; aspettava il cappellino nero di Edith. La corrente si venne rallentando e diradando. Quando cessò il pericolo di urtarsi a gomiti villani, comparvero la contessa Fosca e Marina, seguite da Nepo; poi tre o quattro vecchierelle: poi più nessuno. Anche i capannelli si sciolsero, il sagrato si votò. Steinegge, inquieto , venne a dare un'occhiata in chiesa. Non v'erano più che due persone, il curato inginocchiato sul primo banco presso l'altar maggiore e, otto o dieci banchi più indietro, Edith. Steinegge si ritirò adagio adagio e sedette sul muricciolo del sagrato. Gli batteva il cuore. Qual viso gli farebbe Edith! Ella uscì subito, frettolosa e sorridente; gli disse che s'era accorta di lui senza vederlo, perché aveva già imparato a conoscere il passo suo, e gli domandò scusa d'averlo fatto attendere. Nella fretta d'uscire aveva dimenticato l'ombrellino. "Signor papà" diss'ella scherzando "Le rincrescerebbe?". Il signor papà corse in chiesa e, prima di giungere al banco dov'era stata Edith, incon trò il curato che gli veniva incontro porgendogli l'ombrellino e gli fece due o tre inchini. "È Suo?" disse il curato. "È di mia figlia." "Se volesse vedere il coro, la sagrestia... Abbiamo un Luino, un Caravaggio... dico, se crede..." "Oh grazie, grazie" disse Steinegge che all'udire Luino e Caravaggio era rimasto a bocca aperta. "Allora, se vuol dirlo alla Sua signora figlia..." Steinegge s'inchinò, uscì a fare l'ambasciata e ritornò subito con Edith. Il curato si fece loro incontro con certa cordialità impacciata, strofinandosi le mani e suggendo l'aria con le labbra strette, come chi ha messo un dito nell'acqua troppo calda. Mostrava presso a sessant'anni. Aveva fronte alta, sguardo vivace e ingenuo, il viso, la voce, il passo della sincerità. Da tutta la sua persona spirava non so quale energia temperata di timidezza. Mostrò a Steinegge e a Edith i due quadri, che portavano alla meglio i loro nomi pomposi. Il Caravaggio del coro era un Martirio di S. Lorenzo, barocco nel disegno e nei lumi, ma pieno di vita. Steinegge non capiva niente di pittura e ne fece grandi elogi. Edith tacque. Il Luino della sagrestia era una bionda testa della Vergine, luinesca senza dubbio, soave. Edith ne fu commossa. Disse al curato con la sua voce quieta, ch'era straniera e che sentiva allora per la prima volta la dolcezza dell'Italia. Come mai quella povera chiesa di campagna poteva possedere un tesoro tale? Il curato divenne rosso e rispose che veramente il quadro era stat o suo, un ricordo di famiglia; che gli era parso ispirato da Dio e degno perciò di un luogo santo; e che nella sua chiesa tanto povera e umile Maria ci stava opportunamente. Poi chiese permesso alla signorina, con accento d'ingenuo desiderio, di farle vedere la biancheria più fine e i paramenti più ricchi. Tutto era distribuito col massimo ordine nel grande cassettone della sagrestia, dai purificatori candidi e odorati di lavanda sino al piviale delle maggiori solennità appena giunto da Novara. Il curato sp iegava e ripiegava ogni cosa con garbo femminile. "Vedo bene, signore" diss'egli a Steinegge "vedo bene, che Ella vorrebbe dirmi: Ad quid perditio haec? Un vecchio prete non deve avere i gusti di una giovane signora. Che vuole? Questa povera gente ha piacere così. Intendono di onorar Dio, e Dio vede il cuore." Non disse quanto avesse aiutato il voto dei parocchiani con le proprie economie pertinaci e dure; perché egli, nato da famiglia signorile, aveva abbandonata ai molti fratelli la sua parte dell'eredità paterna. I fratelli, che lo conoscevano bene e lo amavano, gli avevan regalato, poco tempo prima della visita degli Steinegge, un bell'organo di Serassi. Al primo Dominus vobiscum della prima Messa solenne celebrata con l'organo nuovo, don Innocenzo era rimasto per due minuti fermo con le braccia aperte a bearsi dell'onda sonora e del luccicar delle canne, là sopra la porta maggiore. Ora volle mostrare agli Steinegge anche l'organo. Edith era così affabile, suo padre tanto compito, che don Innocenzo vinse presto del tutto la propria timidezza, e uscito di chiesa con essi, dimenticò il caffè che l'aspettava, per far loro mille domande curiose sulla Germania, sui luoghi, sui costumi, sulle arti, persino su Goethe, Schiller e Lessing, soli autori tedeschi di cui conoscesse il nome e avesse letto qualche opera. Pareva a lui che un tedesco dovesse conoscer tutta la Germania da capo a fondo e ogni fatto, ogni parola de' suoi compatrioti illustri d'ogni tempo. Un altro nome tedesco ricordava, Beethoven. S'informò anche di quello. Raccontò che a sedici anni aveva s entito eseguire da una signora una suonata di Beethoven che gli era parsa piena di voci sovrumane. Povero don Innocenzo! Arrossiva ancora. Gli occhietti chiari di Steinegge scintillavano di contentezza. Rispondeva a tutte le domande del curato con una foga, una parlantina vibrante d'orgoglio nazionale. Edith sorrideva talvolta in silenzio e talvolta faceva, in omaggio al vero, qualche osservazione pacata che garbava poco al curato. A lui piacevano i giudizi assoluti e le pitture esagerate di Steinegge che lo portavano violentemente in un mondo affatto nuovo, affascinante. "Lasci stare via, signorina" disse una volta quasi impazientito. "Mi las ci credere alle belle cose che dice il suo signor padre. Io sono un prete che non ha visto niente, non ha udito niente e non sa niente; mi pare però che debba aver ragione lui." Steinegge al sentirsi dir questo e chiamare signor padre, fu per abbracciarlo malgrado la tonaca nera. Intanto la piccola comitiva era giunta al cancelletto di legno che mette nell'orto della canonica. Don Innocenzo pregò i suoi compagni di entrar a prendere il caffè. Steinegge accettò subito; a lui e al prete pareva già d'esser vecchi conoscenti. Piccina, tutta bianca, a mezz'altezza fra il paesello e la chiesa, ma alquanto in disparte, la canonica di R... volta le spalle al monte e guarda, acquattata nel suo orticello fiorito, i prati che si spandono fino al fiume. L'orto, quadrato, è chiuso da un muriccio lo basso. Dalie e rosai vi fan la guardia, lungo i cordoni di bosso, agli erbaggi e ai legumi. Dietro alla casa ascende il declivio erboso, ombreggiato da meli, peschi e ulivi. Le stanzette sono pulite e chiare. Quelle della fronte hanno un paradiso di vista. Il curato la fece ammirare a' suoi ospiti con grande compiacenza, mostrò loro il suo salotto, il suo studio dove teneva parecchi cocci di tegami preistorici trovati in certi scavi presso il lago e ch'egli stimava un tesoro. La sua segreta amarezza era di non aver trovato alcun ciottolo sì tagliente da potersi onestamente chiamare arme preistorica. Steinegge pigliava grande interesse alle sue spiegazioni che avrebbero fatto sorridere un dotto, perché il povero prete entusiasta si accendeva di ogni novità che penetrasse, per mezzo di qualche libro o di qualche giornale, nella sua solitudine, e su bricioli di dottrina spezzata e guasta tirava su i soliti edifici assurdi del pensiero solitario. Edith preferiva guardare i prati macchiati dalle ombre di grossi nuvoloni, i tetti neri del paesello, quasi appiattiti fra gelsi e noci; a sinistra e più abbasso della canonica, il lembo di lago che di colà si vede, come lamina d'acciaio brunito, mordere il verde chiaro delle praterie. "Che Le pare, signorina, di questa Italia?" disse il curato. "Non lo so" rispose Edith "ne avevo in mente un'altra, più diversa dal mio paese. Ho veduto in Germania molti paesaggi italiani di pittori nostri, ma i soggetti eran presi sempre a Roma o a Venezia o a Napoli. I viaggi di Goethe o di Heine non me li hanno lasciati leggere. Mi vergogno a dirlo; la più profonda impressione me l'ha lasciata un pessimo acquerello, la prima cosa che mi colpì in una casa dove sono stata dodici anni. Rappresentava il Vesuvio e v'era scritto sotto Scene d'Italia. Era come una picco la macchia rossa sopra una grande macchia azzurra. Solo guardando ben da vicino si potevano discernere le linee della montagna, il mare e una barca piena di figure stranamente vestite. Per lunghissimo tempo non ho potuto figurarmi l'Italia né gli italiani diversi da quella pittura." "È naturale" disse don Innocenzo, che entrava avidamente in tutti gli argomenti curiosi di conversazione. "Guardi; a ragazzi d'ingegno molto acuto io non farei mai vedere negli anni più teneri immagine alcuna di Dio né di Santi, perché quelle immagini possono restar loro profondamente, ostinatamente impresse nella fantasia, a segno, in qualche caso, da rendere assai difficile, più tardi, lo sviluppo di una elevata fede religiosa. Quel vecchione barbuto appiccicato all'idea di Dio, aiuta molto, senza che se ne accorgano, il loro razionalismo nascente. V'ha chi diffida del culto dei Santi per non poterli affatto concepire come spiriti puri, operanti nell'universo; e questo in grazia delle impressioni riportate in fanciullezza dalle immagini che li rappresentano spesso brutti e mal vestiti, seduti sulle nuvole a guardar per aria. Non crede, signore?" Steinegge costretto a ragionar di Santi e non osando scusarsene, stava per dire qualche grossa corbelleria; ma Edith si affrettò a parlare. "Pure" diss'ella "se tutte le immagini fossero di Dürer o del Suo Luino! Colla impressione dei sensi resterebbe una impressione religiosa." "Non lo credo, signorina" rispose don Innocenzo sorridendo e arrossendo. Edith indovinò subito il suo pensiero. Ella riconobbe che in Germania il sentimento artistico era retaggio di pochi, ma soggiunse che lo credeva comune in Italia, benché da quando aveva passato le Alpi fossero apparsi più volte indizi del contrario. Don Innocenzo le confessò ch'egli stesso non ne aveva punto. Il suo Luino gli dava sicuramente gran piacere, ma questo gli accadeva pure davanti ad altri dipinti mediocrissimi. "Non sarà così" osservò Edith "ma se fosse così, Le mancherebbe il buon giudizio artistico e non il sentimento. Sarebbe un fuoco senza luce." Don Innocenzo non conosceva la grazia delicata dell'ingegno femminile colto. A prima giunta Edith non gli era piaciuta moltissimo; gli pareva un po' fredda nella sua affabilità. Conversando con lei mutò presto, come sogliono gli uomini della sua tempra, il primo giudizio. Adesso era ammirato di quella sua parola sempre corretta e semplice ma viva di un sentimento riposto, di un'intelligenza molto fine, molto ardita. "S'Ella venisse al Palazzo, signor curato" disse Steinegge "vedrebbe molti quadri, oh moltissimi belli quadri che ha il signor conte." "Ci vado un paio di volte l'anno e mi pare d'averla veduta anche Lei, colà! ci andrei più spesso, ma so che il signor conte non ama molto i preti..." Steinegge diventò rosso; gli dispiacque d'aver provocate queste parole. "Eh" disse don Innocenzo facendosi alla sua volta di bragia "eh, cosa importa? Non li amo neppure io i preti, sa!" "Ah" esclamò Steinegge stendendogli le braccia come se il curato gli avesse dato una notizia più lieta che credibile. "Non si scandolezzi, signorina" continuò questi. "Parlo degl'italiani. In Italia i preti" (don Innocenzo, con gli occhi accesi, co' denti stretti, faceva suonar l'erre come trombe di guerra) "non tutti, ma molti sa, e i giovani specialmente, sono una trista genìa, ignoranti, fanatici, ministri di odio..." "Si capisce che ne fu seminato" disse Edith, severa, mentre Steinegge metteva la sua gioia in gesti. "Lo hanno seminato e lo seminano" rispose don Innocenzo "e ci cresce intorno a tutti, dico intorno a tutti che portiamo quest'abito; e si perdono anime ogni giorno. Basta, basta, basta!" Guai quando il curato toccava questo tasto; la collera gli saliva alla testa, le parole gli uscivano aspre e violente oltre ogni misura. Ad irritarlo così bastava poco: un numero di qualche giornale clericale che il vicario foraneo, gesuita di tre cotte, gli mandasse facendo lo gnorri, con dei segni ammirativi a fianco degli articoli più acri; una lettera fremebonda di qualche collega bandito dalla curia a parole e perseguitato a fatti per opinioni politiche. Allora cominciava a soffiare, a bollire, a ringh iare sinché rompeva tutti i freni con queste sfuriate gagliarde e finiva come aveva cominciato, buttando fuori frasi rotte, invettive stroncate, stritolate dai denti. Si rasserenava poi subito e rideva con gli amici presenti della propria collera. "Non è mica sempre così cattivo. La vede, signorina" disse piano a Edith, in dialetto, la vecchia serva di don Innocenzo, portando via il vassoio del caffè. Edith non capì. "Dice che sono cattivo, ed è purtroppo vero. Non posso frenarmi. Spero che mi compatiranno. Si fermano qualche tempo al Palazzo?" "Non sappiamo" rispose Edith. "Non sappiamo" ripeté a caso Steinegge. "Scusino; è perché spererei di poter trovarmi con Loro qualche altra volta." Steinegge, conquistato, si confuse in complimenti. "Mio amico, io spero" diss'egli stendendo la mano. "Certo, certissimo" rispose il prete, stringendogliela forte. "Ma prima di partire vengano a vedere i miei fiori." Questi famosi fiori erano due pelottoni di gerani e di vaniglie schierati lungo il muro della casa; oltre alle dalie, rosai e ai begliuomini disseminati per l'orto. "Belli, non è vero?" disse don Innocenzo. "Bellissimi" rispose Steinegge. "Prenda una vaniglia per la Sua signorina." "Oooh!" "Prenda, via, andiamo, ch'io non le so fare, no, queste cose." "Edith, il signor parroco..." Così dicendo Steinegge, con la vaniglia in mano, si avvicinò a sua figlia, che stava un po' discosto presso il muricciuolo. Edith ringraziò sorridendo, prese la vaniglia, l'odorò, ne guardò il gambo spezzato, e sussurrò: "Questo è mite di cuore." Don Innocenzo capì. "Ha ragione" diss'egli umilmente. "Oh no" esclamò Edith, dolente d'aver dette quelle parole e d'essere stata subito intesa. "Mi dica, dove sta Milano?" "Milano... Milano..." rispose don Innocenzo schermendosi gli occhi dal sole con la mano destra. "Milano è laggiù a mezzogiorno, un po' verso ponente, dritto oltre quel gruppo di colline." "Signori" gridò la fantesca da una finestra "se vogliono andare al Palazzo, sarà meglio che facciano presto, perché vuol piovere." Piovere! Splendeva il sole, nessuno s'era accorto di minacce. Pure la vecchia Marta aveva ragione. Dalle montagne del lago venivan su certi nuvoloni più densi e più neri dei soliti che il vento meridiano vi porta in giro. "Marta!" chiamò il curato. "Un ombrello per i signori." Steinegge protestò. Marta fece al padrone un cenno che l'ingenuo uomo non intese. "Cosa c'è? Un ombrello, dico!" Marta fece un altro segno più visibile, ma in vano. "Eh? Che avete?" Marta, indispettita, lasciò la finestra brontolando contro gli uomini di talento che non capiscono niente. Poi comparve in orto con un coso verde in mano e lo porse sgarbatamente al curato, dicendogli: "A Lei! Che tolga! Bella roba da offrire! Cosa hanno a dire di noi al Palazzo?" "Cos'han da dire? Che non ne ho altri. Gran cosa! Ecco, quod habeo tibi do." Infatti don Innocenzo aveva più cuor che ombrello. Quello sconquassato arnese di tela verde non ne meritava più il nome. Marta non si tenne da dire piano a Edith: "Ne aveva uno di bello. L'ha dato via. Dà via tutto!" Gli Steinegge scesero per un viottolo che gira nei prati intorno al paese, tocca il lago e risale un poco sino a raggiungere la stradicciuola del Palazzo. Intanto Marta sfogava il suo corruccio col padrone, che rispondeva mansueto: "Ho fatto male? Bene, sì, via, tacete, avete ragione". Egli era contento della nuova amicizia e pensava che per via degli Steinegge gli si aprirebbero forse più spontaneamente le porte del Palazzo secondo il suo vivo desiderio; perché quella casa smarrita fuor del gregge gli stav a più a cuore delle altre novantanove raccolte sotto la chiesa. Il cielo rideva ancora alle spalle degli Steinegge e li minacciava in viso. Ad una volta del sentiero Edith si fermò a guardare indietro. "Vedi, papà" diss'ella sorridendo "andiamo dall'idillio nella tragedia." "Oh, no, no, non c'è tragedia: Drauss ist alles so prächtig Und es ist mir so wohl!" "Ancora ti ricordi le nostre canzoni, papà?" Egli si mise a cantare: Aennchen von Tharau hat wieder ihr Herz Auf mich gerichtet in Freud, und in Schmerz, Aennchen von Tharau, mein Reichtum, mein Gut. Du meine Seele, mein Fleish und mein Blut. Cantava con gli occhi pieni di riso e di lagrime, camminando due passi avanti a Edith per non lasciarsi vedere in viso da lei. Pareva un ragazzo ubbriacato dall'aria odorosa dei prati e dalla libertà. Edith non pensò più alla tragedia, malgrado la faccia scura dei monti e qualche grosso gocciolone che cadeva sul fogliame dei pioppi presso al lago e segnava di grandi cerchi le acque tranquille. Ella fu presa dall'allegria commossa di suo padre. La piova rara e tepida, suscitando intorno ad essi una fragranza di vegetazione, li eccitava. Chi avrebbe riconosciuto la Edith del giorno prima? Ella coglieva fiori, li gettava a suo padre, correva, cantava, come una bambina. Si fermò ad un tratto guardando il lago e cominciò una canzone triste: Am Aarensee, am Aarensee. "No, no" gridò Suo padre, e corse a lei. Ella fuggì ridendo e ripigliò più lontano: Da rauschet der vielgrüne Wald. Si compiaceva che suo padre non le permettesse quella canzone triste e si divertiva a stuzzicarlo. Inseguita da lui continuò fuggendo: "Da geht die Jungfrau". Rallentò la corsa e la voce sulle parole "Und klagt", si lasciò raggiungere prima di dire "ihr Weh" e baciò la mano che le chiudeva la bocca. "Mai, mai, papà" diss'ella poi "sin che mi tieni con te. Non sai che siamo un po' matti tutti e due? Piove!" Steinegge non se n'era accorto. Aperse a grande stento lo sgangherato ombrello verde che brontolò sotto la piova, fra il sussurro dei prati e il bisbiglio degli alberi, sullo stesso tono, presso a poco, della vecchia Marta. Pure poteva esser contento di quello che udiva sul conto del suo padrone. Steinegge singolarmente non rifiniva di lodarne l'aspetto e le parole oneste, a segno che Edith gli domandò se l'onestà fosse tanto rara in Italia. Egli protestò con un fiume d'eloquenza per togliere ogni sospetto che potesse pensar male degli italiani, ai quali professava gratitudine sincera perché, in fin dei conti, erano i soli stranieri da cui avesse ricevuto benefici. Da tutte le sue calde parole usciva questo, che egli non credeva rara l'onestà fra gl'italiani, ma fra i preti. Questa conclusione non la disse, o gli parve, nella sua ingenuità, Edith non l'avesse a capire. S'affrettò di soggiungere che sperava poter vedere presto il signor curato. "Ma, papà" disse Edith fermandosi su' due piedi e fissando i suoi begli occhi gravi in quelli di suo padre "possiamo noi restar qui?" Steinegge cadde dalle nuvole. Non aveva ancora pensato a questo. La felicità d'aver seco sua figlia oscurava nella sua mente ogni pensiero dell'avvenire. Edith, col suo delicato e acuto senso delle cose, dovette ricondurlo dalle nuvole in terra, fargli comprendere com'ella non potesse lungamente approfittare della ospitalità del conte, presa prima che offerta. Disse che le doleva essergli causa di questo e forse di altri sacrifici ancora; e rise dolcemente nel vedere a questo punto suo padre gittar l'ombrel lo ed afferrarle, stringerle le mani senza poter articolar parola. "Hai ragione, caro papà", diss'ella "temo di essere una giovane ipocrita." Allora gli raccontò che quel signore della Legazione prussiana le aveva consigliato di por dimora a Milano, dove c'era una numerosa colonia tedesca molto ricca e legata alla cittadinanza. Affiderebbero a una buona banca il tesoro dei Nibelunghi, come chiamava la sua eredità; ella darebbe lezioni di tedesco e il signor papà vivrebbe come un caro vecchio Kammerrath, col locato a pipare dopo lunghe fatiche. Piglierebbe un quartierino lontano dai rumori, alto se occorre, ma tutto aria e luce. Si farebbe cucina tedesca e il signor Kammerrath avrebbe ogni giorno a pranzo la sua birra di Vienna o di Monaco. Steinegge diventò rosso rosso e diede in un grande scoppio di riso agitando l'ombrello e gridando: "no, ah no, questo no". Edith non sapeva che suo padre era un antico dispregiatore di tutte le birre più famose della gran patria tedesca. Intese quindi male quell'esclamazione e insistette, dicendo che si darebbero ben altri sfoggi d'opulenza. Nelle domeniche della buona stagione si uscirebbe di città, si farebbero delle corse bizzarre attraverso i campi per finire in qualche solitario paesello silenzioso. Chi sa? Se gli affari prosperassero molto, il signor capitano potrebbe tre o quattro volte l'anno uscire a cavallo con la signorina sua figlia. "Tu cavalchi?" disse Steinegge stupefatto. Edith sorrise. "Sai, caro papà" diss'ella "da bambina che passione avevo per i cavalli! Quando i miei cugini imparavano a cavalcare, il povero nonno ha voluto che insegnassero anche a me. Ho imparato subito. Sa cosa mi diceva, quando mi vedeva a cavallo, il mio maestro di musica?" "Tu sai la musica?" esclamò Steinegge ancora più stupefatto. "Ma, papà, non ho mica più otto anni, sai! Mi diceva che si vedeva ben di chi ero figlia. E del mio italiano non mi parli? Sai che l'ho imparato in questi ultimi sei mesi?" Appunto di questo suo padre non s'era ancora ben persuaso; ch'ella non avesse più otto anni. E del vario sapere che veniva sorprendendo in lei si sorprendeva come d'un miracolo, si inteneriva, con quel senso di timida ammirazione che aveva provato insieme alla gioia del rivederla! Povero Steinegge! Al cancello del Palazzo si trasse da banda per lasciar passare Edith e si tolse involontariamente il cappello. "Papà!" disse Edith ridendo. "Che?" Steinegge non capiva. "Ma, il cappello?" "Ah!.... Oh... Sì!" Il pover'uomo se lo ripose in testa, proprio mentre il conte Cesare salutava Edith e le veniva incontro nel cortile col sorriso più benevolo che abbia illuminato una faccia severa.

Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Egli abbandonava poi del tutto al capriccio del custode la coltivazione del giardinetto come quella di un orto che possedeva a levante del sagrato, in riva al lago. Solo una volta, due anni prima del matrimonio di Luisa, arrivando a Oria in principio di settembre e trovando nel secondo ripiano del giardinetto sei piante di granturco, si permise di dire al custode: "Sent on poo: quii ses gamb de carlon, podarisset propi minga fann a men?". I poeti non conservatori Franco e Luisa avevano trasformata, col loro soffio, la faccia delle cose. La poesia di Franco era più ardita, fervida e appassionata, la poesia di Luisa era più prudente; così i sentimenti di Franco gli fiammeggiavano sempre dagli occhi, dal viso, dalla parola e quelli di Luisa non davano quasi mai fiamme ma solo coloravano il fondo del suo sguardo penetrante e della sua voce morbida. Franco non era conservatore che in religione e in arte; per le mura domestiche era un radicale ardente, immaginava sempre trasformazioni di pareti, di soffitti, di pavimenti, di arredi. Luisa incominciava con ammirar il suo genio, ma poiché i denari venivan quasi tutti dallo zio e non ci era larghezza per imprese fantastiche, piano piano, un po' per volta, lo persuadeva di lasciar a posto le pareti, i soffitti e anche i pavimenti, di studiar come si sarebbero potuti disporre meglio gli arredi senza trasformarli. E gli suggeriva delle idee senza averne l'aria, facendogli credere che venivan da lui, perché alla paternità delle idee Franco ci teneva molto e Luisa era invece del tutto indifferente a questa maternità. Così tra l'uno e l'altra disposero la sala per la conversazione, la lettura e la musica, la loggia per il giuoco, la terrazza per il caffè e per le contemplazioni poetiche. Di quella terrazzina Franco fece la poesia lirica della casa. Era piccina assai e parve a Luisa che vi si potesse concedere un po' di sfogo all'estro di suo marito. Fu allora che cadde dal trono il re dei gelsi valsoldesi, il famoso antico gelso del sagrato, un tiranno che toglieva alla terrazza tutta la vista migliore. Franco si liberò da lui mediante pecunia, disegnò e alzò sopra la terrazza un aereo contesto di sottili aste e bastoncini di ferro che figuravan tre archi sormontati da una cupolina, vi mandò su due passiflore eleganti che vi aprivan qua e là i loro grandi occhi celesti e ricadevano da ogni parte in festoni e vilucchi. Un tavoluccio rotondo e alcune sedie di ferro servivano per il caffè e per la contemplazione. Quanto al giardinetto pensile, Luisa avrebbe potuto sopportare anche il granturco per una tolleranza di spirito superiore che ama lasciar in pace gl'inferiori nelle loro idee, nelle loro abitudini, nei loro affetti. Ella sentiva una certa rispettosa pietà per gl'ideali orticoli del povero custode, per quell'insalata di rozzezze e di gentilezze ch'egli aveva nel cuore, un gran cuore capace di accogliere insieme reseda e zucche, begliuomini e carote. Invece Franco, generoso e religioso com'era, non avrebbe tollerato nel suo giardino una zucca né una carota per amore di qualsiasi prossimo. Ogni stupida volgarità lo irritava. Quando l'infelice ortolano si sentì predicare dal signor don Franco che il giardinetto era una porcheria, che bisognava cavar tutto, buttar via tutto, rimase sbalordito, avvilito da far pietà; ma poi lavorando agli ordini suoi per riformare le aiuole, per contornarle di tufi, per piantare arbusti e fiori, vedendo come il padrone stesso sapesse lavorar di sua mano e quanti terribili nomi latini e qual portentoso talento avesse in testa per immaginare disposizioni nuove e belle, concepì poco a poco per lui un'ammirazione quasi paurosa e quindi anche, malgrado i molti rabbuffi, una affezione devota. Il giardinetto pensile fu trasformato a immagine e similitudine di Franco. Un'olea fragrans vi diceva in un angolo la potenza delle cose gentili sul caldo impetuoso spirito del poeta; un cipressino poco accetto a Luisa vi diceva in un altro angolo la sua religiosità; un piccolo parapetto di mattoni a traforo, fra il cipresso e l'olea, con due righe di tufi in testa che contenevano un ridente popolo di verbene, petunie e portulache, accennava alla ingegnosità singolare dell'autore; le molte rose sparse dappertutto parlavano del suo affetto alla bellezza classica; il ficus repens che vestiva le muraglie verso il lago, i due aranci nel mezzo dei due ripiani, un vigoroso, lucido carrubo rivelavano un temperamento freddoloso, una fantasia volta sempre al mezzogiorno, insensibile al fascino del nord. Luisa aveva lavorato e lavorava assai più del marito; ma se questi si compiaceva delle proprie fatiche e ne parlava volentieri, Luisa invece non ne parlava mai e non ne traeva veramente alcuna vanità. Lavorava d'ago, d'uncinetto, di ferri, di forbici, con una tranquilla rapidità prodigiosa, per suo marito, per la sua bambina, per ornar la sua casa, per i poveri e per sé. Tutte le stanze avevan lavori suoi, cortine, tappeti, cuscini, paralumi. Era pure affar suo di collocare i fiori in sala e in loggia; non piante in vaso perché Franco ne aveva poche e non gli garbava di chiuderle nelle stanze; non fiori del giardinetto perché coglierne uno era come strapparglielo dal cuore. Erano invece a disposizione di Luisa le dalie, le rose, i gladioli, gli astri dell'orto. Ma poiché non le bastavano e poiché il villaggio, dopo Dio, Santa Margherita e S. Sebastiano, adorava la "sciora Lüisa", così ad un cenno suo i ragazzi le portavano fiori selvaggi e felci, le portavano edera per rilegar con festoni i grandi mazzi fissati alle pareti dentro anelli di metallo. Anche alle braccia dell'arpa che pendeva dal soffitto della sala erano sempre attorcigliati lunghi serpenti d'edera e di passiflora. Lo zio Piero, quando gli scrivevano di queste novità, rispondeva poco o nulla. Tutt'al più raccomandava di non tener troppo occupato l'ortolano il quale doveva pur attendere alle faccende proprie. La prima volta che capitò a Oria dopo la trasformazione del giardinetto, si fermò a guardarlo come aveva fatto per le sei piante di granturco e borbottò sottovoce: "Oh poer a mi!". Uscì sulla terrazza, guardò il cupolino, toccò le aste di ferro e pronunciò un "basta!" rassegnato ma pieno di disapprovazione per tante eleganze superiori allo stato suo e de' suoi nipoti. Invece, dopo aver esaminato in silenzio tutti i mazzi, i mazzolini, i vasi, i festoni della sala e della loggia, disse con un bonario sorriso: "Sent on poo, Lüisa; con tütt st'erba chì farisset minga mèj a tegnì on para de pégor?". Ma la governante fu beata di non aversi più ad ammazzare per la polvere e le ragnatele, ma l'ortolano vantò senza fine le opere miracolose del signor don Franco ed egli stesso comincio presto ad abituarsi ai nuovi aspetti della sua casa, a guardar senza malevolenza il cupolino della terrazza che gli faceva comodo per l'ombra. Dopo tre o quattro giorni domando chi lo avesse eseguito e gli accadde di fermarsi qualche volta a guardar i fiori del giardinetto, di chiedere il nome dell'uno e dell'altro. Dopo otto o dieci giorni, stando con la piccola Maria sulla porta della sala che mette al giardinetto, le domando: "Chi ha piantato tutti questi bei fiori?", e le insegnò a rispondere: "Papà". Ad un suo impiegato venuto a fargli visita mostrò le opere del nipote e ne accolse gli elogi con un assenso misurato ma pieno di soddisfazione: "Sì sì, per questo sì". Insomma finì con diventare un ammiratore di Franco e persino con dare ascolto, in via di conversazione, ad altri suoi progetti. E in Franco crescevano l 'ammirazione e la gratitudine per quella grande e generosa bontà, che aveva vinto la natura conservatrice, l'avversione antica alle eleganze di ogni maniera; per la solita bontà che ad ogni simile contrasto saliva saliva silenziosamente dietro le renitenze dello zio fino a sormontare, a coprir tutto con una larga onda di acquiescenza o almeno con la frase sacramentale "del resto, fate vobis. A una sola novità lo zio non aveva voluto adattarsi: alla scomparsa del suo vecchio cuscino. "Luisa", diss'egli sollevando con due dita dal seggiolone il nuovo cuscino ricamato: "porta via". E non ci fu verso di persuaderlo. "Et capì de portall via?" Quando Luisa sorridendo gli diede il vecchio materassino abortito, egli ci si sedette su con un sonoro "inscì!" come se riprendesse solennemente il possesso di un trono. Adesso, mentre l'ombra violacea invadeva il verde delle onde e correva lungo la costa, di paesello in paesello, spegnendo, una dopo l'altra, le bianche case lucenti, egli era appunto seduto sul suo trono e si teneva sulle ginocchia la piccola Maria, mentre Franco, sulla terrazza, annaffiava i vasi di pelargoni, pieno il cuore e il viso di contentezza affettuosa come se versasse da bere a Ismaele nel deserto, e Luisa stava sgrovigliando pazientemente una pesca di suo marito, un garbuglio pauroso di spago, di piombi, di seta e di ami. Ella discorreva in pari tempo col professore Gilardoni che aveva sempre qualche garbuglio filosofico da sgrovigliare e ci si metteva molto più volentieri con lei che con Franco, il quale lo contraddiceva sempre, a torto e a ragione, avendolo in concetto d'un ottimo cuore e d'una testa confusa. Lo zio, tenendo il ginocchio destro sul sinistro e la bambina sul mucchio, le ripeteva per la centesima volta, con affettata lentezza, e storpiando un poco il nome esotico, la canzonetta: Ombretta sdegnosa Del Missipipì. Fino alla quarta parola la bambina lo ascoltava immobile, seria, con gli occhi fissi; ma quando veniva fuori il "Missipipì" scoppiava in un riso, sbatteva forte le gambucce e piantava le manine sulla bocca dello zio, il quale rideva anche lui di cuore e dopo un breve riposo ricominciava adagio adagio, nel tono solito: Ombretta sdegnosa ... La bambina non somigliava né al padre né alla madre, aveva gli occhi, i lineamenti fini della nonna Teresa. Al vecchio zio, che pure vedeva di rado, mostrava una tenerezza strana, impetuosa. Lo zio non le diceva paroline dolci, le faceva, occorrendo, qualche piccola riprensione, ma le portava sempre giuocattoli, la conduceva spesso a passeggio, se la faceva saltar sulle ginocchia, rideva con lei, le diceva canzonette comiche, quella che cominciava col "Missipipì" e un'altra che finiva: Rispose tosto Barucabà. Chi era mai Barucabà? E cosa gli avevano domandato? "Toa Bà, toa Bà!", diceva Maria; "ancora Barucabà, ancora Barucabà!" Lo zio le ripeteva allora la poetica storia ma nessuno la sa più ripetere a me. Ecco di che parlava a Luisa, con la sua voce timida e gentile, il professore Gilardoni, diventato un tantin più vecchio, un tantin più calvo, un tantin più giallo. "Chi sa", aveva detto Luisa, "se Maria somiglierà alla nonna come nel viso anche nell'anima?" Il professore rispose che sarebbe stato un miracolo avere in una famiglia, a così poca distanza, due anime simili. E volendo spiegare a quale rarissima specie fosse appartenuta, nel suo concetto, l'anima della nonna, mise fuori il seguente garbuglio. "Vi sono", diss'egli, "anime che negano apertamente la vita futura e vivono proprio secondo la loro opinione, per la sola vita presente. Queste non sono molte. Poi vi sono anime che mostrano di credere nella vita futura e vivono del tutto per la presente. Queste sono alquante più. Poi vi sono anime che alla vita futura non pensano e vivono però in modo da non mettersi troppo a repentaglio di perderla se c'è. Queste sono più ancora. Poi vi sono anime che credono veramente nella vita futura e dividono pensieri e opere in due categorie che fanno quasi sempre ai pugni fra loro: una è per il cielo, l'altra è per la terra. Queste sono moltissime. Poi vi sono anime che vivono per la sola vita futura nella quale credono. Queste sono pochissime e la signora Teresa era di queste." Franco, che non poteva soffrire le disquisizioni psicologiche, passò accigliato col suo annaffiatoio vuoto per andare nel giardinetto e pensò: "Poi vi sono anime che rompono l'anima". Lo zio, del resto un po' sordo, rideva con la Maria. Luisa, passato che fu suo marito, disse piano: "Poi vi sono anime che vivono come se vi fosse la sola vita futura nella quale non credono: e di queste ve n'è una". Il professore trasalì e la guardò senza dir nulla. Ella stava cercando nella matassa della pesca un filo doppio, a occhiello, per farlo passare. Non vide quello sguardo ma lo sentì e si affrettò a indicare col capo lo zio. Aveva ella pensato proprio a lui nel dir quello che aveva detto? O vi era stata nel suo pensiero una occulta complicazione? Aveva pensato allo zio senza un vero convincimento, solo perché non osava nominare, neanche nel pensiero, un'altra persona cui le sue parole potevano riferirsi più giustamente? Il silenzio del professore, lo sguardo scrutatore di lui, non incontrato ma sentito, le rivelarono ch'egli sospettava di lei stessa: per questo accennò frettolosamente allo zio. "Non crede nella vita futura?", mormorò il professore. "Direi di no", rispose Luisa e subito si sentì nel cuore un rimorso, sentì che non aveva sufficienti ragioni, che non aveva il diritto di rispondere così. In fatto lo zio Piero non s'era curato mai di meditare sulla religione: egli compenetrava nel suo concetto della onestà la continuazione delle vecchie pratiche di famiglia, la professione della fede avita, presa come stava, alla carlona. Il suo era un Dio bonario come lui, che non ci teneva tanto alle giaculatorie né ai rosari, come lui; un Dio co ntento di aver per ministri, com'era contento lui di aver per amici, dei galantuomini di cuore, fossero pure allegri mangiatori e bevitori, tarocchisti per la vita, franchi raccontatori di porcherie non disoneste a lecito sfogo della sudicia ilarità che ciascuno ha in corpo. Certi suoi discorsi scherzosi, certi aforismi buttati là senza riflettere sulla importanza relativa delle pratiche religiose e sulla importanza assoluta del vivere onesto l'avevano colpita fin da bambina, anche perché la mamma se ne inquietava moltissimo e supplicava suo fratello di non dire spropositi. Le era entrato il sospetto che lo zio andasse in chiesa solamente per convenienza. Non era vero; non bisognava tener conto degli aforismi di uno che, invecchiato nel sacrificio e nell'abnegazione, soleva dire "charitas incipit ab ego" ; e poi, quand'anche lo zio avesse stimato poco le pratiche religiose, a negar la vita futura ci correva ancora un bel tratto. Infatti, appena messo fuori il suo giudizio e uditolo suonare, Luisa lo sentì falso, vide più chiaro in se stessa, intese di avere inconsciamente cercato nell'esempio dello zio un appoggio e un conforto per sé. Il professore era tutto commosso di una rivelazione tanto inattesa. "Quest'anima unica", diss'egli, "che vive come se non pensasse che alla vita futura nella quale non crede, è in errore, ma bisogna pur ammirarla come la più nobile, la più grande. È una cosa sublime!" "Lei è certo, però, che quest'anima è in errore?" "Oh sì sì!" "Ma Lei, a quale delle Sue categorie appartiene?" Il professore si credeva dei pochissimi che si regolano interamente secondo un'aspirazione alla vita futura; benché forse sarebbe stato imbarazzato a dimostrare che i suoi profondi studi su Raspail, il suo zelo nel preparare acqua sedativa e sigarette di canfora, il suo orrore dell'umidità e delle correnti d'aria significassero poca tenerezza per la vita presente. Però non volle rispondere, disse che non appartenendo a nessuna Chiesa, credeva tuttavia fermamente in Dio e nella vita futura e che non poteva giudicare il proprio modo di vivere. Intanto Franco, annaffiando il giardinetto, aveva trovato fiorita una verbena nuova, e, posato l'annaffiatoio, era venuto sulla soglia della loggia e chiamava la Maria per fargliela vedere. La Maria si lasciava chiamare e voleva ancora "Missipipì", onde lo zio la posò a terra e la condusse lui al papà. "Però, professore", disse Luisa uscendo con la parola viva da un corso occulto d'idee, "si può, non è vero, credere in Dio e dubitare della nostra vita futura?" Ell'aveva posato, così dicendo, l'aggrovigliata matassa della pesca e guardava il Gilardoni in viso con un interesse vivo, con un desiderio manifesto che rispondesse di sì; e, perché il Gilardoni taceva, soggiunse: "Mi pare che qualcuno potrebbe dire: che obbligo ha Iddio di regalarci l'immortalità? L'immortalità dell'anima è una invenzione dell'egoismo umano che in fin dei conti vuol far servire Iddio al comodo proprio. Noi vogliamo un premio per il bene che facciamo agli altri e una pena per il male che gli altri fanno a noi. Rassegnamoci invece a morire anche noi del tutto come ogni essere vivente e facciamo sin che siamo vivi la giustizia per noi e per gli altri, senza speranza di premi futuri, solo perché Iddio vuole da noi questo come vuole che ogni stella faccia lume e che ogni pianta faccia ombra. Cosa Le pare, a Lei?" "Cosa vuol che Le dica?", rispose il Gilardoni. "A me pare una gran bellezza! Non posso dire: una gran verità. Non lo so, non ci ho mai pensato; ma una gran bellezza! Io dico che il Cristianesimo non ha potuto avere né immaginare dei Santi sublimi come questo qualcuno! È una gran bellezza, è una gran bellezza!" "Perché poi", riprese Luisa dopo un breve silenzio, "si potrebbe forse anche sostenere che questa vita futura non sarebbe proprio felice. Vi è felicità quando non si conosce la ragione di tutte le cose, quando non si arriva a spiegare tutti i misteri? E il desiderio di saper tutto sarà esso appagato nella vita futura? Non resterà ancora un mistero impenetrabile? Non dicono che Dio non si conoscerà interamente mai? E allora, nel nostro desiderio di sapere, non finiremo a soffrire come adesso, anzi forse più, perché in una vita superiore quel desiderio dev'essere ancora più forte? Io vedrei un solo modo di arrivare a saper tutto e sarebbe di diventar Dio ..." "Ah, Lei è panteista!", esclamò il professore, interrompendo. "Ssss!", fece Luisa. "No no no! Io sono cristiana cattolica. Dico quel che altri potrebbero sostenere." "Ma scusi, vi è un panteismo ..." "Ancora filosofia?", esclamò Franco entrando con la piccina in braccio. "Oh, miseria!", borbottò lo zio alle sue spalle. Maria teneva in mano una bella rosa bianca. "Guarda questa rosa, Luisa", disse Franco. "Maria, da' il fiore alla mamma. Guarda la forma di questa rosa, guarda il portamento, guarda le sfumature, le venature di questi petali, guarda quella stria rossa; e senti che odore, adesso! E lascia star la filosofia." "Lei è nemico della filosofia?", osservò il professore, sorridendo. "Io sono amico", rispose Franco, "della filosofia facile e sicura che m'insegnano anche le rose." "La filosofia, caro professore", interloquì lo zio, solennemente, "l'è tutta in Aristòtel: quell che te pòdet avè, tòtel." "Lei scherza", ribatté il professore, "ma Lei pure è un filosofo." L'ingegnere gli posò una mano sulla spalla: "Sentite, caro amico, la mia filosofia in vott o des biccièr la ci sta tutta". "Euh, vott o des biccièr!", borbottò la governante che udì, entrando, questa spacconata d'intemperanza del suo misuratissimo padrone. "Vott o des corni!" Veniva ad annunciare don Giuseppe Costabarbieri che fece in pari tempo udire dalla sala un cavernoso e pure ilare Deo gratias . Ecco la rugosa faccia rossa, gli occhi allegri, i capelli bianchi del mansueto prete. "Si discorre di filosofia, don Giuseppe", disse Luisa dopo i primi saluti. "Venga qui e metta fuori le Sue belle idee anche Lei!" Don Giuseppe si grattò la nuca e poi volgendo un po' il capo verso l'ingegnere con lo sguardo di chi desidera una cosa e non osa domandarla, mise fuori il fiore delle sue idee filosofiche: "Sarissel minga mej fa ona primerina?" Franco e lo zio Piero, felici di salvarsi dalla filosofia del Gilardoni, si misero allegramente a tavolino col prete. Appena rimasto solo con Luisa, il professore disse piano: "Ieri è partita la signora marchesa". Luisa, che s'era presa Maria sulle ginocchia, le piantò le labbra sul collo, appassionatamente. "Forse", riprese il professore che mai non aveva saputo leggere nel cuore umano né toccarne le corde a proposito, "forse, il tempo ... son tre anni soli ... forse verrà il giorno che si piegherà." Luisa alzò il viso dal collo di Maria. "Forse lei, sì", diss'ella. Il professore non capì, cedette al mal genio che ci suggerisce la peggior parola nel peggior momento e, invece di smettere, si ostinò. "Forse, se potesse veder Maria!" Luisa si strinse al petto la bambina e lo guardò con una fierezza tale ch'egli si smarrì e disse: "Scusi". Maria, stretta così forte, alzò gli occhi al viso strano della mamma, diventò rossa rossa, strinse le labbra, pianse due grosse lagrime, scoppiò in singhiozzi. "No no, cara", le mormorò Luisa teneramente, "sta buona, sta buona, tu non la vedrai mai, tu!" Appena chetata la bambina, il professore, turbato dall'idea di aver fatto un passo falso, di aver offeso Luisa, un essere che gli pareva sovrumano, voleva spiegarsi, giustificarsi, ma Rigey non lo lasciò parlare. "Basta, scusi", diss'ella alzandosi. "Andiamo a veder il giuoco." In fatto non s'accostò ai giuocatori, mandò Maria sul sagrato con la sua piccola bambinaia Veronica e andò a portar un avanzo di dolce a un vecchione del villaggio, che aveva un vorace stomaco e una piccola voce, con la quale prometteva ogni giorno alla sua benefattrice la stessa preziosa ricompensa: "Prima de morì ghe faroo on basin". Intanto il professore, pieno di scrupoli e di rimorsi per le sue mosse poco fortunate, non sapendo se partire o rimanere, se la signora tornerebbe o no, se andarne in cerca fosse indiscrezione o no, dopo essersi affacciato al lago come per chieder consiglio ai pesci, dopo essersi affacciato al monte per veder se da qualche finestra della casa gli apparisse Luisa o qualcuno cui si potesse domandar di lei, andò finalmente a vedere il giuoco. Ciascuno dei giuocatori teneva gli occhi sulle proprie quattro carte raccolte nella sinistra, l'una sopra l'altra per modo che la seconda e la terza sormontavan tanto da potersi riconoscere; e ciascuno, avendo preso delicatamente fra il pollice e l'indice l'angolo superiore delle due ultime, faceva uscire con un combinato moto del polso e delle dita la quarta ignota di sotto la terza, adagio adagio, come se portasse la vita o la morte, ripetendo con gran devozione appropriate giaculatorie: Don Giuseppe cui occorrevano picche "scappa ross e büta négher", gli altri due che volevano quadri e cuori "scappa négher e büta ross". Il professore pensò ch'egli pure aveva in mano una carta coperta, un asso di denari, e che non sapeva ancora se l'avrebbe giuocata o no. Aveva il testamento del vecchio Maironi. Pochi giorni dopo la morte della signora Teresa, Franco gli aveva detto di distruggerlo e di non fiatarne mai con sua moglie. Egli non aveva obbedito che quanto al silenzio. Il documento, all'insaputa di Franco, esisteva ancora perché il suo possessore s'era fitto in capo di aspettar gli eventi, di vedere se Cressogno e Oria facessero la pace, se, perdurando le ostilità, Franco e la sua famigliuola capitassero nel bisogno; nel quale ultimo caso avrebbe fatto qualche cosa lui. Che cosa avrebbe fatto non sapeva bene, si coltivava in testa i germi di parecchie corbellerie e aspettava che l'una o l'altra maturasse a tempo e luogo. Ora, guardando Franco giuocare, ammirava come quell'uomo tanto assorto nella cupidità di un re di quadri, avesse respinta l'altra carta preziosa, che neppure avesse voluto farne saper niente a sua moglie. Egli attribuiva questo silenzio a modestia, al desiderio di nascondere un azione generosa; e quantunque avesse preso da Franco più d'un brusco rabbuffo e sentisse di non esserne tenuto in gran conto, lo guardava con un rispetto pieno d'umile devozione. Franco fu il primo a scoprir la quarta carta e le buttò via dispettosamente tutte mentre don Giuseppe esclamava: "Ovèj! L'è négher!", e si fermava a pigliar fiato prima di andar avanti a scoprire "se l'era güzz o minga güzz", cioè s'erano picche o fiori. Ma l'ingegnere, alzato dalle carte il viso placido e sorridente, si mise a batter col dito, sotto il piano del tavolino, dei colpettini misteriosi che volevan dire: c'è la carta buona; e allora don Giuseppe, visto che il suo "négher" non era "güzz", cacciò un "malarbetto!" e buttò via le carte anche lui. "Che reson de ciapà rabbia!", fece l'ingegnere. "Anca vü sii négher e sii minga güzz." Il prete, avido della rivincita, si contentò d'invocarla sdegnosamente: "Scià i cart, scià i cart, scià i cart!". E la partita, simbolo dell'eterna lotta universale fra i neri e i rossi, ricominciò. Il lago dormiva oramai coperto e cinto d'ombra. Solo a levante le grandi montagne lontane del Lario avevano una gloria d'oro fulvo e di viola. Le prime tramontane vespertine movevano le frondi della passiflora, corrugavano verso l'alto, a chiazze, le acque grigie, portando un odor fresco di boschi. Il professore era partito da un pezzo quando Luisa ritornò. Ell'aveva incontrato sulla scalinata del Pomodoro una ragazza piangente che strillava, "el mè pà el voeur mazzà la mia mamm!". Aveva seguita la ragazza in casa sua presso la Madonna del Romìt e ammansato l'uomo che cercava sua moglie con un coltello in mano, per causa non tanto d'una cattiva minestra quanto d'una cattiva risposta. Luisa rappresentò a suo marito e a don Giuseppe l'ultimo atto del dramma, il suo dialogo con la moglie ch'era corsa a nascondersi nella stalla. "Oh Regina, dovè sii?" "Sont chì." "Dovè, chì?" "Chì." La voce tremante veniva di sotto la vacca. La donna era proprio lì, accoccolata. "Vegnì foeura, donca!" "Sciora no." " Perché?" "Goo pagüra." "Vegnì foeura ch'el voss marì el vaeur fav on basin." "Mi no." Allora Luisa aveva chiamato dentro l'uomo. "E vü andee a fagh on basin sott a la vacca." E l'uomo aveva dato il bacio mentre la donna, temendo un morso, gemeva: "Càgnem poeu minga, neh!". "Che diàvol d'ona sciora Luisa", fece don Giuseppe. E soddisfatto della scorpacciata di primiera, palpandosi dolcemente sui fianchi e sul ventre le modeste rotondità, il piccolo personaggio del mondo antico pensò al secondo scopo della sua visita. Voleva dire una parolina alla signora Rigey. L'ingegnere era uscito a far i suoi soliti quattro passi fino alla piccola salita del Tavorell ch'egli chiamava scherzosamente il San Bernardo; e Franco, data un'occhiata alla luna che sfavillava allora fuor dal ciglio nero del Bisgnago e giù nell'ondular dell'acqua, si pose a improvvisar sul piano effusioni di dolore ideale, che andavan via per le finestre aperte sulla sonorità profonda del lago. La improvvisazione musicale gli riusciva meglio delle elaborate poesie perché il suo impetuoso sentire trovava nella musica una espressione più facile e piena, e gli scrupoli, le incertezze, le sfiducie che gli rendevano faticosissimo e lento il lavoro della parola, non tormentavano, al piano, la sua fantasia. Allora si abbandonava all'estro anima e corpo, vibrava tutto fino ai capelli, i chiari occhi parlanti ridicevan ogni sfumatura dell'espressione musicale, gli si vedeva sotto le guance un movimento continuo di parole inarticolate, e le mani, benché non tanto agili, non tanto sciolte, facean cantare il piano inesprimibilmente. Adesso egli passava da un tono all'altro, mettendo il più intenso sforzo intellettuale in questi passaggi, ansando, sviscerando, per così dire, lo strumento con le dieci dita e quasi anche cogli occhi ardenti. S'era messo a suonare sotto l'impressione del chiaro di luna, ma poi, suonando, tristi nuvole gli eran uscite dal fondo del cuore. Conscio di avere sognata, da giovinetto, la gloria e di averne quindi umilmente deposta la speranza, diceva, quasi, a se stesso con la sua mesta appassionata musica che pure anche in lui v'era qualche lume d'ingegno, qualche calore di creazione veduto solamente da Dio, perché neppur Luisa mostrava far dell'intelligenza sua quella stima che a lui stesso mancava ma che avrebbe desiderata in lei; neppur Luisa, il cuor del suo cuore! Luisa lodava misuratamente la sua musica e i suoi versi ma non gli aveva detto mai: segui questa via, osa, scrivi, pubblica. Pensava così e suonava nella sala oscura, mettendo in una tenera melodia il lamento del suo amore, il timido segreto lamento che mai non avrebbe osato mettere in parole. Sulla terrazza, nel mobile chiaroscuro che facevano insieme i fiati di tramontana e la passiflora, la luna e il suo riverbero dal lago, don Giuseppe raccontò a Luisa che il signor Giacomo Puttini era in collera con lui per colpa della signora Pasotti la quale gli aveva falsamente riferito ch'esso don Giuseppe andava predicando la convenienza di un matrimonio fra il signor Giacomo e la Marianna. "Voeui morì lì", protestò il povero prete, "se ho detto una parola sola! Niente! Tücc ball!" Luisa non voleva creder colpevole la povera Barborin, e don Giuseppe le dichiarò che sapeva la cosa dallo stesso signor Controllore. Ella capì subito, allora, che Pasotti s'era voluto perfidamente burlare di sua moglie, del sior Zacomo e del prete, si schermì dall'intervenire nella faccenda, come quest'ultimo avrebbe voluto e gli consigliò di parlare alla Pasotti. "L'è inscì sorda!", fece don Giuseppe grattandosi la nuca, e se n'andò malcontento, senza salutar Franco, per non interromperlo. Luisa venne al piano in punta di piedi, stette ad ascoltar suo marito, a sentir la bellezza, la ricchezza, il fuoco di quell'anima ch'era sua e cui ell'apparteneva per sempre. Non aveva mai detto a Franco "segui questa via, scrivi, pubblica", forse anche perché giustamente pensava, nel suo affetto equilibrato, che non potesse produrre opere superiori alla mediocrità, ma soprattutto perché, sebbene avesse un fine sentimento della poesia e della musica, non faceva grande stima, in fondo, né dell'una né dell' altra, non le piaceva che un uomo vi si dedicasse intero, ambiva per suo marito un'azione intellettuale e materiale più virile. Ammirava tuttavia Franco nella sua musica più che se fosse stato un grande maestro; trovava in questa espressione quasi segreta dell'animo suo un che di verginale, di sincero, la luce di uno spirito amante, il più degno d'essere amato. Egli non s'accorse di lei se non quando si sentì sfiorar le spalle da due braccia, si vide pender sul petto le due piccole mani. "No, no, suona suona", mormorò Luisa perché Franco gliele aveva afferrate; ma cercando lui col viso supino, senza rispondere, gli occhi e le labbra di lei, gli diede un bacio e rialzò il viso ripetendo: "Suona!". Egli trasse giù più forte di prima i due polsi prigionieri, richiamò in silenzio la dolce, dolce bocca; e allora ella si arrese, gli fermò le labbra sulle labbra con un bacio lungo, pieno di consenso, tanto più squisito e ricreante del primo. Poi gli sussurrò ancora: "Suona". Ed egli suonò, felice, una tumultuosa musica trionfale, piena di gioia e di grida. Perché in quel momento gli pareva di posseder tutta intera l'anima della donna sua mentre tante volte, pure sapendosi amato, credeva sentire in lei, al di sopra dell'amore, una ragione altera, pacata e fredda, dove i suoi slanci non arrivassero. Luisa gli teneva spesso le mani sul capo e andava di tratto in tratto baciandogli lievemente i capelli. Ella conosceva il dubbio di suo marito e protestava sempre di appartenergli tutta intera ma in fondo sentiva che aveva ragione lui. Un tenace fiero sentimento d'indipendenza intellettuale resisteva in lei all'amore. Ella poteva tranquillamente giudicar suo marito, riconoscerne le imperfezioni e sentiva ch'egli non poteva altrettanto, lo sentiva umile nel suo amore, devoto senza fine. Non credeva fargli torto, non provava rimorso, ma s'inteneriva, quando ci pensava, di amorosa pietà. Indovinò adesso che significasse quella effusione musicale di gioia e, commossa, abbracciò Franco, fece tacere il piano d'un colpo. Ecco sulle scale il passo lento e pesante dello zio che ritorna dal suo San Bernardo. Erano le otto e i soliti tarocchisti, il signor Giacomo e Pasotti, non comparivano. Perché anche Pasotti, in settembre e in ottobre, era un frequentatore di casa Ribera, dove faceva l'innamorato dell'ingegnere, di Luisa e anche di Franco. Franco e Luisa sospettavano di un doppio giuoco ma Pasotti era un vecchio amico dello zio e bisognava fargli una buona accoglienza per riguardo allo zio. Poiché i tarocchisti tardavano, Franco propose a sua moglie di uscir in barca a goder la luna. Prima andarono a veder Maria, che dormiva nel lettino dell'alcova col viso inclinato alla spalla destra, con un braccio sotto il capo e un altro posato sul petto. La guardarono, la baciarono sorridendo, si incontrarono silenziosamente nel pensiero della nonna Teresa che tanto l'avrebbe amata, la baciarono ancora col viso serio. "Povera la mia piccina!", disse Franco. "Povera donna Maria Maironi senza quattrini!" Luisa gli pose una mano sulla bocca. "Zitto!", diss'ella. "Felici noi che siamo le Maironi senza quattrini!" Franco intese, e sull'atto non replicò; ma poi, nell'uscir di camera per andare in barca, disse a sua moglie, dimenticando una minaccia della nonna: "Non sarà sempre così". Quell'allusione alle ricchezze della vecchia marchesa dispiacque a Luisa. "Non parlarmene", diss'ella. "Quella roba non vorrei toccarla con un dito." "Dico per Maria", osservò Franco. "Maria ci ha noi che possiamo lavorare." Franco tacque. Lavorare! Anche quella lì era una parola che gli mordeva il cuore. Sapeva di condurre una vita oziosa perché la musica, la lettura, i fiori, qualche verso di tempo in tempo, cos'erano se non vanità e perditempi? E questa vita la conduceva in gran parte a carico d'altri, perché, con le sue mille lire austriache l'anno, come avrebbe vissuto? Come avrebbe mantenuto la sua famiglia? Aveva preso la laurea ma senza cavarne profitto alcuno. Diffidava delle proprie attitudini, si sentiva troppo artista, troppo alieno dalle arti curialesche, sapeva di non aver nelle vene sangue di forti lavoratori. Non vedeva salute che in una rivoluzione, in una guerra, nella libertà della patria. Ah quando l'Italia fosse libera, come la servirebbe, con che forza, con che gioia! Queste poesie nel cuore le aveva bene, ma il proposito e la costanza di prepararsi con gli studi a un tale avvenire, no. Mentr'egli remava in silenzio scostandosi dalla riva, Luisa andava pensando come mai suo marito commiserasse la bambina perché non aveva denari. Non vi era contraddizione tra la fede, la pietà cristiana di Franco e questo sentimento? Le vennero in mente le categorie del professor Gilardoni. Franco credeva fervidamente nella vita futura ma in fatto si attaccava con passione a tutto che la vita terrena ha di bello, di buono e di onestamente piacevole, compreso il tarocco, la primiera e i buoni pranzetti. Uno che osservava così scrupolosamente i precetti della Chiesa, che ci teneva tanto a mangiar di magro il venerdì e il sabato, a udire ogni domenica la spiegazione del Vangelo, avrebbe dovuto conformar la propria vita molto più severamente all'ideale evangelico. Avrebbe dovuto temerlo e non desiderarlo, il denaro. "Buona lagata!", gridò lo zio dalla terrazza vedendo il battello e Luisa seduta sulla prora, nel chiaro di luna. In faccia al nero Bisgnago tutta la Valsolda si spiegava dal Niscioree alla Caravina nella pompa della luna, tutte le finestre di Oria e di Albogasio come le arcate di Villa Pasotti, come le casette bianche dei paeselli più lontani, Castello, Casarico, S. Mamette, Drano, parevano guardare, come ipnotizzate, il grande occhio fisso della Morta del cielo. Franco tirò i remi in barca. "Canta", diss'egli. Luisa non aveva mai studiato il canto ma possedeva una dolce voce di mezzo soprano, un orecchio perfetto e cantava molte arie d'opera imparate da sua madre che aveva udito la Grisi, la Pasta, la Malibran durante l'età d'oro dell'opera italiana. Cantò l'aria di Anna Bolena Al dolce guidami Castel natìo il canto dell'anima, che prima scende e si abbandona poco a poco, per più dolcezza, all'amore, e poi, abbracciata con esso, risale in uno slancio di desiderio verso qualche alto lume lontano che tuttavia manca alla sua felicità piena. Ella cantava e Franco, rapito, fantasticava che aspirasse ad essergli unita pure in quella parte superiore dell'anima che finora gli aveva sottratta, che aspirasse a venir guidata da lui, in questa perfetta unione verso la meta dell'ideale suo. E gli venivano le lagrime alla gola; e il lago ondulante e le grandi montagne tragiche e quegli occhi delle cose fisi nella luna e la stessa luce lunare, tutto gli si riempiva del suo indefinibile sentimento, per cui quando di là dalla spezzata immagine dell'astro luccicori argentei sfavillarono un momento fin sotto il Bisgnago, fin dentro il golfo ombroso del Dòi, se ne commosse come di arcani segni alludenti a lui che si facessero il lago e la luna, mentre Luisa compieva la frase: Ai verdi platani Al cheto rio Che i nostri mormora Sospiri ancor. La voce di Pasotti gridò dalla terrazza: "Brava!" E la voce dello zio: "Tarocco!" Nello stesso tempo si udirono i remi d'una barca che veniva da Porlezza, si udì un fagotto scimmiottar l'aria di Anna Bolena Franco, che s'era seduto sulla poppa del suo battello, salto in piedi, gridò lietamente: "Ehi là!". Gli rispose un bel vocione di basso: Buona sera, Miei signori, Buona sera, Buona sera. Erano i suoi amici del lago di Como, l'avvocato V. di Varenna e un tal Pedraglio di Loveno, che solevano venire per far della musica in palese e della politica in segreto; un segreto di cui Luisa sola era a parte. Anche dalla terrazza si gridava: "Bene, don Basilio!". "Bravo il fagotto!". E negli intervalli si udiva pure la voce di un signore che si schermiva dal tarocco. "No, no, Controllore gentilissimo, xe tardi, no ghe stemo più, no ghe stemo propramente più! Oh Dio, oh Dio, La me dispensi, no posso, no posso; ingegnere pregiatissimo, me raccomando a Ela." Lo fecero poi giuocare, l'ometto, con la promessa di non passar le due partite. Egli soffiò molto e sedette al tavolino con l'ingegnere, Pasotti e Pedraglio. Franco sedette al piano e l'avvocato gli si mise accanto col fagotto. Fra Pasotti e Pedraglio, due terribili motteggiatori, il povero signor Giacomo ebbe una mezz'ora amara, piena di tribolazioni. Non gli lasciavano un momento di pace. "Come va, sior Zacomo?" "Mal, mal." "Sior Zacomo, non ci sono frati che passeggiano in pantofole?" "Gnanca uno." "E il toro? Come sta il toro, sior Zacomo?" "La tasa, La tasa." "Maledetto, eh, quel toro, sior Zacomo?" "Maledetissimo, sì signor." "E la servente, sior Zacomo?" "Zitto!", esclamò Pasotti a questa impertinente domanda di Pedraglio. "Abbiate prudenza. A questo riguardo il signor Zacomo ha dei dispiaceri da parte di certi indiscreti." "Lassemo star, Controllore gentilissimo, lassemo star", interruppe il signor Giacomo contorcendosi tutto, e l'ingegnere lo esortò a mandar i due seccatori al diavolo. "Come, sior Zacomo", riprese Pasotti, imperterrito: "non è un indiscreto quel piccolo sacerdote?". "Mi ghe digo aseno", fremette il signor Giacomo. Allora Pasotti, tutto ridente e trionfante perché si trattava proprio d'una burla sua, fece tacere Pedraglio che scoppiava dalla curiosità di saper la storia e rimise in corso il tarocco. Franco e l'avvocato studiavano un pezzo nuovo per piano e fagotto, pasticciavano, si rifacevan ogni momento da capo; ed ecco entrare in punta di piedi per non guastar le loro melodie, la signora Peppina Bianconi. Nessuno s'accorse di lei tranne Luisa che se la fece sedere accanto, sul piccolo canapè vicino al piano. A Franco la signora Peppina, con la sua bontà cordiale, chiacchierona e sciocca, urtava i nervi; a Luisa no. Luisa le voleva bene ma stava in guardia per il Carlascia. La Peppina aveva udito dal suo giardino quella canzonetta "inscì bella, neh", e poi il fagotto, i saluti; s'era immaginata che avrebbero fatto musica e lei era "inscì matta, neh", per la musica! E poi c'è quel signor avvocato "ch'el boffa denter in quel rob inscì polito!". E poi c'è il signor don Franco "parlèmen nanca, con quèi diavoi de did!" Udir suonare il piano con quella precisione era proprio come udire un organetto; e a lei gli organetti piacevano "inscì tant!". Soggiunse che temeva recar disturbo ma che suo marito l'aveva incoraggiata. E domandò se quell'altro signore di Loveno non suonava anche lui, se si fermavano un pezzo; osservò che dovevano avere ambedue una gran passione per la musica. "Aspetta me, birbone d'un Ricevitore", pensò Luisa e rimpinzò sua moglie delle più comiche frottole sulla melomania di Pedraglio e dell'avvocato, infilzandone tante più quanto più s'irritava contro la gente odiosa da cui era forza salvarsi a furia di menzogne. La signora Peppina le inghiottì scrupolosamente tutte fino all'ultima, accompagnandovi affettuose note di lieta meraviglia: "Oh bell, oh bell!". "Figürèmes!". "Ma guardee!". Poi, invece di ascoltare la diabolica disputa del piano col fagotto, parlò del Commissario di Porlezza e disse ch'egli aveva l'intenzione di venir a vedere i fiori di don Franco. "Venga pure", fece Luisa, fredda. Allora la signora Peppina, approfittando di un uragano che Franco e l'amico suo facevano insieme, arrischiò un discorsetto intimo che guai se il suo Carlascia l'avesse udito; ma fortunatamente il buon bestione dormiva nel proprio letto col berretto da notte tirato sugli orecchi. "Mi goo inscì mai piasè de sti car fior!", diss'ella. Secondo lei, i Maironi avrebbero fatto bene ad accarezzare un poco il signor Commissario. Era intimo della marchesa e guai se gli veniva il ticchio di farli tribolare! Era un uomo terribile, il Commissario. "El mè Carlo el baia un poo ma l'è on bon omasc; quell'alter là, el baia minga, mah, neh! ..." Per esempio, ella non sapeva niente, non aveva udito niente, ma se quel signor avvocato e quell'altro signore fossero venuti per qualche altra cosa invece che per la musica e il Commissario venisse a saperlo, misericordia! La luna trascinava i suoi splendori per il lago verso le acque di ponente; il giuoco finì e il signor Giacomo si dispose a far accendere il suo lanternino, malgrado le esclamazioni di Pasotti. "Il lume, sior Zacomo? È matto? Il lume con questa luna?". "Per servirla", rispose il signor Giacomo. "Prima ghe xe quel maledeto Pomodoro da passar, e po, cossa voria, adesso, la luna! La diga che la xe la luna d'agosto, anca; perché siben che semo de setembre, la luna la xe d'agosto. Ben! una volta, sì signor, le lune d'agosto le gera lunazze, tanto fate, come fondi de tina; adesso le xe lunete, buzarete ... no, no, no." E, acceso il suo lanternino, partì con Pasotti, accompagnato fino al cancello del giardinetto dall'impertinente Pedraglio con le solite antifone sul toro e la servente, si avviò verso gli antri di Oria, col conforto delle giaculatorie di Pasotti: "gente maleducata, sior Zacomo, gente villana!", giaculatorie dette abbastanza forte perché gli altri potessero udire e ridere. Un sonoro sbadiglio dell'ingegnere mise in fuga la signora Peppina. Pochi momenti dopo, preso il suo solito bicchier di latte, egli tolse commiato poeticamente: Crescono sul Parnaso e mirti e allori Felicissima notte a lor signori. Anche i due ospiti chiesero un po' di latte: e Franco che intese il loro latino andò a pigliare una vecchia bottiglia del piccolo eccellente vigneto di Mainè. Quando ritornò, lo zio non c'era più. Il bruno, barbuto avvocato, una quadratura di forza e di calma, alzò le due mani, chiamò silenziosamente a sé Franco da una parte, Luisa dall'altra e disse piano, con la sua voce di violoncello, calda e profonda: "Notizie grosse". "Ah!", fece Franco, spalancando gli occhi ardenti. Luisa diventò pallida e giunse le mani senza dir parola. "Sicuro", fece Pedraglio, tranquillo e serio. "Ci siamo." "Dite su, dite su, dite su!", fremette Franco. Fu l'avvocato che rispose: "Abbiamo l'alleanza del Piemonte con la Francia e l'Inghilterra. Oggi la guerra alla Russia, domani la guerra all'Austria. Volete altro?" Franco abbracciò di slancio, con un singulto, i suoi amici. I tre stettero abbracciati in silenzio, palpitando, stringendosi forte, nella ebbrezza della magica parola: guerra. Franco non si accorgeva di avere ancora la bottiglia in mano. Gliela tolse Luisa; egli allora si staccò impetuoso dagli altri due e cacciatosi fra loro a braccia aperte, li trascinò via per la vita come una valanga, li portò in loggia ripetendo: "Contate, contate, contate". Colà, chiuso per prudenza l'uscio a vetri che mette sulla terrazza, l'avvocato e Pedraglio misero fuori il loro prezioso segreto. Una signora inglese villeggiante a Bellagio, fervente amica dell'Italia, aveva ricevuto da un'altra signora, cugina di sir James Hudson, ministro d'Inghilterra a Torino, una lettera di cui l'avvocato possedeva la traduzione. La lettera diceva ch'erano in corso a Torino, a Parigi e a Londra segretissime pratiche per avere la cooperazione armata del Piemonte in Oriente, che la cosa era in massima decisa fra i tre Gabinetti, che restavano solamente a risolvere alcuna difficoltà di forma perché il conte di Cavour esigeva i maggiori riguardi alla dignità del suo paese; che a Torino si era certi di ricevere al più tardi in dicembre l'invito ufficiale delle Potenze occidentali per accedere puramente e semplicemente al trattato del 10 aprile 1854. Si affermava persino che il corpo di spedizione sarebbe comandato da S. A. R. il duca di Genova. V. leggeva, e Franco teneva stretta la mano di sua moglie. Poi volle leggere egli stesso e dopo lui lesse Luisa. "Ma!", diss'ella. "La guerra all'Austria? Come?" "Ma sicuro!", fece l'avvocato. "Vuole che Cavour mandi il duca di Genova e quindici o ventimila uomini a battersi per i turchi se non ha in pugno la guerra all'Austria? La signora crede che non passerà un anno." Franco scosse i pugni in aria con un fremito di tutta la persona. "Viva Cavour", sussurrò Luisa. "Ah!", fece l'avvocato. "Demostene non avrebbe potuto lodar il conte con efficacia maggiore." Gli occhi di Franco s'empirono di lagrime. "Sono uno stupido", diss'egli. "Cosa volete che vi dica?" Pedraglio domandò a Luisa dove diavolo avesse cacciata la bottiglia. Luisa sorrise, uscì e ritornò subito col vino e i bicchieri. "Al conte di Cavour!", disse Pedraglio, sottovoce. Tutti alzarono il bicchiere ripetendo: "al conte di Cavour!" e bevvero; anche Luisa che non beveva mai. Pedraglio si versò dell'altro vino e sorse in piedi. "Alla guerra!", diss'egli. Gli altri tre si alzarono di slancio impugnando il bicchiere silenziosamente, troppo commossi per poter parlare. "Bisogna andarci tutti!", disse Pedraglio. "Tutti!", ripeté Franco. Luisa lo baciò con impeto, sulla spalla. Suo marito le afferrò il capo a due mani, le stampò un bacio sui capelli. Una delle finestre verso il lago era spalancata. Si udì, nel silenzio che seguì quel bacio, un batter misurato di remi. "Finanza", sussurrò Franco. Mentre la lancia delle guardie di finanza passava sotto la finestra, Pedraglio fece "maledetti porci!" così forte che gli altri zittirono. La lancia passò. Franco mise il capo alla finestra. Faceva fresco, la luna scendeva verso i monti di Carona, rigando il lago di una lunga striscia dorata. Che strano senso faceva contemplar quella romita quiete con l'idea d'una gran guerra vicina! Le montagne, scure e tristi, parevano pensare al formidabile avvenire. Franco chiuse la finestra e la conversazione ricominciò sommessa, intorno al tavolino. Ciascuno faceva le proprie supposizioni sugli avvenimenti futuri, e tutti ne parlavano come di un dramma il cui manoscritto fosse già pronto fino all'ultimo verso, con i punti e le virgole, nella scrivania del conte di Cavour. V., bonapartista, vedeva chiaro che Napoleone intendeva vendicar lo zio demolendo uno ad uno i membri della Santa Alleanza: oggi la Russia, domani l'Austria. Invece Franco, diffidentissimo dell'imperatore, attribuiva l'alleanza sarda al buon volere dell'Inghilterra, ma riconosceva che, appena proclamata quest'alleanza, l'Austria, sacrificando i suoi interessi ai principii e agli odii si sarebbe schierata con la Russia, per cui Napoleone sarebbe stato costretto di combatterla. "Sentite", disse sua moglie, "io invece ho paura che l'Austria si metta dalla stessa parte del Piemonte." "Impossibile", fece l'avvocato. Franco si sgomentò, ammirando la finezza dell'osservazione, ma Pedraglio esclamò: "Off! Sti zurucch chì hin trop asen per fà ona balossada compagna!" e l'argomento parve decisivo, nessuno ci pensò più, salvo Luisa. Si misero a discorrere di piani di campagna, di piani d'insurrezione; ma qui non andavano d'accordo. V. conosceva gli uomini e le montagne del lago di Como come forse nessun altro, da Colico a Como e a Lecco. E dappertutto, lungo il lago, nella Val Menaggio, nella Vall'Intelvi, nella Valsassina, nelle Tre Pievi aveva gente devota, pronta magari a menar le mani a un cenno del "scior avocàt". Egli e Franco credevano utile qualunque movimento insurrezionale che valesse a distrarre anche una menoma parte delle forze austriache. Invece Luisa e Pedraglio erano del parere che tutti gli uomini validi dovessero ingrossare i battaglioni piemontesi. "Faremo la rivoluzione noi donne", disse Luisa con la sua serietà canzonatoria. "Io, per parte mia, butterò nel lago il Carlascia." Discorrevano sempre sottovoce, con una elettricità in corpo che dava luce per gli occhi e scosse per i nervi, assaporando il parlar sommesso con le porte e le finestre chiuse, il pericolo di avere quella lettera, la vita ardente che si sentivano nel sangue, le parole alcooliche a cui tornavano ogni momento. Piemonte, guerra, Cavour, duca di Genova, Vittorio Emanuele, cannoni, bersaglieri. "Sapete che ore sono?", disse Pedraglio guardando l'orologio "Le dodici e mezzo! Andiamo a letto." Luisa uscì a prendere delle candele e le accese, stando in piedi; nessuno si mosse e sedette anche lei. Allo stesso Pedraglio, quando vide le candele accese, passò la voglia di andar a letto. "Un bel Regno!", diss'egli. "Piemonte", disse Franco, "Lombardo-Veneto, Parma e Modena." "E Legazioni", fece V. Altra discussione. Tutti le avrebbero volute le Legazioni, specialmente l'avvocato e Luisa; ma Franco e Pedraglio avevano paura di toccarle, temevano di suscitare difficoltà. Si riscaldarono tanto che l'allegro Pedraglio invitò i suoi compagni a gridare sottovoce: "Vosèe adasi, fioeu!". Allora fu V. che propose di andare a letto. Prese in mano la candela ma senza alzarsi. "Corpo di Bacco!", diss'egli, non sapeva bene se in forma di conclusione o di esordio. In fatto aveva una gran voglia di parlare, di sentir parlare, e non sapeva cosa trovar di nuovo. "Proprio corpo di Bacco!", esclamò Franco ch'era nelle stesse condizioni. Seguì un silenzio alquanto lungo. Finalmente Pedraglio disse: "Dunque?", e si alzò. "Andiamo?", fece Luisa avviandosi per la prima. "E il nome?", chiese l'avvocato. Tutti si fermarono. "Che nome?" "Il nome del nuovo Regno." Franco posò subito la candela. "Bravo", diss'egli, "il nome!", come se fosse una cosa da decidere prima di andare a letto. Nuova discussione. Piemonte? Cisalpino? Alta Italia? Italia? Luisa posò presto la candela anche lei, e Pedraglio, perché gli altri non volevano passargli il suo Italia, la posò pure. Però siccome il dibattito andava troppo per le lunghe, riprese la candela e corse via ripetendo: "Italia, Italia, Italia, Italia!" senz'ascoltar i "zitto" e i richiami degli altri che lo seguivano in punta di piedi. Si fermarono ancora tutti a piè della scala che Pedraglio e l'avvocato dovevano salire per andare a letto, e si diedero la felice notte. Luisa entrò nella vicina camera dell'alcova; Franco restò a veder salire i suoi amici. "Ehi!", diss'egli a un tratto. Voleva parlar loro dal basso ma poi pensò invece di raggiungerli. "E se si perde?", sussurrò. L'avvocato si contentò d'uno sdegnoso "off!" ma Pedraglio voltandosi come una iena afferrò Franco per il collo. Si dibatterono ridendo sul pianerottolo della scala e poi "addio!", Pedraglio corse su e Franco precipitò abbasso. Sua moglie lo aspettava ferma in mezzo alla camera, guardando l'uscio. Appena lo vide entrare gli andò, grave, incontro, lo abbracciò stretto stretto, e quando egli, passati alcuni momenti, fece dolcemente atto di sciogliersi, raddoppiò la stretta, sempre in silenzio. Franco, allora, intese. Ella lo abbracciava adesso come lo aveva impetuosamente baciato prima, quando si era parlato di andar tutti alla guerra. Strinse egli pure le tempie di lei fra le mani, le baciò, le ribaciò i capelli e disse dolcemente: "Cara, pensa che gran cosa, dopo, questa Italia!". "Oh sì!", diss'ella. Alzò il viso al viso di suo marito, gli offerse le labbra. Non piangeva ma gli occhi erano un poco umidi. Vedersi guardar così, sentirsi baciar così da quella creatura briosa e fiera valeva bene alcuni anni di vita, perché mai mai ella non era stata con lui, nella tenerezza, così umile. "Allora", diss'ella, "non resteremo più in Valsolda. Tu dovrai lavorare come cittadino, non è vero?" "Sì, sì, certo!" Si misero a discorrere con gran zelo, l'una e l'altro, di quel che avrebbero fatto dopo la guerra, come per allontanar la idea di una possibilità terribile. Luisa si sciolse i capelli e andò a guardar Maria nel suo lettino. La bimba si era prima, forse, svegliata e s'era posto in bocca un ditino che poi pian piano, tornando il sonno, n'era scivolato fuori. Ora dormiva con la bocca aperta e il ditino sul mento. "Vieni, Franco", disse sua madre. Si piegarono ambedue sul lettino. Il visetto di Maria aveva una soavità di paradiso. Marito e moglie stettero a guardarla in silenzio e si rialzarono poi commossi, non ripresero il discorso interrotto. Ma quando furono a letto ed ebbero spento il lume, Luisa mormorò sulla bocca di suo marito: "Se viene quel giorno, tu vai; ma vado anch'io". E non gli permise di rispondere.

Brano Tratto da: Milano visione

675696
Galateo, Antonio 1 occorrenze

*** Una sera dell'anno scorso in una sala superiore della Fiaschetteria Toscana oltre una cinquantina d'amici, fra cui tutta la letteratura militante, salutava Roberto Sacchetti che, chiamato a Torino a dirigere un giornale, abbandonava Milano. Stordito dalla dimostrazione commovente che gli si faceva, Sacchetti ringraziò con parole che avevano ricercato nel fondo del suo cuore la nota dominante della sua vita milanese. Egli diceva di sentirsi oramai fatto milanese; lasciando Milano lasciava la culla della sua matura, ma della sua più bella giovinezza. - Io sento - egli diceva - che con Milano è la mia gioventù che io perdo definitivamente. Io ed un altro dei più vecchi amici colà di Sacchetti, ci guardammo contrariati, intanto che Broglio recitava o leggeva un suo delizioso pasticcio, metà affetto d'amico e metà cronaca del Pungolo. Anche Sacchetti………………………………………………………………. Le parole mi si confondono……………………………………….………….. *** Ho passata la notte fra queste memorie, e quest'alba fredda che sorge è quella che tante volte salutava, febbrilmente intento ancora a finire un capitolo, il mio ottimo Roberto; è l'alba che inspirava a Praga gli ultimi versi tristissimi. *** Mi volto indietro a contemplare questo breve cammino di vita milanese percorso, e questo breve cammino mi pare lungo più che tutto il resto della mia vita. Quanti morti ho lasciato addietro! Manzoni, Rovani, Pinchetti, Tarchetti, Camerini, Praga, Sacchetti. Dio mio! Ce ne sono ancora? Sì: ci sono i morti alla spensieratezza, alla fraterna gajezza d'un giorno. Non parliamone. Seppelliamoci anzi, noi, perchè altri sottentri. Ma quali sono i nuovi venuti? Ahi! Questo è il peggio, non ci conosciamo. In mezzo alla Milano vera che mi ha assorbito, cerco ancor io la mia Milano visione, e non la trovo. Dall'estremo bastione orientale contemplo disegnarsi nel tramonto tutto il profilo gigantesco del duomo. Ricordo la montagna, che, sbucando da un labirinto di vie, mi comparve la prima volta innanzi, nel 1866. Penso all'allegra spianata della stazione, col caffè in legno, con l'altra linea del bastione dinanzi, penso all'entrata maestosa in Milano per Principe Umberto, che mi fece sognare una tale residenza, come una voluttà ineffabile. Penso al rumore che ci si sollevava intorno e all'anelito di ambizione che ci soffocava ad ogni sprazzo di luce che il genio di Milano mandava intorno a sè. Penso infine alla mesta carovana degli ingegni e delle opere che passarono, alle follie, alle risa, alle voluttà - e confondo sognando antichi anni e giorni recenti, Pindaro, Fidia, Apelle, Venere e Frine, e i miei poveri amici, taluni di essi con le loro chiome fulve e brune soffuse ancora nelle pupille moribonde, povere chiome ora pur esse vinte dalla suicida ebbrezza giovanile. Quanti, quanti caduti! E dal bastione dell'estremo oriente di Milano discendo alle vecchie ortaglie. Ivi i miei buoni amici giuocano schiammazzando alle boccie, e birrichine voci femminili fra pianta e pianta ombreggiate, notano i punti. O giovinezza! primavera! amore! Cadano sui sepolti e sulle sepolte le foglie delle rose! *** E il cieco brancolando sulla soglia Della contrada - smarrirà la strada Come uom che sogna... Tale, fra tante memorie, smarrita rimane l'anima mia. L'alba, si è accentuata: - sopravviene l'aurora. Sul piazzale della stazione, sgombro delle antiche catapecchie in legno, si fa innanzi una nuova locomotiva che traina alla Esposizione vagoni e vagoni di merci. La riga fantastica del fumo passa sulla linea dell' antico bastione. - Le case nuove si assiepano. Gli alveari di piazza del Duomo sparirono e non resta nemmeno più l'eco della poesia di Fontana. Esco all'invito del mattino, mi addentro per cento vie, incontro amici vecchi e amici nuovi, e vado, e vado ancora cercando e non trovo. - Ahimè! Frammezzo alla fastosa realtà che mi circonda, quello che io cerco, quello cui sempre anelo con la memoria e con la fantasia, - si è la mia visione, - e al martellare insistente di una ideale campana che nel suo rombo risente della merlata linea longobarda vibrante di patrio entusiasmo, mi si rifà nella immaginazione ciò che non trovo, e vagheggio, e auguro, e spero : - il convegno placido della intelligenza, il porto delle giovanili frenesìe, dome alla battaglia della vita; il fragoroso plauso e il decoroso compenso, la fratellanza nello studio e nell'arte, la generosa, la bella, la incantata e incantatrice spensieratezza giovanile, e fra, le bufere e le ombre, fra i nocchieri intenti e le ciurme travagliate, fra i naufraghi e i sepolti, - il faro ampio, inestinguibile, di luce serena, il luminoso, aereo pinnacolo bianco, fra la sterminata vaporosa pianura dai lembi dorati.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675780
Garibaldi, Giuseppe 2 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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soggiungeva egli, e la buona Silvia, quasi fuori de’ sensi, si abbandonava nelle braccia del suo robusto antico protetto. «Qui non v’è tempo da perdere - disse finalmente Orazio, rivolgendosi a Manlio, con cui aveva pur ricambiato mille segni di reminiscenza e di gratitudine. - Questo luogo è pieno zeppo di malviventi e quel fuggito potrebbe ricondurre una banda più numerosa». Pigliando dunque i cavalli per i morsi invitò la comitiva a rimontare in carrozza e mettendosi egli stesso al posto del cocchiere, s’incamminò velocemente verso la marina secondo i voti dei viaggiatori. Giunti alla spiaggia, l’aria balsamica del Mediterraneo sembrò ravvivare i nostri stanchi amici, e l’effetto apparve sorprendente sulla bella Giulia. Figlia della regina del mare ella, come tutti coloro che nascono sulle sue sponde, ne era innamorata. Lontani lo sospirano, al rivederlo, par loro rivedere una persona amata. L’effetto prodotto sui dieci mila Greci di Senofonte al rivedere il mare dopo lungo e pericoloso viaggio pedestre a traverso la Persia, si comprende facilmente. E le grida di gioia e l’inginocchiarsi a salutare Anfitrite liberatrice, come il mare fosse la patria loro, non hanno d’uopo di spiegazioni.

Or, mentre il paese festoso, quasi dimentico del lungo servaggio, si abbandonava alla gioia, e la gioventù dopo aver fatto solenne saluto di porta Romana, a dispetto delle autorità pretine passeggiava in buon ordine preceduta dalla banda che suonava inni patriottici; mentre le signore, sempre più ardenti degli uomini quando si tratta d’atti generosi, acclamavano dai balconi, e sventolavano graziosamente fazzoletti tricolori ai passanti; mentre infine la città intiera, che i preti come tutte le altre avean tenuta nel lutto, si destava alla gioia di un ricordo glorioso dalla stessa porta Romana, spuntava la testa di colonna del corpo straniero, e con baionetta in canna, e a passo di carica invadeva la via principale della città, ove ancora si trovavano viterbesi festanti. Un delegato di polizia, che con alcuni birri precedeva i mercenarii impose al popolo di ritirarsi. A quell’intimazione risposero fischi solenni ed alcune pietre ben dirette fecero fuggire il delegato ed i suoi compagni, che rannicchiandosi fra la soldatesca, gridavano a squarciagola: «caricate quella canaglia! Fate fuoco per Dio!». Il comandante di quella ciurmaglia, che voleva guadagnarsi qualche cindolo e sapeva che facendo macello del popolo si metteva sulla vera via per ottenerlo, persuaso ancora che giovasse aizzare i suoi cagnotti contro i cittadini, acciò che l’odio reciproco tra loro non si raffreddasse, ordinò tosto la carica alla baionetta. I Viterbesi, che come tutte le popolazioni Romane, avevano ordine dai comitati rivoluzionari di non muoversi e quindi non eran preparati alla pugna. Si dispersero per le vie traverse, il che venne loro facilitato dalla incipiente oscurità della sera, e dal subitaneo spegner dei lumi, che le donne come per incanto, eseguirono dovunque. La carica dei mercenarii non ebbe sfogo che contro alcuni cani e somarelli di campagna che si ritiravano a casa e non s’udiva altro che un grande abbaiare dei primi ed un urlar dei secondi, perseguiti colle baionette alle reni dai valorosi campioni delle sottane. Eran circa le 10 della sera e tutto era tranquillo in Viterbo. La truppa aveva formato i fasci sulla piazza principale, riposandosi sugli allori dalle fatiche e vittorie del giorno. Dei cittadini, ritirati nelle loro case, non se ne incontrava uno solo per le strade. Al grande Albergo della Luna il campanello chiamava a raccolta i commensali alla gran tavola rotonda. Circa cinquanta posti erano preparati, con quel lusso che nelle odierne locande si suole spiegare. Verso l’istessa ora, una carrozza a quattro cavalli giungeva alla porta della locanda, e vi scendeva una donna in abito da viaggio, che alla sveltezza del passo e alla scioltezza d’ogni movimento si scorgeva essere giovane. Il maestro di casa, dopo aver introdotto in una delle più eleganti camere dell’albergo la forestiera, le chiese se desiderava rifocillarsi senza uscire di stanza; ed essa rispose che volentieri sarebbe scesa alla tavola rotonda, non piacendole di pranzar sola. La sala era già affollata, e la maggior parte degli astanti erano ufficiali stranieri del corpo recentemente arrivato. Il resto erano forestieri italiani e cittadini di Viterbo. All’apparire della viaggiatrice, tutti gli occhi si rivolsero su lei con ammirazione ed era veramente ammirabile in quella sera la nostra Giulia, perocché la nuova venuta era lei. Tutti fecero largo quando traversò la sala, gli italiani assunsero un’aria di gentile stupore, gli ufficiali affilarono i baffi, dilatarono il collo e rigonfiarono il torace in aria di conquistatori. A capo della tavola s’assise il padrone di casa, elegantemente vestito, e pregò la bella inglese di sedersi alla sua destra. Gli ufficiali sollecitamente si affollarono verso il capo della tavola per mettersi accanto alla signorina e così i primi posti in un batter d’occhio furono occupati da loro. Giulia vedendosi un mercenario alla destra, si pentì di avere accettato l’offerta, ma era già troppo tardi e, mentre con aria contrita, girava lo sguardo sui commensali, i suoi occhi s’incontrarono con due occhi, che la colpirono come folgore. Erano gli occhi di Muzio! di Muzio che si trovava all’altra estremità della mensa, collocato fra Attilio ed Orazio niente meno! Assuefatta a vedere il suo diletto col mantello, poco abituata alla fisionomia d’Orazio che aveva veduto un sol momento armato da capo a piedi nella selva, e d’Attilio, che in Roma usava il semplice vestito dell’artista, rimase incerta ed esitante e vedendoli tutti e tre in cilindro, e con abito da viaggiatori stranieri, veramente sulle prime non li riconobbe. Quando fu ben sicura che erano loro, proprio loro, rimase mortificata di trovarsi accanto a tal vicino. Ma come fare? Come alzarsi, avvicinarsi, chieder loro mille cose che essa bramava sapere senza destare sospetti, senza comprometterli, mentre sovr’essa lampeggiavano cinquanta sguardi d’uomini affascinati dall’incantatore suo volto? E Muzio! il medico, il capo della contropolizia Romana, l’uomo che come il suo omonimo

L'ANNO 3000

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Alle sedie smosse e cadute di chi abbandonava la sala, si unirono grida irose: Profanazione! Profanazione! Abbasso il psicoscopio ... Paolo rimase imperterrito, e il Presidente suonò più volte il campanello, invocando silenzio e pace. Intanto la sala si era vuotata più che mezza, e il segretario potè ripigliare la sua relazione: L'Accademia ha creduto a voti unanimi di conferire il primo premio al signor Fortunati, perchè se le due altre scoperte ci allargano le frontiere del conoscibile, il psicoscopio ci promette un'era nuova di moralità e di sincerità fra gli uomini. Quando noi tutti sapremo, che chiunque può leggere nel nostro cervello, faremo sì che pensieri e opere non si contraddicano, e noi saremo buoni nel pensiero, come cerchiamo di esserlo nelle opere. È a sperare che col psicoscopio la menzogna sarà bandita dal mondo o almeno sarà un fenomeno rarissimo, che si andrà perdendo del tutto; come tutte le funzioni e gli organi, che non hanno più uno scopo necessario o utile. E lasciamo da parte tutti i vantaggi, che potrà arrecarci il nuovo strumento nella diagnosi delle malattie mentali, nell'educazione, nella psicologia. La scienza del pensiero entrerà ben presto in un nuovo mondo, e di certo è assai più utile all'uomo il conoscere se stesso, che il centro della terra o gli abitanti degli altri pianeti. Dacchè l'uomo è comparso sulla terra, egli ha fatto immensi progressi nelle scienze, nelle arti, nelle lettere; in tutto ciò che riguarda la vita del pensiero; ma nella moralità il progresso è ancora molto addietro, e non è punto in armonia con quello della mente. Il psicoscopio ci promette di realizzare questo sogno di tutti i secoli, quello cioè che il progresso morale sia parallelo a quello intellettuale, e siccome tutti crediamo, che il primo per la felicità degli uomini sia molto più importante dell'altro, ecco perchè l'Accademia ha creduto di dover assegnare il primo premio al signor Paolo Fortunati, che ha inventato il psicoscopio. Tutti quelli che erano rimasti nella sala, perchè non avevano paura che il terribile strumento ottico leggesse attraverso il loro cranio alcuni pensieri malvagi, si alzarono in piedi, applaudendo fragorosamente il fortunato vincitore del premio cosmico, e che anche nel suo nome portava quasi il vaticinio della sua gloria ... L'unica persona che non si alzò, era la più felice e la più commossa. Era Maria, che si nascondeva il volto nel fazzoletto per celare le lagrime di una gioia infinita, che la innondava tutta quanta dal capo ai piedi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paolo intanto era sceso dal banco della presidenza, era ritornato al suo posto, e là le lagrime di due felici si univano insieme, confondendosi nell'estasi di un'ebbrezza sola. Tutti i presenti guardavano commossi quel gruppo dei due felici, persuasi che l'abbraccio di quella donna in quel momento, in quel luogo, era il premio più alto e primo della scoperta immortale di Paolo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . *** Pochi giorni dopo Paolo e Maria, dopo aver avuto l'alto consenso del Tribunale sanitario di Andropoli, per unirsi nel matrimonio fecondo; ne ricevevano nel Tempio della Speranza il sacramento solenne, e da amanti, che lo erano già da varii anni, diventavano marito e moglie; avendo acquistato per consenso della scienza il più alto dei diritti, una volta concesso a tutti nei tempi barbari; quello cioè di trasmettere la vita alle generazioni future. 1 Il Panglosso è un teatro riserbato agli uomini molto colti e dove si danno rappresentazioni nelle lingue morte, dal greco all'italiano, dal latino e dal sanscrito all'inglese, al turco, al chinese. 2 Il Teatro dei buffoni di Andropoli ha lo scopo di far ridere ad ogni costo, onde rallegrare gli ipocondriaci, gli annoiati e tutti i depressi. 3 Il Teatro del pianto non dà che rappresentazioni melanconiche, ma non mai strazianti, per mettere una nota triste e pur desiderata nella vita dei troppo felici.

IL TRAMONTO D'UN IDEALE

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

Erano soli e, vinta dalla passione, si abbandonava nelle sue braccia, e gli confessava che lei pure lo aveva amato sempre, che lo aveva aspettato perché aveva fede in lui. Finì per sommergersi talmente di quelle sue fantasie, che sfuggiva la gente per non distrarsene. Era un mondo illusorio che s'era creato, e nel quale gustava dolcezze ineffabili. Là, la sua timidezza, la sua sguajattaggine, non gli creavano imbarazzo o vergogna. Là era come avrebbe voluto essere, e si sentiva pienamente felice. A poco a poco riuscì a persuadersi che quei sogni dello spirito fossero fondati su qualche cosa di reale; che Rachele ne fosse a parte veramente, come lui ne la metteva a parte nella sua fantasia; non le considerava più come un suo sogno, ma come un suo segreto, ed un segreto comune con lei. Una sera, salendo la collina, incontrò Rachele, con una brigata di signori che scendevano dal vigneto. Ella si sentì arrossire, perdette il filo del discorso che stava facendo, e fu presa da tanta commozione al vederlo, che non osò alzar gli occhi su di lui, e lo salutò appena con un lievissimo cenno del capo. In realtà, tolto di mezzo l'amore il quale non era stato confessato, non c'era nessuna ragione perché il saluto di quella signorina, unica erede del primo possidente del paese, dovesse essere più espansivo verso quello studente povero. Ma Giovanni aveva tanto riunite le loro esistenze ne' suoi sogni d'amore, s'era tanto dato a lei, l'aveva tanto fatta sua coll'immaginazione, che aveva finito col persuadersi che vi fosse un vincolo reale fra loro, e quel saluto freddo gli fece l'effetto d'un secchio d'acqua tra capo e collo, lo meravigliò come un fatto strano, gli parve un'infedeltà, un abbandono. Si sentì offeso, infelice; ripensò i grandi argomenti che aveva per credere all'amore di Rachele: i fiori che lei stessa aveva posti accanto a lui sulla tavola dei bambini; il dolce che gli aveva offerto per impedirgli di bisticciarsi col signor Pedrotti... Non c'era altro; ma su quella magra tela, e su quel saluto freddo, egli ricamò tutta una storia d'amore e d'abbandono, nella quale si assegnava la parte interessante della vittima... E la mattina seguente, che era appunto domenica, andò in chiesa, si mise in capo al banco dei signori Pedrotti, nell'atteggiamento che pigliano nei romanzi gli amanti infelici, e per tutta la durata delle funzioni perseguitò Rachele con uno sguardo pieno di dolore e di rimprovero. Rachele ne fu profondamente turbata. Quando Giovanni fu per partire, il signor Pedrotti lo invitò ancora una volta a pranzo. Il Dottorino portò quella notizia al figlio, ed era giubilante. Un pranzo signorile era sempre un avvenimento felice per lui. Giovanni ne fu invece agitatissimo, e fantasticò i più strani disegni, che gli tolsero il sonno. Il giorno dopo, al momento di presentarsi in casa Pedrotti, era estenuato d'aver vegliato tutta la notte su quel pensiero, in un'alternativa febbrile di fantasticherie amorose, di sdegni, di rimproveri, di scene di riconciliazione, sulle quali aveva pianto lacrime bollenti nel segreto del suo guanciale. Per questa volta era ben sicuro che lo butterebbe fuori quel segreto che lo torturava. Gli pareva che, dopo quanto aveva sofferto, gli riuscirebbe più facile parlare che tacere. "Perché mi ha salutato con quella freddezza? Che cosa le ho fatto? Non si ricorda i fiori che ha messi per me sulla tavola dei bambini? Crede che io non abbia capito cosa volevano dire quei fiori? Erano una dichiarazione, erano una promessa...". Tutto questo gli pareva di doverlo dire spontaneamente, a bassa voce, e che Rachele non potesse meravigliarsene, dopo quanto c'era stato fra loro. Come accade sempre ai sognatori, la realtà dissipò tutti i fantasmi della sua immaginazione. Gli bastò di vedere la tavola apparecchiata, e i soliti invitati, i soliti bambini, ed il volto di Rachele che gli sorrideva cortesemente, per capire che aveva sognato, e che tra lui e quella giovinetta non c'era nulla di comune. Questa delusione lo mortificò; si sentì scoraggiato, triste, e non badò più a mostrarsi disinvolto come l'altra volta. Vedendolo cogli occhi bassi, muto, e che non mangiava, il signor Pedrotti si sentì riconciliato col suo protetto, e non gli parve vero di riprendere la parte di protettore, d'incoraggiarlo, di predirgli una carriera splendida. "Devi diventare un grand'uomo per giustificare la fede che ho avuta in te; ed io avrò la mia parte di gloria per avere scoperta una gemma nascosta..." Quando il Pedrotti parlava così, Giovanni si sentiva incoraggiato davvero, non solo per la sua carriera, ma per le sue speranze d'amore. "Se ha fede in me..." pensava. E le asprezze, le alterigie, le umiliazioni che gli aveva fatto patire, gli si toglievano dalla mente. Il Dottorino, sempre pronto a divertire il suo ospite, riprese la sua parte di bello spirito; ed alla fine del pranzo i commensali erano in tale ilarità, che la presenza d'una giovinetta diveniva importuna; ed anche quel ragazzo, che non si sapeva ancora quanta esperienza avesse della vita, paralizzava l'allegria dei vecchi amici. Uscirono tutti a prendere il caffè sotto la veranda fuori della stanza da pranzo ed il signor Pedrotti disse a Rachele ed a Giovanni: "Badate un po' ai bambini, che non s'arrampichino al terrazzo laggiù". Gl'innamorati s'avviarono in silenzio senza guardarsi. Dalla veranda al terrazzo c'era un pergolato dritto: si sentivano sotto gli occhi dei vecchi; ma sopratutto erano in soggezione di loro stessi. Il pranzo s'era prolungato, ed in autunno le giornate sono brevi. Era sull'imbrunire. Il terrazzo in fondo al giardino dominava la pianura del basso Novarese e, dietro il castello, le colline addossate ai monti nascondevano il sole che in quei giorni d'autunno tramontava presto. I bambini, disturbati nei loro giochi, risalirono il viale, e si rimisero a giocare ad una certa distanza. I due giovani si appoggiarono al parapetto del terrazzo. La campagna era deserta; si udiva appena qualche grillo, una cicala che prolungava sola il canto, dopo che le sue compagne avevano finito il loro romoroso concerto, nella vasca del giardino il tonfo d'una rana di tratto in tratto, e giù nel viale il cicalìo dei bimbi. Da lontano le acque del Sissone facevano il rumore d'una sega. Il terrazzo era coperto da una vite vergine, le cui foglie s'erano fatte rosse, ma erano ancora foltissime. Giovanni si ricordò che appunto là aveva sognato di fare la sua confessione, e di stringersi al cuore Rachele in un'estasi d'amore. La guardò così estranea a lui, così contegnosa e bella, e quel pensiero gli parve addirittura mostruoso. Ne ebbe vergogna, e volle dire qualche cosa d'indifferente, per paura che Rachele indovinasse la sua stravaganza. Ma non sapeva cosa dire. Laggiù sotto la veranda si vedevano balenare un momento le vampe dei fiammiferi, poi si spegnevano, e le punte luccicanti de' sigari rimanevano come occhi di fuoco a guardarlo fisso. Echeggiò una risata sonora dei vecchi, e Giovanni disse colla voce commossa: "Come ridono!". Rachele non trovò nulla da rispondere. Disse: "Già!" e, come per temperare il laconismo di quella parola, sorrise al suo compagno. Nell'incontrarsi dei loro sguardi, Giovanni si ricordò come l'aveva guardata in chiesa, gli parve d'essere ancora in quella situazione, ma senza l'impossibilità di parlarle che allora lo aveva incoraggiato. Anche Rachele aveva il volto infiammato, e s'inchinò a guardare la pianura per non farsi scorgere. Giovanni capì ch'ella risentiva un'impressione nuova dalla loro vicinanza e dal loro isolamento. La contemplava tutto tremante. Quel rossore, quel turbamento di Rachele, erano suscitati da lui, gli appartenevano, e non voleva che gli sfuggissero come i suoi sogni. Ma non trovava nulla da dire, e non era neppur sicuro di poter parlare. Quegli occhi di fuoco sulla punta dei sigari gli davano soggezione; e tratto tratto un bambino lo pigliava per le gambe e gli si rimpiattava dietro, mentre l'altro gli saltellava dinanzi strillando e ridendo. Tutto questo lo confondeva, gli faceva perdere l'equilibrio. Ed intanto gli batteva il cuore, gli battevano i polsi in modo assordante, si sentiva venir meno le forze come se svenisse. Fece un passo verso Rachele come per dirle: "Ti amo!", ma un impeto di pianto gli gonfiò il cuore; non disse nulla, e si abbandonò sul parapetto di marmo singhiozzando disperatamente. Rachele alzò il capo e domandò: "Giovanni, che cos'hai?". Ma la sua voce era mutata. Anche lei piangeva. Un momento tutte le esitazioni cessarono. Giovanni si rizzò col volto infiammato e cominciò con un impeto di passione: "Ho che sono pazzo, ho...". Due bambini si gettarono fra loro a capo fitto strillando di gioia, e li respinsero contro il parapetto, e tutti i sigari dei vecchi luccicarono infocati. "Ho che..." ripigliò Giovanni a bassa voce ed esitando; e non trovò più altro. Rimasero muti tutti e due, a capo chino, poi egli stese per la prima volta la mano in atto di congedarsi, e Rachele vi pose la sua. Entrambe erano diacce e tremavano forte. Giovanni strinse quella mano disperatamente, poi colla voce oscillante come un ubbriaco, susurrò: "Non glielo posso dire che cos'ho". E se ne andò quasi correndo, finché fu vicino a quelle punte di sigari che parevano avanzarsi per divorarlo. Quando fu lontano dalla fanciulla, tornando a casa pei violotti bui, accanto al padre che traballava camminando, Giovanni fu preso da un impeto di sdegno contro se stesso, si die' con persistenza dello sciocco ad alta voce, e pianse rabbiosamente. Aver lasciata fuggire un'occasione tanto favorevole senza approfittarne, senza dire tutto ciò che aveva nel cuore! E doveva passare un anno intero prima di rivedere Rachele! E Rachele, contemporaneamente, chiusa a chiave nella sua camera, si scioglieva in lacrime, e chiedeva mentalmente perdono al giovine di non aver saputo dirgli nessuna parola gentile per consolarlo, d'essere rimasta là come una sciocca, come una donna senza cuore e senza giudizio. S'amavano tutti e due, e sapevano d'essere amati; che altro ci vuole a questo mondo per essere felici? Ed erano come disperati. Molte volte, da Torino, Giovanni ebbe un desiderio ardentissimo di scrivere a Rachele. Ma sapeva che non avrebbe potuto ricevere una lettera dalla posta senza correre il rischio, anzi, senza la certezza d'essere scoperta. L'impiegato postale era il fornaio, che vendeva anche droghe ed oggetti di chincaglieria; sua moglie e sua figlia si davano una cura grandissima delle lettere in arrivo ed in partenza, conoscevano dalle soprascritte i corrispondenti dei signori del paese, e non era sperabile che una lettera da Torino diretta alla signorina Pedrotti potesse passare senza suscitare un pettegolezzo, prima ancora di giungere al castello. Tuttavia non poté resistere alla smania di sfogare sulla carta la passione febbrile che gli bruciava il cuore. "Ti amo, Rachele, con tutto l'ardore della mia giovine anima, ti amo e disperato è l'amor mio... dimmi che m'ami dimmi che m'ami...". Provava un conforto a farsi risuonare all'orecchio, rileggendole, quelle frasi appassionate. Sovente invece di scriverle, leggeva le proprie lettere nella Nouvelle Heloïse nelle Confessions d'un enfant du siècle nel Jacopo Ortis e gli pareva d'averle scritte lui, e di trovarsi appunto in quelle situazioni lagrimevoli, tanto lo struggimento della sua passione rinchiusa gli empiva l'anima di malinconia. Poi leggeva le risposte di quelle donne adorate ed infelici, e compiangeva dolorosamente Rachele, come se quella corrispondenza fosse sua, ed ostacoli insuperabili la togliessero per sempre al suo amore. L'autunno ricondusse il giovine innamorato ad idee meno romanzesche. Quella fu un'annata eccezionale per Fontanetto. Ci fu il trasporto del Corpo di sant'Alessandro. Una festa straordinaria. I proprietari fecero degli inviti estesissimi. Ai pranzi i coperti si contavano a dozzine, e se ne tenevano apparecchiati diversi in più, per gli ospiti imprevidibili. Accorsero forastieri da tutti i paesi vicini; persino da Novara. Al castello c'erano due signore di Milano, madre e figlia, ed una Svizzera. La Svizzera era la governante; ma il signor Pedrotti non amava farlo sapere, e la presentava con aria d'importanza, come se fosse stata un gran personaggio, e fosse partita per l'appunto da Zurigo, per correre a Fontanetto, dietro la fama delle ossa di sant'Alessandro, e delle carni cucinate dal cuoco del castello. Le feste durarono tre giorni, ma tennero in orgasmo tutto il paese per l'intero mese di agosto, ed anche più. Ad un pranzo di cinquanta persone si ha più libertà, senza dubbio, che ad uno di dieci. Giovanni e Rachele si trovarono spesso come isolati e soli in mezzo a quella folla rumorosa. Soltanto, l'ambiente non era abbastanza poetico per certe frasi che il giovane innamorato aveva pensate la notte, e doveva dirne delle altre assai meno liriche: "Volevo scriverle, sa, da Torino. Anzi, le ho scritto più volte". "Oh, mio Dio! Io non ho ricevuto nulla!" esclamava Rachele, spaurita all'idea di quelle lettere nelle mani di chissà chi. "Non si spaventi" s'affrettava a dire Giovanni. "Ho scritto, ma non le ho mandate le mie lettere". "Allora, perché le ha scritte?". "Perché sentivo il bisogno di dirle qualche cosa". E dopo una pausa soggiungeva abbassando ancora la voce, e guardandola con passione: "E lei, non lo hai mai sentito quel bisogno?". "È troppo curioso" rispondeva Rachele arrossendo. E quel rossore voleva dire di sì, che aveva scritto, che se ne vergognava un pochino, ma che ardeva dal desiderio di comunicargli quegli sfoghi epistolari, e di leggere quelli di lui. Giovanni aveva già molto domata la sua timidezza da scolaretto. Osava fissare lungamente la bella fanciulla negli occhi, e non arrossiva più. Essa pure lo guardava tratto tratto, tanto più se erano un po' lontani, ed allora si dicevano cose appassionate con quei lunghi sguardi mesti. Le parole non avrebbero potuto dirne di più. Omai s'intendevano, e con quel muto linguaggio si comunicavano questo desiderio comune: "Se fossimo soli!". La sera Rachele stava spesso sul terrazzo in fondo al giardino, e Giovanni passeggiava sulla strada di là dal fossato cogli occhi sempre rivolti a lei. E lei lo seguiva collo sguardo tenace. E quando s'allontanava, egli si voltava indietro ad ogni passo, si fermava, tornava a guardare, tornava a fermarsi, e soltanto allo svoltare della contrada, quando aveva passeggiato tanto che s'era fatto buio e si vedevano appena, si toglieva il cappello lentamente per prolungare quel saluto, che lei rendeva con un lieve chinare del capo. Quell'ora dell'imbrunire era il loro pensiero di tutto il giorno. Dopo la prima volta, senza dirselo, erano tornati tutti e due ogni sera, lei sul terrazzo e lui sulla strada. Era sempre la stessa cosa, lo stesso passeggiare, lo stesso guardarsi, lo stesso saluto. Ma era un godimento infinito e provavano un vero dolore quando, per una causa qualunque, dovevano mancare al muto convegno. Ed il giorno dopo chi aveva mancato assumeva l'aria compunta d'un colpevole, e chi era stato deluso all'appuntamento si mostrava sdegnato. Poi, a forza d'occhiate, che, a quella distanza del resto, non avevano altra espressione che la fissità, riescivano a turbarsi a vicenda, a commoversi, a suscitarsi nell'animo quella tempesta di affetti, che fa battere il cuore fuor di misura, e rende incapaci di tutt'altro sentimento che contemplare, amare, desiderare. La festa di sant'Alessandro era passata; si cominciava già a parlarne un po' meno; e chiunque possedeva un tralcio di vite al sole, pensava alla vendemmia. Il Dottorino non aveva il menomo stelo di sua proprietà in tutto il regno vegetale; il garofano che fioriva sulla sua finestra, in una vecchia zuppiera senza manico, era della Matta, e persino la zuppiera era stata sua soltanto abusivamente perché non l'aveva pagata mai. Ma il Dottorino era l'anima delle vendemmie come dei pranzi. "Potete fidarvi, che dell'uva non ve ne mangio" diceva. "La volpe, che trovava acerba soltanto quella a cui non poteva arrivare, non era furba quanto me. Non sapeva che è sempre acerba anche quella che si ha nel paniere, perché l'uva, per maturare, ha bisogno dell'aria del tino". Figurarsi se quei signori vignaiuoli non pensavano a portargli una buona bottiglia d'uva matura ed a gustarla con lui! Ne conoscevano troppo gli effetti sullo spirito giocondo del Dottorino, per non provocarli. Un giorno Giovanni si scontrò con suo padre sulla strada di Ghemme, ed il Dottorino lo invitò a seguirlo nel vigneto dei signor Pedrotti, dove raccoglievano l'uva bianca, e rimanevano tutto il giorno. Per quella sera Rachele non andrebbe sul terrazzo. Giovanni provò una deferenza per l'autore de' suoi giorni!... Non fece che voltar strada e camminargli a fianco, finché, giunti al vigneto, si dispersero in due filari diversi, perché il vecchio prendeva la più breve per arrivare al villino. C'era tutta la società elegante di Fontanetto a quella vendemmia. Giovanni udiva le chiacchierine delle signore traverso il filare di viti. "È dolce come il miele" diceva la moglie del segretario col viso arcigno come se dicesse: "È veleno". "Io ho sempre desiderio dei grappoli a cui non arrivo colla mano" rispondeva la voce acerba d'una giovinetta. "Allora eccone uno che ti farebbe voglia" osservò Rachele; e si accoccolò protendendo un braccio traverso il fogliame fitto che radeva il suolo, ed appoggiandosi coll'altra al terreno arso e cretoso. Ma il grappolo era indietro indietro, dall'altro lato del filare, e non le riesciva di coglierlo. Invece sentì qualche cosa di caldo solleticarle il palmo, e, quando ritirò la mano che qualcuno aveva trattenuta, s'avvide che stringeva un garofano. "Cos'è? Perché hai gridato?" domandò la segretaria. "Perché mi sono graffiata tra i rami" rispose la Rachele che aveva riconosciuto le labbra amorose, ed il garofano della finestra di Giovanni. Poi, come se cercasse altri grappoli attraenti, si fece innanzi affrettando gradatamente il passo finché si curvò, scomparve sotto i tralci di vite, e si perdette nel vigneto. Nessuno le tenne dietro. Ciascuno era libero d'andare dove amava meglio. S'era fatta innanzi senza una risoluzione precisa. Sapeva che Giovanni era là, ed il cuore la spingeva ad isolarsi. Dopo un tratto, aveva veduto la bella testa bruna traverso la vite, incorniciata di pampini come la testa di Bacco. Egli la guardava fissamente cogli occhi ardenti e mesti. E quegli occhi la attiravano irresistibilmente. A capo chino, rossa in volto, camminando a rilento, si fece innanzi fino a lui, come una magnetizzata. Allora egli si chinò, sollevò i rami facendole un piccolo arco verdeggiante, ed ella passò in silenzio. I rami ricaddero, ed i due giovani si trovarono l'uno in faccia all'altro, pallidi, commossi, palpitanti, in un filare vendemmiato. Giovanni le prese le mani e le disse: "Parto doman l'altro. Per un anno non ci vedremo più". Rachele chinò il capo e non rispose. La persona alta di Giovanni si stringeva a quella di lei, ed il suo viso, curvo sulla testa bionda della giovinetta, s'infiammava tutto del desiderio di stringerla fra le sue braccia. Il suo alito caldo le faceva tremolare i riccioli sulle tempia, le solleticava la nuca e l'orecchio. Rachele mise un sospirone come se avesse un gran peso sul cuore. Egli pure sospirò; poi, come per consolarsi di quell'affanno che li opprimeva tutti e due in mezzo a tanta ebbrezza d'amore, si pose il braccio della Rachele sotto il suo, e la tirò innanzi appoggiata così come una sposa, senza cessare di stringerle la mano. Egli susurrò: "Sarai sempre mia?" "Sì" disse Rachele sospirando ancora. Poi soggiunse: "Saremo uniti come fratello e sorella". Era una fisima che aveva letta in un romanzo. A Giovanni parve l'ultima espressione dell'ingenuità verginale; un sogno di poesia celeste. Sentì di doverla adorare in ginocchio per quella parola, e le promise di sì, che l'amerebbe a quel modo. In quel momento aveva la convinzione di potersi innalzare a quella idealità. E, dopo questo, non trovarono più nulla da dire. Continuarono a camminare in silenzio, con una grande mestizia sul volto ed un gran peso sul cuore, stringendosi le mani per confortarsi a vicenda, muti e gravi, come chi ha compiuto un atto solenne. In capo al filare si separarono. S'erano tenuti stretti fin allora; ma, al momento di darle un bacio, Giovanni ebbe soggezione dell'aria aperta, dell'orizzonte vasto, e la attirò sotto un ciliegio, da cui pendevano abbandonati i rami foltissimi di una vite vendemmiata. Sotto quell'arco verde, nascondendosi dall'aria, dal cielo, stese le braccia con uno sguardo supplichevole. Voleva che Rachele vi si abbandonasse da sé. E vi si abbandonò; e si strinsero un momento con una passione, che smentiva l'idealità dei loro propositi. Ma, per quel momento, non c'era a temere. Tutti i Cherubini e Serafini, i Troni e le Dominazioni, e perfino le undicimila vergini che fanno corona al Padre Eterno, avrebbero potuto contemplare quell'abbraccio amoroso e desolato senza aver bisogno di velarsi la faccia. Quando il Dottorino e suo figlio scesero dal vigneto, la Matta stava alla finestra, mondando amorosamente la pianta del garofano. Ne aveva contati i fiori più volte; era sicura che ne mancava uno. La mattina Giovanni era uscito con un garofano all'occhiello. La Matta rideva e cantava forte, e tornava a mondare, ad inaffiare, a contare i fiori della sua pianta. Quando Giovanni rientrò, la serva gli si fece incontro ridendo e guardandogli l'occhiello dell'abito. Ma ad un tratto cessò di ridere e se ne andò in cucina. Il garofano non c'era più. Più tardi il Dottorino era fermo sulla porta di strada. Tutta la brigata, che aveva pranzato al vigneto dei Pedrotti, scendeva la contrada, e, giunta alla porta del Dottorino, si fermò a salutarlo. La Matta s'affacciò alla finestra, ma non rideva più come il mattino. Guardava la signorina Pedrotti. La vedeva grande e bella, e ben vestita, e pensava con soddisfazione: "Ora non giocherà più con Giovanni". In quella Giovanni uscì sul balcone della sua camera, e gridò: "Buona sera!" "Buona sera! Buona sera!" risposero tutti. Poi la voce limpida ed un po' tremante di Rachele disse ancora: "Buona sera!". Ed intanto guardava Giovanni, ed odorava il garofano. Il mattino seguente, quando Giovanni aperse la finestra per cogliere un altro di quei fiori, non trovò più neppure la zuppiera rotta. La Matta non riescì mai a capire le sue domande, né a rispondergli cosa fosse avvenuto della pianta di garofano. Si stringeva nelle spalle, e diceva come al solito: "Io non so" Del resto Giovanni non osava neppure insistere colle interrogazioni, perché la Matta era tanto crucciata quei giorni; non mangiava ed aveva sempre gli occhi rossi e gonfi di nuove lacrime. Forse c'era qualcuno malato in casa della sua balia. Gli anni si succedevano. Giovanni aveva davvero un ingegno eccezionale, studiava con ardore, parlava bene, scriveva con arte, ed era anche poeta. Colla sua istruzione e coll'età, cresceva anche il suo amore e si faceva serio. A misura che il giovinetto diventava uomo ed imparava a conoscere il mondo, rettificava i giudizi erronei dell'inesperienza, e la sua passione diveniva meno romanzesca e più vera. L'unione fraterna, che aveva accettata un momento colla fantasia, lo faceva sorridere. Era tornato sempre nell'autunno a Fontanetto, ma, appunto perché s'era fatto uomo, non aveva più ottenuto d'esser solo con Rachele. Ma ormai si sentivano uniti come se si fossero fidanzati. I loro occhi, che si attiravano come se li unisse una corrente elettrica, le loro mani che si stringevano febbrilmente l'una all'altra, e si staccavano lente ed a stento, li legavano come una promessa. Avevano una lunga storia d'amore calda, viva, interessantissima da rammentare, e tutta così, senza parole. Anche il signor Pedrotti era espansivo con Giovanni, mostrava di volergli bene. L'ultimo anno poi, quando il giovine tornò colla laurea, gli fece tali dimostrazioni d'affetto da rassicurarlo completamente. Era evidente che nulla avrebbe amato meglio che di chiamarlo suo figlio. Intanto però era venuta l'antivigilia della partenza di Giovanni per Milano, dove andava a cominciare la sua carriera legale; era finito l'ultimo pranzo in casa Pedrotti; e le cose stavano sempre allo stesso punto. Quel giorno però il signor Pedrotti era stato affettuosissimo per Giovanni. Lo aveva abbracciato chiamandolo ripetutamente: "Il nostro avvocato". "Eccoti avviato ad una bella carriera" gli aveva detto. "Non mancarmi, sai. Bada che ho promesso di fare di te un grand'uomo. Ho avuto fede in te; ed ora che hai la laurea, tocca a te darmi ragione". Poi l'aveva abbracciato ancora ed aveva detto: "Chissà che non ti vediamo deputato e non dobbiamo ricorrere a te per il bene del nostro paese. Chissà! Se lo vuoi... Volere è potere. Tutto questo era detto bonariamente, ma in realtà, più per ricordare la parte ch'egli aveva avuto al conseguimento di quella laurea, e per atteggiarsi a protettore, che per ammirazione di Giovanni. Ma Giovanni raccoglieva quelle parole religiosamente. "Ho avuto fede in te". "Volere è potere". Egli voleva ottenere Rachele; e poiché il padre di lei aveva fede nel suo ingegno, perché non potrebbe? Anche Rachele pensava forse così, perché osservava con occhio di compiacenza quelle amorevolezze del babbo verso il suo innamorato. Più tardi, quando Rachele gli porse la chicchera del caffè, Giovanni le susurrò: "Bisogna ch'io le parli prima di partire". "Parli" disse lei, fermandosi come per porgergli la zuccheriera. Egli afferrò colla molletta un pezzo di zucchero, e riprese: "No, dobbiamo esser soli". Ella non fece nessun atto di sdegno, e lo guardò soltanto esitante, come per dire che non era possibile: "Il giardino è buio, non si può uscire". "Ora no; ma domani, se verrà sul terrazzo, io traverserò il Sissone al ponte dove l'acqua è bassa, e verrò sotto..." Egli non vedeva altro mezzo per innalzarsi fino all'unica erede del signor Pedrotti, che allontanarsi dal suo paese e da lei e lavorare lungamente e con coraggio in una grande città. Ma temeva che, mentre egli preparava laggiù il suo avvenire, un altro, un ricco possidente, venisse a domandare Rachele a suo padre, e se la portasse via. Questo pensiero lo tribolava, e diminuiva il suo coraggio. Aveva bisogno di levarselo dal cuore come una spina. Per questo aveva risoluto di domandare prima a Rachele, poi al signor Pedrotti una promessa solenne, da portarsi con sé come un talismano. Il giorno dopo Rachele ebbe l'emicrania, e preferì prendere l'aria tranquillamente sul terrazzo, mentre il signor Pedrotti saliva co' suoi amici al vigneto, dove le viti erano sfrondate, e non offrivano più riparo agli amanti, i vini avevano finito di bollire nei tini, ed i possidenti sedevano a giocare una partita di bazzica nel salotto del villino, colle vetrate chiuse. Giovanni giunse sotto il terrazzo per la via del fossato, e si fermò col capo in su, mezzo nascosto dai rovi che crescevano sulla ripa. Rachele era appoggiata al parapetto del terrazzo, tutta convulsa e pallida, come se avesse l'emicrania davvero. Era la stessa ora silenziosa, la stessa aria umida e fredda d'autunno, la stessa penombra, lo stesso isolamento di tre anni prima. Ma in quei tre anni le loro anime erano maturate alla vita; erano scese dalle nuvole. Giovanni era avvocato ed aveva ventidue anni. Non ebbe esitazioni; non rigirò le frasi. Era l'ambiente dell'amore, l'ambiente della confidenza, l'ambiente del tu. Non poteva arrivare neppure a prenderle le mani, ma alzò verso di lei il volto innamorato, e colla sua bella voce le disse: "Senti, Rachele; ho bisogno che tu rinunci ad amarmi come un fratello. Non siamo più due giovinetti ingenui: lo sai, lo comprendi che quell'amore ideale non mi basta". "Sì, lo so" sospirò la Rachele, tutta rossa e vergognosa, ma sincera. Egli la guardò lungamente in silenzio, mettendo in quello sguardo tutto l'ardore delle carezze che avrebbe voluto farle se avesse potuto giungere fino a lei; poi tornò a dire: "Mi permetti di domandarti a tuo padre prima di partire?". "Oh sì, sì!" susurrò la Rachele amorosamente. Egli continuò come se parlasse fra sé, rapito in estasi da quel consenso, che era la più grande delle espressioni d'amore. "Spero che non avrai a pentirti di questa parola, cara. Vedrai; non sono delle illusioni giovanili che mi creo. Ho la certezza di farmi un bel nome, di acquistarmi una situazione degna di te. Tu non sai, nessuno sa, la forza e le inspirazioni buone che mi dà il tuo amore. Se diverrò qualche cosa, lo dovrò a te, perché sei tu che mi sproni alle ambizioni nobili, al lavoro, al bene. È per ottener te, che desidero prendere un posto nel mondo, e guadagnare del denaro". Queste parole le diceva sommessamente, con tale accento di passione, che Rachele si sentiva stemprare il cuore nell'udirle. Non rispondeva che collo sguardo fisso ed appassionato. Egli riprese: "Credi che avrei studiato, che avrei un grado accademico a quest'ora, se non fosse per te? Io ho nel cuore tutti i germi delle passioni, e le tentazioni laggiù a Torino li riscaldavano potentemente per svilupparli. Se non avessi avuto quel gran desiderio di te che mi riempie l'anima, avrei presa la vita allegramente, avrei perduti i miei anni di studio, avrei disgustato tuo padre e gli altri, e sarei tornato qui a custodire le pecore, come diceva il mio babbo, o sarei rimasto uno degli spostati che vivono di ripieghi in città fra la miseria ed il vizio. Sei tu che m'hai salvato e m'hai spinto al bene. Ed ora devi sostenermi ancora, mettendoti là, al termine delle mie fatiche, come il mio premio, la mia meta, la gioia ed il riposo della mia vita". Alzò tutte e due le mani, come per implorare di stringere le sue malgrado la distanza. Ella si sporse, si curvò sul parapetto; ma non si raggiunsero. Allora Giovanni si sentì preso da scoraggiamento al vedersi così diviso da lei, e le disse: "Oh Dio! E se il tuo babbo mi dicesse di no?". "Per carità; non pensarlo" rispose Rachele. "Sarebbe terribile". "Ma se mai, di', cosa faresti?". "Morirei" susurrò la giovinetta. "No, no. Questi sono romanzi" disse Giovanni con impazienza. "E poi, io non voglio che tu muoia. Voglio che tu viva e che tu sia mia ad ogni costo. Di', lo sarai?" "Sì". "Anche se tuo padre non vuole?" "Questo è impossibile". "Perché?". "Perché... non so; non potrei resistere a mio padre: l'ho sempre obbedito, e lui m'ha sempre voluto bene...". Poi, come scacciando un'immagine triste, soggiunse: "Ma via non pensiamo al male. Ti dimostra tanta affezione: ha detto oggi che ha fede in te. Perché vuoi che ti rifiuti?". "È vero" ripetè Giovanni, "non pensiamo al male". Poi, cercando di aggrapparsi alla riva, domandò: "Mi vuoi bene?". Ella portò alle labbra la punta delle dita, e gli mandò un bacio senza sorridergli, seria e commossa come chi assume un impegno grave. Giovanni s'aggrappò con una mano sola alla ripa, per sollevarsi fino ad un piedino di lei che sporgeva tra le colonnette del terrazzo, lo strinse amorosamente coll'altra mano e lo baciò. La vasta pianura era coperta di nebbia e pareva il mare. Si distingueva appena, al di là del fossato nero, la linea cretosa della strada comunale. Sull'orlo della strada passava e ripassava un'ombra nella nebbia, e tratto tratto si fermava a guardar Rachele, ed a guardare giù nel fossato. "Addio" susurrò la Rachele. "Bisogna andar via, ci guardano". Ma Giovanni la rassicurò mentre s'allontanava: "Non badarci; è la Matta". Giovanni passò la notte a disporre ogni cosa per la sua partenza. Non andava più all'Università; non riceveva più la pensione dei suoi mecenati. Andava a Milano nello studio d'un avvocato famoso, dove doveva fare il suo tirocinio, per poi esordire nel foro. Egli non dubitava di nulla. I suoi anni di studio erano stati una serie di trionfi. La stima dell'avvocato Berti, che lo prendeva con sé, gli appianava la via. E l'amore gli giubilava nel cuore. Il Dottorino quella notte rientrò in casa assai tardi. Aveva bevuto qua e là ed era allegro. Nel passare dinanzi all'uscio aperto della cucina, gli parve di vedere, sullo scalino del focolare spento, un corpo raggomitolato che si dondolava gemendo. "È il gatto" pensò il Dottorino a cui il vino aveva tolto il senso esatto delle proporzioni; e tirò via. Ma non era il gatto; e fino al mattino quel corpo raggomitolato continuò a dondolarsi ed a gemere nell'oscurità. Giovanni si vestì cantando un'aria d'amore. Le sue note di tenore non erano mai risonate così alte e belle. Scese le scale cantando, e, giù nella via, nel silenzio del mattino, s'udì perdersi in lontananza quella voce solitaria. Errò per le straduzze dei colli cantando ancora, declamando versi, cominciando dei castelli in aria, interrompendoli, riprendendoli daccapo, agitato, impaziente. Finalmente alle dieci entrò al castello, e domandò di parlare al signor Pedrotti. Ma la sola vista del servitore che l'introdusse, diminuì d'un grado la sua sicurezza. Traversò la stanza da pranzo deserta: e le grandi credenze spolverate, le piramidi di piatti di porcellana, le buste d'argenteria chiuse, colla cifra sulla placca, lo rattristarono. Che distanza, mio Dio, dalla sua nudità a quella ricchezza! Poi passò pel salone buio, colle cortine abbassate, le imposte chiuse; e gli enormi seggioloni coperti dalle fodere grigie, coi sedili sovrabbondanti e protesi, gli parvero un'adunanza di proprietari panciuti, che stessero ad aspettare con sussiego la sua domanda per discuterne fra loro. Finalmente entrò nello studio, freddo, rigido nella sua nudità. C'erano poche sedie ed una scrivania; ma ai due lati della scrivania si rizzavano due alti casellari con una infinità di cassette, e sopra ogni cassetta era scritto, in grossi caratteri di stampa, il nome di una possessione. Il signor Pedrotti stava scrivendo in un libro mastro; alzò un momento il capo e disse: "Ah! Dunque te ne vai? Aspetta un momento che finisca questa nota". Tutto il coraggio di Giovanni era svanito. Si sentiva tremare il cuore al momento d'affrontare la grande questione. Leggeva macchinalmente i nomi delle terre: Il Gentilino, La Peveraccia, Sant'Antonio al Fosso... Erano piccole proprietà, ma erano proprietà; egli le conosceva tutte, e ne ignorava il valore. Le contò; erano quattordici. E gli parvero quattordici nemici chiamati là per attestare della sua miseria. Il signor Pedrotti chiuse il libro, e si alzò tornando a dire: "Dunque te ne vai, figliolo?". "Sì. Vado a cominciare la mia carriera..." rispose Giovanni. "E fai le tue visite di congedo?" domandò il proprietario, tanto per parlare. "Sì..." "Sei stato dal conte Valli, e dal parroco?..." "No, sono venuto prima da lei..." "Bravo, ti ringrazio. Vuoi restare a colazione qui? Saluterai anche Rachele". Giovanni si sentiva venir freddo, aveva le mani diacce e bagnate di sudore, ed il cuore gli balzava così forte che ne aveva il respiro corto e la voce tremante. Ma tuttavia quell'accoglienza buona lo incoraggiava, e, fermo nel suo proposito, disse: "No, grazie. Sono venuto per parlare a lei... d'una cosa importante... pel mio avvenire...". "Di' pure; in quel che posso" rispose il signor Pedrotti con aria di protezione. Poi soggiunge, vedendolo intimorito: "Ma non aver paura, il tuo avvenire è sicuro; hai ingegno, sei appoggiato ad un avvocato valente... Lavora, abbi coraggio, e vedrai; sai che ho sempre avuto fede in te. Il mondo è dei giovani, mio caro". "Sì; ma bisogna che i vecchi, cioè, quelli che non sono più giovani, ci aiutino un poco". "E ti hanno aiutato mi pare" disse il Pedrotti un poco adombrato dalla parola vecchi, e dalla paura che Giovanni non apprezzasse abbastanza le sue larghezze passate e ne domandasse di nuove. "Sì: e se sono qualche cosa, lo devo a loro" assentì Giovanni sempre più tremante. "Ma sa, tutti abbiamo delle aspirazioni; io vorrei diventare qualche cosa di più". "È giusto. L'ambizione fa i grandi uomini e le grandi cose" sentenziò il Pedrotti, usando una frase che aveva letta nel suo giornale. "Ebbene, mi fa piacere che dica così, perché ho una grande, grande ambizione" balbettò Giovanni, che ormai non poteva più frenare gli sbalzi della sua voce soffocata e commossa. "Bravo! E, si può conoscerla quest'ambizione?" domandò bonariamente il proprietario. "Vuoi diventare deputato?". "No. Voglio... voglio... sposare sua figlia" susurrò Giovanni con un mormorio appena percettibile. Il signor Pedrotti si rizzò sulla poltrona; lo guardò fisso cogli occhi sgranati, e stette un tratto senza trovare una parola da rispondere. Poi ripeté, come se non fosse certo d'aver capito: "Sposare mia figlia!". Giovanni chinò il capo come un colpevole, e lanciò il suo miglior argomento cavato dal fondo del cuore: "Le voglio tanto bene!". "Ti ringrazio dell'onore" disse con ironia il signor Pedrotti. "E lei pure vuol bene a me" soggiunse Giovanni, in cui l'indignazione era pronta, e ravvivava il coraggio. "Me ne congratulo tanto, ma sai cos'ha di dote mia figlia?" "Io non gliel'ho domandato, e la sposerei soltanto quando avessi altrettanto anch'io". "Ah bene: allora ne riparleremo". Ed il proprietario si rizzò indispettito come per chiudere la seduta. Ma Giovanni aveva ripreso ardire a quel rifiuto scortese, ed insistette: "Mi basta che lei prometta di non darla ad altri, e di concederla a me quando mi sarò fatto un nome ed una rendita". "Oh! io non firmo cambiali a così lunga scadenza" disse il signor Pedrotti facendo una spallucciata ed avviandosi all'uscio. "Non m'ha detto che ha fede in me?" domandò Giovanni con accento di rimprovero. "Oh, mi pare che basti!" gridò il possidente con un impeto di rabbia e picchiando un piede in terra. "T'ho dato retta anche troppo. Cosa ti credi d'esser diventato, per quello straccio di laurea che abbiamo pagato noi? Mia figlia non è per te, né ora, né mai. Mettitelo bene in testa. Voglio che faccia un matrimonio degno di lei e di me". "Ma posso diventarlo anch'io degno di lei" ribattè Giovanni fremente di sdegno. "Nossignore!" proruppe l'altro gettandogli quella parola in faccia come una ceffata. "Nossignore! Il figlio del Dottorino non sarà mai degno di mia figlia. Vattene, e che io non ti veda mai più vicino alla mia casa. Per Dio!" E sbatacchiò l'uscio dietro il povero innamorato, con un rumore più eloquente delle sue stesse parole. Giovanni traversò il paese quasi di corsa, col viso infiammato, e tutti i nervi vibranti di sdegno. Salì nella sua stanza; vi si rinchiuse con impeto, come se, alla sua volta, sbatacchiasse l'uscio in faccia a quel ricco che lo aveva disprezzato. Poi si mise a scrivere a Rachele: "Tuo padre è un villano, tuo padre non ha cuore" e tirò via a narrare febbrilmente tutto il dialogo avuto col castellano, intercalato da continui io dissi, egli rispose Ma dopo i primi periodi, fermandosi per riordinare il discorso nella sua memoria, si trovò nel falso in quella parte di denigrare il padre presso la figlia. Gli parve di rimetterci della sua dignità, e preferì scrivere quanto gli stava più a cuore. Ieri fummo troppo ottimisti. Non abbiamo voluto prevedere il male, ed il male è venuto, e ci trova impreparati. Tuo padre mi ha negata la promessa che imploravo, e mi ha chiusa la porta della tua casa. Sono profondamente offeso: ma se tuttavia potessi sperare in te, non sarei scoraggiato. Mi sentirei capace di provargli che l'ingegno è assai più della ricchezza. Ieri m'hai detto una parola terribile. M'hai detto che non potresti resistere a tuo padre. Dunque gli obbedirai? Mi respingerai da te, per sposare qualche ricco, proprietario di fondi più o meno irrigatorii? Non ho il coraggio di pensarlo. Desidero, spero e domando che tu mi serbi la promessa d'esser mia, d'aspettarmi. È una domanda ardita, e sarebbe da parte tua una grave promessa. Pensaci. Amante e disperato come sono, non voglio tuttavia strappartela con un'illusione. Non verrà presto il giorno della felicità. Saranno degli anni che dovrai aspettarmi; io mi sento l'energia e la capacità di fare una bella carriera. Ma per presentarmi a tuo padre, dopo quanto m'ha detto, non basta che io abbia una bella rinomanza, e buoni guadagni. Debbo avere un capitale da mettere sull'altro piatto della bilancia, per far riscontro a quell'odiosa dote che ti darà; ed un capitale non si accumula facilmente. Forse passerà lungo tempo, prima ch'io possa reclamare l'adempimento della tua dolce promessa. Ed intanto saremo divisi, nessuno ti parlerà di me. Tuo padre ti presenterà altri pretendenti cari al suo cuore, e tu dovrai respingerli, lottare; e s'egli indovinerà la causa de' tuoi rifiuti, saranno scene di discordia che ti avveleneranno la vita. È molto, è troppo domandare tanto ad un povero cuore di donna; ed io stesso, che ti rivolgo quest'ultima preghiera in nome del mio amore, del nostro amore, non oso sperare che tu l'esaudisca. Ma se mai, se nel tuo cuore c'è forza bastante per questo sacrificio, metti una parola, un sì, nel volume dei Promessi Sposi che ti prestai e che la Matta ridomanderà per avere un pretesto di presentarsi in casa tua, dove io sarei discacciato. O Rachele! Se troverò quella parola scritta da te, ti benedirò dal fondo dell'anima; e mi darà tanta forza, tanto ardore, che mi sentirò padrone del mondo. Consacrerò tutte le ore, tutti i minuti della mia vita a lavorare per compensarti del tuo nobile sacrifizio, e quando sarò spossato, consacrerò ancora i miei riposi ad adorarti. Ma è troppo sperare. Non voglio illudermi. Tu sei donna e sei giovine. Tuo padre ti ama, e ti sei avvezza ad obbedirlo in tutto. È il tuo dovere, povera cara. Il libro verrà senza la gioia che aspetto. Ed io penserò che mi ami, che soffri, che piangi, ma che ti rassegni, e mi abbandoni al mio destino. Mi farai un gran male, cara; un gran male. Ma ti amo tanto, che ti perdonerò. Quand'ebbe scritto, chiuse la lettera, e scese a cercare la Matta. La trovò in cucina accoccolata sullo scalino del focolare che si dondolava gemendo. La chiamò, e le disse, spiccando le parole perché potesse capirle: "Vai al castello. Di' che ti mando io a riprendere quel libro che ho prestato alla signorina". La Matta stava tutta imbronciata ed a capo chino, come se non volesse obbedire. "Hai capito?" domandò Giovanni. Ella si contorse tutta e borbottò: "Io non so". Ma Giovanni s'impazientì, ed insistette colla voce alterata: "Ho assolutamente bisogno che tu faccia quest'imbasciata. Ripeti come dico io". E tornò a dire: "Mi manda il signor Giovanni...". La Matta lo guardava fisso; lo vide pallido, agitato, tremante; allora, con tutta l'attenzione di cui era capace, imparò la lezione. Quand'ebbe detto, Giovanni riprese dandole una lettera: "Quando sarai entrata dalla signorina, e nessuno ti potrà vedere, le darai questa lettera; ma bada, che non veda nessuno". La Matta prese la lettera esitando, ed uscì lentamente e di mala voglia. "Sbrigati!" le gridò dietro Giovanni. "Per amor del cielo, sbrigati!". Ella accelerò un momento il passo; ma, appena ebbe svoltato la cantonata, si fermò, cavò di tasca la lettera, la osservò da tutte le parti, guardò la soprascritta; ma non seppe leggere che gli o. La ripose sospirando, e tirò via lentamente verso il castello. Giovanni intanto fremeva; contava i minuti. Finalmente, non reggendo più alla sua impazienza, uscì incontro alla serva. La vide che tornava rasentando il fossato del castello, a passo lento, a capo chino. Appena s'accorse di lui, voltò indietro come se volesse sfuggirlo. Ma egli la raggiunse, e le tolse di mano il libro. "No, lo porto io" disse la Matta. Giovanni non diede retta. Ella stese la mano per pigliare il volume. Tremava, era turbata e diceva: "Vuol portarlo lei? Tocca a me di portarlo". Ma Giovanni la respinse e corse a casa, tenendo stretto il libro fra le mani. Appena fu in camera aperse la copertina tremando, e non ci trovò nulla; scosse nervosamente il volume, e non ne uscì nulla. Allora, pallido, ansimante, colle mani convulse, passò tutti i fogli ad uno ad uno. Ma non trovò nulla. "Ah, lo prevedevo!" sospirò. "L'ha detto che non avrebbe mai potuto resistere a suo padre". Poi soggiunse: "Anche lei! Ebbene vedrà...". Uscì, camminò frettoloso pel paese, entrò a congedarsi dai suoi protettori, coll'aria spavalda, parlando con agitazione febbrile del suo avvenire, della sua prossima fortuna. Aveva un'aria di sfida che quei signori trovavano strana. Gli rispondevano meravigliati: "Ma bene, bene, ragazzo. Se farai fortuna, meglio per te. Io te l'auguro". E poi quand'era uscito pensavano crollando il capo: "Con chi l'ha? Sembra che abbia bevuto". Giovanni tornò a casa col carrozzino che doveva condurlo a Borgomanero alla stazione della strada ferrata. Entrando nella sua camera per pigliare la valigia, sorprese la Matta che guardava ancora curiosamente il volume riportato dal castello. "Lascia stare!" le disse con dispetto. E strappandoglielo dalle mani, gettò la preziosa seconda edizione dei Promessi Sposi sull'ultimo palchetto in alto della libreria. Poi salutò in fretta suo padre, salì nel biroccino e partì. "Anche lei! Ebbene, vedrà!" aveva borbottato ancora Giovanni ripassando, nel calessino sgangherato, accanto al fossato del castello. O la Rachele s'era lasciata convincere dalle ragioni grossolane di suo padre, o aveva ceduto, anche non convinta, alla sua autorità. Ad ogni modo non aveva saputo amarlo coll'energia ch'egli sperava; aveva diffidato di lui. Questo gli metteva una grande amarezza nell'anima; ma non lo scoraggiava; lo spronava più che mai a lavorare, a conquistare un posto in società per poterle dire: "Vedi che hai avuto torto a dubitare di me!". Aveva creduto un momento d'aver bisogno d'una promessa di lei per sostenere il suo coraggio; ed ora invece la mancanza di quella promessa rinfocava il suo ardore, perché gli dava la paura di non giungere in tempo. Bisognava che s'affrettasse, che diventasse rinomato e ricco presto, subito, finché la Rachele era fanciulla, prima che un altro la sposasse. Quest'idea gli accendeva la febbre nel sangue. Egli confondeva il lungo avvenire col fuggevole presente, gli pareva di dover correre sempre, affrettarsi sempre, non perdere un minuto, come se incominciasse una gara alla corsa con un competitore immaginario. Il passo del ronzino malandato che lo trascinava trotterellando verso la stazione di Borgomanero lo faceva fremere d'impazienza. Quando fu nella carrozza di ferrovia trovò lenta la locomotiva come il ronzino, si dimenò sul sedile, alzò ed abbassò i vetri, cavò fuori l'orologio, poi l'orario, contò le stazioni, fece il controllo dei minuti, ed a Novara si lagnò con un impiegato, perché c'erano stati novantacinque secondi di ritardo. Quasi due minuti perduti pel suo avvenire. I primi tempi del suo soggiorno a Milano furono come un secchio d'acqua su quell'ardore. Il signor Pedrotti, nel raccomandare quel povero figliolo all'avvocato Berti un mese prima, gli aveva scritto: "Badi che non ha altro, fuorché quello che potrà guadagnare nel suo studio; cerchi di procurargli un alloggio economico, e se è possibile, anche una pensione adatta a' suoi mezzi, da povero figliolo com'è". L'avvocato Berti gli aveva assegnate cinquanta lire al mese, e gli aveva trovata una camera presso un fabbricante di zoccoli e forme da scarpe, a due passi dal suo studio. Non era veramente una camera; anzi, due anni prima, faceva parte dei metri cubi di spazio che costituivano la bottega. Poi il fornaio aveva preso moglie, ed allora aveva fatto dividere per metà la bottega tagliandola orizzontalmente, e nel mezzanino superiore aveva posto il letto coniugale. Più tardi la moglie, che era sparagnina, aveva immaginato di rizzare un tramezzo nel mezzanino, e farne due. Così, da una sola bottega, avevano finito per cavar fuori una bottega e due stanze. La prima stanza, però, era una specie di atrio aperto, perché vi metteva capo, mediante un largo buco praticato nell'assito, la scala a chiocciola che poneva in comunicazione la bottega coi mezzanini. Ma questo non aveva impedito di collocarvi un letto contro la parete, una tavola greggia dall'altra parte, due seggiole, e di affittare quella stanza mobiliata per dodici lire al mese. La scarsità dei mobili però non lasciava il vuoto nella stanza. Le pareti ed il soffitto erano riccamente ornati da mazzi enormi di zoccoli e forme, che, riuniti pei talloni, si allargavano come i raggi d'una ruota, come le punte d'una bomba. Intorno all'arco della bottega, che serviva di finestra al mezzanino, lungo la scala, e tutt'intorno all'apertura che sbucava nella stanza, pendevano disuguali ed appuntati quegli innumerevoli piedi. Bisognava salire guardinghi, badar bene dove si arrivava col capo, e non portar mai il lume acceso. Era l'alloggio toccato a Giovanni; egli non era schifiltoso. "Poiché costa poco" aveva detto, "e per questo prezzo non si può aver di meglio...". E la moglie del fornaio, incoraggiata da quella facilità di contentatura, s'era arrischiata a dirgli: "Se poi volesse adattarsi anche a mangiare la minestra con noi...". "Ma ti pare!" l'aveva interrotta il marito. "Eh! Lascia, lo dico nel suo interesse, perché gli costerebbe poco; del resto se non gli conviene..." Ed a Giovanni era convenuto, a trenta centesimi al giorno, compreso un sorso di vino. Ma alla bella prima aveva dovuto convincersi, che, pel suo stomaco di vent'anni, quella non poteva essere che la colazione; ed ancora, lasciandogli un florido appetito pel pasto seguente. Pel desinare aveva quindi dovuto pensare a trovarsi una pensione, dove pagava trenta lire al mese. Così furono collocate le cinquanta lire del suo stipendio, più una. Quell'una e le spese di lume, lavatura, stiratura, vestiti, scarpe e tutto il resto, bisognò che il giovine avvocato s'industriasse a guadagnarsele. Dallo stesso avvocato Berti poté avere l'incarico di copiare atti legali, di riordinare e di mettere in netto dei vecchi minutari, e tratto tratto di tradurre qualche brano d'un trattato inglese o tedesco. A questo modo Giovanni riuscì a sbarcare alla peggio il suo magro lunario. Ma il Berti lo occupava nello studio tutte le ore del giorno, e non gli rimanevano, per quei lavori e guadagni supplementari, che le prime ore del mattino, e la sera. Per poco che dormisse, nelle ventiquattro ore della giornata non ce n'era una di troppo per lui. Quel mezzanino non aveva camino né stufa. L'assito mal connesso lasciava entrare l'aria fredda della bottega, dov'era un continuo aprire l'uscio, e dove le mura stillavano umidità. Il fornaio diceva che era meglio così, perché non c'era pericolo che la sua mercanzia di legno secco prendesse fuoco. Ma questa considerazione non impediva a Giovanni di sentirsi le membra irrigidite e le mani paralizzate dal gelo nelle lunghe sere d'inverno, che passava solitario a scrivere al lume d'una lucernetta a petrolio. Ed anche questa era causa di continui rabbuffi da parte del fornaio. Appena la sua grossa testa, ricciuta in giro e calva nel mezzo come quella d'un san Giuseppe, spuntava dal suolo, alzandosi a misura che saliva la scala, si cominciavano a sentire delle ispirazioni rumorose, come di chi cerca di riconoscere un odore; poi una serie di "Uhm! Uhm!" gli contraeva le grosse labbra, e finalmente, mentre il passo pesante dell'omaccione faceva tremare la stanza, lo s'udiva borbottare: "Questo maledetto petrolio! Con tanto legno intorno! Ma! Ma!". Giovanni tirava via a scrivere. Ma le recriminazioni proseguivano dall'altra parte del tavolato fra i due coniugi, che in causa di quel tenue tramezzo, non aveva segreti pel loro inquilino. Del resto non erano cattiva gente; ed il giovine avvocato, che badava alla sua meta, li lasciava dire. Sovente nel dicembre, quando il freddo era più intenso, l'udire quei due, che si voltolavano tepidamente nel loro letto di foglie di grano turco, evocando quelle immagini ardenti di fuoco e d'incendio, gli dava una tale smania, che avrebbe voluto erigere una pira di forme, di zoccoli e di trucioli, e sgranchirsi deliziosamente alla vampa. Ma poi pensava a Rachele, e diceva: "Un giorno saprà quanto ho sofferto per lei". E ci metteva dell'orgoglio a sfidare quei patimenti, ed a sentirsi eroico. Nel segreto della sua stanza trovava modo di gloriarsi così della sua povertà. Ma fuori ne era sovente umiliato. Fin dai primi tempi della sua entrata nello studio, gli altri praticanti gli avevano detto ch'era l'uso fra loro di festeggiare con un pranzo la venuta di un nuovo compagno, il quale poi, dal canto suo, ricambiava con un pranzo la cortesia ricevuta. Giovanni aveva lasciato cadere il discorso. Ma l'anziano dello studio, che conosceva le circostanze d'un esordiente povero, aveva soggiunto per incoraggiarlo: "Non sono banchetti da Lucullo, sa? Si desina a cinque lire a testa". Ma erano quattro; e venti lire erano ancora una somma esorbitante per Giovanni. Per qualche tempo non se n'era riparlato, ed egli pensava, tra contento e mortificato: "L'avranno capita". L'avevano capita infatti, e dopo tre settimane l'anziano disse a Giovanni a nome di tutti, e presenti tutti: "Sa? Abbiamo combinato di pregarla di venire a desinare con noi alla Magnetta, per festeggiare il suo ingresso nello studio. È il solito pranzo... se vuol favorirci...". Giovanni rimase male, e si fece tutto rosso. Sentiva che avrebbe dovuto rispondere che ringraziava, e sperava che il tal giorno, prossimo, avrebbero favorito tutti loro a pranzo con lui... Ma pensava a' suoi pochi quattrini, al nessun credito, e l'impossibilità gli strozzava le parole in gola. Allora l'anziano, che era uomo di buon cuore, soggiunse: "Non importa che lei ce lo renda, sa! Senza complimenti...". Era una ceffata, e Giovanni se ne sentì tutto indolorito. Quella sera la sua povertà gli fu grave di molto; avrebbe dato dei pugni contro il cielo. Entrando nella bottega i trucioli che scricchiolavano sotto i suoi passi lo impazientirono; li cacciò di qua e di là coi piedi, borbottando, e s'avviò su per la scala, senza badare ai pendagli di zoccoli e forme che sporgevano da tutte le parti. Al primo mazzo di forme che gli urtò un fianco, lo respinse con mal garbo. "Badi!" gridò il fornaio dalla bottega. Ma Giovanni aveva esaurita la sua misura di pazienza; crollò dispettosamente le spalle e riprese a salire in furia, spingendo gli ingombri a destra ed a manca. Nell'arrivare in cima, urtò col capo in un mazzo enorme di zoccoli, che uscì dall'uncino, e cadde rotolando, percotendo, rimbalzando con un fracasso di cocci e di ghiaia. Il fornaio e la moglie balzarono in piedi urlando tutti e due, e per tutta la sera, dalla bottega, coi rumori della pialla e della sega, salirono al mezzanino le recriminazioni dei due coniugi scandolezzati. Più tardi Giovanni, che, incapace di lavorare, s'era cacciato in letto a ruminare la sua vergogna, li vide traversare la sua stanza portando con aria funebre il mazzo di zoccoli caduto, come un ferito che la loro pietà fosse costretta a ricoverare altrove, per metterlo al sicuro contro gli attentati di quel nemico violento, a cui lanciavano occhiate sdegnose. Dopo d'allora la vita del giovine avvocato si fece anche più penosa. In casa nessuno gli rivolgeva più la parola. Mangiava la colazione in silenzio, mentre la zoccolaia si agitava per la bottega sfaccendando e scopando, ed il marito le diceva tratto tratto con ironia: "Bada a non spingere i trucioli fra i piedi al signore. Aspetta a scopare che non lo impolveri". E la sera, quando Giovanni saliva in camera, il grosso operaio lo precedeva lungo la scala colle braccia stese per allontanare gli zoccoli e le forme, facendogli come un derisorio arco di trionfo. Allo studio poi, era sempre imbarazzato per quel pranzo che non aveva ricambiato. Era un'ombra che si frapponeva tra lui e gli altri praticanti, ed impediva la confidenza. C'era una serie di discorsi che evitava per non richiamare quell'idea che lo faceva arrossire. Non parlava di locande, né di pranzi, né d'inviti, e, se un altro domandava ad un compagno: "Vuoi che oggi pranziamo insieme?", gli pareva un'allusione ironica e si sentiva rodere. Un giorno s'accorse che i praticanti avevano un pranzo in comune pel natalizio d'uno di loro, e ne parlavano piano per non essere uditi da lui. Questa delicatezza lo ferì come un insulto. Si propose di ricambiare ad ogni costo il banchetto ricevuto. Soppresse il vino nel suo pranzo d'ogni giorno, vegliò più tardi al lavoro, e, dopo due mesi, si trovò in caso di fare il grande invito, con venticinque lire raggranellate e lesinate a soldo a soldo. Aveva calcolato che non ci voleva di meno per la mancia al cameriere, il caffè, i sigari, e le spese imprevedute. Erano venticinque goccie del suo sangue. Ma quando uscì dalla locanda seguito dai tre praticanti, colla testa un po' grave per un bicchiere di cattivo vino di più, e la borsa leggera per quelle venticinque lire di meno, gli parve d'avere ottenuta una riabilitazione, e pensò rivolgendo la mente a Rachele: "Voglio poterle dire che, anche nei giorni più difficili, non mi sono lasciato avvilire". E l'approvazione di lei, che sentiva d'aver meritata, lo compensò delle privazioni sofferte, assai più che la vanità d'aver ricambiato l'invito. C'erano delle epoche in cui la sua povertà gli riesciva penosa di molto. Una era il carnevale, e specialmente la fine, l'ultima settimana. Tutto il giorno, fra i suoi compagni di studio, era un continuo ciarlare di serate godute e da godere; un discorrere sconclusionato, a sbalzi, con delle allusioni che Giovanni capiva alla sua maniera e che lo eccitavano: "Quale preferivi ieri sera? La bionda? Non sei di cattivo gusto. Che carnagione! E che abbigliatura! Quella ne spende de' quattrini! Brrr!". Giovanni si metteva a scrivere in fretta, faceva scricchiolare la penna per assordarsi; ma quelle parole s'insinuavano tra le frasi legali che andava stendendo sulla carta, gli empivano la fantasia di visioni, di desideri, di curiosità acute. Era impaziente d'uscire di là per distrarsi da quelle idee; ma quando ne usciva era peggio: le strade erano affollate di gente rumorosa, allegra, ben pasciuta; pareva che la città fosse piena di denaro; i più umili operai ne spendevano e si davano bel tempo. C'era un formicolio di piccoli industriali e commercianti vagabondi, che andavano vendendo stampe, caricature, bosinate, fiori di carta, coccarde, medaglie, e decorazioni burlesche del Carnevalone; a Giovanni però non offrivano la loro mercanzia; lo guardavano con un ghigno ironico, come se dicessero: "Costui è a secco". I negozi di comestibili avevano delle mostre tentatrici; le oche grasse, i polli grossi e bianchi protendevano i loro ventri enormi accanto alle aragoste melanconiche, che movevano tratto tratto una zampa colla languidezza della loro vita agonizzante. I salami prendevano in quei giorni delle proporzioni esagerate, ed i formaggi preziosi, i tartufi, i pesci rari, i vini squisiti ingombravano le vetrine, attestando il grande assegnamento che i negozianti potevano fare sulla ghiottoneria e sulla prodigalità della gente. Presso ogni osteria, presso ogni caffè in certe ore si udiva un formidabile acciottolare di piatti, un acuto tintinnìo di bicchieri, di posate, e dalle cucine sotterranee salivano delle vampate d'aria calda ed odorosa, che evocava subitaneamente nella fantasia di Giovanni l'immagine d'una bella stanza da pranzo riscaldata, d'una tavola ben imbandita ed inondata di luce con tutte le imposte chiuse, dove si potesse isolarsi dal resto del mondo, nella beatitudine d'un buon pranzo e d'una compagnia allegra e spensierata. Quei giorni il suo desinare gli sembrava stomachevole; lo mangiava dispettosamente, tribolato dai pensieri ghiotti, e la sera non poteva lavorare; aveva l'animo amareggiato; non c'era più proporzione fra quanto guadagnava col suo lavoro, e quanto avrebbe dovuto spendere per appagare i suoi desideri; ed il lavoro gli pareva inutile. Usciva, si confondeva colla folla, si fermava alla porta dei teatri, dove la gente faceva coda per entrare. Tutte quelle persone, centinaia, migliaia di persone, avevano oltre al denaro necessario per vivere, anche quello superfluo per divertirsi. Lui solo non ne aveva; e s'aggirava, vestito leggermente, colle membra assiderate, al freddo, nella nebbia, pensando con avidità l'atmosfera ardente e soffocata dei teatri. Vedeva le maschere che correvano trepidanti dalle carrozze da nolo all'ingresso della Scala, e sparivano. Erano corpi di donne ravvolti in bianchi mantelli imbottiti, che li facevano apparire enormi; e gambe rosee, cilestrine, scarlatte, terminate da stivaletti di seta, portavano quella massa sproporzionata con certi passi precipitati, impazienti quando la folla ritardava d'un minuto il loro ingresso al veglione, frementi di precipitarsi in quel vortice di danze, di salti, di follie. Vedeva le signore scendere dalle carrozze padronali in gran toletta, coi lunghi strascichi di raso e di velluto per andar a vedere decorosamente il veglione dal loro palchetto; passavano altere lasciandosi dietro un profumo acuto. Gli uomini che le accompagnavano avevano il soprabito chiuso fino al mento, e lungo che copriva tutta la persona. Ma i guanti grigioperla che sporgevano dalle maniche ed il cappello a molla, facevano indovinare l'abito nero, la cravatta bianca, il largo sparato, il costume da serata. Giovanni se li figurava come se li vedesse in teatro già usciti dalla loro crisalide, quei grandi farfalloni neri; se li figurava belli e gaudenti, ed una malinconia profonda gl'inondava il cuore. Si stringeva intorno il suo soprabito insufficiente contro il gelo, e tremando, battendo i denti, s'affrettava verso un piccolo caffè, dove beveva un ponce per riscaldarsi, si sgranchiva un momento in quell'atmosfera calda ma impregnata d'odori d'alcool e di dolciumi, densa di fumo, opprimente, poi andava a letto per non vedere i godimenti che gli erano negati. Ma nella bassa soffitta gli giungevano ancora le grida stonate delle maschere, il rotare lento delle carrozze, assordato dalla neve come da un tappeto, o stridente sul lastrico diacciato. Il carnovale lo perseguitava anche nel letto; tutto raggricchiato per riscaldarsi sotto le scarse coperte, col capo di sotto per fuggire i fili d'aria pungenti che filtravano dai serramenti, pensava i piaceri della vita, facendoli coll'ardore dell'immaginazione più belli del vero. Si figurava i palazzi delle Mille ed una notte splendori di luce non mai visti, bellezze di donne ideali, nudità improbabili, sfarzo regale di stoffe e di gemme, ed ebbrezze d'amore. Poi, quand'era prostrato dalle lotte interne, dalle lunghe brame insoddisfatte, venivano i giorni pazzi, in cui, fin dal mattino, i carri delle maschere percorrevano le contrade a suon di banda, e le botteghe erano chiuse, e le insegne coperte da una tela bianca per proteggerle dai coriandoli. Nessuno lavorava più. Nelle strade, sui balconi, tutti gridavano. Si spandevano coriandoli da ogni parte, se ne vuotavano dei sacchi, se ne sprecavano centinaia di quintali, allegramente, ridendo, come se non costassero nulla; si gettavano fiori, arance, confetti, con una smania di buttarli via, col gusto, la rabbia dello sperpero. Pareva che tutta la popolazione, soprafatta da una ricchezza improvvisa ed esuberante, s'affrettasse a cacciar fuori dalle case quella sovrabbondanza d'averi che le ingombrava, e gioisse, tripudiasse nel levarsi d'attorno il peso di quelle superiorità eccessive. Le bande suonavano inni di gioia, tutte le voci s'alzavano in un immenso grido assordante; signori e facchini, uomini e donne, tutti giubilavano, danzavano sulle piazze, ardevano roghi, si mascheravano, gestivano pazzamente; tutti invasi da una follia gioconda. E Giovanni si sentiva solo a non aver la sua parte in quella festa dell'abbondanza e dell'allegria, solo ad aver freddo e fame; e ne provava una rabbia, un rammarico così intenso, che in mezzo a quella grande pazzia di giubilo gli pareva d'impazzir di dolore. Un'altra epoca di tortura per lui era l'estate, l'opprimente estate di Milano. Nato e cresciuto in campagna, avvezzo all'aria pura, alle colline verdi, alle gite solitarie sotto l'ombra dei grandi alberi, appena veniva la primavera sentiva la nostalgia della campagna; ed a misura che l'estate progrediva, quel desiderio d'aria pura si faceva acuto come uno spasimo. Tutti se ne andavano ai bagni, alle acque, in montagna, in Brianza, sui laghi; nelle contrade di Milano Giovanni non incontrava che gente laboriosa e stanca come lui; uomini d'affari, commercianti che avevano la famiglia in villa e la raggiungevano la domenica, impiegati che aspettavano il loro mese di congedo per fare una breve villeggiatura. Lui solo non aveva nessuno da raggiungere nei giorni festivi, non aspettava nessun congedo, doveva lavorar sempre, lavorare ogni giorno per vivere ogni giorno. La sua soffitta diveniva inabitabile; c'erano dei giorni in cui il caldo saliva a trentotto fin a quaranta gradi; allora c'era un'afa pesante che toglieva il respiro: mentre scriveva, il sudore dalla fronte, dalle tempia, gli sgocciolava sulla carta; le carni gli bruciavano; aveva sempre sete, ed ingollava con disgusto bicchieri e bicchieri d'acqua tepida, indigesta, che lo metteva tutto in sudore, e lo prostrava. La sera faceva delle lunghe passeggiate in cerca d'aria; ma sulle strade maestre, arse tutto il giorno dal sole, i piedi gli affondavano fino alla caviglia nella polvere, e ne sollevavano un tal nuvolo intorno, che gli andava in gola, lo soffocava, e lo imbiancava tutto. Lungo la strada di circonvallazione ed i bastioni, non faceva che percorrere tutta la scala degli odori puzzolenti. Al puzzo stomachevole d'una conceria, succedeva l'odore agrodolce, nauseabondo d'una tintoria che faceva il solletico in gola; più innanzi una filanda appestava l'aria col fetore dei bozzoli macerati, e gli orti spandevano intorno le esalazioni malsane del guano e dei letami. Tutto quanto era suscettibile di guastarsi sotto quei calori tropicali mandava un odore di putrefazione. Le botteghe dei salumai, i macelli, le latterie, i depositi di formaggi, le latrine, gli orinatoi, i rigagnoli, il naviglio, le spazzature delle case, tutto puzzava, tutto contribuiva a corrompere l'aria con un lezzo di fracidume, di sucideria, che sollevava lo stomaco. I pochi signori che si trovavano in città andavano in giro colla cravatta sciolta, col cappello in mano, servendosene come di un ventaglio; alcuni smettevano persino il solino. Gli operai erano scamiciati, colle maniche rimboccate e lo sparato aperto sul petto peloso; i portinai uscivano la sera sulle porte in mutande, coi piedi nudi nelle ciabatte. La domenica poi tutti uscivano dai dazi, andavano ad ammucchiarsi nelle osterie suburbane sotto i piccoli pergolati piantati in un cortile arido, che danno una languida illusione di campagna; mangiavano male, bevevano peggio, mal serviti, accaldati, impolverati; poi s'affollavano, s'ammonticchiavano negli omnibus per tornare in città, sbuffando, sudando l'uno sull'altro, asfissiandosi a vicenda colle esalazioni acri delle traspirazioni, delle digestioni difficili, delle ubbriachezze. Giovanni aveva provato una volta sola quella scampagnata degli Ambrosiani, e ne aveva avuto la febbre. Stanco, snervato, si trovava più infelice che mai in quell'ambiente al quale i suoi polmoni da campagnuolo non potevano avvezzarsi. Aveva delle visioni tormentose di grandi estensioni verdi, di acqua limpida, di alberi, di ombre, di meriggi ardenti nell'alto silenzio e nell'aria pura dei monti. Sognava una casetta bianca, colle gelosie verdi, in una vasta campagna solitaria; ci pensava con un ardore da innamorato. E quando incontrava una carrozza con un baule legato a cassetta che s'avviava verso la stazione, verso i campi, verso le frescure verdi, verso l'aria fine, provava una smania ardente d'attaccarsi dietro come un monello, poi rimaneva più triste, più scoraggiato, e malediva il destino che lo inchiodava inerte e miserabile, in una città dove aveva creduto di trovare la fortuna, la gloria e tutte le dolcezze della vita. La prima volta che il Berti gli affidò una causa, Giovanni si credé giunto alla meta desiderata. Era una causa civile fra due piccoli proprietari per un muro limitrofo. Una lite di puntigliuzzi puerili che non presentava nessun interesse. Ma egli ci si pose dentro con tutta l'anima; studiò le origini dei due possidenti e delle rispettive possessioni, risalendo alle memorie più remote. Fece uno spreco enorme di zelo, scrisse dei fascicoli di appunti, studiò la questione con un'acutezza di vedute, che sarebbe proprio il caso di chiamare degna di miglior causa. La sera, invece di sgobbare sui soliti lavori di traduzione o di copiatura, riandava tutto quello studio fatto e rifatto. Si preparava in mente il discorso che voleva pronunciare all'udienza, lo allargava, lo particolareggiava. Poi voleva udirne il suono, voleva provare i gesti. E si rizzava in piedi, serio senza troppa solennità, salutava in giro l'assito del mezzanino, e cominciava ad arringare semplicemente e con calma gli zoccoli e le forme che gli pendevano intorno. A grado a grado si animava, gli pareva di vedere, tramezzo a quei piedi grotteschi di legno, comparire la faccia bianca di Rachele che gli sorrideva per incoraggiarlo, e la parola gli veniva spontanea ed elegante coll'illusione d'essere ascoltato da lei, e si riscaldava, ed alzava la voce, finché lo zoccolaio spaurito sporgeva il capo ornato del beretto da notte per vedere se prendeva fuoco la casa. Quando si metteva a letto, stanco ed esaltato, sentiva in sé l'anima d'un legale illustre e s'inebbriava colla visione d'una vittoria che doveva stabilire la sua riputazione; pensava all'impressione che quella splendida riescita doveva produrre a Fontanetto. Gli pareva di vedere i mecenati inchinarsi a lui, il Pedrotti stendergli le braccia in atto di scusa, e tutte le comari e comarette del paese uscire sulle botteghe e sugli usci, e gridarsi l'una all'altra: "Eh! Il figlio del Dottorino? L'avvocato Mazza? Che gloria! ed ora sposa la figlia del signor Pedrotti del Castello!". Allora il suo spirito si smarriva nei sogni d'amore; saliva in un vagone solo con Rachele pel viaggio di nozze e chiudeva la sportello. Infatti, quando la causa fu discussa, Giovanni parlò come avrebbe potuto fare un avvocato provetto. Un collega, che per caso si trovava presente, andò a stringergli la mano, ed il suo cliente lo pagò generosamente. Ma fuori dall'aula del tribunale, nessuno s'interessò alle vicende di quel muro limitrofo, i giornali, naturalmente, non ne fecero parola, e, tre giorni dopo, quel grande avvenimento della vita di Giovanni era completamente passato, senza lasciare nessuna traccia, senza produrre altri cambiamenti nell'esistenza del giovine praticante, fuorché un po' più di quattrini nella borsa. Alla prima egli non poteva persuadersene. Quando rientrava nella bottega del fornaio, e dava la buona sera a quell'uomo scamiciato, sentiva di fare una degnazione, e pensava: "Se sapesse chi sono!". Il mattino, quando mangiava la minestra in un angolo della bottega presso il camino, si ricordava un vecchio piatto di terraglia che una contadina della Bicocca mostrava a tutti dicendo: "Vede? Qui dentro ha mangiato due ova Carlo Alberto. Mangiava come noi, tal quale. E dopo ho saputo che era il Re. Madonna santa!". Ma i giorni ed i mesi si succedevano; passò più d'un anno; ed i formai non erano ancora nel caso di meravigliarsi che Giovanni mangiasse come loro. Anzi la donna gli faceva sentire, senza punta riverenza, che mangiava un po' più di loro. Intanto, a misura che andava innanzi estendeva il circolo delle sue relazioni; gli erano toccate altre cause di poca importanza, ed era entrato in rapporti cordiali con due o tre clienti. I suoi compagni di studio avevano assistito alle sue arringhe, si erano mostrati entusiasti del suo ingegno e s'erano offerti di presentarlo al signor Tale, al cavalier Talaltro, persone influenti... Giovanni aveva accettate con premura le loro offerte. Ma quante noie, quanti sopracapi gli costavano quelle visite! Doveva provvedersi di guanti, di cravatte; doveva avere un cappello lucido, ed una camicia fine e ben insaldata; più volte dovette rinnovare le scarpe, che, senza quel caso, avrebbero potuto durare un altro mese. Per una visita ad un Commendatore fu ridotto a farsi prestare una pezzuola dalla zoccolaia, perché le sue erano tutte rammendate. Ma era nuova, un po' grossa; gli faceva una sporgenza nell'abito come se avesse avuto un panino in tasca; e quando ebbe bisogno di servirsene, si distese in pieghe ed angoli rigidi come di carta, e scricchiolò tal quale. E, dopo tante seccature, i risultati di quelle presentazioni ufficiose si riducevano quasi sempre a nulla. Il personaggio a cui un amico zelante lo presentava enumerando le sue qualità, il grado accademico, l'ingegno, la facondia, la sventura immeritata, ecc., ecc., rispondeva: "Ma bravo, bravo! Mi fa tanto piacere...". "Se mai potesse giovargli colla sua influenza..." suggeriva l'amico. A questo appello diretto, la potenza più o meno autentica lasciava cadere dall'alto una promessa più o meno vaga: "Ma senza dubbio! Ci conti. La terrò presente...". E Giovanni non ne sentiva più parlare, se non dall'amico che lo aveva presentato, per ricordargli che era in dovere di fare una visita in quella casa dove lo avevano accolto tanto bene. Nei casi eccezionalmente fortunati lo consultavano circa una vecchia lite, gli affidavano una causa di poco momento o un incarico ingrato. Egli ci si adoprava con zelo. Lo pagavano un po' meno di quanto avrebbero dovuto, in causa dell'amico, della presentazione, ecc., ecc., e tutto finiva lì. Allora si sentiva oppresso dallo scoraggiamento. Al poco che aveva occasione di poter fare metteva tanto studio, tanto impegno, che non poteva a meno di tenerne gran conto. Sapeva d'aver fatto tutto quello di cui era capace, e diceva: "Se con tanto lavoro non m'è riescito di farmi una rinomanza, è finita: vuol dire che non ci riescirò mai". Ed allora percorreva col pensiero una lunga esistenza di sacrifici e di fatiche ignorate per mantenersi in una mediocrità punto dorata; pensava a Rachele, che, non udendo più parlare di lui, avrebbe finito per sposare un altro; e se la vedeva passare dinanzi in tutto lo splendore d'una sposa ricca, mentre egli continuava a logorarsi la vita, unicamente per mangiar pane. In un giorno di sgomento pensò: "Le donne sono onnipotenti. Se mi facessi aiutare da qualcuna?". E si fece presentare alla signora di un grande imprenditore di strade ferrate. Era una donna di spirito indipendente, che aveva fatto a meno delle cerimonie ecclesiastiche e legali nella sua unione col ricco banchiere, e nelle precedenti. Giovanni era giovine e bello, e trovò grazia agli occhi della signora. Essa gli promise la clientela del banchiere, uomo prodigiosamente litigioso, che non badava a spendere, pur d'avere un buon avvocato, ed avrebbe certo data la preferenza ad uno raccomandato da lei. Ma era necessario che Giovanni frequentasse la casa, che l'imprenditore s'avvezzasse a lui, imparasse a conoscerlo, e poi... e poi... Mille promesse, di cui la bella donna mantenne soltanto quelle che avevano fatto i suoi occhi neri, e che dipendevano esclusivamente da lei. Ma in capo ad otto giorni Giovanni ne fu tanto disgustato che pensò di non rimettere più i piedi nella sua casa. Quella breve relazione non portò la menoma alterazione nei sentimenti del giovine avvocato per Rachele. Anzi, alla prima se la figurò piangente, desolata, e nella compunzione dell'anima pentita, sentì di amarla anche più, per tutto quel dolore che le aveva dato. Quand'era solo si metteva realmente in ginocchio dinanzi all'immagine che evocava della giovinetta, e le domandava perdono, e si sfogava in proteste, in giuramenti, in lacrime amare. Dopo quel disinganno ebbe un lungo periodo di abbattimento. Non si commoveva più quando gli affidavano una causa. Le sue illusioni erano sfrondate, e sapeva che, con quelle piccole liti, non c'era per lui da cavare un ragno dal buco. Tuttavia glie ne capitavano abbastanza di frequente, ed a poco a poco perdette l'abitudine delle scarpe logore, degli abiti spelati, e lasciò il mezzanino del fornaio. Ma, insieme alla miseria, era passata anche l'illusione della futura grandezza, ed era venuta la prosaica e triste mediocrità. Ho sbagliato carriera, pensava. Coll'avvocatura non si arricchisce. E si sentiva avvilito, al pensiero che dopo tre anni non era ancora in grado di presentarsi al castellano di Fontanetto, senza farlo sorridere di compassione a' suoi famosi guadagni di trecento lire al mese o giù di lì. Gli venne la curiosa idea di tornare alle grandi economie che aveva abbandonate, per metter da parte una somma ed arrischiare poi delle operazioni alla Borsa. Sapeva di patrimoni colossali che erano stati iniziati a quel modo, e diceva: "Chissà?". S'era fatto ingegnoso, durante i suoi anni difficili, nell'arte di vivere con meno denaro possibile. Ed infervorato nel pensiero di fare quell'ultimo sforzo per arrivare a Rachele prima che gli fosse tolta, non gli riescì grave d'abbandonare la sua nuova vita relativamente agiata; lo fece con entusiasmo, godendo in sé delle privazioni che s'imponeva, e per ogni scudo che aggiungeva a' suoi risparmi, giubilava come un avaro. Dopo un anno stava per avere mille e cinquecento lire, quando ricevette una lettera da suo padre che gli scriveva: "Sono pieno di debiti e di malanni; e, dacché non sono più in grado di dire le barzellette per tenerli allegri, i signori non mi danno più da pranzo. Non ho gran fede nella generosità umana e tanto meno nella voce del sangue. Ma spero che, per non tollerare che tuo padre vada mendicando, il che ti farebbe torto, penserai a provvedermi il necessario per questi ultimi anni. Non sono mai stato un padre tenero, ma è certo che fino a dodici anni, o bene o male, t'ho dato da vivere. Ed è ben difficile ch'io ti resti altrettanto tempo sulle spalle...". Giovanni tremava tutto nel leggere quella lettera. Gli pareva di sentirsi trascinare in un abisso. S'era creato un lieve sostegno, ed ora gli mancava sotto i piedi, ed acquistava la certezza che gli mancherebbe sempre. Omai quanto guadagnava era appena sufficente per lui e pel padre. Privandosi della somma raccolta, non poteva sperare di raggranellarla di nuovo. Tuttavia non gli venne neppure un momento l'idea di sottrarsi a quel dovere. Era un pezzo che non piangeva; e pianse disperatamente su quella lettera. Suo padre aveva mangiato e bevuto e s'era divertito, mentre lui si struggeva in quel lavoro da formica, per arrivare alla fanciulla che amava. Ed ora quel padre aveva il diritto di prendere il frutto de' suoi sudori e dei suoi sacrifici, e di dirgli: "Rinuncia alle tue speranze spontaneamente, o ti ci faccio rinunciare svergognandoti collo spettacolo della mia indigenza". Il suo cuore si ribellava a quell'ingiustizia, fremeva sotto la pressione di quel dovere gravoso, e, quando chiuse il denaro in una lettera raccomandata, non provò la soddisfazione di chi sente di far del bene, non si commosse della sorte miseranda del Dottorino, ma sentì un gran vuoto nel cuore, un grande sgomento dell'avvenire, un rammarico inenarrabile per la speranza che perdeva; e calcando con ira il quinto soggello sulla cera disciolta, mormorò: "Maledizione!". Era infatti una maledizione, una iettatura, una fatalità che perseguitava lui come perseguita tanti altri e lo condannava a vivere ignorato col suo ingegno, la sua scienza e tutte le sue superiorità. Omai, stanco d'aver lottato quattro anni inutilmente, scoraggiato da quell'ultimo colpo, s'abbandonava alla sua sorte, non isperava più. Pensava a' suoi sogni di fortuna ed a Rachele come ad una gloriosa visione svanita. Scacciava con vero spavento il pensiero che avrebbe potuto incontrarla al braccio d'un altro, e desiderava non rivederla mai più. Sentiva che si sarebbe vergognato dinanzi a lei. Aveva mancato alle sue promesse audaci, era stato presuntuoso, e la cattiva riescita lo accusava d'essere stato un presuntuoso ignorante. In fondo aveva più che mai la convinzione del contrario. Ma non è dato a nessuno di salire sui tetti e gridare alle turbe: "Badate ch'io sono un grand'uomo. Lasciatemi fare questo e quest'altro, e ve lo proverò". Bisogna che le circostanze ci aiutino; noi non possiamo che profittarne. Ma le circostanze non erano state favorevoli al povero Giovanni. Un giorno l'avvocato Berti lo chiamò nel suo studio, e gli comunicò un processo pendente per omicidio. Un acquavitaio aveva ucciso in rissa un servitore. Era un assassinio volgare, non c'era da fare una brillante difesa, e l'avvocato illustre la affidava al giovine sostituto. Giovanni prese a studiare la causa con quell'interessamento da artista che metteva sempre nei suoi lavori. Ma non era possibile negare la responsabilità dell'accusato. Oltrecché risultava chiara dalle prime inchieste e deposizioni, l'accusato stesso la confessava. Egli era inoltre un uomo intrattabile. Quando Giovanni lo vide, ne fu impressionato penosamente. Stava seduto nell'angolo più buio del carcere, coi gomiti sulle ginocchia e le guancie duramente appoggiate sui pugni chiusi, che gli raggrinzavano gli zigomi, e li rialzavano a nascondere gli occhi. Aveva sessant'anni, ma pareva un vecchione; aveva la testa calva e la barba bianca. Il suo sguardo era duro; il viso imbronciato come d'un uomo collerico. La presenza del giovine avvocato parve seccarlo più che altro. Non si mosse affatto al vederlo, e quando Giovanni gli si presentò come suo difensore, si strinse nelle spalle, e rispose: "Ho ucciso quell'uomo, non nego nulla. Non c'è bisogno del difensore". Per quanto Giovanni lo interrogasse, non volle dir altro. Quel cinismo cupo parve anormale al giovine avvocato. Egli si rivolse al carceriere: "Cosa dice l'imputato del suo processo?" "Non dice nulla perché non parla mai". "Come impiega la giornata?" "Sta quasi sempre seduto a quel modo. Qualche volta legge, o scrive colla matita sul muro". Giovanni volle vedere il libro in cui leggeva. Era una bibbia sporca e sdrucita, che si apriva da sé alla pagina dove parla d'un ricco, il quale avendo cento pecore aveva rubata la pecora unica d'un povero. Sul muro trovò pure delle sentenze contro i ricchi, alcune prese da libri devoti o da canzoni popolari; altre, meno felici, di sua invenzione. Sopra un'imposta c'era scritto: "Nel cuore dei ricchi c'è un serpente". Alla testa del pagliericcio si leggeva: "Il diavolo mette i suoi demoni nella pelle bianca dei ricchi per tentare i poveri". "Se ti chiami nobile ed hai del denaro, godi a questo mondo la tua vita da ladro, perché in quell'altro sarai carbone da riscaldare i poveri". Poi c'erano i nomi famosi che la rivoluzione francese ha resi popolari anche fra noi: Marat, Robespierre, Danton e sopra c'era scritto a grandi caratteri: "Evviva!". E sotto: "Gloria eterna!" Giovanni dopo quelle strane letture domandò all'imputato: "Siete socialista?". Egli non capì e non rispose. "Non vi piace come va il mondo" tornò a dire l'avvocato, "e vorreste cambiarlo?" Il vecchio prese con violenza la brocca dell'acqua che aveva accanto, e la capovolse furiosamente, senza curarsi dell'acqua che allagò il pavimento. "Vorreste capovolgerlo?" insistè Giovanni. "Eh!" sospirò il vecchio. Poi si strinse alto nelle spalle, e sospirò più forte: "Omai, a cosa servirebbe?". "Ma c'è un ricco che v'ha fatto qualche torto?" interrogò l'avvocato. L'imputato si rizzò sdegnato, quasi minaccioso, e gridò: "A me nessuno ha fatto torto, capisce? Sono povero, ma onorato. Ho ammazzato. Ebbene? Ma sul mio nome non c'è nulla da dire". Giovanni non ci raccapezzava nulla, perché l'uomo ucciso dall'acquavitaio era un povero servitore. Questi era entrato per bere nella bottega, ed il vecchio, al vederlo, senza precedenti di parole, gli si era avventato contro, urlando: "Ah, ladro, svergognato, servo dei ricchi, te la do io, ora, te la do!" E, con un coltellaccio che aveva afferrato sul banco, gli aveva squarciata la gola. C'erano cinque testimoni che s'erano trovati nella bottega, e narravano il fatto, che l'imputato non pensava affatto a smentire. Giovanni, preso alle strette, non poté scoprire nulla a favore dell'assassino. Ma domandò una perizia medica. L'idea fissa di quell'uomo era l'odio dei signori; poteva essere una mania, o un vecchio rancore. Nel primo caso, i medici gli avrebbero fatto giustizia; nel secondo l'avvocato avrebbe potuto arrivare ad indovinare il suo segreto, e forse a salvarlo. Intanto la perizia, che il tribunale accordò, dava tempo ad altre ricerche. Giovanni non tardò a mettersi in campagna. Quell'uccisione, improvvisa e violenta, doveva essere premeditata; e, per essere premeditata, doveva avere una causa. La sola causa che confessava l'imputato era l'odio pei ricchi; aveva ucciso quell'uomo perché era il servitore d'un ricco. Ma bastarono poche informazioni presso i frequentatori del negozio, per provare che di servitori di ricchi ce ne bazzicavano parecchi, e che l'acquavitaio li trattava bruscamente, ma non ne aveva mai offeso né provocato nessuno. Era dunque quel dato servitore che odiava, e nella causa di quest'odio poteva stare la scusa, o, almeno, una forte attenuante pel colpevole. Questi però diceva che non conosceva affatto la sua vittima. Che non l'aveva mai veduta prima di quel giorno. Bisognava indagare il suo passato per risalire alla causa vera che l'aveva spinto al delitto. Ma quell'acquavitaio Galbusera aveva sloggiato tante volte in quegli ultimi anni che i casigliani dell'ultimo casamento che aveva abitato lo conoscevano da poco, e non sapevano dirne nulla. Giovanni risalì la catena di quegli sloggi, da Porta Romana andò a S. Celso. Là il suo cliente era stato sei mesi, ma la bottega l'aveva in fondo alla via Gozzadini, fin dal semestre prima, quando stava a Porta Romana. Finalmente, a forza di correre e bussare a tante porte, in una catapecchia a Porta Ticinese, dove l'acquavitaio aveva abitato molti anni prima, Giovanni seppe che in quel tempo il vecchio aveva una figlia. Avevano sloggiato improvvisamente senza aspettare la scadenza del San Michele; però non avevano lasciato debiti, e la pigione era stata pagata. Che cosa era avvenuto di quella figlia del vedovo? Giovanni andò al carcere e ne domandò a lui. "Mia figlia è morta" rispose l'imputato. "E lei, la prego di non immischiarsi altro ne' fatti miei". Il vecchio s'era fatto tutto rosso, ed aveva parlato con tanta eccitazione che Giovanni si convinse d'aver posto il dito sopra una piaga. L'uomo ucciso dal padre doveva essere il seduttore della figlia. Dalla perizia medica era risultato che l'acquavitaio possedeva le piene facoltà intellettuali. In capo a pochi giorni si dovevano riprendere i dibattimenti. Intanto i giornali, nell'annunciare che quel processo per assassinio era stato rimandato, perché il difensore dell'Ambrogio Galbusera aveva domandata la perizia medica, avevano riferite le ragioni addotte in appoggio a quella domanda, che erano le invettive furiose del Galbusera contro i signori e le sue frasi stravaganti scritte sul muro della prigione. E questo era bastato perché quel processo, che al principio non aveva inspirato nessun interesse, suscitasse alquanta curiosità. Questa curiosità crebbe enormemente, quando ad un tratto si seppe che nel seguito del processo si troverebbe implicato il principale rappresentante d'una grande famiglia milanese, notissimo, oltre che pel nome storico che portava, pel suo sfarzo, per le sue avventure galanti, pe' suoi scialosi capricci, che assai spesso fornivano materia alla cronaca cittadina. Come accade, nacque gara tra cronisti a dare le informazioni più particolareggiate sul clamoroso scandalo che si preparava; ed il nome del giovine avvocato Giovanni Mazza fu su tutte le bocche, insieme a quello del signore citato fra i testimoni a difesa. Si seppe che la scoperta delle cause segrete del misfatto era dovuta allo zelo ed all'acume finissimo dell'avvocato Mazza; e la fantasia popolare eccitata creò una leggenda su questo giovine che aveva rifatta e compiuta da solo l'istruttoria del processo, ed aveva vinta, a forza di coraggio e d'energia, l'influenza che potenti personaggi avevano tentato di esercitare, per impedire che la verità fosse chiarita. Ecco, in sunto, la storia che i giornali narrarono e che i dibattimenti confermarono. Dodici anni prima del delitto, il Galbusera aveva bottega a Porta Ticinese, era vedovo con una figlia di quindici anni, che andava da una cucitrice ad imparare il mestiere. Il cocchiere Teodoro Donadio aveva cominciato a frequentare con assiduità la bottega dell'acquavitaio nelle ore della sera. Ben presto tutti s'erano accorti che faceva la corte alla giovinetta. Allora il Galbusera lo aveva preso a parte, e gli aveva detto che le donne della sua famiglia erano sempre state oneste, e che questa era la sua gloria. Se aveva intenzione di sposare sua figlia lo invitava a dichiararlo, ed a farsi conoscere; altrimenti egli non gli avrebbe permesso di comprometterla colle sue galanterie. Il Donadio aveva domandato tempo qualche giorno a rispondere, e poco dopo era tornato, accompagnato da un sigaraio della contrada, il quale era incaricato di domandare in nome suo la mano della Maddalena Galbusera. Il Donadio aveva soggiunto che egli serviva in una buona casa, che guadagnava a sufficenza per mantenere una famiglia e che certo il suo padrone non avrebbe avuto difficoltà a permettergli di prender moglie. Il Galbusera aveva incaricato il sigaraio, nel quale aveva fiducia, di presentarsi al marchese Trestelle, che era il padrone di Donadio, a prendere informazioni del cocchiere, ed a sentire se realmente non c'era pericolo che il matrimonio avesse a fargli perdere il posto. Il sigaraio non era stato ricevuto dal marchese Trestelle, ma dal suo segretario, il quale aveva preso nota dell'imbasciata, ed il giorno dopo aveva portato egli stesso la risposta del padrone: questi diceva ogni bene del Donadio, ed approvava il matrimonio. Le nozze erano state fissate pel San Michele, perché allora il Marchese sperava di poter dare due stanze agli sposi nelle soffitte d'una sua casa. Mancavano cinque mesi, ma non erano di troppo per cucire il modesto corredo. Del resto Maddalena era tanto giovine, che il padre aveva piacere di aspettare che avesse almeno compiti i sedici anni. Quando tutto era stato combinato, Donadio aveva cominciato ad andare ogni sera a prendere la sua sposa dalla cucitrice. Sovente la incontrava anche il mattino, e la accompagnava. Al negozio del futuro suocero si fermava più poco, ed aveva finito per non fermarvisi affatto, perché tanto vedeva Maddalena fuori, e preferiva di non far scene dinanzi agli avventori. Tornando dal magazzino la ragazza diceva: "Mi è venuto a prendere. M'ha accompagnata fin qui...". Una volta però, quando la relazione durava da circa quattro mesi, Donadio era stato quindici giorni senza farsi vedere; Maddalena era malinconica, ed il padre s'accorgeva che piangeva molto. Ci doveva essere qualche guaio fra gli sposi. Egli aveva interrogata la ragazza, che per un poco aveva negato la sua afflizione, ma presa alle strette, aveva finito per confessar tutto. Ed ecco la confessione di Maddalena. Fin dai primi giorni, Donadio, nell'accompagnarla a casa, aveva incontrato il suo padrone. Erano in via Arena. Non c'era nessuno, ed il Marchese s'era degnato di domandare al cocchiere se quella era la sua sposa, e di farle dei complimenti. Poi s'erano incontrati altre volte, ed in quelle circostanze il servitore si tirava da parte, e lasciava che il signore s'intrattenesse con lei. Il Marchese era più bello, più gentile, più raffinato del cocchiere. E la giovine cucitrice si era lasciata dire delle belle parole. Se n'erano veduti degli altri marchesi e conti sposare delle ragazzette; a quindici anni si crede tutto possibile. Dacché quel signore lo prometteva... Soltanto, in causa della sua alta condizione, egli non poteva farlo sapere fino all'ultimo momento; bisognava lasciar credere che lo sposo fosse il cocchiere... Intanto ogni mattina il padrone si trovava fuori di porta colla carrozza. Donadio conduceva Maddalena fin là, ella saliva accanto al Marchese e passava la giornata con lui. Un mese circa prima del San Michele, servo e padrone avevano cessato di farsi vedere. La ragazza era andata al magazzino dove la maestra la trattava con diffidenza in causa della sua poca assiduità, e le ragazze parlavano della sua relazione signorile, che avevano scoperta. Vedendo passare i giorni e le settimane senza che il Marchese si facesse più vivo, l'afflizione aveva sopraffatta la giovinetta, che s'era confidata alla maestra cucitrice, e questa le aveva detto che da quindici giorni il Marchese Trestelle aveva sposata la figlia di un ricco banchiere di Genova, e che, dopo il viaggio di nozze, sarebbe andato a stabilirsi a Genova presso la famiglia della sposa. Quanto al cocchiere Donadio, fosse o no col padrone, era scomparso da Milano. E Maddalena era incinta. Dopo questa confessione della figlia, il Galbusera aveva lasciata improvvisamente la casa di Porta Ticinese senza aspettare la scadenza, per nascondere la sua vergogna. La maestra cucitrice, alla quale Maddalena s'era confidata, l'aveva raccomandata ad una levatrice di Monza, dove la fanciulla avrebbe potuto rimanere sconosciuta. Due mesi dopo la giovinetta era morta di un parto immaturo. Galbusera aveva passati dieci anni a ruminare la sua collera, il suo dolore e la sua vergogna, schivando i vecchi conoscenti, mutando quartiere ogni volta che sospettava d'essere riconosciuto, tremando al pensiero d'incontrare Donadio o il suo padrone. Un giorno il Donadio era entrato nella sua bottega; ed egli lo aveva ucciso. È impossibile descrivere la commozione prodotta in Milano dai dibattimenti di questo processo. E non solo in Milano, ma in tutta Italia se ne parlò. Era capitato in un momento in cui le cose politiche offrivano poco interesse, ed i giornali si gettarono affamati su quel dramma criminale. La passione di partito, come al solito, concorse ad infiammare gli spiriti. I fogli repubblicani e socialisti descrissero l'assassino come un eroe, e portarono a cielo persino le sentenze tracciate sul muro, ed i bigliettini sgrammaticati che scriveva Galbusera nel carcere. Mentre qualche giornale conservatore insinuò a mezza bocca che l'ingerenza attribuita al marchese Trestelle era una macchina montata per spillargli del denaro, e per diffamare la classe sociale a cui apparteneva. Il sapersi fatto segno all'attenzione generale, fu un colpo di sprone potentissimo per l'ingegno di Giovanni. Fino dalle prime udienze, nella discussione di alcuni incidenti, fu meravigliato egli stesso del calore della sua parola e del vigore dei suoi ragionamenti. L'udienza in cui comparve il marchese Trestelle - udienza i cui particolari furono la sera stessa telegrafati distesamente a tutti i giornali d'Italia - fu un trionfo per l'avvocato Mazza, tanta fu l'arte con cui riescì ad ottenere dal teste la confessione completa della verità, e tanto felici furono le apostrofi, ora sarcastiche, ora sdegnose, con cui umiliò l'albagia di quell'individuo, e gl'inflisse la condanna morale che la sua condotta si era meritata. La sua arringa, che coronò i dibattimenti, superò l'aspettativa dell'uditorio, ed è tuttora ricordata nel foro milanese come un modello d'eloquenza. Non fu una difesa legale; fu uno studio psicologico e sociale, nel quale le figure dell'imputato, della vittima, del seduttore e della giovinetta, furono ritratti come tipi impersonali, per modo che la discussione prese un carattere elevatissimo. Quella causa, la quale, alla prima, era sembrata nulla più che uno scandalo volgare, si trasformò grazie all'arringa del Mazza, e prese aspetti affatto nuovi. Si mutò in una grande tragedia, piena di profondi insegnamenti. Quando Giovanni si pose a sedere, affranto dalla fatica durata, il presidente non ebbe forza di frenare il clamore degli applausi e delle acclamazioni. Quanti erano nella sala, avvocati, letterati, magistrati, giornalisti, tutti unanimi pensarono: "Un grande ingegno s'è rivelato". Nessuna fortuna mancò in quell'occasione a Giovanni; il verdetto de' giurati non fu completamente negativo, ma, escludendo la premeditazione e ammettendo la "forza semi-irresistibile", ridusse leggera la pena. I giornalisti offersero un banchetto al nuovo criminalista illustre. I giovani legali ne organizzarono un secondo. Ed egli, in mezzo a quelle feste, ripensò sorridendo il lontano banchetto di cinque lire dei praticanti dello studio, che gli era costato tante umiliazioni e tanti sacrifici. E ripensò con un tripudio di gioia alle speranze che aveva credute morte. Le vide risorgere più belle, perché d'un tratto, da un giorno all'altro, aveva raggiunta quella rinomanza, che sembrava essergli sfuggita per sempre. Ormai la sua situazione era assicurata; l'avvenire gli si presentava glorioso, ed i denari non potevano mancar di venire. Ad ogni articolo di giornale che gli giungeva pieno d'encomi, pensava: "Lo leggerà Rachele; suo padre pure lo leggerà". E tornava colla fantasia a quel triste giorno d'autunno, in cui passando, sconsolato e respinto, lungo il fossato del castello, aveva esclamato: "Anche lei! Ebbene, vedrà!". Ecco; ora lo vedeva di che cosa era stato capace. "Ah! M'è costato caro, ma sono riescito!" diceva. Ed era glorioso della sua costanza, degli stenti sofferti. Era felice di sentirsi giovine e d'avere tanto avvenire dinanzi a sé. Dopo quel processo cominciò per Giovanni una vita nuova, tutta movimento, tutta azione, in cui le ventiquattro ore del giorno non bastavano ai suoi affari. I clienti si facevano sempre più numerosi. Un circolo politico lo nominò relatore per le elezioni. Fu invitato a collaborare in vari periodici legali, e scrisse articoli sopra un progetto di legge pendente, che furono commentati dai più accreditati giornali. Il suo ingegno, la sua dottrina, rimasti ignorati fin allora, si rivelarono potentemente, ed in breve tempo il suo nome acquistò grande notorietà e divenne popolare. In cinque anni che aveva passati coll'avvocato Berti, non era mai stato presentato alla moglie del principale. L'aveva veduta parecchie volte entrare con un grande fruscio di seta nello studio del marito, lasciandosi dietro un'ondata di profumo alla violetta, che gli aveva data una grande idea della sua eleganza. Qualche volta lei lo aveva guardato traverso il velo di trina, ma non gli aveva mai rivolta la parola. Il giorno dopo il famoso processo dell'acquavitaio Galbusera, l'avvocato disse a Giovanni: "Mia moglie desidera conoscerti. Vieni domani a sera a prendere il tè da noi. Ti presenterò". Non c'era mai stata intimità fra loro. Il principale gli dava del tu come ad un subalterno, ad un giovinetto, non come ad un amico. Tuttavia Giovanni aveva acquistata bastante esperienza, per comprendere quel cambiamento improvviso; e sorrise di quell'uomo d'ingegno che, conoscendolo da cinque anni, aveva aspettato, ad apprezzarlo, che lo avessero apprezzato prima il pubblico ed i giornali. L'entrare in casa di quel superiore diretto, il presentarsi a quella matrona, alla quale egli attribuiva quasi il doppio della sua età, lo metteva in soggezione. Infatti la signora Berti aveva varcata di qualche anno la quarantina. Ma non aveva figli, era bella, prendeva una cura grandissima della sua persona, vestiva con eleganza, frequentava i teatri e le feste da ballo, scollata, colle braccia nude, coi fiori in capo: danzava, faceva le chiacchierine galanti coi giovinotti, amava che le facessero la corte, e lo lasciava comprendere. Giovanni aveva capito facilmente da' suoi modi leziosi, e dalle occhiate, e dal vestire, che quella signora aveva delle pretese giovanili; ed era impensierito del modo di mettere d'accordo quelle aspirazioni coll'età di lei, e colla qualità di moglie del suo principale; due cose che lo intimidivano. Quando entrò in casa Berti, l'avvocato lo accolse come un camerata; appena lo vide, gli andò incontro colle mani stese; poi gli prese il braccio confidenzialmente e, nel fargli traversare due sale per condurlo da sua moglie, gli disse: "Trattiamoci da amici, dammi del tu. Qui non c'è più principale né sostituto. In casa mia ricevo i miei amici...". E fermandosi per ripetere una stretta di mano soggiunse: "ed i miei colleghi". Poi gli affermò che ormai, dopo il processo Galbusera, egli aveva preso posto fra gli avvocati più valenti di Milano, e tirò via a discorrere del suo genere di eloquenza forense, confrontandolo col proprio, discutendo le sue argomentazioni, ammirando le sue trovate. Giovanni fu commosso, e strinse egli pure cordialmente la mano di quell'uomo, che aveva giudicato artifizioso e rettorico, e che ora cominciava a conoscere sotto un altro aspetto. Il Berti non ci metteva studio nelle tirate sentimentali che da tanti anni formavano la sua gloria; era realmente un uomo sentimentale malgrado i suoi cinquant'anni. Aveva la fantasia poetica, il cuore appassionato; era una natura romantica. Durava fatica a tenersi un po' in sussiego coi giovani di studio, perché amava la gioventù, si univa volontieri ai suoi spassi, ne aveva l'ingenuità, la spensieratezza, lo spirito avventuroso. Dapprincipio le difese di Giovanni, serrate, positive, senza quelle tirate declamatorie colle quali egli faceva piangere le signore ed abbarbagliava i giurati, gli erano sembrate fredde: "Non ha sangue nelle vene, costui" diceva. "Non sa commovere; non fa nulla pei suoi clienti". Ma quando aveva udita nel processo Galbusera la parola del giovine avvocato attingere tanta efficacia dalla semplice esposizione dei fatti, ne era stato vivamente impressionato, ed aveva risentito un sincero piacere del trionfo del suo sostituto. Rimanendo rettorico, perché era nato ed invecchiato così, capiva il merito d'un sistema differente e più verista. La cordialità della signora fu meno candida. Lei pure era contenta realmente d'avere nel suo salotto il giovine avvocato che faceva parlare di sé tutta Milano; ma era contenta per vanità, non per sentita ammirazione di lui. Tanto lei che il marito avevano delle aspirazioni giovanili. Ma nel Berti erano effetto d'una natura entusiastica e sentimentale, che l'età non era riescita a disilludere. Nella signora erano vanità e civetteria. Tutta la sera ella prestò un'attenzione quasi esclusiva a quel nuovo venuto illustre; lo presentò alle signore, che fecero a gara nell'invitarlo alle loro serate, e ad ogni invito rispose per lui: "Sì; te lo condurrò martedì, te lo condurrò domenica. Sono io che lo patrocino, come allievo di mio marito...". Poi soggiungeva, ridendo come chi dice una cosa stravagante: "Gli faccio da mamma". E Giovanni era obbligato a protestare che era troppo giovine, e bella, e che una mammina così inspirava tutt'altro che riverenza, tutt'altro... Un po' colla sua protettrice, un po' da solo, Giovanni fece il giro delle conversazioni di Milano. La sua bella figura, i suoi modi d'una semplicità elegante, il contegno dignitoso, l'umore giocondo, e soprattutto il suo spirito brillante, lo rendevano simpatico a tutti. Gli uomini lo consultavano sulle questioni politiche e sociali, e facevano gran caso del suo parere. Le signore si dolevano perché non ballava, dicevano che alla sua età era una pedanteria, e lo invitavano loro stesse per una polka, per una quadriglia, col pretesto d'insegnargli a danzare, ma, in realtà, perché amavano di passeggiare al suo braccio per le sale, di conversare con lui, di sentirlo dire dei complimenti, un po' diversi da quelli convenzionali che udivano sempre. Infatti Giovanni cominciò a ballare, e nel carnovale seguente prese parte alle danze, sebbene molto moderatamente, e divenne uno dei giovani più ricercati ed alla moda. Ma l'impianto di uno studio e d'un piccolo quartiere, il vestire elegante, il vivere in una locanda buona e ben frequentata, come conveniva alla sua nuova situazione, erano cose dispendiose assai. C'era sempre nel suo cuore lo sgomento di avvezzarsi a farla da parassita come suo padre, e che un giorno s'avesse a dire di lui: "Vive alla mensa dei signori come il Dottorino". Misericordia! Per evitar questo, prodigava mazzi di fiori, gingilli artistici, palchi in teatro alle famiglie che lo invitavano a serate ed a pranzi. Tutto questo gli costava caro. I suoi guadagni bastavano appena per le sue spese e pel sussidio che mandava a suo padre; ed in mezzo a' suoi trionfi, era sempre lontano, lontano assai, dall'ideale del signor Pedrotti: "Un marito ricco per sua figlia". Ma questo pensiero non lo perseguitava più tanto. La memoria di Rachele, sempre soavissima quando gli tornava alla mente, vi tornava con minore insistenza. L'idea di sposarla era sempre fissa in lui, come un patto contratto con sé medesimo, come un destino. Ma le impazienze ardenti di raggiungere quella meta non le provava più, ed altri ardori, altre impazienze ne avevano preso il posto nel suo cuore. Dacché era liberato dalle cure affannose della vita materiale d'ogni giorno, dacché s'era adagiato in un'esistenza comoda e si vedeva circondato dal lusso e dalla bellezza, la sua potente vitalità giovanile gli aveva ridestata nell'anima la sete dei piaceri, tanto più viva, quanto più lunga ne era stata la privazione. Si sentiva affascinato dalla bellezza provocante delle dame, che gli sorridevano e gli stendevano la mano. Contemplava avidamente le loro spalle e le braccia nude, e quando non eran vestite da serata, le ripensava, le rivedeva coll'immaginazione, traverso i velluti e le sete. I fuggevoli amoretti delle sartorine e delle crestaie, che avevano interrotta di tratto in tratto l'uggia della sua vita da giovinotto povero senza occupargli né la fantasia né il cuore, ormai non lo allettavano più. Nella sua natura da poeta era istintivo l'amore dell'eleganza. Amava le donne belle, ben vestite, che parlano bene. Amava di entrare nella loro atmosfera signorile, di mettersi ai loro piedi sopra un ricco tappeto, di sedere con esse sui divani di raso, di sentire il profumo dei loro capelli e dei loro guanti. Anelava alla sua parte di felicità, al romanzo tempestoso della gioventù, si trovava nell'ambiente che poteva crearlo, e si compiaceva, coll'immaginazione appassionata, a figurarselo pieno di emozioni e di gioie. Una sera, che in una festa da ballo s'era nascosto fra due vasi di camelie, per abbandonarsi all'estasi snervante di quei sogni, si vide dinanzi un braccio meravigliosamente bello, ed una voce soave ed affannosa gli disse: "Per carità, venga a ballare questa quadriglia. Ho dovuto ritirarmi per ravviarmi i capelli, e sono rimasta senza ballerino". Egli si rizzò sbalordito, cogli occhi fissi su quelle braccia, su quelle spalle, su quel seno, su tutta quella pelle bianco-rosata da bionda, che gli pareva la realtà della sua visione d'amore. Seguì la bella donna trasognato e muto, sbagliò tutte le figure della quadriglia a cui non badava punto; non cessò mai di fissare la sua ballerina con uno sguardo avido. Si sentiva oppresso. Aveva incontrata parecchie volte quella signora, era stato in casa sua, la conosceva, sapeva che era bella, ma non aveva mai provata nessuna commozione accanto a lei. Si erano trattati con quella certa confidenza compagnevole e gioviale che le donne avvezze alla società accordano spesso ai gentiluomini, e spesso Giovanni parlando di lei aveva detto: "Mi piace, perché non ha la pretesa che le si faccia la corte. Si può parlare con lei come con un amico". Invece, in quel momento d'eccitazione gli parve che quella bellezza fosse fatta per lui, che la rivelazione di quelle forme, provocantemente nude, fosse una conseguenza delle sue fantasticherie amorose; che le avesse evocate, e gli fossero apparse. Non parlava affatto, ed aveva l'aria turbata ed infelice. "Che cos'ha, avvocato?" gli domandò la contessa. "Siete troppo bella!" rispose Giovanni colla voce sommessa ed affannosa d'un uomo appassionato. La contessa rimase sbalordita. Ebbe un sussulto come se avesse ricevuto un colpo nel petto. Comprese che avrebbe dovuto risentirsi, rimproverare il suo cavaliere troppo audace, oppure voltargli le sue belle spalle e piantarlo solo. Ma in realtà non provò nessun risentimento. Aveva infatti ricevuto qualche cosa come un colpo nel petto, come l'urto d'una pila elettrica. Lo stesso turbamento che opprimeva Giovanni oppresse anche lei. Finirono la quadriglia muti, agitati, in uno di quegli affannosi silenzi d'amore, più eloquenti ed espansivi di qualunque parola. Le loro mani s'incontravano tremando, si stringevano a lungo, si separavano lentamente e con rammarico; i loro sguardi s'incrociavano e rimanevano avvinti come due lame calamitate; i loro petti erano oppressi da una grande malinconia, da uno sgomento ignoto, e lei aveva voglia di piangere. La contessa Gemma Castellani di Monte era una donna ambiziosa e scettica. Fin dall'adolescenza aveva amato il lusso sfrenatamente, e quella passione, crescendo cogli anni, aveva invaso tutto il suo cuore. Da bimba in collegio aveva sempre ricercate le compagne ricche e nobili, disprezzando quelle che non avevano una mamma elegante, delle carrozze e dei servitori in livrea. Fatta più grande, poi, desiderava un ricco matrimonio ed un titolo di nobiltà con tale ardore che non le rimaneva cuore per altri sentimenti. L'amore la faceva sorridere. Se udiva di due sposi innamorati che si isolavano per vivere l'uno all'altra, crollava le spalle con disdegno e diceva: "Che gusti!". In fatto di matrimonio s'interessava soltanto di conoscere la rendita, il corredo e le toelette della sposa; se questa andrebbe in società, se riceverebbe molto, se avrebbe molti cavalli e belle carrozze. Per conto suo, in fondo in fondo all'anima, aveva anche una speranza vaga di cavalcate eleganti e di lunghi abiti all'amazzone. Ma era figlia d'un banchiere che aveva una numerosa famiglia e che, per non dissestare i suoi affari, non poteva darle più di centomila lire di dote. Sua madre le aveva fatto capire che con una dote così modesta non bisognava manifestare molte esigenze per non impaurire i pretendenti. E la bella Gemma, che per nulla al mondo non avrebbe voluto diventare una zitellona, s'era tenuto in cuore il suo cavallo da sella, salvo a tirarlo fuori e ad imporlo al marito quando fosse ben sicura che questi non potesse sfuggirle. Ma faceva grande assegnamento sulla sua bellezza, e non volle sacrificare i suoi sogni d'ambizione ai giovani agenti di cambio, avvocati, piccoli possidenti, che le offersero il loro cuore ed una situazione modesta. Un giorno le fu presentato, in una casa aristocratica, un generale in ritiro, che aveva il titolo di conte, trenta capelli bianchi per tutta capigliatura, e sessant'anni sonati. Qualcuno bene informato disse che era milionario, e la bella Gemma confidò alla padrona di casa che nessun giovinotto le aveva mai fatta un'impressione tanto buona come quell'uomo "dall'aspetto nobile e dalla fronte intelligente". Del resto non era vecchio; lei non credeva che avesse più di cinquant'anni; certo non li dimostrava; ed a cinquant'anni un uomo è sul fiore dell'età. Lei aveva diciannove anni appena; ma era sicura che, se l'avesse domandata in moglie, non avrebbe avuto difficoltà a sposarlo; un marito deve avere acquistata una lunga esperienza della vita, per essere guida sicura ad una giovine sposa. Lei non capiva come si potesse affidare il proprio avvenire, la propria felicità ad un giovinotto spensierato... Sapeva con chi parlava, la bella Gemma. La sua confidente riferì i discorsi della giovinetta al generale milionario; riferì di nuovo a lei l'espressione della gratitudine del conte, e quanto avrebbe desiderato di possedere una giovine sposa così bella e ragionevole; ma, alla sua età, non osava domandarla; temeva di rendersi ridicolo... "So bene che lui non ci pensa" disse Gemma. "Neppur io ci penso; non ho mai sognato che mi toccasse una simile fortuna. So che il babbo ha in vista un banchiere ricchissimo, un giovinetto... Lo sposerò; ma se m'avesse domandato quest'uomo serio, l'avrei accettato con maggior fiducia..." Daccapo la signora confidente riferì quegli incoraggiamenti impliciti della sua giovine amica, e, dopo due mesi, la figlia del banchiere diveniva contessa e milionaria, ed aveva fra i suoi doni di nozze un bel cavallo da sella. Erano passati i primi sette anni di matrimonio con una rapidità vertiginosa. La contessa Gemma correva con una smania febbrile di festa in festa; lusso, divertimenti d'ogni sorta, ricevimenti sfarzosi che assorbivano in una serata la rendita di un anno, villeggiature splendide, l'avevano inebbriata. S'era abituata subito al suo titolo, ma si compiaceva sempre di sentirselo dire; e gli elogi alla sua eleganza, le ammirazioni, per quanto iperboliche, non la saziavano mai. Nei primi tempi il marito, prendendo sul serio la sua missione di guida presso la giovine sposa, aveva cercato di frenare quella foga esagerata, e ne erano nati dei dissensi, che avevano rese anche più vive per la contessa quelle soddisfazioni che doveva ottenere al prezzo di lotte acerbe. Era ancora un trionfo della sua vanità l'aver vinta l'opposizione del marito. Alla fine il generale s'era rassegnato ad essere semplicemente una guida materiale, per accompagnare sua moglie dovunque ella sapeva di trovare una soddisfazione d'amore proprio o un diletto. Alle bagnature di Baden e di Vichy, alle invernate di Nizza, alle mostre mondiali di Parigi e di Londra, ai ricevimenti di corte il vecchio soldato compariva immancabilmente presentando la sua bella dama. Con un simile treno di vita cinquantamila lire di rendita sono ben poco; si fecero dei debiti, si tirò innanzi finché si poté, ma all'ultimo s'era dovuto darsi vinti ai creditori, e ridurre le spese alla modesta rendita che era rimasta per non finir male. Allora la superba signora aveva abbandonate le società aristocratiche dove, per nulla al mondo, avrebbe voluto comparire meno splendidamente di prima, e s'era messa nei circoli della borghesia, nei quali si poteva far buona figura anche con una carrozza ad un solo cavallo, e senza nessun cavallo da sella. Ed ecco in che modo Giovanni l'aveva incontrata in casa della signora Berti, e delle sue conoscenti. La galanteria aveva sempre lusingata la vanità della contessa, ma la passione non aveva mai parlato al suo cuore. Il suo stesso lusso, il suo orgoglio, avevano intimidito gli amori nascenti. Quanto a lei, amava troppo se stessa, troppo le premeva di far parlare di sé come della dama più elegante di Milano, per aver mente e cuore ad innamorarsi. Forte della sua bellezza e della sua gioventù non aveva bisogno di civetterie per farsi ammirare: e quella mancanza di civetteria, e l'altezza che le veniva dalla grande opinione che aveva di sé, le avevano fatta una riputazione d'onestà ed era stata la sua salvaguardia. Era considerata una fortezza inespugnabile. C'era voluta tutta l'eccitazione, il rapimento, la follia a cui era giunto Giovanni quella sera, nella lotta tra la sua imperiosa vitalità giovanile ed i suoi desiderii d'amore insoddisfatti, per gettare così in faccia ad una signora, che tutti giudicavano onesta, quelle tre parole ardenti come un bacio: "Siete troppo bella!". La contessa aveva ventotto anni, e di tutte le ebbrezze dell'amore non aveva conosciute che le carezze del suo vecchio marito. La passione, latente nel suo cuore, si accese come una fiamma all'urto di quello sguardo, al suono di quella voce. Ella non pensò di resistere a quel fascino come non aveva pensato mai di resistere a nessuno de' suoi desiderii. Il suo egoismo era grande come una passione; non sapeva negar nulla a se stessa. Quella notte, rientrando dal ballo, sola nella sua stanza, pianse di gioia e d'impazienza, ripensando le strette di mano e gli occhi neri e profondi di Giovanni. Dove l'avrebbe riveduto? Quando? Era tutto un orizzonte inesplorato di delizie che le si apriva dinanzi: una vita nuova. Dopo l'orgoglio di sapersi ammirata e bella, l'orgoglio più intenso di sapersi amata e la gioia d'amare. Giovanni si sentiva attirato da quella donna. La ricercava, la seguiva, la avvolgeva in una rete di passione. E quando la lontana immagine di Rachele gli si presentava alla mente, non più come una visione di cielo, ma come una meta da cui si allontanava, egli diceva come per tranquillarsi: "Questo amore passeggero per una donna maritata è un fiore che si coglie per via. Non impegna a nulla". Ma per nessuna cosa al mondo avrebbe rinunciato a cogliere quel fiore. Andava dappertutto dove sapeva di trovare la contessa; le stava sempre accanto coll'occhio avidamente fisso sulla sua persona bella. Coglieva l'occasione, nelle figure delle quadriglie, per stringerle la mano, e pareva che tra quelle mani ci fosse un filo conduttore d'elettricità che le facesse tremare all'unisono, e le congiungesse così fortemente, che il distaccarle era una pena e, separate, si ricercavano. Giovanni ballava poco. Ma una sera, trovandosi accanto alla contessa mentre intonavano una polka, le porse la mano in silenzio, ed ella accettò. Allora se la strinse al cuore come se volesse rapirla, la riscaldò, la arse in quell'abbraccio, le sfiorò i capelli, la accarezzò tutta quanta nella stretta delle due persone congiunte, poi, nel ricondurla a sedere, le serrò le mani con una forza che compendiava tutte le strette amorose, supplichevoli, ardenti, intime con cui aveva parlato a quella mano cara durante il ballo. Ma non le disse nulla. Era felice di quella passione calda che lo invadeva tutto. Si sentiva amato, s'inebriava, s'inteneriva in quelle mute dolcezze; amava di assaporarle; non sentiva il bisogno di precipitare il romanzo colle spiegazioni che lo avrebbero abbreviato. Sapeva che una spiegazione verrebbe. Vedeva la gioia suprema che lo aspettava, e lasciava che venisse da sé, di tenerezza in tenerezza, temendo quasi che, affrettando il momento supremo, avesse a perdere una di quelle sfumature del sentimento, uno di quegli episodi puerili e muti, che lo deliziavano. Pensava le spalle bianche, la vita flessibile, i capelli biondi della contessa Gemma, ricordava fremendo le sue strette di mano febbrili, i suoi lunghi sguardi innamorati; ed ardeva tutto all'idea che quella donna sarebbe sua. Dove? Come? Quando? Non ne sapeva nulla, ma era certo di possederla; e quella certezza lo inebbriava. Un giorno la signora Berti gli aveva dato appuntamento in casa sua, perché doveva presentarlo a qualcheduno misteriosamente. Infatti Giovanni trovò nel salotto della sua amica la signora del banchiere Ipsilonne, il quale era seriamente compromesso in un processo che si stava iniziando per una grossa falsificazione a danno dello stato. Una somiglianza fatale della sua scrittura con una delle firme falsificate lo accusava, e, dei due periti calligrafici chiamati dal tribunale, uno dichiarava di conoscere la mano di scritto del banchiere, e l'altro esitava, senza osare di negare la sua colpabilità. Ma in realtà egli era innocente. La moglie desolata giurava per lui, e si raccomandava a Giovanni perché ne assumesse la difesa, coll'impegno, coll'amore che aveva posto nella difesa del povero acquavitaio omicida. Era un processo interessantissimo, che prometteva all'avvocato un nuovo trionfo, e la causa di quell'uomo integro, fatalmente implicato in una truffa vergognosa, lo appassionò. Mise il suo tempo, la sua mente, il suo cuore al servizio del nuovo cliente. Impose silenzio alla sua passione, e, senza accordarsi il tempo per rivedere e salutare la contessa, si recò a Napoli, a Roma ed a Torino, per assumere documenti, prove e testimoni in favore del banchiere. Poi tornò a precipizio, perché la mattina seguente dovevano cominciare i dibattimenti. Giunse a Milano coll'ultimo treno della sera, dopo essere stato assente più di una settimana. Rientrando in casa trovò un telegramma del parroco di Fontanetto che lo aspettava da sei giorni. Partecipo con dolore morte dottor Mazza, tuo padre. Trovato esanime in letto stamane; spirato, pare, iersera. Regolamenti sanitari vietano differire sepoltura oltre ventiquatt'ore. Telegrafa ordini funerali. Dopo sei giorni i funerali dovevano essere fatti e dimenticati. Non era molto che Giovanni aveva spedita al padre una piccola somma; poi c'erano i mobili di casa. Egli pensò che ormai non c'era più bisogno de' suoi ordini, e tanto meno della sua presenza a Fontanetto, che del resto il processo del domani rendeva assolutamente impossibile. Egli aveva fatto il suo dovere, anche a costo di grandi sacrifici, sovvenendo il padre nella sua miseria; ma non era un figlio devoto. La vita da parassita, le ubbriacchezze del Dottorino, la sua servilità verso i signori, le sue violenze in casa, e l'ultimo degradamento del delirium tremens a cui lo sapeva ridotto, non lo invogliavano a correre al suo paese, per raccogliere l'eredità di sprezzo, che doveva essere l'unica successione del povero morto. Sapeva che in quel momento non avrebbe inspirata nessuna simpatia, perché era troppo viva la memoria di quell'ignobile vita e di quell'ignobile morte. E d'altra parte non gli premeva più tanto di produrre un'impressione favorevole a Fontanetto. Non s'era bastantemente arricchito per domandare Rachele, pensava. Ma in realtà, mentre cinque anni prima quel momento gli era sembrato tanto lontano, ora trovava che era troppo presto per ammogliarsi. Rispose con un telegramma, che la notizia gli era pervenuta troppo tardi e per conseguenza non aveva potuto assistere ai funerali; che confidava nel parroco, il quale certo aveva fatte le cose ammodo. Giovanni pensò con profonda tristezza la vita miserabilmente trascinata per trent'anni da suo padre, la sua morte vergognosa, tutta quell'esistenza oscura, senza elevatezza e senza affetti, e ne sentì un infinito rimpianto Il Dottorino aveva forza ed ingegno. Senza dubbio avrebbe potuto far qualche cosa; ed era passato così. Ed egli era suo figlio; forse aveva ereditato il germe del carattere paterno; forse le passioni abbiette che avevano rovinato il padre gli stavano latenti nel cuore aspettando un momento di snervatezza, d'inerzia, per svilupparsi e per vincerlo. Questo pensiero lo impaurì, gli riaccese più viva nel sangue la smania del lavoro, l'ambizione della gloria che incalza, il desiderio della ricchezza per assicurarsi l'indipendenza. E passò tutta la notte allo studio del suo grande processo per prepararsi alla difesa. I dibattimenti durarono una settimana, e furono una serie di trionfi pel giovine avvocato. Ormai era noto e famoso; ogni sua parola era aspettata, ripetuta in giro, riferita dai giornali. Il fatto solo ch'egli doveva parlare, faceva accorrere una folla di gente, stenografi, giornalisti; le sue frasi erano ridette, commentate nelle conversazioni, i suoi criterii facevano legge per molti, ed erano discussi e presi in considerazione anche dalle persone più serie. Ogni sera egli trovava alla sua porta un fascio di biglietti da visita, riceveva lettere di congratulazione, parole d'ammirazione e d'amicizia. Egli però era ancora sotto l'impressione triste della morte del Dottorino. Rientrando in casa, gli pareva sempre di doverci trovare il cadavere di suo padre, decrepito anzi tempo, morto nell'ubbriacchezza. Avrebbe voluto non pensarci, e non poteva. Ogni giorno vedeva nella tribuna la contessa che stava ad ascoltarlo. Era splendida di bellezza e d'eleganza, ed attirava tutti gli sguardi. Ma lei non guardava che il giovine difensore. Giungeva presto; quand'egli entrava era già là ad aspettarlo. Gli fissava in volto i suoi occhi d'un turchino metallico, e rimaneva immobile, cogliendo al volo lo sguardo di lui quando alzava il capo, lanciandogli un'occhiata tagliente, acuta, penetrante, che gli andava all'anima traverso le pupille. Durante la sua difesa, più volte egli la guardò; era appassionato e commosso, e sentiva il desiderio d'un volto amico. Lei era sempre nella stessa posizione, coll'occhio intento su lui, come per forza magnetica. La pupilla azzurrina era velata da uno strato vitreo: piangeva; non colla pezzuola, né con una mano sugli occhi; piangeva lasciandosi cadere lungo le guancie le lacrime lente, che pendevano tremolanti ai lati del mento, e si staccavano come perle per caderle sul seno, dove segnavano dei larghi dischi plumbei sulla seta cenerina del vestito. Giovanni era turbato da quegli sguardi, da quelle lacrime, da quella bellezza affascinante, da quell'amore prepotente che sfidava le convenienze per rivelarsi a lui. In quei giorni di tristezza sentiva d'amare la contessa con una tenerezza dolce da sposo. Non provava gl'impeti di passione sfrenata di un mese prima, non aveva il desiderio febbrile di stringerla, di stritolarla sul suo cuore, di mordere le sue carni rosee da bionda. Avrebbe voluto sederle accanto in un misterioso silenzio, e piangere sul suo seno. Ogni giorno si proponeva di andar da lei; ma differiva sempre. Si deliziava di quell'aspettativa, della stessa intensità del suo desiderio. E non cessava di pensare a lei. Il Dottorino era caduto in un tale stato d'ebetismo, che era passato dall'ubbriachezza alla morte senza forse avvedersene, certo senza poter chiamare aiuto, né aiutarsi. La Matta l'aveva trovato freddo, stecchito nel suo letto, ed era corsa ad avvertire il parroco, e questi l'aveva mandata a chiamare il procaccio per spedirlo subito a fare il telegramma a Borgomanero. "È pel signor Giovanni" diceva la Matta al procaccio. Ed era in tale orgasmo all'idea di rivedere Giovanni che non pensava più alla tragedia che era avvenuta in casa. Si fermava all'ingresso delle botteghe, e susurrava come chi teme di destare qualcuno che dorme: "È morto il padrone! È morto briaco!". E faceva atti di meraviglia; pareva che ricevesse lei quella notizia invece di darla. E quando lo stupore dei bottegai era passato un pochino, ripigliava, raggiante di gioia, come se fossero trascorsi degli anni, e non ci fosse nessun rapporto tra la nuova luttuosa della morte, e l'avvenimento felice che annunciava: "Ora il padrone è il signor Giovanni; servirò lui". La sera il parroco, vedendo che il figlio non veniva né rispondeva, disse che bisognava seppellire il cadavere. La Matta rimase atterrita. Guardò il morto, che aveva la bocca contorta come se la schernisse dalla sua cassa, e pensò che stava per andarsene. Poi pensò alla lontananza ignota del padrone giovine, e si mise a piangere ed a gemere: "Oh Dio! Come farò a trovarlo? Come farò?" Era sempre stato il suo ideale, povera donna, di servire un giorno Giovanni, di vivere con lui. Nella devozione del suo amore da schiava, non aveva mai desiderato altro che di servirlo; ma lo aveva desiderato con un'intensità passionale, ne aveva fatta la méta della sua vita in questo mondo; e quando in chiesa pensava vagamente al paradiso si figurava ancora Giovanni in alto, e lei a' suoi piedi; un atteggiamento cui non avrebbe osato aspirare nel suo stato presente, ma che le pareva d'una dolcezza paradisiaca. Intanto pregustava piaceri più terreni. Passava delle ore incantevoli ad immaginarsi di preparare un pranzo per Giovanni. Sapeva che amava il risotto, pensava tutta la cucinatura d'un risotto squisito; vi aggiungeva idealmente dei funghi, e fin dei tartufi; e rideva di gioia all'illusione di vederglielo mangiare e di sentirsi dire: "Com'è buono!". Si faceva insegnare dalle cuoche del farmacista e del parroco una quantità d'intingoli complicati, per nutrire i suoi sogni d'amore. Ed ora dov'era mai quel padrone che voleva servire con tanto cuore? Dove trovarlo? E se si fosse smarrita per via? Ed anche il morto se ne andava. Lei non lo aveva amato; ma ne aveva presa cura perché era il padre di Giovanni, e perché sentiva vagamente che quel vecchio inebetito era un legame tra la casa ed il giovine assente. Il morto fu messo sotterra; e quando la Matta tornò dal cimitero, sfigurata dal piangere lungo e disperato, trovò il parroco, che era tornato prima di lei, e faceva esaminare a parecchi creditori i mobili del defunto. I denari che riceveva dal figlio il Dottorino li spendeva all'osteria, dall'acquavitaio, dal tabaccaio; ed aveva lasciati dei debiti presso tutti i bottegai e presso il padrone di casa. "È un debito di quattrocento lire in tutto" diceva il parroco. "Poi ci sarebbe quel poco funerale, e la messa... Sul figlio non c'è da contare, perché non ha nemmanco risposto e non è venuto; ma, vendendo i mobili, se ne caverà una piccola somma che forse basterà a pagar tutti". La Matta, che era stata ad ascoltare a bocca aperta, si fece pallida e tremò. Vendere i mobili! I mobili, fra i quali aveva sognato di vivere il resto de' suoi giorni con Giovanni! Il suo letto; la tavola dove pensava sempre d'apparecchiargli da pranzo. E quei libri che gli piacevano tanto! Rimase un poco assorbita in riflessioni difficili, senza più badare ai discorsi degli altri che parlavano di vendita amichevole di asta giudiziaria di altre cose che lei non capiva. Poi se ne andò, corse ad aprire la sua cassa, e ne tolse il libretto della cassa di risparmio, che portò al parroco, ridendo di gioia cogli occhi ancora gonfi di pianto. "Cosa vuoi farne?" domandò il parroco. "Comperare i mobili..." implorò la povera donna. "Sarebbe un prestito che faresti al figlio del tuo padrone?" "Sono suoi" disse la Matta con generosa convinzione. "E il padrone è lui". "Ma dei mobili cosa vuoi farne?" "Portarli al padrone. Ma bisogna insegnarmi la strada". Il parroco rimase perplesso. Non voleva abusare della generosità stupida della povera serva. D'altra parte sapeva che i mobili del Dottorino non potevano fruttare in tutto che un centinaio di lire. Invece, le cinquecento lire all'incirca che offriva la Matta erano bastanti per pagare i creditori ed anche la parrocchia. Ci pensò a lungo, perché non aveva la mente molto svegliata; ma finì per trovare una soluzione: "Tu comperi i mobili per conto dell'avvocato" disse alla Matta. "Più, gli presti il rimanente della somma per pagare i debiti di suo padre. Io farò in modo che ti rimanga da pagare il viaggio ed il trasporto dei mobili. E tu, andando a Milano colla roba, gli dirai la cosa com'è, e ti farai restituire il fatto tuo. Gli dirai che, se non ha fede nella tua parola, scriva pure a me, ch'io attesterò del prestito che gli hai fatto di cinquecento lire...". Di tutto questo la Matta non capì nulla, assorta com'era nell'idea d'andare a Milano da Giovanni e di portargli i suoi mobili, che dovevano fargli tanto piacere. Dove fosse Milano, come potrebbe arrivarvi, non ci pensava più. Il parroco le avrebbe insegnata la strada. Andava a servire Giovanni, a fargli da pranzo, a spazzolargli i vestiti, a rifargli il letto. Come si proponeva di rivoltare le foglie del pagliericcio! di farle stare sollevate perché il letto fosse morbido! Lei non conosceva ancora i pagliericci elastici. Diceva alle vicine: "Ora non gli mancherà più nulla, poveretto. Ora sono io che lo servo!". E lo diceva con un intenerimento, con un senso d'abnegazione, come se, dacché era lontano da lei, nessuno gli avesse più resi quei servigi, e stesse squallidamente abbandonato, aspettando lei. Era trasfigurata dalla gioia. Salutava tutti dicendo: "Non mi vedrete più". Ma quella parola tristissima delle separazioni eterne, la ripeteva giubilando: non poteva cessare di ridere; quel riso era diventato una contrazione involontaria del volto; una convulsione di gioia. Passò parecchi giorni e spesso vegliò anche la notte per pulire, involgere, imballare, sempre col pensiero smarrito nelle visioni, lungamente vagheggiate, di piatti in cucinatura, destinati a Giovanni, delle scarpe di lui infilzate nel suo braccio, e lustrate, lustrate, fino alla lucentezza d'uno specchio, fino ad indolorirle la spalla pel resto della giornata. La partenza da Fontanetto sul carro, la strada ferrata, che vide per la prima volta a Novara, non la distrassero dalle sue fantasie. Osservò con ispavento i facchini che portavano i mobili verso i carri delle merci, lontani dalla carrozza di terza classe, dove il carrettiere, dandole il biglietto, aveva indicato a lei di salire; poi si avviò verso le merci per viaggiare accanto al suo deposito. Ci vollero spiegazioni infinite per farla tornare al suo posto. Guardava con diffidenza quel pezzo di carta che doveva farle restituire i mobili a Milano e lo teneva preziosamente stretto in mano, sebbene dubitasse del suo valore. Il carrettiere le disse: "Vedrete come si va presto là dentro. Altro che sul carro!" Ma lei non gli diede retta rispose soltanto: "Siete sicuro che me li restituiranno quando sarò a Milano?" Si avvide appena della rapidità della corsa; non poteva essere bastantemente rapida pel suo desiderio. Scendendo a Milano si gettò sul primo impiegato delle ferrovie che vide, col suo biglietto in mano, e non badò a nulla, fuorché alla ricerca dei mobili. Il facchino che li caricava, vedendo quella specie di selvaggia, le disse: "È la prima volta che venite a Milano?" La Matta stese ansiosamente le mani verso uno stipo sgangherato che egli stava sollevando e non rispose. "Vedrete com'è grande e bella Milano!" tornò a dire il facchino. "Più del vostro paese. Di dove siete?" "Badate che non si rompa; posatelo pianino" gridò la Matta tutta assorta nella responsabilità di quello stipo. Percorse le contrade, a piedi, dietro i due carri tirati dai facchini, cogli occhi fissi sui mobili, senza badare ad altro. In piazza del Duomo il facchino ciarliero si voltò per godere della sua meraviglia. Ma la Matta non guardava il Duomo. Pensava che stava per veder Giovanni, per comparirgli dinanzi improvvisamente, le batteva il cuore, ed aveva una inesplicabile paura. Poi pensava alla gioia che proverebbe ricevendo i suoi mobili. "Tanta bella grazia di Dio che volevano vendere!" Il facchino le gridò: "Ohe! Guardate un po' in su. È più bello del San Gaudenzio di Novara". La Matta alzò gli occhi; vide una massa bianca e smisurata colla Madonna in cima, si fece il segno della croce, poi riprese a camminare a capo chino. "Stupidi villani!" mormorò il facchino ambrosiano; e diede un urtone al carro dei mobili, per vendicarsi. La Matta aveva un bigliettino che le aveva dato il parroco coll'indirizzo di Giovanni, Via del Capuccio N... Non aveva voluto darlo al facchino, l'aveva presentato tutto spiegazzato a due o tre persone domandando ansiosamente: "Dov'è? Da che parte si va?" Ed aveva preteso di dirigere i facchini dietro quelle indicazioni. Furono essi invece che la guidarono, e si fermarono al portone che a lei, incapace di leggere i numeri, sarebbe sfuggito. Giovanni non era in casa. Lo scrivano dello studio aperse l'uscio, e rimase sbalordito al vedere quella contadina seguita da due uomini carichi di vecchi mobili. Il giovine avvocato non aveva che lo studio, con un salottino annesso, e la camera da letto. Lo scrivano esitava a lasciar ingombrare le stanze con quelle anticaglie. Ma la Matta lo guardò ben bene in aria di sfida, e gli disse: "Sono i suoi mobili, ed io sono la sua serva". D'altra parte i facchini grugnivano "che non potevano rimaner sull'uscio eternamente con quei pesi sul capo". Bisognò lasciarli deporre il carico, una volta, due, tre, finché ebbero vuotati i carri. C'era una stia sulla scrivania dell'avvocato, e la vecchia libreria vuota, posata contro l'armadio della camera da letto, ne nascondeva lo specchio. Nel vano del balcone entrò come una nicchia il cassone dei libri, e dappertutto seggiole zoppicanti, materassi rotolati, fodere da pagliaricci, credenze. La Matta contemplò avidamente il mobiglio del piccolo quartiere che le parve splendido. "Questa però non è roba sua", pensava. Aveva una vaga rimembranza di discorsi uditi quando Giovanni era all'università, che non aveva bisogno di portarsi un letto né altro perché gli dava tutti i mobili la padrona di casa. "Sono più belli dei suoi" diceva fra sé guardando il letto di ferro vuoto, e le modeste poltroncine di damasco di lana, "ma sono troppo belli, danno soggezione. Non si potrebbe prendere la rincorsa e saltare su quel tavolino, lucido a quel modo; ci resterebbe l'impronta dei piedi..." E, tutta rasserenata a quell'idea gioconda dei salti che Giovanni faceva da fanciullo, riprese a sorridere alle vecchie tavole che ingombravano il passaggio. "Come si troverà più libero fra questi mobili suoi che conosce..." E si figurò di vederlo rallegrarsi di quegli oggetti come di vecchi amici; le pareva che dovesse guardarli ad uno ad uno, e ridere delle memorie che gli richiamavano, e quasi accarezzarli, e poi dire a lei che era contento di riavere la sua roba, e che aveva fatto tanto bene a portargliela, guai se l'avessero venduta! E fregarsi le mani, e saltare, e dire: "Ora sì che mi sentirò in casa mia, e staremo bene!" Era tutta animata evocando col pensiero l'immagine del bel giovinetto che era partito dal paese cinque anni prima, ma se lo figurava più gaio, più felice pel dono che lei gli portava. Guardò i suoi abiti appesi ad un attaccapanni, li rivoltò da ogni lato, introdusse timidamente una mano nella fodera d'una manica, poi sorrise e disse forte: "È seta!" Vicina al letto c'era una poltroncina, e sul tappeto una pianella capovolta. La raccolse, cercò sotto il letto la compagna, e le dispose una accanto all'altra. Accarezzò lo schienale imbottito della poltrona, passò leggermente una mano sul sedile; le batteva forte il cuore; si sentiva opprimere; cedendo ad un'attrazione irresistibile, si guardò intorno come se temesse di venir sorpresa, poi si mise a sedere sull'orlo di quella poltroncina dove sedeva lui. Una specie di ebbrezza la invadeva; tremava tutta; era commossa e finì per abbandonarsi ad un pianto silenzioso e dolce. Finalmente s'udì il campanello. La Matta balzò in piedi e corse all'uscio dello studio. Era lui che tornava di certo; e lei era là in casa sua a riceverlo, a servirlo. Come doveva essere contento di vederla là! Le si struggeva il cuore dalla tenerezza. Diede un'occhiata rapida al letto laggiù in fondo alla camera, ed all'uscio, e le splendevano gli occhi come due fiamme. Forse pensava se traverso la toppa si potesse vederlo dormire, come laggiù nella stanza di Fontanetto. S'udì lo scrivano aprire l'uscio del salotto, poi una bella voce, sonora come una musica di chiesa, disse in tuono di grande meraviglia: "Che cosa c'è?" "È giunta una contadina... La sua serva..." rispose lo scrivano. La Matta che s'era sentita commossa fin nelle viscere da quella voce, ringoiò un singhiozzo che la strozzava, e s'affacciò all'ingresso del salotto gridando: "Son io, signor Giovanni, son io!". Poi si mise le mani giunte fra le ginocchia, e stette a guardarlo dondolandosi e ridendo, ridendo finché gliene rimasero gli occhi pieni di lacrime. "Oh! sei tu, poveretta! Come va? Come va?" disse Giovanni cordialmente. La Matta non poté che rimettersi a ridere, perché quel gruppo in gola non la lasciava parlare. "Mi fa piacere di vederti" soggiunse l'avvocato, battendole una mano sulla spalla. "Brava! mi fa piacere". Questa volta il gruppo uscì dalla gola in un singhiozzo, e la povera donna si nascose il volto nelle cocche della pezzuola del capo che le pendevano sotto il mento. "Via via" tornò a dirle Giovanni affettuosamente, "non agitarti. Siedi. Riposati. Parleremo più tardi". Ed entrò nella sua camera. Ma ne uscì presto, stette un momento sull'uscio per assicurarsi che il primo impeto di commozione era passato poi disse: "E così? Com'è che hai portati questi mobili?" "Sono suoi" rispose la Matta, ed il suo volto s'irradiò di gioia nel dargli quella nuova consolante. "E tu hai fatto il viaggio apposta per accompagnarli?" domandò Giovanni, senza esternare il piacere che la Matta s'aspettava. "Sei stata ben buona, e te ne ringrazio". La Matta ripeté ancora: "Era giusto; sono suoi". "E non ci sono debiti da pagare laggiù?" "No, no. È pagato tutto". Giovanni aveva mandato sufficiente denaro a suo padre per poter credere facilmente che fosse morto senza lasciar debiti, ed avanzando da pagare i funerali. Fece un giro nello studio, guardando la stia sulla scrivania, due panche da letto ritte contro un casellario, pigliando in mano una vecchia cassetta pel sale, che era sulla tavola dello scrivano; poi tornò dalla Matta e ripeté i ringraziamenti. "Sei stata troppo buona davvero. Non metteva conto di venire fin qui per questi cenci. Si sarebbe potuto venderli là; oppure avresti potuto tenerli". "Oh, sono suoi" disse per la terza volta la povera donna col cuore serrato. "Non importa" riprese Giovanni, "te li regalerei volentieri in compenso delle cure che hai avute pel povero babbo". La Matta si sentiva gelare il sangue di dentro. Non era l'accoglienza che s'era aspettata; le pareva che la mettesse fuori dell'uscio, e tremava tutta di vedersi sola nel mondo. Giovanni, vedendo che rimaneva a capo chino senza rispondere, credette di comprendere, e ripigliò: "Ma forse non sapresti dove metterla questa roba; non puoi portartela in casa dei padroni. Dove andrai ora?" le domandò con affettuosa premura. "Hai trovato da collocarti?" Fu un colpo di pistola in mezzo al cuore per quella serva devota. Non la voleva! Non ci pensava nemmeno di tenerla con sé! Quella delusione la colpì così dolorosamente che si lasciò ricadere sulla sedia e si mise a piangere ed a sospirare: "Oh povera me! O povera donna me!" Giovanni le sedette accanto, cercò di consolarla. "Non affliggerti così. Se non hai padrone, lo troverai; intanto puoi rimanere qualche giorno qui, e poi ti darò del denaro perché tu possa aspettare in casa della tua balia finché non ti capiti da collocarti bene. Sai che non sei una donna abbandonata. Ho de' doveri verso di te, e li riconosco volentieri..." Passeggiò su e giù per la stanza, come impacciato dalla presenza di quella donna, poi guardò l'orologio e vide che erano le sei: "Ma tu avrai fame" disse con premura. "Io pranzo alla locanda e qui non ho nulla da darti. Ti farò accompagnare ad un albergo qui accanto, dove ti daranno da mangiare, ed anche da dormire. Potrai fermarti due, tre giorni, fin che vorrai. Sono buona gente. Le ragazze ti condurranno fuori a vedere Milano". La Matta non si moveva. S'era tirata giù la pezzuola fin sulla fronte, e rimaneva muta colla testa bassa. "Non vuoi venire? Che cosa vuoi fare?" domandò Giovanni con un lieve tono d'impazienza. Lei sentì che doveva rispondere, e facendo uno sforzo sovrumano balbettò: "Io non so". Egli era avvezzo a quella parola inconsapevole della povera scema, ma in quel momento, vedendo che rifiutava di andare a mangiare e dormire, mentre doveva averne tanto bisogno, pensò che forse le mancava il denaro, ed aprendo il cassetto della scrivania, ne trasse un biglietto da cento lire, e glielo mise in mano dicendole: "Prendi. Questo è per te. Ti pagherai le spese all'albergo, ed il viaggio quando vorrai tornare al paese. Ed in ogni occorrenza che tu abbia bisogno, fammi scrivere, perché sei sempre stata buona e non ti abbandonerò". Era una sentenza definitiva. Non voleva tenerla con sé. Era finita, non c'era più speranza. Il lungo sogno della sua povera vita svaniva, il suo grande amore da schiava era respinto dal padrone. In quella immensa rovina parve alla Matta che il mondo crollasse intorno a lei, che la spingessero sola in un immenso deserto. Le venne in mente l'asino del mugnaio che girava sempre sempre intorno ad un palo per far girare la macina, e, quand'era vecchio e non girava più, lo conducevano a Borgomanero e lo vendevano per poche lire. E pensò che lei era come quell'asino. Si rizzò convulsa, scese le scale barcollando, Giovanni la seguì. Provava una grande pietà per quella povera creatura. La condusse egli stesso in un piccolo albergo modesto, dove altre volte aveva mangiati i suoi modesti pranzi da una lira, e la raccomandò all'albergatrice. Poi le disse prendendole una mano come avrebbe fatto con una signora: "Sei stanca, poveretta. Ora mangerai bene, berrai un buon bicchiere di vino, e ti metterai a letto. Addio; stai di buon animo. Vieni a trovarmi prima di partire. E se hai bisogno di me, ricordati". Se ne andò commosso e pensoso. Quella comparsa gli faceva tornare alla mente vaghe e lontane le immagini del passato: il suo poetico amore, mezzo morto, soffocato dalla passione che lo divorava. Ma quello era l'amore dell'avvenire, l'amore dell'età tranquilla, il riposo, la pace. Ora aveva nell'anima la tempesta. Quell'ultimo giorno la contessa lo aveva magnetizzato, bruciato coi suoi lunghi sguardi. In certi momenti era penetrata nel suo cuore fino a fargli tremare la voce, a mettergli un singhiozzo in gola. Colla fissità innamorata di quegli occhi larghi e chiari gli aveva detto ancora ed ancora che lo amava, che era sua. Ed egli sentiva che era vinto, che non potrebbero più vivere separati, che avevano assaporate tutte le note dell'incantevole preludio dell'amore, che erano giunti a quello stato d'esaltamento che rende felici od uccide. E per essi non c'erano ostacoli, non dovevano morire. Quella notte vegliò febbrilmente sognando l'ultimo rapimento dell'amore confessato, la gioia ineffabile e crudele di possedere quella donna, d'abbandonarsi a lei, di confondere le loro vite in una passione colpevole. Il mattino fece sgombrare lo studio dei vecchi mobili di suo padre. Incaricò lo scrivano di farli mettere sul solaio, e di riporre i libri nella libreria. Aspettava qualche cosa; era agitato; avrebbe voluto che la sua casa fosse bella. Non osava pensare che la contessa poteva venire; ma aspettava qualche cosa da lei; era certo di vederla; quel giorno sarebbe andato e le avrebbe detto che la amava. Ma sperava che lo scrivesse prima lei. Andò a sedere alla scrivania; ma era impaziente. Ad ogni scampanellata guardava l'uscio ansiosamente; se tardavano ad entrare, gridava allo scrivano che era andato ad aprire: "Chi è?" Una volta lo scrivano gli rispose: "È il cameriere della locanda. Viene per quella donna di ieri..." "Ah! Va bene, pagalo" rispose Giovanni distratto. Ma poco dopo lo scrivano rientrò: "Dice che vuol parlare con lei". Giovanni accennò col capo di sì, e guardò il cameriere per invitarlo a parlare. Questi crollò il capo, poi disse: "Era disperata, povera donna!" "Disperata! Perché?" "Non so. Non ha voluto parlare. Andò a rannicchiarsi in un angolo della bottega e rimase tutta la sera cogli occhi da spiritata. Urlava come un cane rabbioso, e si cacciava le unghie nella fronte". "Ma cosa aveva?" domandò Giovanni. "Sie... Aveva un bell'interrogarla in tutti modi, anche la padrona. Non rispondeva nulla, la respingeva ed urlava più forte. C'è voluto tutto a farla andare in camera quando si dovette chiudere l'albergo. E tutta notte l'abbiamo udita gemere. Poi questa mattina la padrona la trovò ancora rannicchiata in terra; non s'era messa a letto. Disse che voleva tornare al suo paese, e non ci fu verso. Bisognò metterla nell'omnibus e condurla alla stazione pel primo treno di Novara. Non sapeva neppure prendere il biglietto; l'ho preso io..." Giovanni rimase impensierito. Aveva ascoltato un po' distrattamente, ma pure s'interessava della povera serva; disse a mezza voce: "Cosa potrà avere? Ma!". Poi pensò che i campagnoli non sanno stare lontano dai loro paesi. Quella poi non se ne era scostata mai, ed era un po' scema; s'era spaurita... Prima che il cameriere uscisse, s'udì un tocco del campanello; e portarono una lettera a Giovanni. Era la lettera della contessa. Egli si alzò, e corse a leggerla solo nella sua stanza. Alla Matta non pensò più. La bella contessa Gemma, avvezza ad appagare tutte le sue brame ad ogni costo, appena s'era sentita nascere nel cuore un amore, vi si era abbandonata senza la minima resistenza; l'aveva anzi fomentato coll'immaginazione, aveva pregustate con delizia le sorprese di quella nuova gioia che si prometteva. S'era figurata l'ora inebbriante e soave della confessione; le parole ardenti, gli sguardi innamorati e profondi, le carezze febbrili; ed aveva vissuto quell'ora col pensiero, coll'ansia del desiderio; ne aveva provate le emozioni, intense fino allo spasimo, fino al delirio; e di giorno in giorno aveva detto: "Sarà domani". Poi i domani s'erano succeduti monotoni e lenti senza portare nessun avvenimento nel suo romanzo d'amore; ed allora la contessa s'era sentito stringere il cuore da apprensioni paurose: "Se non lo vedessi più? Se non mi amasse? Se quella sera avesse ceduto ad un'eccitazione momentanea e poi l'avesse scordata come si scorda un'ora d'ubbriachezza?". Ed allora le era parso che le mancasse qualche cosa di profondamente caro, di necessario alla sua esistenza; aveva provato un bisogno potente che, comunque fosse, ubbriachezza, eccitazione, delirio, quella sensazione durasse nell'animo di Giovanni; oppure si rinnovasse, se quel breve tempo l'aveva dissipata. E s'era data a cercarlo affannosamente nelle case ch'egli frequentava, ai teatri, alle feste, studiando le abbigliature e le scollature più provocanti, facendosi bella e seducente per riconquistare quella dolcezza, che l'aveva inebbriata un momento ed era svanita. E da ogni ricerca tornava prostrata, irritata, nervosa; s'abbandonava a pianti convulsi, ed accessi di furia; spezzava quanto le cadeva sotto mano, maltrattava la cameriera, lacerava abiti e trine, scriveva lettere disperate, poi le lacerava anch'esse. Finalmente aveva saputo che egli era assorto in un processo di grande importanza; e lei era corsa a cercarlo alle udienze, aveva preso il posto più in evidenza nella tribuna, aveva fatto pompa delle commozioni che provava nell'ascoltarlo, s'era gloriata superbamente di quel sentimento tutto nuovo pel suo cuore frivolo, e che metteva una nota romantica nella sua vita. Per tutta la durata dei dibattimenti, aveva scandagliato il giovine avvocato colla fissità delle sue pupille metalliche; gli aveva trasfusa nell'anima traverso gli occhi un'onda d'amore, l'aveva attirato a sé colla potenza d'una passione imperiosa, d'una volontà irresistibile. E lo aveva veduto arrossire, impallidire, tremare, commoversi sotto suoi sguardi, ed aveva riprovata la gioia suprema di sapersi amata. Ma ancora i giorni s'erano succeduti, e Giovanni non era andato da lei. Tornando dalla grande seduta quell'ultimo giorno, ardente d'entusiasmo, ardente d'amore per quel giovine dalla voce armoniosa e profonda che strappava lacrime ed applausi a tutti, la contessa aveva rotto ogni freno di riserbo femminile, e, nella sua impazienza, aveva scritto: "Perché non venite? Non sapete che vi amo?" Quella lettera mise la febbre nel sangue a Giovanni. Dopo il lungo studio e la lunga fatica di quel processo che lo aveva occupato esclusivamente, si gettò con un ardore da assetato in quella festa d'amore che la fortuna gli offriva. Corse come un pazzo dalla contessa, dimentico dell'ora, delle convenienze, di tutto. Erano appena le undici del mattino. Fu introdotto in sala da pranzo, dove il generale e sua moglie stavano a colazione. Giovanni rimase istupidito come uno che si svegli improvvisamente da un bel sogno. Non gli pareva possibile che quella signora, seduta compostamente a tavola, che mangiava una bistecca discorrendo del più e del meno con quel marito vecchio, fosse la stessa eroina da romanzo che gli aveva scritto: "Non sapete che vi amo?" In un momento tutta la sua illusione inebbriante si dissipò, gli parve di aver delirato, e che non fosse vero nulla, e che dovesse trattare sempre quella bella donna come la trattava in quel momento davanti al conte. Quell'ambiente tutto impregnato d'odori di vivande, colla mensa coniugale, coi cerchietti dei tovaglioli marcati coi nomi dei due sposi, colle biancherie colle loro cifre, con una quantità di cosette di uso comune che li vincolavano, non era fatto per udire proteste d'amore, e le soffocava in gola. Un momento Giovanni pensò che quella lettera era stata un artificio per ottenere una visita che egli tardava troppo, e forse anche per ischernirlo di quel momento d'aberrazione, in cui egli s'era lasciato sfuggire quell'esclamazione stravagante: "Siete troppo bella!" Stette ad assistere alla colazione, comprendendo appena le domande che gli facevano sui particolari del processo, rispondendo lungamente come se, per giustificare in qualche modo la sua presenza a quell'ora, volesse persuadere il generale che era andato appunto per portare quelle nuove. Era imbarazzato di trovarsi là, e non sapeva come andarsene. Guardava la contessa e la vedeva così tranquilla, sorridente, felice, che non poteva più figurarsela tribolata da una grande passione. Senza dubbio il solo pazzo era lui. Finalmente il conte si alzò da tavola, porse la mano al visitatore, e, coll'aria rassegnata d'un uomo avvezzo a piegarsi alla volontà della moglie, domandò di uscire per fumare un sigaro: "Gemma non può tollerare l'odor di tabacco in casa". E se ne andò. Appena egli fu scomparso parve che l'ambiente della stanza si mutasse; la prosa era uscita con lui. La contessa, ritta accanto all'uscio che aveva chiuso dietro il generale, sembrava trasfigurata. Le sue pupille turchine mandavano lampi acuti come punte d'acciaio; tremava tutta. Giovanni le si fece incontro, e sentì che le parole d'uso, i saluti convenzionali non erano più possibili. S'erano compresi e spiegati troppo; erano due innamorati, soli per la prima volta, l'uno in faccia all'altra. Stese le mani in silenzio; Gemma gli porse le sue, e stettero così un momento colle mani strettamente congiunte, cogli occhi fissi, muti, palpitanti, inteneriti. Poi Giovanni se l'attirò accanto, la serrò in un abbraccio ardentissimo, silenzioso, mentre lei, sopraffatta dalla violenza dei suoi sentimenti, si abbandonava ad un pianto convulso. Da quel giorno Giovanni e la contessa Gemma divennero inseparabili. Dovunque essa andava, si era certi di vederla accompagnata da lui. Alle sue serate, ai suoi pranzi d'invito il giovine avvocato era immancabile come uno della famiglia. Era difficile giungere prima di lui e partire dopo. Dal canto suo la contessa era assidua in tribunale quando Giovanni perorava qualche causa; si teneva al corrente di tutti i processi che gli erano affidati, e si gloriava dei trionfi di lui come d'una cosa che la riguardasse. Quel primo amore a trent'anni, nella pienezza del suo sviluppo fisico, della sua esperienza di donna, s'era rivelato alla prima imperioso, violento, intollerante d'ogni freno. Pareva che ella si compiacesse a far pubblica la sua relazione con Giovanni come per dire alla gente: "Badate, questo uomo è mio". Vivevano quanto più potevano insieme; in mezzo ad un circolo di conoscenti sapevano cogliere il momento per rivolgersi qualche parola sommessa, per isfiorarsi la mano nel porgersi una tazza di tè, nel leggere insieme un giornale. Davano appena, lui al lavoro, lei alle esigenze della vita elegante, il tempo e l'attenzione che erano strettamente necessari. Poi si cercavano, si rinvenivano, dimenticavano ogni cosa per assorbirsi l'uno nell'altra. Sovente, a tarda sera, uscendo dal teatro, si facevano condurre fino ai bastioni lontani di Porta Nuova, poi mandavano la carrozza ad aspettarli a Porta San Celso e facevano a piedi sulla neve quel lungo tratto di strada, rabbrividendo di freddo, stringendosi l'uno all'altra per riscaldarsi, correndo, parlando poco, beati di sentirsi uniti e soli e liberi nella misteriosa oscurità. Se per necessità di professione Giovanni doveva allontanarsi da Milano, la contessa scompariva al tempo stesso, e ricompariva soltanto quand'era tornato lui. Si dava appena la briga di immaginare una parente lontana che era stata a visitare in campagna, ma senza curarsi di farlo credere. Inventarono alcune di quelle follie temerarie che i giornali pettegoli amano di narrare, nascondendo male i nomi dei protagonisti sotto il trasparente velo dell'anonimo Fecero l'ascensione del Monte Rosa vestiti tutti e due della medesima stoffa grigia, colla stessa cravatta, gli stessi stivaletti, lo stesso cappello di feltro ornato d'un pennacchietto e di una sciarpa bianca, gli stessi guanti. Sull'alpenstok, sotto il nome del picco e la data dell'ascensione, fecero incidere le loro iniziali riunite, e, lungo il viaggio, sugli album degli alberghi, s'inscrissero sempre come sposi in viaggio di nozze, mettendo accanto ai loro nomi delle frasi sentimentali. Un'altra volta andarono a Monte Carlo, giocarono fin all'ultimo soldo, e dovettero rimanere in pegno all'albergo finché Giovanni ebbe telegrafato a Milano, e gli fu spedito il denaro del ritorno. Il generale ignorava forse quelle spedizioni di sua moglie; oppure le conosceva, e si era rassegnato. Comunque fosse, la relazione della contessa col giovine avvocato non era un mistero per nessuno. Era una di quelle situazioni che la gente tollerante accetta malgrado la loro illegalità, che le persone ammodo tengono a distanza, ma a cui tutti finiscono per avvezzarsi. Anche i due amanti ci si avvezzarono, e dopo qualche tempo, esaurito il repertorio delle follie amorose, tirarono via ad amarsi tranquillamente come due sposi. Era un amore troppo sicuro e palese per creare situazioni da romanzo. Non c'era il mistero né la paura affannosa d'essere scoperti. Tutto procedeva liscio in quella passione spensierata e gioconda che si alimentava più di monellate che di sentimentalità languenti; era un amoretto più che un amore, e per questo durava. Tuttavia Gemma, sotto quell'apparenza giuliva d'amoretto galante, nutriva una forte passione nella quale aveva concentrata tutta la poesia d'un primo amore, tutto l'ardore dell'età matura. Mentre invece Giovanni, sedate le prime tempeste, s'era fatto de' suoi rapporti con la contessa una dolce abitudine, che lo riposava da' suoi lavori senza distrarnelo troppo, che non lo turbava con impazienze ardenti né con gelosie, che gli lasciava tutta la sua serenità di spirito. E gliene era grato, e le era affezionatissimo. Tratto tratto ripensava le sue lontane ambizioni di farsi ricco per strappare al signor Pedrotti il consenso di sposare Rachele. Ora era ricco, guadagnava cinquantamila lire all'anno. Ma quanto tempo c'era voluto! Fortuna che quella giovinetta non s'era impegnata ad aspettarlo. Ormai doveva essere maritata, e madre di famiglia. In certi giorni noiosi, monotoni, sospirava che anche lui avrebbe voluto esser padre di famiglia, e che invecchiava solo, e più tardi non avrebbe nessuno intorno per amarlo... Ma poi rivedeva la contessa, passava delle buone ore con lei, e non ci pensava più. Così passarono degli anni, durante i quali la fama, la fortuna, la situazione sociale di Giovanni si consolidarono. Non era più un giovinotto; aveva trentacinque anni: era un uomo serio; si trovava alla testa di uno dei principali studi legali di Milano; possedeva un appartamento signorile; era decorato della croce dei Santi Maurizio e Lazzaro, ed era certo d'essere portato candidato alle prime elezioni. La contessa era sempre bella, e, con quella tenacità che è particolare alle donne, sempre innamorata. Finché Giovanni fu assiduo presso di lei, e devoto ai suoi desideri, fu felice anche lei di quell'amore sereno in cui tutto era piacere e diletto. Ma venne il tempo in cui anche le formalità della galanteria furono messe da parte, e, gradatamente, senza quasi avvedersene, Giovanni trascurò di mostrarsi innamorato, e lasciò troppo comprendere che considerava l'amore coll'occhio d'un uomo serio. "Questa" diceva, "è la parte privata della mia vita: non deve invadere il terreno della parte pubblica. Ho altri doveri: lo studio, il tribunale, gli affari, la politica. Debbo leggere i giornali, frequentare i circoli. Quando sono libero non domando di meglio che stare con te. Ma non posso passare le giornate a farti la corte. Sai che ti voglio bene..." La bella Gemma invece s'era fatta delle idee da romanzo; sognava la passione esclusiva ed eterna, non poteva rassegnarsi a quel cambiamento di Giovanni, ne cercava le cause, scriveva lunghe lamentazioni, e quando rivedeva l'amante, occupava le poche ore ch'egli poteva dedicarle a fare scene di risentimento e di gelosia. Giovanni, in realtà non aveva fatto nessun cambiamento. Egli, che l'aveva sempre amata ad un modo, e soltanto aveva smessa un po' la galanteria e le dimostrazioni a misura che era cresciuta l'intimità, non capiva di che cosa ella si lagnasse, la trovava esigente ed ingiusta. "Alla nostra età" le diceva, "non possiamo più abbandonarci alle follie amorose come due giovinetti". Quelle parole sembravano crudeli alla contessa. Si disperava ch'egli la trovasse vecchia. "Ecco" diceva, "è per questo che non mi ama più". E si torturava di gelosia se egli avvicinava una donna più giovine di lei. Giovanni ci metteva della buona volontà per renderla contenta; tornava studiatamente alle frasi amorose, si metteva in ginocchio, le baciava le mani. Ma era troppo uomo per non avere un certo sussiego in società: ed in presenza della gente ripigliava il suo contegno serio che affliggeva tanto Gemma. "Debbo farlo per rispetto alle convenienze" diceva, "per rispetto a te stessa". Ma lei, che ripensava sempre con rimpianto il tempo in cui egli pure non si curava di quel rispetto, non rinunciava alla speranza di vederlo rinascere, ed insisteva a cercare la causa che rendeva freddo il suo amante. Più d'una volta lo mise nell'imbarazzo frapponendosi tra lui ed una supposta rivale. Una sera, mentre egli si disponeva ad accompagnare al pianoforte la giovine sposa d'un suo amico che doveva cantare una romanza, la contessa dichiarò che stava male, che aveva bisogno di ritirarsi immediatamente perché si sentiva svenire, e obbligò Giovanni ad uscire per ricondurla a casa, prima che la signora avesse potuto cantare. Giovanni uscì irritatissimo, ed appena fu solo in carrozza con lei si lagnò che lo rendesse ridicolo con quelle scene. Ne seguì una lite aspra, che durò per tutta la strada, poi un lungo malumore, uno scambio di lettere desolate, supplichevoli, umili da parte della contessa, fredde da parte di lui, e finalmente una riconciliazione stentata. Così tirarono avanti del tempo ancora, un po' in pace, un po' in guerra, ritrovando tratto tratto qualche raggio della passata felicità, illudendosi d'averla ricuperata, poi ricadendo nelle liti, nei malumori per una puerilità, per un saluto che Giovanni rivolgeva ad un'altra, per un atto di poco riguardo verso Gemma. Nell'inverno una signora, artista di canto, che aveva una lite con un impresario teatrale, andò a consultare l'avvocato Mazza e gli affidò la sua causa. Giovanni dovette recarsi più volte da lei per avere informazioni ed istruzioni. Era una bella donna e la gente pettegola non perdette l'occasione di ciarlare a proposito di quella nuova relazione dell'avvocato. La contessa divenne inquieta, sospettosa, pazza di gelosia. Pretendeva che Giovanni rinunziasse a quella causa. Implorava questo come una prova d'amore, e non poté ottenerla. Giovanni era infastidito di quelle esigenze strane, e diventava meno condiscendente ogni giorno. Fu un tristo carnovale per la contessa, che si sentiva trascurata, e vedeva con dolore il suo amante sfuggirle a misura ch'ella metteva più passione e studio per trattenerlo; sfogava il suo malcontento in dispettucci meschini che inasprivano tutti e due. Una sera in teatro uscì improvvisamente dal palco a metà dello spettacolo perché Giovanni aveva salutata la sua cliente, che era nel palco di contro. Poi venne la quaresima; non c'erano più spettacoli teatrali, e poteva meno sorvegliare Giovanni. Se non andava da lei, se non lo incontrava in qualche casa di comuni amici, si figurava che fosse dalla cantante; nessuna ragione valeva a persuaderla del contrario. Giovanni finì per impazientarsi e non iscusarsi più. Allora ella s'abbandonò ad una vera persecuzione contro l'artista. Fece inserire degli articoli malevoli sul suo conto in un giornale teatrale, e giunse persino a scriverle delle lettere anonime, accusandola di fingere una lite per sedurre un avvocato illustre e ricco. Giovanni, a cui la cantante comunicò quelle lettere, rimase male; s'irritò della situazione ridicola in cui lo metteva la contessa, e nel suo giusto sdegno le rimproverò acerbamente la sua ignobile azione. Fu la crisi decisiva che doveva rompere quella relazione già troppo prolungata e violenta. La contessa, quando si vide abbandonata, nella sua gelosia insensata, non pensò che a ravvivare l'amore di Giovanni rendendo lui pure geloso. E si fece vedere in pubblico accompagnata da un giovinotto che la corteggiava da qualche tempo, ed ostentò di trattarlo con confidenza, di accordargli delle libertà che lasciavano supporre relazioni molto intime fra loro. Giovanni lo vide, e ne provò un profondo disgusto; ma non fu geloso, non andò a rimproverare alla bella infedele la fede tradita, non scrisse lettere disperate. Il suo cuore s'era fatto freddo per lei e rimase freddo. Allora, nella sua nervosità febbrile, la contessa si abbandonò davvero ad un amore che non sentiva, per vendetta, o per dispetto, o per amor proprio, o per tutte e tre le ragioni unite; ed, eccessiva in tutto, prese una risoluzione pazza, che annunciò lei stessa a Giovanni, in un'epistola insensata e crudele. Forse prese quella risoluzione unicamente per scrivere quella lettera. Vi avevo giudicato troppo bene - diceva per concludere una serie di periodi amari e pungenti -. E voi non meritate il mio amore. Finché aveste bisogno d'una relazione nella società alta per farvi strada, fingeste d'amarmi. Ora che avete una situazione, mi abbandonate come un ingrato. Ma non vi state a figurare d'avermi avvilita col vostro disprezzo, e ch'io debba passare il resto de' miei giorni a rimpiangervi; non siete degno di tanto. Se voi non mi trovate più troppo bella, e neppure bella a sufficienza per riscaldare il vostro cuore d'uomo positivo, c'è chi mi trova ancora bastantemente bella per consacrarmi tutta la sua vita, per sacrificarmi la sua posizione come voi non avete saputo sacrificarla mai, per sfidare l'opinione del mondo, il vostro idolo. Siate felice colla vostra conquista da palcoscenico; io cercherò di dimenticare, nell'amore d'un uomo generoso, un altro che non lo fu mai... Prima che Giovanni ricevesse quella lettera violenta e verbosa da amante offesa, tutta Milano parlava della fuga della contessa Gemma col suo nuovo amante. Quella vendetta mostruosa di passare freddamente, e per pura pazzia gelosa, da un uomo che amava ad un indifferente, finì di disgustare Giovanni; si sentì deluso, oltraggiato, diffidò della dignità umana. Certo, nel suo amore per la contessa, non aveva mai posta molta idealità. Aveva subito il fascino della bellezza, dell'eleganza. L'aveva conosciuta quando egli era nel completo sviluppo della sua gioventù, dopo una vita di privazioni, e col cuore e la fantasia eccitati da un lungo amore contrariato. Aveva ceduto alle tendenze della sua età, ed era stato felice ed infelice con quella donna, senza averne un alto concetto morale, curandosi appena del suo animo, del suo carattere. Era certo di non trovarsi mai nel caso di darle il suo nome, e s'appagava di trovarla bella, spiritosa, ammirata. Era un'amante che lusingava il suo amor proprio, che lo rendeva felice e lo manteneva di buon umore, senza che egli la mettesse nel suo pensiero al disopra di tutte le donne. E tuttavia, la sua parte di vanità umana non gli avrebbe mai permesso di credere che la donna amata da lui potesse scendere tanto in basso. E quando dovette riconoscerlo, dubitò di tutte le donne, pur di non credere che gli era toccata appunto la peggio. E, mentre, non amando più la contessa, non provava alcun dolore nel perderla, si sentiva desolato, infelice, solo. Era la sua ultima illusione che la bella fuggitiva s'era portata con sé; ed era quella che egli rimpiangeva. Ebbe un momento di aberrazione, in cui si buttò a corteggiare disperatamente la sua cliente artista di canto, come per ravvivare con un'altra passione, o apparenza di passione, i sentimenti che si sentiva morire nell'anima. Ma quella giovine era talmente avvezza ad essere corteggiata, che trovò naturale di esserlo da lui, e non ne fece caso. Soltanto quand'egli volle spingere le cose più innanzi, gli disse netto netto che, in quel momento, aveva una relazione di cuore. Era facile capire che, senza quella circostanza, avrebbe accolte ad ogni modo le sue profferte, quand'anche la sua relazione con lui non avesse potuto essere di cuore. Fu una nuova amarezza per Giovanni. Egli si trovava appunto in quell'età in cui l'esperienza della vita è completa. Aveva provate tutte le illusioni poetiche della gioventù. Poi ne aveva compresi gli errori, aveva imparato a considerare il mondo dal suo lato più positivo, a riguardare come sogni giovanili i sentimenti puri, le passioni disinteressate, a prendere il mondo dal suo lato piacevole e gaio. Ed ora, anche di questo secondo apprezzamento comprendeva gli errori, e, fatto il confronto, si persuadeva che gli errori di prima erano preferibili. E ricordava con rimpianto il nobile ardore che lo infiammava altre volte per le prime cause sostenute, il lavoro fervente ed amoroso del giorno, le veglie, impazienti d'altro lavoro e d'altre scoperte. Ora le cause affluivano al suo studio senza procurargli nessuna gioia. Le esaminava coll'occhio freddo e sicuro dell'esperienza, le sosteneva senza eccitazioni, senza lacrime, qualche volta senza metterci neppure interessamento. Ricordava il suo punto di partenza. Un'estrema povertà, ed un grande amore. E ricordava la meta che s'era prefissa. La gloria e la ricchezza, sempre per quell'amore. Ora aveva ottenute la ricchezza e la gloria; ma l'amore lo aveva perduto per via. Forse, se, appena conseguita una situazione onorevole ed agiata, si fosse affrettato a domandare Rachele, sarebbe giunto in tempo prima che altri l'avesse ottenuta. Ma allora le mille curiosità della vita cittadina lo spronavano per un'altra via; la poesia serena di quell'amore verginale, la pace del matrimonio non l'avrebbero reso felice; avrebbe portate nella calma della vita coniugale le febbri ardenti del suo cuore giovine, le aspirazioni illusorie della sua inesperienza. C'eran voluti la vita burrascosa del mondo galante, gli amori adulteri ed avventurosi, per appagarlo, e restituirgli la pace; e lo avevano, più che appagato, saziato, deluso. E lo lasciavano malcontento di sé, sfiduciato degli altri, solo, senza speranze, col cuore assiderato. Furono i giorni più tristi della sua vita. Nel suo quartierino elegante, o nei salotti aristocratici dov'era accolto, ripensava con invidia il mezzanino del fornaio, l'assito mal connesso. Nell'aula affollata del tribunale, fra ammiratori, giornalisti, stenografi, che pendevano dalle sue labbra, fra gli applausi e le lodi, ripensava la sua prima arringa fatta agli zoccoli appesi nella sua stanza; ed avrebbe voluto tornare a quei tempi, povero ed ignorato, pur di avere ancora la speranza e la fede d'allora in quel trionfo che, conseguito, lo lasciava freddo. Non aveva fatto nulla di tanto anormale che dovesse rimproverarsi. Giovine e libero, aveva seguite le inclinazioni naturali della sua età. Ognuno al suo posto avrebbe fatto altrettanto. Ma gli doleva che le inclinazioni naturali fossero così; s'accorgeva troppo tardi che la prima strada era la buona; ed avrebbe voluto riprenderla; ma ormai non era più in tempo. La seconda festa di Pasqua ricevette un invito per una festa da ballo; e per abitudine vi andò. Si era fatto talmente alla vita elegante, era egli stesso così raffinato, così gentiluomo, e così uomo di mondo, che si trovava nel suo centro nelle sale sfarzose e nelle società delle belle dame, degli uomini illustri, dei diplomatici, degli artisti celebri, della nobiltà eletta. Da qualche tempo non danzava più, non giocava, non si divertiva; ma era nel suo ambiente. Quella sera era più triste del solito, e s'era messo a discorrere di politica con un vecchio senatore. Nel più bello d'una discussione seria sul macinato, che era allora la questione più interessante, il senatore sorrise da lontano a qualcuno, che poi s'avvicinò a salutarlo. "Il conte Tale; uno dei nostri futuri diplomatici..." disse il vecchio presentando a Giovanni il nuovo venuto, un giovinotto sui venticinque anni. Giovanni balbettò una delle solite frasi: "che era fortunato di fare quella conoscenza". "Ma la nostra conoscenza non comincia ora" rispose il giovinotto; "e se non mi sbaglio data per lo meno da sedici anni". Giovanni lo guardò attentamente, ma non lo riconobbe. "Non avevo che otto anni allora" riprese il giovine sorridendo. "E quand'ero invitato a pranzo mi mettevano alla tavola dei bambini..." Allora Giovanni si risovvenne del nome di quella famiglia, e riconobbe uno de' suoi piccoli commensali di casa Pedrotti. Tutta quella scena fresca, quell'ombra estiva, quelle mense signorili, quei vecchi barbassori, quella giovinetta bionda, gli si ravvivarono al pensiero come in quel giorno lontano; e stringendo le mani con effusione al suo nuovo conoscente esclamò: "Come mi fa piacere! Come mi fa piacere!" Era vero; gli faceva un grande piacere quel ritorno sul passato. L'imbarazzo che aveva provato allora, i suoi risentimenti feroci contro gli orgogliosi mecenati, la paura d'avvilirsi che lo rendeva scontroso, si erano dissipati per sempre colle circostanze che li avevano suscitati, colla gioventù che non torna. Quel quadro remoto di agiatezza e di pace gli appariva nella luce simpatica che gli dava l'esperienza de' suoi trent'anni, raggiunti traverso un lungo periodo d'avventure e di disinganni. Non si figurava d'esser laggiù ragazzo, seminarista, selvatico e disprezzato come era allora; ma nelle sue circostanze attuali, col suo bel nome, la sua sicurezza, e l'anima stanca anelante alla quiete. Gli rinacque in cuore tutt'ad un tratto una grande tenerezza pel suo paese patriarcale, per le sue colline verdi, pel vasto giardino del castello, e pei muraglioni neri che lo ombreggiavano. Tutto codesto gli parve bello e grandioso e pittoresco; e pensava che sarebbe stata una delizia di ritirarsi là, e di vivere in pace... S'impadronì del giovine diplomatico, e pel rimanente della serata se lo tenne al braccio, interrogandolo su Fontanetto e sulla gente ch'egli vi aveva lasciata. Quel giovinotto aveva dei ricchi possedimenti in paese, e vi faceva una corsa ogni anno, per cui era bene informato. Il signor Pedrotti era morto di gotta da parecchi anni e Rachele aveva continuato a vivere solitaria nel suo vasto castello. Né prima della morte del padre né poi, non aveva voluto saperne di prendere marito. L'aveva domandata l'ingegnere X di Maggiora, che era divenuto famoso fra gli architetti di Roma. Poi le avevano proposto il figlio d'Ipsilonne, quel possidente proprietario di quasi tutto il territorio di Fontanetto e Cavaglio e Ghemme, tanto ricco che lo chiamavano il Rotschild d'Italia. Poi era tornato a stabilirsi in paese quel fabbricante di violini, figlio della Tognina la mugnaia, il quale s'era fatto un patrimonio colossale ed un'educazione in America, e anche lui aveva offerto la sua mano ed il suo cuore ed i suoi milioni ed i suoi violini alla signorina Pedrotti; ma lei aveva rifiutati tutti. Alcuni dicevano che avesse un amore segreto, altri la credevano bigotta. Giovanni, nella disposizione di spirito in cui si trovava da qualche tempo, preferì la prima supposizione: che Rachele coltivasse un amore segreto nel cuore. Infatti perché non ammettere che avesse aspettato lui? Quando era partito da Fontanetto era certo che lo amava. Alla prima s'era lasciata intimidire dall'autorità del padre, e non aveva osato scrivergli né fargli una promessa contro la volontà espressa di lui. Ma col tempo aveva trovata la forza di resistere; dopo aver rifiutata una prima proposta di matrimonio, aveva capito che le era possibile, persistendo in quella via, restar fedele al suo primo amore senza mettersi in aperta ribellione con suo padre. Si sapeva amata, aveva fede nel suo innamorato, e rimaneva fanciulla per aspettarlo. Quella sera Giovanni, rientrando presto dalla festa, portò nel suo quartierino da uomo ricco, tutta la poesia de' suoi vent'anni. Salì le scale canticchiando la vecchia romanza della segretaria di Fontanetto, dimenticata da tanti anni, e che gli era tornata in mente coi ricordi del suo paese: "Non mi chiamate più biondina bella, Chiamatemi biondina sventurata..." Entrò nelle sue stanze col passo forte e la fronte alta, sorridendo come un giovinetto che torni dal primo convegno d'amore. Non aveva fin allora nessuna idea precisa, ma si deliziava nella dolcezza delle memorie; aveva la visione d'un paesaggio verde, d'un grande isolamento, d'una pace soave nella quale egli s'abbandonava all'ebbrezza d'un lungo idillio. E sorrideva al vuoto dinanzi a sé, come se dicesse: "Ora ho trovato il mio pezzettino di paradiso; il mondo non mi gabba più". Si buttò a sedere nella poltroncina accanto al letto, e cominciò a svestirsi lentamente, distratto da quei nuovi pensieri sereni, cercando collo sguardo i pochi mobili dell'eredità paterna che non aveva relegati cogli altri sul solaio, contemplandoli con amore, evocando da ciascuno una memoria, una persona, una scena d'altri tempi. E tutte queste cose, nel riapparire alla sua mente dopo tanti anni, si erano spogliate delle amarezze che le avevano accompagnate altre volte. Rivivevano soltanto nella loro parte bella, come le farfalle, che nel risorgere abbandonano la forma ingrata e lo strisciamento del bruco. Giovanni vi fissava sopra il pensiero intenerito. Quando fu coricato, prese il libro che era avviato a leggere; una relazione dei processi famosi di Londra. Ma quella sera le birbonate della grande capitale dell'Inghilterra non lo interessavano punto. Balzò dal letto, andò ad aprire la libreria, ed in punta di piedi, col lume alzato quant'era lungo il suo braccio, si mise a cercare nel piano più alto, dove teneva le opere letterarie, che non erano la sua lettura abituale. Ad un tratto fissò gli occhi sopra un volume ricoperto di marocchino rosso, lo prese vivamente come se avesse trovata una cosa smarrita e cara, e tornò a coricarsi lasciando la libreria spalancata. Era la seconda edizione dei Promessi Sposi che, tanti anni prima, aveva prestata a Rachele. Era il libro che aveva ridomandato al momento di abbandonare definitivamente il suo paese, nella speranza di trovare fra quelle pagine una promessa implorata, e che gli era tornato senza una parola, portandogli invece una delusione. Se allora vi avesse trovata quella promessa, sarebbe venuto a Milano vincolato da una parola d'onore; e non avrebbe badato ad altro che a mantenerla ad ogni costo. Appena fosse stato nella condizione di farlo senza paura di nuove umiliazioni, sarebbe corso a ridomandare la sua fidanzata; e la sua vita avrebbe preso tutt'altro indirizzo. Ora si troverebbe da parecchi anni ammogliato, alla testa d'una famiglia, e quel triviale disinganno della contessa non l'avrebbe avuto. Egli pensava queste cose colla rapidità vertiginosa con cui si pensa, mentre andava sfogliando quel volume, nel quale aveva fatte delle note in margine, degli appunti, dei segni che gli richiamavano tante memorie giovanili. Ad un tratto, nel voltare un foglio trovò una lettera. Una lettera un po' sucida, un po' gualcita ma ancora suggellata nella sua busta. Si sentì tutto rabbrividire, e gli prese un tremito, un batticuore, come se avesse veduto ricomparire un morto. Era la scrittura di Rachele. Era la lettera implorata tanti anni prima; era la promessa che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla sua vita. E non l'aveva trovata allora! La aperse agitatissimo, colle mani tremanti, colla mente ottusa. Gli pareva di essere appunto ancora a quell'epoca remota, e di stare aspettando, coll'angosciosa ansietà d'allora, quella sentenza che doveva decidere del suo avvenire. Erano poche parole: "Non mi metterò in ostilità con mio padre per esser tua (perdona questa debolezza al mio cuore di figlia). Ma non isposerò mai altri che te. Lo giuro". Giovanni rimase sbalordito, convulso. Era certissimo che quella lettera non era nel libro quando la Matta glielo aveva riportato. "Quella stupida donna!" pensò. "L'avrà tolta fuori per la curiosità di cercare gli o sulla soprascritta. Poi l'avrà rimessa a posto troppo tardi". E si ricordò con una lucidezza fenomenale tante circostanze che gli erano sfuggite allora. L'improvviso voltarsi della Matta per evitarlo quand'egli era andato, nella sua impazienza amorosa, ad incontrarla per via; il suo imbarazzo, la resistenza a dargli il libro, l'insistenza con cui reclamava ancora di portarlo lei quand'egli lo avea già ripreso; e finalmente l'averla trovata nella sua camera col libro in mano quand'era salito l'ultima volta per pigliare il baule. Coll'abitudine delle induzioni e delle ricerche acquistata nella sua lunga carriera legale, tutto questo gli risultò chiaro, e disse: "Allora aveva riposta la lettera nel volume". E si perdé a fantasticare da che piccole cause dipendono i nostri destini; e che cosa sarebbe stato di lui, se da bambino non gli fosse venuta l'idea di insegnare ad una serva scema le lettere dell'alfabeto... E tutto quel romanzo alla Dickens d'amor puro, di gioie intime, di vita casalinga che sarebbe stato la sua vita senza quella circostanza affatto casuale, gli si presentò alla mente, e gli parve un sorriso di cielo. Si fermava con compiacenza su certi particolari d'una dolcezza calma e serena, su certe scene tenerissime d'un amore senza lotte, senza vergogne, senza paure. E tutto codesto gli appariva tanto più bello, quanto più era differente dall'esistenza avventurosa e dagli amori burrascosi che lo avevano disgustato. A forza di fissarsi su quel pensiero, il rimpianto del tempo passato si dissipò. La gioia, la fede, l'amore gli rinacquero nell'anima. Infatti non gli avevano detto quella sera stessa che Rachele aveva rifiutate tutte le offerte di matrimonio? Ecco. Era appunto, com'egli pensava poc'anzi, per amor di lui. Aveva mantenuto il suo giuramento; l'aveva aspettato. Ed egli era libero, e l'amava più che non l'avesse amata mai. Cosa importava che quella lettera non gli fosse pervenuta? Che egli avesse ignorata la fedeltà generosa di lei? La situazione era la stessa; ritardata di parecchi anni, ma non alterata. Rachele era buona ed intelligente; era onesta, incapace di menzogne. Da lei non avrebbe mai a temere una bassezza né un atto sleale. Vegliò, vegliò a lungo, pensando a lei. Non poteva più essere una giovinetta. Doveva avere, poco più, poco meno, l'età della contessa: ma la contessa era piacevolissima, giovine ancora, e per lungo tempo. Rachele era bella e bionda come lei, ma i suoi lineamenti erano più regolari. Era certo di trovarla ancora più bella nel suo pieno sviluppo di donna. Se la figurava più alta, un po' più tondeggiante che a diciotto anni, e più disinvolta, più spiritosa, colle maniere cordiali ed espansive che si acquistano cogli anni e coll'abitudine del mondo. Aveva fin da giovinetta molta grazia naturale, un gusto fine, un'eleganza di modi, ed un'intelligenza... Doveva essere ormai una donna affascinante. Ed era orfana; l'avrebbe accolto sola, coll'ospitalità d'una castellana. Dopo tanto tempo forse non lo sperava più. Che commozione doveva provare al rivederlo! Doveva essere una scena da medio evo, rappresentata da una bella donnina moderna e da un lion. Si figurava di giungere a cavallo, sollevando un nembo di polvere, e di vedere la sua dama salita sull'alto della torre come la moglie desolata di Malbourough, pour voir s'il reviendra. S'addormentò in mezzo a quelle fantasie rosee, e sognò sogni di poesia e d'amore. La mattina si alzò presto, impaziente di correre a Fontanetto, di rientrare in quel romanzo d'amore giovanile e puro, di portare quella sorpresa di piacere alla donna onesta e fedele che lo aveva aspettato. Ma dovette occupare molte ore a riordinare le cose sue, a dare le disposizioni necessarie perché i suoi sostituti potessero supplirlo nello studio durante la sua assenza. Soltanto nel pomeriggio poté partire. Quanto poteva stare assente? Non lo sapeva, non volle dirne nulla. Andava incontro a tali gioie, che voleva esser libero d'abbandonarvisi senza misura di tempo, senza sopraccapi d'affari. Alla stazione di Novara dovette aspettare circa un'ora il treno per Borgomanero. Si ricordò come gli era sembrato bello altre volte il caffè della stazione. Appunto nella primavera era il ritrovo del mondo elegante di Novara. A Fontanetto se ne parlava come d'un luogo di delizie. Chi ne tornava, raccontava per un pezzo il lusso della sala, le cornici dorate ed i grandi specchi, i mobili di velluto, il marmo candidissimo delle tavole ed il sontuoso buffet apparecchiato con ogni ben di Dio. E poi si facevano descrizioni enfatiche dell'eleganza sfrenata delle signore, che nel pomeriggio di estate stavano ad udire la banda dai tavolini esterni nel giardino del caffè, mentre prendevano un gelato. Questa volta invece Giovanni si sentì soffocare entrando in quella piccola sala, che era rimasta fin allora senza riforme dopo la sua inaugurazione. I mobili di velluto di lana erano scoloriti, ed andavano perdendo il pelo come teste di vecchi. Le cornici dorate erano annerite e scrostate malgrado la mussola rosa ingiallita che le ricopriva. Sugli specchi migliaia di generazioni di mosche avevano depositate tante traccie che il viso vi si rifletteva cosparso di puntolini neri come dopo una malattia di vaiuolo. Il marmo delle tavole era deturpato da scritte e figure stupide. Era una rovina, tanta rovina, che poco dopo venne rimesso a nuovo ed ampliato, per farne una sala confortable. Al banco stava una giovine, a cui due giovinotti maturi, tra il cittadino ed il campagnuolo, facevano dei madrigali che ella accettava come roba che le fosse legalmente dovuta. Se ne stava impettita nel busto con una vitina sottile sottile da perderne il fiato: ed il capo, ornato da una pettinatura piramidale, liscia e simmetrica da parrucchiere, troneggiava dietro due piramidi di scatole da biscottini che ingombravano i due lati del banco. Di fuori un organetto suonò una polka, e la giovine caffettiera, con quella mania sfrenata pel ballo che distingue le provinciali, corse a pigliare un'altra ragazza in cucina, ed uscì a danzare con lei sotto il porticato della stazione, sbirciando i suoi due galanti, e ridendo colla compagna in modo provocante ad ogni osservazione un po' temeraria che essi facevano sulla sua persona. Poi cominciarono a giungere alcune famiglie borghesi; le signorine camminando innanzi coi vestiti chiari, ed i cappellini più stravaganti dei figurini di moda, il babbo e la mamma pochi passi indietro. Alcune giovani spose, in gran lusso, con molti gioielli, sfoggiando le ultime mode con più esagerazione che le signorine. Finalmente dei giovani eleganti che salutarono con un cenno la bella caffettierina, senza togliersi il cappello per non farsi scorgere dalle signore. Quella non era la società scelta di Novara; era la piccola borghesia; ma era quella appunto di cui si parlava molto a Fontanetto, dove si diceva una Novarese come in un villaggio del Poitou si direbbe una Parigina. Giovanni guardava quelle scene di provincia, e sorrideva tra sé dell'impressione che gli avevano fatta nella sua prima gioventù, e si abbandonava alle riflessioni di circostanza. "A misura che ci veniamo raffinando, avvezzandoci al benessere, al lusso, a tutte le delicatezze della vita signorile, ci rendiamo più difficile l'esistenza, perché soffriamo se ci troviamo in una cerchia meno eletta di quella in cui viviamo; troviamo tutto meschino, tutto brutto, tutto ridicolo, a torto ed a ragione, e non siamo mai contenti... Cos'aveva guadagnato lui diventando un personaggio ricco ed illustre? Di stare a disagio in quello ed in altri luoghi che altre volte l'avevano abbagliato addirittura..." Per fortuna il treno stava per partire, ed il sermone fu interrotto. Giovanni prese un coupé per esser solo e comodo, si sdraiò sul sedile, e, coll'occhio fisso sul vasto piano verde che gli si stendeva dinanzi traverso la vetrata, pensava Rachele, la sua visita, il loro incontro. Si ricordava benissimo il disegno grandioso del castello, le sale vaste dalle volte immense, dai cornicioni a bassorilievo; i mobili di lusso. Rachele, che aveva ricevuta un'educazione fine, aveva certo saputo mantenergli il suo carattere antico. Ma lei era moderna, e doveva essersi fatto un nido più simpatico. Si figurava un salottino un po' piccolo, con dei mobili piccoli, delle poltroncine basse e morbide, delle sedie a dondolo, dei piccoli divani turchi, dei tavolini di lacca, un pianoforte, una tavola da lavoro ingombra di ricami e di fiori; dei begli arazzi antichi drappeggiati artisticamente da un lato della parete, delle statuine di terra cotta, delle mensole di ceramica, una pelle di tigre, un tappeto turco, una scrivania aperta con tanti oggetti di bronzo artistico, calamaio, tagliacarte, premicarte, portapenne, tutte le inezie costose e belle che sa trovare il buon gusto delle signore. E dei libri, i libri moderni, che una donnina intelligente si fa mandare dal suo libraio man mano che escono. E dei fiori sulle tavole, sulle mensole, nelle giardiniere di ferro a rabeschi addossate alle finestre, dei fiori da per tutto. Ed in mezzo a quell'eleganza semplice e di buona lega, Rachele, vestita con uno di quegli abiti neri o scuri, tagliati col garbo inimitabile delle sarte più rinomate, che disegnano le forme senza stringerle, che adornano senza sfarzo, e senza impacciare i movimenti della persona. Colla sua ricchezza le era stato facile di procurarsi tutti i raffinamenti delle dame cittadine; vivendo in quel castello isolato aveva potuto mantenersi esente dal pettegolismo, dalle grettezze, dalle ridicolaggini delle donne di provincia. Egli conosceva una signora che viveva da parecchi anni in una sua villa della Brianza, ed era una delle donne più attraenti che frequentasse. La trovava sempre in una serra di cui aveva fatto il suo salotto da lavoro. Una grande vetrata che occupava il posto di tutta una parete apriva sulla campagna, chiusa in lontananza dalle montagne rocciose ed irte del lago di Lecco. Le altre pareti ineguali, formate di tufi su cui crescevano delle felci, dei licopodii, delle edere, ogni sorta di sempre verdi, davano l'illusione d'una grotta naturale, alla quale si fosse applicata semplicemente quella vetrata per abitarla anche l'inverno. Accanto alla serra c'era il salottino; e là quella dama giovine, bella ed elegante, viveva solitaria tra i fiori, la musica, i libri, vedendo appena qualche amico ogni tanto, scrivendo delle lunghe lettere piene di spirito, passando la sera con pochi conoscenti, spesso uno solo, che venivano da Milano per vederla; senza teatri, senza feste. I suoi discorsi avevano sempre un'elevatezza speciale, perché erano scevri da qualsiasi personalità. Il tempo che non perdeva nelle visite e nelle corse come si fa a Milano, le rimaneva tutto libero di dedicarlo alle letture, alla musica, al disegno; e dal suo stesso isolamento traeva una certa indipendenza dai pregiudizi e dalle convenzioni sociali, che le dava una superiorità sulle donne comuni. Giovanni si figurava Rachele così, e pensava che conducendola a Milano, dove egli doveva continuare a stare in causa della sua professione, non le lascerebbe frequentare che le signore più ammodo, d'un'educazione squisita, d'una riputazione immacolata. Ed invocava le immagini di quelle sposine del gran mondo che lo accoglievano amichevolmente nei loro salotti; e si compiaceva di immaginarsi la sua sposa a far parte di quel gruppo eletto, ed a figurarvi al pari e meglio delle altre. Alla stazione di Borgomanero prese un carrozzino per Fontanetto. Era domenica, e quando vi giunse era l'ora della benedizione. Le strade erano deserte. Il castello nereggiava in lontananza co' suoi muraglioni vecchi ed il largo fossato. Era la sola cosa che avesse conservato l'aspetto solenne d'altre volte; era la dimora signorile che conveniva alla sua bella castellana. Tutte le finestre erano aperte per lasciar entrare l'aria profumata della primavera, ma non ci si vedeva nessuno affacciato, non c'era movimento, pareva un maniero disabitato. Infatti, quando Giovanni scese dal carrozzino, tutto freddo e pallido per la commozione, e bussò al portone, il giardiniere che venne ad aprirgli disse che la signora era alla benedizione. Giovanni lasciò andare la carrozza, e s'avviò a piedi verso la chiesa. Il sole era tramontato, ma c'era sempre quella bella luce chiara ed uguale dei lunghi giorni di primavera, che non hanno serata. Tutta la campagna era verde, del bel verde lucido e fresco dell'aprile, e l'aria era leggiera e profumata. Tuttavia Giovanni si trovava un po' perduto in quel paese silenzioso, con tutti i portoni chiusi, che pareva un paese di morti. Si ripeteva ancora ed ancora che era l'ora dei vespri, che tutti erano in chiesa; ma che dopo le funzioni e prima, le case erano abitate, e nelle contrade circolava la gente. Avvicinandosi alla chiesa, udì il canto alto e stonato del Tantum ergo. Dovevano star poco ad uscire. Si mise a passeggiare di fuori aspettando. Era veramente strano di vedere quella bella figura da gentiluomo su quel rustico sagrato di villaggio. Da tutta la sua persona traspariva la lunga abitudine del lusso e della ricchezza. Nella furia di partire non aveva pensato a provvedersi una toletta da viaggio, e la sua vestitura da città, lucida, scura, attillata, le scarpine scollate, le calze di seta a colori, i guanti di pelle del Tirolo, stonavano in quella scena campestre. La chiesa era affollata e la porta era aperta. Molti devoti, che non erano giunti in tempo per prender posto di dentro, erano inginocchiati fuori sul sagrato. Appena alcune donne s'avvidero di quel bel signore, urtarono col gomito le vicine, si misero a ridere, poi tornarono a sbirciarlo ripetutamente, e tornarono a ridere fra loro, guardandosi e dimenticando di cantare. Gli uomini intanto, avvisati da quella mimica, si voltavano colla bocca spalancata nello sforzo del canto, e fissavano lungamente quel nuovo venuto, mandandogli contro le note rauche, come se fosse lui il Padre Eterno dal quale imploravano il raccolto, nel suo stravagante linguaggio latino che non capivano. Finalmente tacquero. S'intese la voce del prete dire l'oremus, poi tutti chinarono il capo, si sparse intorno un buon odore ed un fumo denso d'incenso, vi fu un momento di silenzio profondo, poi, senza organo, senza canto, sorse la voce baritonale del parroco a dire: "Dio sia benedetto!" E tutti risposero: "Dio sia benedetto!" E per una decina di minuti s'udì il cinguettio alto ed ingrato dell'orazione di Pio Nono, come il gracchiare d'un volo di cornacchie. Poi i contadini cominciarono ad uscire pigiati e lenti, parlucchiando tutti del bel signore di Novara, che era arrivato durante le funzioni e non s'era inginocchiato, e non aveva fatto il segno della croce: "Quella Novara era una Gomorra, un centro di corruzione, uno scandalo. Non era per nulla che ogni anno c'erano tempeste, o siccità, ed i raccolti andavano male, ed i bachi pure. I proprietari non avevano più religione, e il Signore li castigava, ed intanto i poveri contadini non avevano da mangiare; pativa il giusto pel peccatore..." Le donne non la pensavano tanto lunga, e s'accontentavano di dire: "Hai visto gli scarpini lustri? Oh! Ha le calzette di seta. Ha la pezzuola col ricamo come una signora" e nel passargli vicino si accorsero che aveva buon odore; e risero nascondendosi l'una dietro l'altra. Soltanto i bambini, che non si pigliano tante soggezioni, gli facevano cerchio intorno, e, col capo rovesciato indietro fin sulla nuca, e le mani dietro il dorso, stavano a guardarlo fisso, come se fosse uno spettacolo messo là per divertirli. E, man mano che ne sopraggiungevano di nuovi, davano spinte di qua e di là per entrare nel cerchio che i primi avevano fatto intorno al signore, e, se questi tenevano sodo, dicevano rinnovando le gomitate: "Fammi un po' di posto. Vuoi veder tu solo?" Le ultime ad uscire furono le signore. La moglie del farmacista, una donnina bruna, piccina, la quale era sempre stata tanto scarsa di capelli e di denti, e tanto incartapecorita, che il tempo le era passato sopra senza poterle fare gran danno; la segretaria che non si sarebbe potuta più chiamare né biondina bella né biondina sventurata, perché era tutta incanutita, ma che camminava sempre solennemente, diritta, colla testa alta ed il viso arcigno, mentre discorreva con due giovinette di cose affettuose; quelle due giovinette cresciute troppo di recente perché Giovanni potesse conoscerle, e finalmente Rachele. Era vestita di seta nera, con un velo nero. Il suo bel colorito roseo da bionda aveva presa una tinta un po' troppo viva; la persona alta e ben fatta, ingrassando aveva perduta la sua sveltezza. I capelli, sempre d'un biondo cinereo, erano ravviati e lisci, tirati sulle tempia, e raccolti stretti stretti sulla nuca; una pettinatura che scopriva la fronte, ed incorniciava l'ovale del volto alla maniera di certe Madonne di Raffaello; ma, come quelle, apparteneva all'arte antica. Ella non portava, come le eleganti di provincia, le mode dell'anno precedente, e neppure l'ultima moda, copiata troppo fedelmente dal figurino con tutte le sue esagerazioni di cattivo gusto e gli ardimenti di colori. Il suo vestito si componeva semplicemente d'una vita e d'una gonna, senza guarnizioni né gale: ed il bel velo di trina di Chantilly era messo semplicemente sul capo e sulle spalle, e raccolto dinanzi come il pezzoto delle donne genovesi. Quella vestitura che non ostentava nessuna pretesa d'eleganza, e realmente non ne aveva, non era neppure ridicola perché nella sua estrema semplicità non attirava l'attenzione, ed in quel paese rusticano era più adatta che i fronzoli cittadini. Ma le dava un'aria vecchia. Giovanni ebbe una rapida visione della figura che avrebbe fatta quella giovine matronale vestita come una massaia ricca, in mezzo alle donnine nervose, brillanti, graziose della società ch'egli frequentava; e gli parve che dovesse riescire ridicola; e stette ad esaminarla con espressione di malcontento. In quella Rachele rivolse verso di lui i suoi grandi occhi limpidi ed il suo volto calmo, e quell'espressione quasi sprezzante non le sfuggì. L'aveva subito riconosciuto; ma a lei pure avevano fatta un'impressione dolorosa la figura giovanile, l'apparenza di lusso e d'eleganza di Giovanni, ed aveva sentita la distanza enorme che li separava. Si fece rossa fino sulla fronte, rivolse altrove la faccia e continuò la sua strada senza più guardarlo, come se non l'avesse riconosciuto. Nell'isolamento in cui viveva, non aveva potuto avvezzarsi a nascondere i suoi sentimenti sotto l'apparenza d'una cordialità gioviale, a salutare sorridendo un uomo che, al solo apparire, mette il cuore in sussulto, a porgergli la mano con apparente serenità, ed a parlargli delle cose più estranee ai loro rapporti. Il suo primo impulso al vedere Giovanni era stato di corrergli incontro colle braccia stese, e di sfogare nel suo seno l'impeto di pianto che quella sorpresa di gioia le faceva salire alla gola. Ma la timidezza naturale, che cogli anni e colla solitudine era aumentata, la paralizzò. Tutto questo non aveva occupato che il primo istante, l'attimo del vederlo e del conoscerlo; nel secondo istante aveva indovinato il sentimento di spiacevole sorpresa che aveva prodotto in lui, s'era sentita ricadere dal sommo della gioia ad uno sconforto infinito. Giovanni le tenne dietro coll'occhio lungamente. Camminava lenta, a passi lunghi e misurati. Era alta e forte, ed il suo incedere riesciva un po' pesante e matronale come la sua persona. In quella vasta cornice di campagna e di monti, quella figura semplice, quell'abbigliatura semplice, quei modi d'una timidezza selvaggia, stavano bene e piacevano. Un pittore avrebbe copiata Rachele per farne appunto una Rachele figlia di Labano. Uno scultore avrebbe ammirate quelle belle forme da Giunone. E Giovanni pure l'ammirava, ma come si ammira la bellezza d'una contadina un po' matura. L'idea ch'egli si era fatta della sua sposa era tutt'altra. Come per istinto, provò il desiderio di correre daccapo a Borgomanero, e di riprendere il treno per Milano senza neppur presentarsi a Rachele; di fuggire. Pure, un pensiero lo intenerì. Gli tornava in mente la bella fanciulla che aveva lasciata dodici anni prima, con tanto avvenire dinanzi a sé, e tanta gioventù, e tanta grazia naturale ed intelligenza da poter diventare una delle più attraenti fra le signore della sua età. Era ricca; avrebbe potuto maritarsi in una grande città, fare una vita brillante. Ed invece s'era rinchiusa nel suo vecchio castello, aveva trascorsi solitari gli anni più belli della vita, lasciando spegnersi la vivacità giovanile del suo carattere, trascurando le grazie della persona, secondando le tendenze di calma, di gravità, che il tempo veniva sviluppando nella sua anima, rinunciando onestamente ad ogni ambizione, ad ogni arte per rendersi piacevole, dacché aveva rinunciato a piacere a quelli che l'avvicinavano, ed il solo a cui avrebbe voluto piacere era lontano. E tutto questo per lui. Poi si ricordava la sera del fossato quando le aveva detto con tutto l'ardore della sua giovine anima: "Vuoi esser mia?" E la giovinetta arrossendo aveva risposto una parola d'amore. Ed egli, graffiandosi le mani, lacerandosi gli abiti, era riuscito ad arrampicarsi sulla sponda del fossato fin alla base del terrazzo, ed aveva afferrato un piede della fanciulla, e l'aveva baciato. Da quel giorno egli aveva patito ogni sorta di privazioni, di dolori, aveva lavorato degli anni, ed avevano sofferto in due, per giungere al momento in cui si trovavano. Ed ora, che quel momento era giunto, egli avrebbe data volentieri tutta la sua gloria e la ricchezza faticosamente acquistata, per risentire la gioia ineffabile che aveva provata allora, nello stringere e nel baciare quel piede. Invece quella gioia era morta e morta per sempre. Il tempo l'aveva uccisa. Bastava di vedere Rachele, per esser convinti che una lunga abitudine l'aveva trasformata così in una campagnola. Era ancora Rachele, ma non era più il suo ideale; ed il cuore di Giovanni rimaneva freddo e calmo nel ritrovarla. Fece un giro intorno al sagrato per lasciare che si disperdesse la folla; ma i bambini lo seguivano sempre, facendo un gran rumore di zoccoletti. Egli allora costeggiò un tratto il Sissone, da un lato dove la sponda addossata ad un muraglione è tanto stretta che ci può passare una sola persona alla volta; ed i piccoli selvaggi, meno insistenti di quelli dei dintorni delle città, vedendo che il signore li sfuggiva, rimasero un tratto aggruppati sulla strada a guardarlo, poi si dispersero. Giovanni percorse un lungo tratto di quella sponda dove aveva passeggiato tante volte solitario per non essere distratto ne' suoi sogni d'amore. Poi tornò in su lentamente, e si diresse verso il castello. Non gli riusciva più di figurarsi la serra pittoresca, le poltroncine a dondolo, i mobilucci artistici, e tutto il nido elegante e profumato nel quale aveva collocato la bella solitaria nella sua immaginazione. Era triste e scoraggiato. L'aria cominciava a farsi meno chiara. Tutt'intorno i colli e la pianura prendevano una tinta grigia, e dai prati sorgeva una nebbiolina bianca che dava l'illusione d'un lago. I contadini s'erano ritirati nelle case per la cena. Le cicale tacevano, ed appena qualche grillo interrompeva tratto tratto l'alto e mesto silenzio della campagna. Giovanni guardò il castello, e vide Rachele che era rimasta sul portone, curva sul ponte come se guardasse nel fossato. "Mi aspetta" pensò. Ma Rachele era così assorta ne' suoi pensieri che non l'aveva veduto. Soltanto quando fu a poca distanza lo sentì venire; si rizzò sgomentata, ed invece di movergli incontro, rientrò precipitosamente in casa come se fuggisse. Quell'eccesso di selvatichezza sconcertò più che mai il gentiluomo cittadino. Il rossore che l'aveva infiammata tutta al riconoscerlo laggiù sul sagrato, e quel fermarsi sola e pensosa sul ponte, erano prove che la presenza di lui l'aveva commossa. E tuttavia scappava dinanzi a lui come una selvaggia. Egli crollò il capo in atto di sconforto, e passò sotto il portone sospirando. Nel cortile trovò una serva che lo introdusse nella grande sala del castello. Quella sala, che gli aveva imposta tanta soggezione il giorno della sua ultima visita al signor Pedrotti, ora gli parve grottesca. I grandi seggioloni panciuti erano vecchi senza essere antichi, e la loro forma moderna, e le imbottiture stonavano coi cornicioni e le portiere medioevali della sala. Sul camino troneggiava un grande orologio di bronzo dorato, fiancheggiato da due candelabri monumentali, tutti e tre religiosamente protetti da campane di vetro. Accanto al vecchio pianoforte a coda, erano disposti in ordine sulla scansia dei fascicoli di musica fuor di moda. Non c'erano gingilli artistici, né libri, né fiori, né piante, né giornali, né fotografie, né incisioni, né nessuna delle cose interessanti e belle di cui amano circondarsi le donne di buon gusto. Invece del profumo acre dei coni fumanti, o di quello soave della violetta, si sentiva quell'odore di ammuffito delle stanze lungamente rinchiuse. Era la sala inutile e disabitata delle case dove non si riceve punto. La solitudine di Rachele non era quella della elegante amica di Giovanni, interrotta dalla visita di pochi eletti, da un tè con alcuni privilegiati, che mantengono viva l'abitudine della conversazione, tengono lo spirito in esercizio, e non lasciano morire quell'ombra di vanità femminile che serve a conservare ed a mettere in risalto le attrattive naturali. Era solitudine vera, era obblio, era distacco del mondo nel quale egli viveva, e del quale s'era fatto una necessità come dell'aria che respirava. Rachele entrò rossa in volto e con fare impacciato. S'inchinò dicendo: "O signor Giovanni, come sta?" Poi si pose a sedere sul divano. Anche Giovanni provò un minuto di soggezione dinanzi a quella matrona timida e muta. Ma, senza spiegarlo ben chiaro a se stesso, si sentiva più rinfrancato da quell'accoglienza contegnosa, che non sarebbe stato da dimostrazioni d'affetto più vive. Prese dunque coraggio, e porgendo la mano, nella quale Rachele pose la sua lentamente, per ritrarla subito, le disse: "Ho tardato molto a venire, Rachele?" Ella arrossì più vivamente. Dunque era venuto per lei? Si ricordava la promessa? Non era tutto finito? Non poteva quasi crederlo. Dopo tanto tempo, s'era avvezza a considerarsi dimenticata, a pensare che non si mariterebbe mai più... Quella grande sorpresa di piacere le diede un tal sussulto al cuore che quasi le mancava il respiro, e non le fu possibile di rispondere. Giovanni, imbarazzato da quel silenzio tornò a dire: "Non mi rimprovera questo lungo ritardo?" "Meglio tardi che mai" rispose Rachele tanto per parlare. Ma il senso preciso di quelle parole applicato al caso suo le sfuggiva. Troppi pensieri le turbinavano nel cervello, nuovi, vitali, e che la coglievano di sorpresa. Quel sogno della sua gioventù non era morto; s'era creduta vecchia per l'amore, ed invece poteva ancora essere amata; ed il suo cuore si risvegliava! Ma era possibile che quel bel signore dal volto altero e freddo fosse lo stesso Giovanni di tanti anni prima? E sentisse allo stesso modo? O no; tanti anni prima si sarebbe commosso al vederla, i suoi occhi fissandosi su di lei si sarebbero empiti di lacrime, o avrebbero mandato lampi di passione. Quelli che aveva dinanzi non erano occhi da innamorato; quei modi sicuri, disinvolti, quella voce tranquilla, quello sguardo acuto, indagatore, che la esaminava come per contarle i capelli sul capo e per cercarle una ruga sul viso, non avevano nulla di comune coll'amore. Quel bel cittadino non l'amava. Ed allora perché era venuto? Perché? Ecco; era lui che rispondeva a quella domanda che lei non aveva espressa. "Ah! sicuro; meglio tardi che mai" aveva ripetuto dietro lei. E dopo una pausa, una breve pausa durante la quale Rachele aveva fatte tutte quelle riflessioni rapidissime, riprese: "Dunque crede che non sia troppo tardi?" Troppo tardi! Eccola la spiegazione di quella freddezza. Credeva suo dovere di tornare a lei, ma dopo esser tornato, dopo averla veduta, s'era accorto che, sulla giovinetta che amava altre volte, erano passati dodici anni; dodici anni di vita solitaria, fra gente zotica, fra occupazioni triviali; e quei dodici anni l'avevano invecchiata, inselvatichita; avevano distrutto l'ideale ch'egli aveva vagheggiato giovine, elegante, gentile, per farne una buona donna campagnola. O di certo era troppo tardi. La bella fanciulla aveva perdute le sue grazie, ma aveva serbato il suo buon senso per comprenderlo. "È vero" pensò. "Sono troppo vecchia per l'amore, sono troppo provinciale per lui; è disposto a sposarmi per sentimento d'onestà, soltanto per questo". Ed un gran dolore, un immenso sconforto le strinse il cuore. Il dubbio che l'aveva colta per via d'avergli fatta un'impressione sfavorevole, si confermò, divenne certezza. Si sentì morire di dentro, mentre stava là ritta, immobile sul divano, colle mani incrociate in grembo e gli occhi sulle mani. Giovanni dovette ricominciare a parlar lui; ma andava cauto; era andato là col proposito di sposare Rachele; ed ora aveva paura di compromettersi. Ma tuttavia era impossibile evitarlo. La loro situazione reciproca, tutto il passato li comprometteva. Bisognava parlare di quello ad ogni costo, abbandonarsi al destino. "Sicuro; meglio tardi che mai" disse. "Siamo ancora in tempo a mantenere le nostre promesse..." "O Dio! No" esclamò Rachele col pianto alla gola dinanzi a quella calma fredda che la umiliava. "Non parliamo del passato". "Perché?" domandò Giovanni col tono di voce indulgente che si usa per confortare una persona a cui si vuol molto perdonare. "Perché non è più tempo per me di pensare a... certe cose...". Egli l'ascoltò con aria afflitta, e disse per cortesia: "Ma che, le pare? È ancora molto giovine..." Ma i suoi occhi la fissavano con aria di pietà come se dicessero: "Pur troppo è vero, che peccato!" "No no" riprese lei. "Ci siamo avviati per due vie differenti..." Aveva cominciato a dire con fermezza; ma intanto che parlava, le si erano empiti gli occhi di lacrime e la voce s'era alterata; se avesse aggiunta una parola di più, se avesse detto come aveva in mente di dire: "Le nostre promesse erano ragazzate" sarebbe scoppiata in pianto; perché, soltanto il pensiero di dire quella cosa crudele, le aveva gonfiato il petto d'un singhiozzo, e l'aveva obbligata a star zitta per frenarlo. Giovanni, vedendola turbata a quel modo volle lasciarla sola, e se ne andò dicendo: "Ci ripenserà, Rachele. Ora l'ho presa all'improvviso; ci ripenserà; tornerò quando sarà più calma..." Sicuro; Giovanni pensava di tornare. Non poteva decorosamente troncar tutto così. A Fontanetto non c'erano alberghi dove una persona a modo potesse alloggiare. Dovette riprendere solo ed a piedi la strada di Borgomanero. "Mi fermerò alcuni giorni" diceva, "intanto lei rifletterà meglio". La strada era lunga, e tutta dritta e bianca alla luce fredda della luna. Durante quella camminata solitaria di più d'un'ora, egli ripensava tutto quello che s'erano detto laggiù al castello. Pur troppo era vero; quei dodici anni contavano per venti su Rachele. Non aveva più nulla della giovinetta svelta, rosea, elegante d'altre volte. Non era lusinghiero pel suo amor proprio presentare nelle società di Milano quella sposa matura. Si sarebbe riso; si sarebbe detto che la sposava pel denaro; perché Rachele era anche ricca. Finché aveva vagheggiata una bella fanciulla, non s'era mai dato pensiero di questi commenti della gente sulla sua ricchezza; ma ora aveva bisogno di pretesti per giustificare le sue esitazioni. Un momento rifletteva che quei dodici anni erano passati anche per lui; ma tutti pretendono che gli uomini non invecchiano. Infatti egli ne conosceva molti che a trentasei, trentotto anni avevano sposate delle giovinette di diciotto o venti; e non erano ridicoli, per questo. Ma del resto non era all'età per se stessa ch'egli badava; che! era superiore a codeste leggerezze. Considerava la necessità in cui era di vivere nel mondo; era un avvocato famoso, doveva essere deputato alle nuove elezioni; aveva bisogno una moglie avvezza alla vita cittadina, ai ricevimenti, che sapesse presentarsi in società e fare gli onori della sua casa... Rachele tal quale l'aveva trovata, impacciata, selvatica, antiquata in tutto, non poteva convenirgli. Lei stessa l'aveva riconosciuto; aveva dato prova di buon senso, e sarebbe stato indelicato da parte di lui ritornare su quell'argomento, rinnovarle una scena che evidentemente le era riescita dolorosa. Il suo amor proprio di donna ne avrebbe sofferto, perché non è mai senza pena che una donna si rassegna a riconoscere la sua età ed i guasti che il tempo ha fatti sulla sua persona. Era una triste, triste cosa, che il suo ideale fosse svanito così. Ci pensò lungo la notte, e ci pensò il mattino in ferrovia, mentre, tutto considerato, tornava a Milano senza aver cercato di rivedere Rachele. Poi ci pensò a Milano, lungamente, sempre. Ma sempre all'ideale, come l'aveva adorato tanti anni prima, giovine, bello, gentile... Forse lo trovò ancora più tardi sul suo sentiero, perché la donna matura di Fontanetto non era più quella, non era il suo ideale. E Rachele, appena rimasta sola, s'era lasciata cadere sul vecchio divano scolorito, e s'era abbandonata ad un pianto convulso, lungo, disperato. Lei lo sapeva che Giovanni non sarebbe tornato.

I sogni dell'anarchico

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Mioni, Ugo 2 occorrenze

Sono italiani e perciò apprezzano il gran Pio; e gli raccontano di un altro Pio, che riposava nell'umile cimitero di Fontainbleau, dove era stato tenuto pure in dura prigionia, per non aver voluto piegarsi avanti a Napoleone, tradire la causa della Chiesa, dei fedeli di Roma e degli italiani Procede a lungo, silenzioso, meditando quanto ha visto e udito; e corregge sempre più antiche idee inveterate, che ora vede in tutta la sua falsità; sempre più si convince, che la Chiesa è la sola vera amica d'Italia; che essa sola la ha aiutata in tutti gli eventi e nelle maggiori necessità; che quando il mondo intero tradiva il popolo, abbandonava le masse e non si curava d'Italia, la Chiesa era là, vigile alla loro difesa...

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Girò irrequieto su e giù nella stanza da studio, tormentato dai suoi antichi sogni, il cui ricordo, strana cosa, non lo abbandonava. Apri due volte lo stipo e lo rinchiuse. La vista delle bombe non gli faceva più piacere. Una voce interna lo rimproverava: - Tu fai contro la luce. Ed egli sentiva, che la voce non aveva tutti i torti. L'anarchia? L'unica tavola di salvezza. Gettare la bomba? Era necessario - In chiesa? Voleva attendere Narciso Rossi. Il tempo passava, lentamente, molto lentamente, ma pur passava. Passano anche le ore delle maggiori angosce???, che sembrano interminabili, e quanto più interminabile sembrò uno spazio di tempo prima d'incominciarlo o mentre ci si era dentro, perché tempo di sofferenze di dolori, d'ignominia, tanto più breve esso sembra di' poi, quando è terminato, osservare alla serena luce di giorni lontani. Vennero le otto e un quarto, la mezza, i tre quarti. Incominciò a diventare impaziente. Avevano pur deciso di lanciare la bomba quella mattina I Quanto più attenete, tanto più si concretizza in lui un pensiero, e questo, sa è: Attendere. Attendiamo, che la calma ritorni nel mio spirito. Non era detto, che si dovevano lanciare le bombe proprio quella mattina. Non era neppur detto che dovevano venir lanciate. La direziono del partito, forte a parole e vile a fatti, aveva anzi deciso, che non dovevano venir lanciate, che il loro getto avrebbe danneggiato la causa piuttosto idi favorirla. Voleva dire a Narciso Rossi: - Ti tengo legato alla tua promessa, ma oggi non è ancora venuto il giorno opportuno. E' meglio attendere alquanto e fare i preparativi con maggior calma. Le lanceremo più tardi, in un giorno di maggior concorso, di gran folla, dopo di aver combinato le cose in modo da poter fuggire. L'amico avrebbe accettato con voluttà la proposta, ed intanto egli avrebbe potuto riflettere; sciogliere le potenti obiezioni, causate dai terribili sogni; cercare prove per dimostrare, che la Chiesa è il maggior nemico dell'umanità. Avrebbe continuato a vivere, per qualche giorno ancora. La vita non è spiacevole neppur per un anarchico. L'attuale società è la peggiore che immaginar si possa eppure non la si abbandona volentieri. Ma un evento venne a turbare i suoi calcoli. Erano le nove, quando bussarono. ? Chi può essere? ? esclamò. La visita gli veniva importuna. Non poteva essere Marcelle. Questi sapeva che c'era il campanello elettrico; non la domestica la quale aveva le chiavi dell'abitazione, per poter venire quando le sarebbe parso bene. Una visitarla mattina di Natale; in quella mattina cosi brutta, così piena di vento, di neve, alle nove? Andò all'uscio e lo aperse. Gli si presentò la faccia rossa di un fattorino, dal grosso naso a peperone, che brillava di una luce rossastra, intensa, e dall'alito, che puzza va di alcool. Il fattorino aveva fatto già il sacrifizio mattutino a Dio Bacco. Tra le dita, coperte da un paio di guanti di lana, una volta grigi, ed ora coperti di sudiciume, egli teneva una lettera. ?E' tei il signor Giunti? ? domandò. ? Chi manda? - E' lei o non è lei? - insistè il fattorino? Date qui. - E' lei o non è lei? - ripetè il fattorino, il quale aveva fatto delle libazioni durante tutta la notte e non sembrava disposto,a cedere la tetterà senza aver prima risposta a quella domanda. - Sì - rispose l'anarchico, che si era accorto dello stato anormale del fattorino. - Prenda - rispose questi soddisfatto, dandogli la lettera. - Chi manda? - insistè Giunti da canto suo. Il fattorino rise. _ Un uomo in calzoni. ? rispose. ? Matta idea la Mi diede la lettera qua, sulla strada. Buona idea la mia di appostarmi il giorno di Natale. Cioè. Non mi era appostato. Ero stato a Messa Diamine. Ci vado a Natale ed a Pasqua. Non sono mica un cane io. Eppoi ero andato a bere un bicchierino. Tempo cane. signori. Loro signori non sentono l'inverno. Hanno una bella abitazione, mangiano bene, bevono meglio, sono ben vestiti. Ma verrà il giorno, sa! Non sono anarchico io! il ciel mi guardi! Ma verrà il giorno; deve venire il giorno..! ? esclamò il fattorino, «e i suoi piccoli occhi lustri, brillavano di una luce strana, tra il minaccioso e l'allegro. Egli assaporava già ora le gioie di quel dì, vicino o lontano, ma che doveva certo venire, nel quale sarebbero state livellate le condizioni sociali ed egli avrebbe potuto passarsela come i signori, liberi questi da fare i fattorini se credevano, e magari di mendicare. Giunti non dimenticò di essere anarchico. Volle fare un po' di propaganda alte sue persuasioni, e disse perciò: ? Il giorno è vicino! Stupore del vecchio. ? Lo dice anche lei? ? domandò. ?Sì. - Allora si farà tutto a parte? - Tutto sarà di tutti. - Ella, un signore, lo dice? - Ne sono convinto ed anelo, ed anelo il momento. Il fattorino rise. Il suo riso era ironico. Il popolo ha un'ironia sublime. _ Se il signore vuole può affrettare quel momento. Si decida. Io sono disposto di accertare tutto. Mettiamo in comune la sua abitazione. Sono pronto di entrare subito - disse. Una leggera nube velò il volto di Giunti. E' questa la solita obiezione che i non anarchici fanno a chi professa queste dottrine. ? Voi siete anche comunardi. Ebbene: Procedete coll'esempio. - Lo farò, quando lo faranno tutti. Per guarire la società è necessario che il capitale sparisca, che spariscano i superiori, le autorità, le leggi, e che tuffo diventi proprietà di tutti ? osservò. I] fattorino rise. - Così lo dicono furti. E mentre l'uno attende che incomincino gli altri, non si muore di fame e di freddo ? osservò. Giunti sentì nausea di quell'uomo. ? Se spendeste un po' meglio il vostro danaro; se invece di ricorrere al bicchierino ed ai liquori vi compraste pane, non avreste da lamentarvi ? disseti fattorino rise. - Non ho bisogno di lezioni - osservò. Giunti prese la lettera e diede al fattorino una lira di mancia. Questi neppure ringraziò. La lira gli sembrava troppo poca cosa per un uomo, il quale si vantava comunardo e predicava venuto il tempo della divisione, nel quale tutto doveva diventare proprietà di tutti. Giunti rientrò nella sua stanza calda, ben illuminata. ? Manda Marcelle. Cosa scrive? ? disse, osservando la soprascritta. Gli venne un sospetto. - Che sia davvero vile? - domandò a se stesso. Stracciò la busta e lesse le poche righe. _ Vile i ? esclamò. ? Davvero vile! Il biglietto, scritto colla mano tremante, diceva: ? Non posso! Tanti innocenti..? ? Tanti, tanti innocenti! - motteggiò. Innocenti? No, non erano innocenti. Erano correi; correi magari senza volerlo, senza saperlo; correi per l'istruzione sbagliata, ricevuta dai genitori, dagli avi; correi, perché non avevano saputo sollevarsi in alto, a più spirabil aere; eppoi tutta la società era folle, era fiacca; aveva bisogno di una lezione. Innocenti? Non lo erano; perché frequentavano la chiesa, i passeggi, perché facevano sfoggio del loro lusso, perché erano borghesi, perché volevano che sopravvivesse una società avariata, perché volevano conservate le disuguaglianze sociali? Ma anche se fossero stati innocenti, il mondo è fatto così. La natura non bada ne, agli innocenti ne ai rei; sacrifica quanti occorrono venir sacrificati, per il raggiungimento dei propri fini; il falcone e l'aquila fanno allo sfesso modo scempio della pacifica gallina e del superbo tacchino, il falcone divora egualmente il passero, così dannoso, e un usignolo canoro, e gli uragani schiantano l'inutile pioppo e la quercia, il melo, il pero, il susino ed altri alberi, così utili alla vita. Innocenti? La sua era opera necessaria e purificatrice; si trattava di ricostruire una società nuova sulle rovine dell'antica; e questa non volendo crollare da sé andava atterrata. Non era per colpa sua se nel suo crolloessa avrebbe schiacciato e seppellito sotto le macerie anche qualche innocente. Egli non voleva che il bene altrui; non era per colpa sua, se, per ottenere il bene, doveva schiantare coloro che vi si opponevano. Narciso Rossi si rifiutava. Vile! Vile! Già; il Natale; la pazza poesia della sacra notte. Egli l'aveva passata coi congiunti, alla luce di qualche albero, scioccamente ornato di fiori e di lumi; aveva udito il canto di inni e canzoni natalizie, e si era commosso. Vile, vile! Non pensò, che qualche minuto prima aveva deciso di non gettare la bomba; di rinunziare, per il momento, a quell'atto d'i vendetta sociale; di dire a Narciso, che avrebbe atteso tempi migliori. Non senti che rabbia e sdegno per l'antico amico ed un'avversione grande contro di lui... Che aveva da fare? Rimanere fedele alla decisione presa poc'anzi e procastinare il getto delle bombe?,, Ma che ne avrebbe detto Narciso Rossi? Lo avrebbe giudicato egualmente vile; oppure avrebbe pensato che non si poteva fare senza di lui; che egli, Narciso, era indispensabile? Avrebbe potuto rimproverargli la sua colpa? No. L'altro gli avrebbe potuto dire: Perché rimproveri a me quanto dovresti rimproverare prima a tè stesso? sei forse un bambino, che non osi agire da solo; che dipendi da me nel tuo operato? sic io sono un vile, che mi sono rifiutato di gettare la bomba, lo sei tu pure. Era proprio necessario che due scoppiassero allo stesso tempo? Non bastava una sola, la tua? Potenza dell'orgoglio umano, di un falso amor proprio, della tema di venir giudicato male! Egli mutò rapidamente pensiero. Aveva deciso di soprassedere a quel getto; di attendere un istante più opportuno. La sua prudenza gli aveva suggerito questo. Aveva preso questa decisione dopo un esame maturo e prudente, ed ora bastò quello scritto, bastò la tema di venir creduto vile, per fargli mutare pensiero. - Non avrà il gusto di rimproverarmi la sua viltà! - disse, e prese la rapida decisione di attuare il suo progetto e di diventare, quella mattina ancora, assassino e omicida. La ragione gli diceva: Attendi, attendi! Ma egli ne faceva tacere con violenza la voce., La coscienza gli diceva: Bada che fai contro la luce; ed i suoi sogni si ergevano maestosi, terribili, avanti a lui e gridavano: Tu agisci male; tu inganni la tua coscienza; la Chiesa non ha mai avversato la vera libertà, non è nemica d'Italia. Il suo falso amor proprio fece tacere anche questa voce. Non gli riuscì di riduria al silenzio; pure la soffocò dicendo a se stesso: Non essere vile! Prese posto al tavolo e scrisse a Narciso Rossi. Gli scrisse parole molto amare, di grande rimprovero per la sua viltà senza nome. Vile, che non sai mantenere una promessa Vile, che non sai sacrificarti per un ideale! Vile, che paventi le conseguenze di un'azione, che riconosci doverosa e giusta! Vile, vile! Ora e sempre vile! Sii maledetto, da chi va a morire per il suo ideale; va a morire solo, perche ti rifiuti; va a morire colla certezza, che il suo sacrifizio non porterà lo isperato frutto, perche tu gli neghi la tua cooperazione! Vile! Disonore del partito; sii maledetto! Chiuse la lettera in una busta, vergò la soprascritta e l'abbandonò sul tavolo. Dopo la sua morte l'avrebbero trovata e pubblicata. Ne era lieto. Avrebbe procurato così a Narciso Rossi la maggior onta. I veri anarchici avrebbero disprezzato il traditore, e gli altri, i partiti dell'ordine, i borghesi, avrebbero lodato il giovane onesto, che s'i era rifiutato di commettere un delitto di lanciare una bomba, di macchiarsi di tanta colpa; e le lodi, l'approvazione delle autorità e dei circoli borghesi, gli avrebbero recato un'onta ancora maggiore del biasimo dei suoi antichi consenzienti. Narciso Rossi era spacciato. Non gli rimaneva che il suicidio. Sogghignò a questo pensiero. Consultò l'orologio. Erano le nove e mezzo. Doveva spicciarsi se voleva arrivare nella cattedrale a tempo. Aprì l'armadio, levò la bomba sua, l'accarezzò, la baciò e la celò sul petto, sopra il cuore. Indossò il mantello di uscita, tirò alto il collare, cacciò la beretta fin sugli occhi e uscì di stanza. Chiuse l'uscio della propria abitazione. L'abbandonava per sempre. Chi ci sarebbe andato ad abitare? Che se ne curava? Di chi sarebbero stati i suoi mobili? Che gl'importava? Aveva lasciato erede universale Gianni Carpi, il solo onesto fra gli anarchici; il solo veramente povero ed audace tra di loro, coll'incarico di usare dell'anse ereditario soltanto per scopi.di partito, per diffondere l'anarchia. Gianni Carpi avrebbe fatto un buon uso di quel danaro e del ricavato dei mobili; non avrebbe tenuto nulla per se. Egli non dubitava della di lui onestà... Giunse sulla via. Nevicava di nuovo, ed il vento impetuoso gli sbatteva la neve sul volto accecandolo quasi. Doveva procedere con grande cautela iper non scivolare. Una caduta sarebbe stata disastrosissima; avrebbe causato Lo scoppio della bomba, ed era questo che egli voleva impedire. Sacrificare la vota, sì, ma con costrutto. Abbenchè il tempo fosse brutto c'era della gente sulla via. Vide delle faccio allegre. La grande festa del Natale aveva riempito gli animi di letizia. Gente andava a fare certi piccoli acquisti nelle pasticcerie, i soli ambienti aperti nella sacra giornata; andavano a fare delle visite, andavano in chiesa.. Quei volti allegri gli davano sui nervi. Sentiva di odiare gli uomini; provava una grande nausea. Eterni malcontenti, protestavano continuamente contro la Chiesa, contro l'autorità, contro ogni sorta di tirannide; e bastava che la Chiesa, ricordando antiche favole, offrisse loro un giorno un po' diverso dagli altri, per far loro dimenticare il passato e renderli scioccamente, stupidamente felici. Valeva la pena sacrificarsi per simile gente: valeva la pena morire per loro? Portò la mano al petto, alla bomba. Che avrebbe giovato il suo getto? Avrebbe esso scosso le coscienze e destato le masse; quello sarebbe stato il primo segno di una grande rivoluzione sociale, oppure?... Già; il suo eroico attentato sarebbe passato forse inosservato. Le masse non erano ancora mature. Doveva attendere? Oh, se non fosse stata quella infame lettera di Narciso Rossi. Ma ora non poteva assolutamente desistere. Nessuno doveva neppur lontanamente sospettare che egli fosse vile. Giunse alla cattedrale. Le campane suonavano allegramente. Il Vescovo faceva il suo ingresso nella chiesa illuminata a festa e piena, zeppa di una folla festante. Il vescovo! Uno degli oppressori delle masse.Quanto l'odiava! Non lo aveva veduto ancora mai; ora lo vedeva per la prima volta: un povero vecchio, dal volto di asceta, con un sorriso buono, paterno, sulle labbra, che procedeva ricurvo, schiacciato da! peso degli anni e dalle cure, dalle brighe, dalle fatiche del suo ministero; un vecchio buono, tanto diverso dall'immagine che egli si era formata di lui. Si cacciò tra la folla. L'organo cominciò a suonare e la Messa ebbe principio. Vide i volti atteggiati a grande letizia. Comprese che quella giornata rappresentava per l'umanità un grande punto di riposo: era quello un giorno, nel quale il povero dimenticava per un istante le proprie miserie; l'operaio riposava dal lavoro snervante; il ricco scendeva al povero e ne comprendeva, per un istante, le miserie; un giorno di pace, di letizia per tutti. Doveva egli turbare la serenità di quel giorno? Doveva portare la desolazione, la morte, in quel luogo di pace? Oh, i suoi sogni! La Chiesa ha fatto sempre quanto stava nelle sue forze per il bene dell'umanità. Non era lei responsabile dei danni che le classi povere ed umili risentivano, ne dell'abuso di libertà nelle classi dirigenti, o dello squilibrio sociale. Certo. La religione aveva fatto il suo tempo. Ma perche non lasciarla morire in pace; perche voler punire nella Chiesa gli altrui delitti? Cercò di allontanare il ricordo dei suoi sogni. La Chiesa è stata sempre il puntello dei troni; essa ha benedetto la guerra e sanzionato ogni sorta di ingiustizie sociali. Eppoi non poteva tollerare la faccia di vile. La Messa ha incominciato. Il venerando veglio è salito all'altare e lo avvolge in profumi che escono dal ricolmo incensiere. Chi ha da colpire? Dove ha da lanciare la bomba? Nel presbitero? Ha da colpire il vescovo, i canonici, oppure la ha da lanciare in mezzo alla folla che ora? Il vescovo è ritornato al suo trono. Gloria in excelsis Deo! ià! Dio! Dio! Non si pensa che al nume trascendentale e crudele, che risiede in ciclo e non si cura ne si è mai curato dei propri figli, chiede da loro gloria e non da loro in cambio nulla. Il coro canta giulivo: Gloria, gloria in excelsis Deo ono voci di fanciulli che scendono dall'alto della cantoria nella chiesa, accompagnate dal suono grave dell'organo e da alcuni violini, sapientemente toccati. Le voci erano così dolci, così soavi, così carezzevoli. Sembrava udire il canto degli angeli nella notte di Natale. Fuori imperversa la bufera; il vento scuote le gigantesche invetriate multicolori, attraverso le quali giunge scarsa la luce scialba di quella mattina, nel suo cuore imperversavano pure le bufere, ed intanto i fanciulli cantavano il loro Gloria in excelsis Deo! ubentra un coro di uomini forte, solenne. Et in terra pax.... gli ride ironicamente. Pace! Quale menzogna! Dal giorno della nascita del bambino ebreo ad oggi si ripere la bugiarda promessa. In terra pax! Ma quando mai venne pace alla terra? Il coro continua: Hominibus bonae voluntatìs. ueste parole sono una rivelazione. Pace agli uomini di buon volere! Ed il mondo non vuole la pace! A chi si deve ascrivere la mancanza di pace? Non ode altro. Non è per la colpa della Chiesa e del Nume, se pu re esso esiste, che la pace non regna sul mondo, ma, per la mala volontà degli uomini. Gli angeli annunziarono la pace. Non.crede che furono gli angeli, ma l'annunzio fu dato. Si promise la pace ma si chiese in cambio buon volere Qual meraviglia, se gli uomini non avendo offerto la loro buona volontà non.abbiano avuto la sospirata pace? La pace? Poteva egli portare al mondo la vera pace, fondata su di una forte, ben sentita e ben radicata anarchia, se gli uomini non erano di buon volere? A che cosa avrebbe giovato il gettito della bomba se gli uomini, ed i più bisognosi, i più reietti in modo speciale, facevano brutto viso all'anarchia e si rifiutavano di occuparsi della loro misera sorte e di cercare i remedi opportuni al loro male ed a quello della società? Doveva gettare la bomba? Non in chiesa. Dunque sulla via; in qualche ritrovo di ricchi, di gaudenti, al caffè, in teatro? Con qual profitto? Urgeva qualche cosa di ben più importante. Bisognava organizzare le file anarchiche e fare la propaganda al vangelo dell' anarchia. Un libro anarchico, diffuso in migliaia di esemplari, avrebbe giovato assai di più di cento bombe. Non doveva dunque lanciarla? Narciso Rossi che cosa avrebbe detto? Lo avrebbe schernito, avrebbe raccontato a tutti la sua viltà, perche egli, l'idealista, si era rifiutato di aiutarlo, per disciplina di partito, per sfare agli ordini dei superiori, mentre l'altro, il ribelle, l'audace, non aveva trovato il coraggio necessario. Da vero bambino aveva bisogno di un compagno, e da solo non sapeva, non poteva fare nulla... Senti uno sdegno infinito contro Narciso Rossi e la brama di punirlo. Voleva affrontarlo, giungere a lui, costringerlo ad uscire in sua compagnia, menarlo in qualche ritrovo e allora lanciare la bomba, per compromettere lui pure, per unirlo alle altre vittime e per fargli subire la morte del traditore. Non ne poteva più in chiesa. Si fece largo tra la folla, giunse all'uscio e passò sulla via. Il vento soffiava più forte che mai; la neve scendeva fitta; i passanti procedevano frettolosi; nessuno si curava dell'uomo, che portava sul petto la morte. Un grido, un urlo. Una fanciulla è scivolata; fa degli sforzi immensi per tenersi in piedi ed urla dalla paura, dallo spavento di dover stramazzare al suolo, a rischio di rompersi le gambe e le braccia. Egli le è vicino; ad un passo di distanza. Corre da' lei per aiutarla. Essa getta disperata le braccia al suo collo, per sostenersi a lui: una fanciulla modesta, poveramente vestita. Dal collo le pende una medaglina della Madonna. Povera fanciulla; la sua esile persona cozza, col suo maschio petto sul quale riposa la bomba. Un rombo terribile, spaventoso, e sul suolo candido di neve giacciono due cadaveri insanguinati, sfracellati, orrendamente mutilati, sui quali scende fitta, fitta la neve, coprendo tutti e due, l'assassino e l'assassinata, di un candido mantello. Candido per l'umile vergine, che era stata quella mattina alla Comunione ed ora si recava con un incarico della madre inferma dalla zia. Candido anche per lui, l'assassino, che era colpevole al cospetto degli uomini. Lo era anche al cospetto di Dio? La grazia aveva picchiato al suo cuore più volte, e specialmente quella notte nel sonno; ed egli le aveva fatto il sordo. Ma quante volte disprezziamo la grazia, perché non la conosciamo, perché ci hanno insegnato a non farne conto, perché ci hanno educato male? Quante volte tutta la colpa non l'abbiamo noi, ma essa è di coloro che ci hanno educato, dell'ambiente, di quel libro, che fu galeotto come chi lo scrisse? Dio solo conosce tutto: l'ambiente nel quale ci troviamo e le cause del nostro traviamento. Non dobbiamo perciò disperare della salvezza spirituale di nessuno e pregare per tutti. Perché, se è grande la giustizia di Dio, ben maggiore ne è la misericordia. Quando noi abbiamo da agire riflettiamo alla sua giustizia; quando abbiamo da giudicare pensiamo agli abissi della sua misericordia infinita.

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Teresa

678666
Neera 2 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Né freddo, né vento, né brina la preoccupavano; metteva i piedi nella sabbia umida dei viali, abbandonava i capelli alla rugiada della notte, cogli occhi rivolti al cielo, cercando nelle miriadi delle stelle una combinazione che formasse la lettera E. E quando quella lettera a caratteri ardenti si disegnava nell'immenso azzurro, le saliva dal cuore un'onda commossa, quasi una promessa, una profezia, un segno indelebile della grandezza del suo amore. Ora sapeva il nome dell'Orlandi - Egidio. Non era nessuno di quelli immaginati prima, neanche un nome noto; non conosceva nessuno con quel nome, non poteva nemmeno dire che fosse un bel nome; eppure, dopo averlo pronunciato una dozzina di volte, pensando a Orlandi, le parve il piú dolce nome della terra. Né solamente colle stelle ella componeva quel nome. Nelle ore in cui, Cenerentola solitaria, era obbligata a starsene in cucina, ritta accanto al fuoco, lo tracciava con un fuscello, nella cenere. Nel rovescio delle imposte, negli angoli oscuri delle muraglie, sul margine del calendario, dappertutto dove una matita poteva giungere, le E si succedevano accarezzate, prolungate in svolazzi. Sull'uscio della sua camera, accanto al suo letto, dove nessuno poteva vederla, un'E maiuscola era intrecciata ad un T - ed ogni sera, prima di coricarsi, Teresina baciava quel monogramma come avrebbe baciata un'immagine benedetta. Tutte le sue azioni restavano involontariamente sottoposte al pensiero dominante. Si muoveva, parlava, come se Orlandi la vedesse. Talvolta sorrideva nel vuoto, coll'allucinazione del caro volto davanti agli occhi. Prendeva l'abitudine di interrogarlo, di chiedergli il suo parere. L'illusione era così viva che alcune sere, mentre si spogliava, gettava un grido di spavento, sembrandole che Orlandi fosse lì. In qualunque luogo e in qualunque ora il giovane le fosse apparso, non poteva sorprenderla, perché ella lo aveva sempre con sé; si meravigliava anzi di non vederlo comparire alle sue potenti invocazioni. Si scrivevano spesso. Queste lettere oramai formavano un piccolo volume che ella non riusciva piú a nascondere in seno. Dopo lunghi dibattimenti e ricerche penose, Teresina decise di cucire la sua corrispondenza nella federa del materasso; ma spesso ancora scuciva per rileggerla, e tutte le notti, coricandosi, trovava modo di mettersi a giacere proprio sul suo tesoro. Rispondere a codeste lettere non era un piccolo pensiero. Ella si sapeva illetterata, ignorante d'ogni artifizio di stile, e temeva di fare cattiva figura; si limitava quindi alla coniugazione del verbo amare in tutti i tempi. La sua maggiore gioia consisteva nello scrivere: "Mio dilettissimo Egidio" in alto - e sotto: "fedele Teresina". La vigilia di Natale venne Carlo a passare le feste in famiglia. Carlino aveva veduto Orlandi, gli aveva stretta la mano, qualche cosa di lui doveva essergli rimasto; Teresina lo circuiva con astuzia, con finezza, invidiandogli la somma felicità di vedere Orlandi tutti i giorni. Usava stratagemmi ingegnosi per indurlo a parlare dell'amico. - Come è graziosa quella cravatta! Ne aveva una simile ... non so piú chi ... Oh! ma precisa. Chi mai l'aveva? - Orlandi. E un'altra volta: - I tuoi amici sono ancora Franceschino, Edmondo? - Sì. - Non ne hai altri? ... delle classi superiori ... dell'Università? - Orlandi. Egli è mio amico piú che mai. Teresina gioiva. La mattina di Natale, intanto che la mamma e le ragazze finivano di approntarsi per la messa, Teresina già vestita, col suo abito nuovo di lana, col cappellino di feltro grigio, si metteva i guanti ai piedi della scala. Carlino zufolava sotto il portico. - Senti Carlino. - ? - Ti ricordi una certa fotografia che mi hai mostrata quest'autunno, una donna ... così, col braccio stretto alla vita ... vestita di bianco? - Uhum! - L'avevi nella valigia ... ti sembrava molto bella ... - Ebbene? Teresina stringeva i denti, facendo forza per allacciare il suo guanto, colla testa chinata. - Dovresti mostrarmela ancora. - Adesso? - No, non adesso, quando vuoi. - Non l'ho piú. Devo averla resa all'Orlandi. - A Orlandi? - Sì, era sua. Il bottone saltò via, con un colpo netto, e la fanciulla poté far credere che l'improvvisa contrazione del suo volto dipendesse da quel contrattempo. Si era ripromessa una bella mattinata in chiesa, col suo abito nuovo, il cappellino che le stava tanto bene, ma tutto rimase guastato. Si sentiva profondamente infelice. Nella navata a destra, la giovane signora Luzzi, sposa da quindici giorni, tutta pallida, affettando un'aria vaporosa, sfoggiava bellissimi diamanti e trine vecchie di Chantilly, cagionando molte distrazioni e peccati d'invidia. L'abito di Teresina non venne nemmeno guardato; ma non era per ciò che la fanciulla si crucciava. Ella pensava a quel ritratto di donna. Le tre messe le parvero sei. Smaniava di trovarsi sola, di strapparsi di dosso tutte quelle vesti inutili, di buttarsi col capo in giù sul suo lettuccio e di piangere. In quella folla che la circondava, tutti i volti le sembravano nemici; la musica dell'organo le metteva addosso una tristezza da campana funebre. Ma perché si mostrava così lieta la vecchia Tisbe, tutta arzilla sotto una cuffietta nuova? Perché era sempre così rubiconda, quasi lucida come una mela, la grossa serva di Monsignore? E la moglie del sindaco, calma, serena, assorta nel suo libro di preghiere? E le due sorelle Portalupi, ricevendo il riflesso dell'eleganza della sorella, vestite anch'esse con un abito nuovo, nella aspettativa fiduciosa di un principe? Tutta questa gente non amava, non era gelosa; tutti si godevano in pace la solennità del Natale. Guardò ancora la sposina Luzzi. Che irradiamento! Lei era felice. Anche quel tormento finì; uscirono di chiesa, le gemelle davanti, Teresina dietro colla mamma. Sulla piazzetta Carlino le aspettava, ma insieme a Carlino c'era Orlandi. Teresina non voleva credere a' suoi occhi; arrossì, poi divenne pallida, poi tornò ad arrossire. I due giovanotti si accostarono. Orlandi ancora piú bello del solito, spigliato, ridente, collo sguardo che raggiava, con un abbandono sicuro in tutte le movenze. - Il Natale qui? - gli domandò la signora Soave. Orlandi rispose, guardando Teresina alla sfuggita: - Sono venuto a trovare la zia; riparto fra un'ora. Non volevo passare questo giorno senza vederla. Teresina capì; si appropriò sguardo, parole e intenzione. Avrebbe voluto ringraziarlo lì sul sagrato, sotto quel bel sole d'inverno, in mezzo a tutta quella gente che un momento prima le sembrava nemica. Sollevò gli occhi lentamente, turbata, giuliva, volendo mostrargli la sua riconoscenza, e pur compresa della necessità di non tradirsi. Egli le accompagnò fino alla porta di casa, stringendo la mano a tutte; stringendola a Teresina in modo particolare, quasi a confermarle che era venuto per lei sola. La fanciulla era in estasi; scomparsa la malinconia; scomparso il dispetto. Rise, cantò, fece due o tre volte il giro della propria camera ballando; si guardò nello specchio con somma compiacenza, con una gioia trionfante. Scelse nel cassettone due nastri che le gemelle vagheggiavano da qualche tempo, e gliene fece dono. Condusse l'Ida a spasso per il giardino, giuocando con lei, abbracciandola tutti i momenti con certi baci caldi, furiosi ... - Torna in casa, Teresina, piglierai freddo. Forse che faceva freddo? Teresina ubbidì e tornò a casa; ma salita di nuovo nella sua camera spalancò i vetri, cedendo a un bisogno d'aria, di luce, di moto. A tavola si parlò di Orlandi. Il signor Caccia disse che era un capo-scarico, che dava cattivi esempi a Carlino, che s'era già mangiato parecchie volte i denari della laurea, e che non riuscirebbe mai a nulla di buono. Carlino difese l'amico. Assicurò sopra tutto che Orlandi metteva giudizio, e che alla fine dell'anno si sarebbe laureato immancabilmente. La prima parte del discorso aveva ripiombata Teresina ne' suoi crucci, ma le spiegazioni date dal fratello la rassicurarono. Anche a lei Orlandi aveva scritto che quell'anno piglierebbe la laurea, e dopo si sposerebbero. Nella sera stessa, prima di coricarsi, preparò una lettera. Teneva sotto il letto uno scodellino coll'inchiostro, per non destare sospetti a portarsi il calamaio in camera; la carta la pigliava nello studio del babbo; carta azzurrina, quadrettata, a fogli larghi come pezzuole; il giorno poi in cui arrivasse a possedere qualche lira, si sarebbe data il lusso dei piccoli fogliettini inglesi, come li adoperava lui. Scrisse: che era felice della bella improvvisata, che per quella aveva passato il piú gaio Natale della sua vita, e tante altre cosine graziose, come le sanno dire e scrivere le fanciulle innamorate. Ma siccome le bruciava sempre in fondo al cuore la gelosia della bella donna fotografata, dopo tre pagine di tenerezza si decise a battere un po' quel terreno pericoloso. Non poteva tenersi il dubbio; era troppo atroce. Voleva sapere da lui la verità. Sottoscrisse come il solito, "fedele Teresina". Ella era ben sicura di restargli fedele, sempre, fino alla vecchiaia, fino alla morte. Campando la media comune, aveva davanti a sé trent'anni ancora per amare Orlandi; e si rallegrava pensando come sono lunghi trent'anni. Tre giorni dopo riceveva in risposta un letterone, con francobollo doppio, contenente la fotografia della bella, stracciata in pezzi. A questa nuova vittoria la felicità di Teresina non ebbe piú limiti. Un lieve fumo d'orgoglio si mischiò alla schietta sensazione del suo amore, si sentì potente, divenne audace. Scrisse ancora: che desiderava vederlo, parlargli, chiedergli cento cose, persuadersi che egli l'amava veramente, udirlo ripetere dalla sua bocca. Il giovane venne. Si diedero un convegno come il primo, alla finestra, di notte, e fu piú lungo del primo, inebbriante; Teresina non aveva piú paura. Delle cento cose che voleva chiedergli, non glie ne chiese alcuna; una sola fu detta e ripetuta d'ambe le parti senza varianti, con un crescendo d'ardore; e la ridissero nel separarsi, e se la giurarono coll'anima sulle labbra. Nulla ormai sembrava impossibile a Teresina; con l'amore di Orlandi l'avvenire era suo. Di quindici in quindici giorni lo studente capitava a farle un'improvvisata. Ella cuciva, accanto alla finestra, e lo vedeva a un tratto comparire, rallentando il passo per potersi scambiare almeno un'occhiata. Che emozioni erano quelle! Quando tornò la primavera, e Teresina poté lavorare coi vetri aperti, il suo cuore era sempre nella via, spiando il passo d'Orlandi. Egli passava, rasente il muro, mormorandole una dolce parola; ella lasciava cadere l'ago, oppressa da un turbamento delizioso. Solamente i loro sguardi si incontravano in un abbraccio immateriale, eppure tutte le fibre della fanciulla trasalivano, come al tocco di una fiamma. Nell'abitudine perdeva la prudenza. Oramai non guardava piú se la via era deserta, quand'ella vi si affacciava per salutare il suo amante; non si accorgeva che vi fossero alcune teste curiose dietro le gelosie. Aveva dell'amore tutte le fedi e tutti gli ardimenti. Un dopo pranzo del mese di giugno, la pretora indusse Teresa a fare una passeggiata sull'argine; presero insieme anche Ida, e così, chetamente, s'avviarono dalla parte dei boschi, dove la riva è quasi deserta. Faceva un magnifico tramonto, uno di quei tramonti porpora che si vedono sul Po, dove pare che un incendio arda dietro la linea verde dei pioppi. La bimba si pose subito a cercare i sassolini e le erbe, saltellando libera nell'aperta campagna. Le due amiche venivano dietro silenziose. Erano proprio amiche, ora; da quando Teresina aveva compiuto i vent'anni, la pretora aveva voluto che le desse del tu. Venivano dietro silenziose; la pretora preoccupata, Teresa nell'estasi dei suoi sogni, guardando la riva opposta del fiume. Bruscamente, com'era suo costume, la pretora disse: - Guardi verso Parma, dove c'è Orlandi? La fanciulla arrossì tutta, impreparata alla lotta. - Non negare, sai, è inutile. Il tuo è il segreto di Pulcinella. - Come? ... - Come avviene sempre di questa sorta di segreti. Teresina raccontò ogni cosa; poiché custodir un segreto amoroso è una voluttà, ma farne la confidenza ad un'amica è voluttà maggiore. Accesa in volto, con una sovrabbondanza di gesti e di parole, ella tentò di far capire come Orlandi l'amava; ma la pretora l'ascoltava senza molta emozione, tacendo. - Vedi se l'ho trovato l'amore ardente e puro? Esiste! La pretora continuava a tacere, camminando a testa bassa, coll'aria di persona che medita. - Ebbene, non credi? - Che cosa? - Che Egidio mi ami. - Oh! sì ... lo credo. - E allora perché fai quella ciera scura? - Perché ... non saprei, ma non sono d'opinione ch'egli possa renderti felice. - Non è un buon giovane? - Te lo accordo. - Hai visto, quando ci fu l'innondazione, come si prestò senza compenso alcuno, con rischio della vita? Tutti allora parlavano di lui come di un eroe. - È vero - Ha ingegno. - Senza discussione. - È simpatico, bello ... - E questi sono, non v'ha dubbio, i suoi meriti piú evidenti. - Se poi lo conoscessi, nell'intimità, quant'è caro ... - Anche di ciò sono persuasa. Ma è una testa calda, capisci? piena di grilli, con poca tenacità di propositi, con nessuna voglia di lavorare ... - Sembri mio padre! - esclamò Teresina con dispetto. - Come se tutti al mondo dovessero essere posati, seri e noiosi per riuscire a qualche cosa di buono. - È un fatto - continuò la pretora - che da tre anni si mangia regolarmente i denari della laurea. - Ma quest'anno no. Me lo ha promesso. - Voglio ammettere. E dopo? - Dopo ci sposiamo. - Così? La ragazza mostrò di non comprendere. - Non può esercitare l'avvocatura prima di averne fatta la pratica. - La farà. - Altri due anni. - Pazienza. - Egli di casa sua non è ricco ... - Insomma finiscila. Io l'amo. Dopo questa interruzione violenta, la fanciulla pianse un poco, stringendosi al braccio dell'amica, ripetendole che adorava Egidio, che non avrebbe potuto vivere senza di lui. La pretora si intenerì; ricordò anche lei i suoi primi amori, le belle illusioni de' suoi vent'anni. - Infine - mormorò - posso ingannarmi. Orlandi non è cattivo; se ti ama veramente, saprà compiere il miracolo. - Mi ama! Così gridò Teresina infiammata d'entusiasmo, colle braccia tese verso la riva destra del Po, dove il sole tramontando accendeva i boschi.

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Si abbandonava senza resistenza alla malinconia, trovando che era ancora il meglio che potesse fare. Guardando giù in platea, astrattamente, vedeva Luminelli, di cui avrebbe potuto essere la moglie, e che non si era mai accasato. S'ella lo avesse preso, quando la pretora glie ne aveva fatto la proposta, anderebbe ora a braccetto con lui, pranzerebbero insieme, dormirebbero insieme; gli farebbe molti baci e lo abbraccerebbe stretto. L'idea di abbracciare Luminelli le diede uno stringimento di gola; si voltò verso il fondo del palco, colla testa appoggiata alla tappezzeria. I baci di Orlandi le tornavano cocenti alle labbra ... Le maschere incominciavano ad affollare, serie, compassate, svelandosi sotto l'abito raffazzonato. Le gemelle si divertivano a indovinare. - Quello là è il farmacista. - Credi? - Senza dubbio. Non vedi come muove i fianchi e tiene i gomiti aperti? - Allora quel domino celeste che pare la sua ombra è la Gigia? - Naturale. - Quando si va in maschera si dovrebbe nascondersi meglio. - È difficile. Qui ci conosciamo tutti. Chi nessuno conosceva erano quattro giovinotti, nascosti sotto l'elegante costume dei gentiluomini veneziani, i quali avevano invaso il palco scenico con un brio indiavolato. Forastieri senza alcun dubbio; ma chi erano? Le gemelle scesero a ballare; Luminelli minore si mostrava molto assiduo presso una di esse. - Che cosa fa quel giovane? Così domandò il signor Caccia sospettoso, perché dopo l'affare di Teresina non aveva occhi che per scoprire gli amanti delle sue figlie. Il tenente dei carabinieri lo soddisfece pienamente dicendogli che egli era professore, come il fratello, e persona raccomandabilissima. Dopo aver fatto parecchi giri colle gemelle, il giovane professore insisté per ballare con Teresina. "È delicato", pensò il signor Caccia, e per quanto Teresina si rifiutasse, la costrinse ad accettare, almeno un giro, per non far parlare la gente. Scesero sottobraccio tenendosi lenti, in una reciproca e completa indifferenza; egli badando solo a farsi strada in mezzo alle maschere; la ragazza annoiata, contrariata, non aspettando nessuna gioia dal ballo, pensando che si troverebbe così bene sola, nel suo lettuccio, dove almeno riposerebbe. - Saltato o strisciato? - chiese Luminelli, appoggiandole la punta delle dita sul dorso. - Come vuole. Fecero mezzo giro, urtati, pestandosi i piedi a vicenda, non arrivando mai a mettersi d'accordo. - Proviamo a saltare? - Ma se le ho detto di fare come vuole! Una compagnia di Pierrot li travolse, serrandoli contro il muro; per poco non caddero. Teresina, a corto di pazienza, sentendosi crescere la nausea e l'irritazione della folla, ritirò la mano dalla spalla del suo ballerino; stava per dirgli: sono stanca. In quel momento, uno dei quattro veneziani in mantello corto la prese rapidamente per la vita. Luminelli, poco pratico, stordito, credette che ella stessa si fosse sciolta per ballare colla maschera e non avendo nessun motivo di rimpiangerla, stette a vedere, pensando che, tanto, loro due non sarebbero mai andati d'accordo. Prima che Teresina potesse dire una sola parola, la stretta appassionata del suo rapitore le svelò chi era. Nella confusione, girando abilmente, egli poté continuare a tenersela serrata contro il petto in un amplesso vertiginoso Attraverso la bauta della maschera la sua bocca sfiorava i capelli della ragazza. - Ho bisogno di parlarti: non dirmi di no. Trovati all'alba in fondo al tuo giardino. Pochi minuti dopo, riconducendo a Luminelli la sua ballerina, il gentiluomo veneziano si inchinò profondamente, ringraziando, e sparve nella folla. Teresina non aveva aperto bocca; si attaccò al braccio di Luminelli come uno che ha le traveggole, e quando costui le chiese se voleva continuare il ballo, accennò negativamente col capo. Luminelli con un sospiro di sollievo la ricondusse in palco. Le gemelle la guardarono con sorpresa. Suo padre le chiese se si sentisse male. Quanto a lei, sempre incapace di parlare, scuoteva il capo, fissando gli occhi vitrei nel vuoto. - Si vede che il ballo non ti va - disse il signor Caccia. L'incidente della maschera era stato così breve, così rapido, che nessuno se n'era accorto. Luminelli, presa per mano la sua fiamma, tornò sul palcoscenico a far miglior prova di abilità. - Sarà tempo di ritirarsi; è il tocco - annunciò il signor Caccia, guardando il suo vecchio cilindro d'oro. - Oh! sì, torniamo a casa. Furono le prime parole che Teresina pronunciò, uscendo dal suo stupore. Non le pareva vero di andarsene fuori da quella calca. La prima boccata d'aria pura la rinvigorì tutta, dandole un bisogno di moto: si pose a correre lungo il muro, colla testa alta, per sentire sulla faccia il fresco della notte. - Che furia! - disse una delle gemelle, indispettita di aver dovuto abbandonare il ballo così presto. Teresina rallentò il passo, ma non rispose. Era la prima volta che si trovava in istrada a quell'ora; e nella condizione di esaltamento in cui l'aveva posta l'improvviso incontro di Orlandi. avrebbe voluto camminare sola nel buio, nel fresco, nel silenzio. La sua calma fantasia di fanciulla intravedeva con meraviglia i contorni di un mondo fantastico. Le case ben note, le vie tante volte percorse, le apparivano sotto un aspetto nuovo; ma, piú ancora degli oggetti materiali, era il mistero della notte che la colpiva; quel gran silenzio freddo, quella purezza dell'aria e del suolo, che si ritemprava nella assenza degli uomini, quasi la natura volesse riprendere fra le tenebre i suoi diritti violati ogni giorno sotto la luce del sole. Mai ella aveva sentito così vivo l'istinto della libertà. Senza accorgersene riprincipiò a correre, illudendosi di essere padrona di se stessa, provando, in questo inganno, una delle gioie piú inebbrianti della sua vita. Ma la voce dell'esattore chiamò in falsetto: Teresina! - e l'incantesimo cadde. Il padre, la madre, la famiglia, il decoro, le consuetudini, tutte le catene della sua esistenza ripresero il loro posto; ella trasalì proprio come se un anello di ferro le avesse serrato i polsi. Solamente quando fu nella sua camera, prese a considerare con una freddezza, relativa, la proposta di Orlandi. Egli le aveva detto in fondo al giardino e si capiva che, dopo gli scandali occorsi, non volesse esporla alla finestra che dava sulla via. Il giardino confinava con un viottolo disabitato: ma la muraglia era alta; come avrebbero potuto parlarsi? E sopratutto che cosa le avrebbe detto? Da un anno Teresina dormiva sola in camera; le gemelle le avevano collocate, insieme all'Ida, nell'ampia camera di Carlino. Ebbe dunque tutto l'agio di riflettere e di pensare le cose piú stravaganti, così come le piú comuni, appoggiata alla sponda del letto. Quando vide che la candela, quasi interamente consumata, stava per abbruciare la carta, si spogliò rapidamente l'abito di gala, mise il solito di casa, e, soffiando sulla fiamma, si buttò così mezzo vestita sul letto per aspettare l'alba. Verso le cinque la finestra, imbiancandosi, le diede avviso del giorno che spuntava; ed ella fu meravigliata di doversi levare con uno sforzo, meravigliata di sentire il corpo in un momento come quello. Tutte le ossa le dolevano. Si pose sulle spalle uno sciallino nero, e discese le scale rabbrividendo, sbadigliando per convulsione, con un gran vuoto al posto dello stomaco. Attraversò il giardino in mezzo agli alberi secchi, sul viale bianco di brine; dando un'occhiata a destra nel cortile sfiancato della casa del pretore, ed a sinistra alla casina di don Giovanni, che sembrava sprofondarsi sotto un boschetto di magnolie sempre verdi. In fondo, sul muro di cinta, dove il fico stendeva i suoi rami nodosi, Orlandi era alla vedetta, pronto, e appena scorse la fanciulla, discese. Teresina fu sorpresa, non dell'apparizione, ma di non aver pensato prima, che quella era una via praticabilissima per un amante ardito. Si abbracciarono subito, senza parlare, quasi temessero di perder tempo. La fanciulla che aveva preparata una frase dignitosa, si trovò avvinghiata al collo di Egidio, e lo baciava sulle guancie, sulle orecchie, alla radice dei capelli, stringendosi a lui nel caldo delle sue braccia, colla sensazione di un benessere che affogava qualsiasi ragionamento. Non aveva piú freddo, non era piú stanca; tutta la sua persona era appoggiata, abbandonata su quella del giovane, in un oblìo completo di tutto quanto non fosse lui. Lo stringeva gradatamente, sempre piú forte, coll'incoscienza dell'istinto, avendo una sola idea chiara e precisa: Egidio nelle sue braccia. Egli le prese la testa, e rovesciandola indietro con un movimento brusco, la baciò sulle labbra. - Vieni con me, fuggiamo. Il suono della voce riscosse Teresina. Si allontanò dal giovane, tenendogli solo le mani sulle spalle, guardandolo inebbriata. - Vieni con me. Tuo padre non acconsentirà mai alle nozze finché non vi sia costretto. Ti condurrò a Parma, dalle mie sorelle: vuoi? Teresina non poté sapere se egli fosse venuto a trovarla con quel progetto, o se forse gli era sorto improvvisamente nel delirio del primo amplesso. Però sentiva che Egidio era sincero, e non mai come in quel momento comprese di essere amata. Ma intanto che questa certezza le innondava il cuore di una gioia immensa, come bilancia che da una parte ha raggiunto la misura, balzava dall'altra parte il terrore di far cosa sconveniente per una onesta ragazza. - No… no… non posso. Ho promesso a mia madre. - Che hai promesso? - Di non darle dispiaceri… - E di rinunciare a me? - Oh! questo no. Un lieve imbarazzo si dipinse sulla fronte di Orlandi. Circondandole col braccio la vita, se la tirò accanto, e: - Ragioniamo. Posso io presentarmi a tuo padre? - Sì ... quando hai un impiego sicuro e conveniente. - Ecco appunto quello che non ho. - Ma mi avevi scritto… - Il progetto non andò bene. Io vivo ora alla peggio, scrivendo per l'uno o per l'altro giornale. - Ma perché ti sei dato al giornalismo? - Chi lo sa! Una passione come un'altra, e che non esclude le altre ... La strinse dolcemente, cercando di nuovo la sua bocca, con un sorriso d'uomo felice. Per cinque minuti non parlarono. - Ma tu hai freddo ... Orlandi si levò il mantello e ne avviluppò Teresina con una sollecitudine quasi materna, osservandone le guance pallide, che portavano le tracce della notte perduta. - Adesso avrai freddo tu! ... - Io? ... Stava per dire: non posso aver freddo, ho cenato lautamente: ma davanti a quel visino sbattuto, sul quale tutte le astinenze imprimevano un solco, provò un senso di pietà. Sollevò un lembo del mantello, tanto da potersene coprire le spalle, e mutò la frase: - ... se mi permetti di stare qui non avrò piú freddo. Lo strinse a sé, beata, scoprendo una gioia nuova in quella protezione, sembrandole quasi di anticipare l'intimità seria e solenne del matrimonio. Era vero che sentiva il freddo. Non aveva dormito, non aveva mangiato dal desinare del giorno prima; ma anche quei brividi che l'alba le metteva nelle ossa, avevano la loro voluttà; le facevano trovare piú dolce il tepore dell'amplesso. Una parola di Egidio la turbò. - Dunque vieni? - Sai, non posso! - gli rispose colle lagrime agli occhi, serrandogli la mano disperatamente. - E allora che vuoi che facciamo? - Aspetto. Era la sua forza, la sua fede. Non sapeva nemmeno lei che cosa aspettasse; l'incerto, l'ignoto, un miracolo forse. Ma Orlandi non la intendeva così. - Cara, la gioventù passa presto; sono già sei anni che ci amiamo inutilmente. Teresina non comprese l'accento scorato del giovane. Perché diceva che si amavano inutilmente? L'amore è sempre amore, pensava, quando si ama, si spera. Ella viveva pure con quel tenue filo di felicità; perché a lui non bastava? Le venne in mente di domandargli se intendesse di continuare per tutta la vita a scrivere articoli di giornali; ma questo discorso noioso le avrebbe portato via tanti baci; e poi voleva ascoltare da lui altre parole: mio tesoro, mia vita, cara la mia Teresa Tutto ciò era importante; il resto sfumava, si perdeva in una nebbia lontana di fatalismo. Nella monotonia della sua vita, dove il pensiero solo metteva una nota ridente, questi erano i momenti di vera felicità. Si sentiva donna, si sentiva amante e amata; mentre poi, come prima, come sempre, ella non sarebbe altro per mesi che figlia ubbidiente, fanciulla riservata, buona massaia. - Probabilmente - disse Orlandi - mi stabilisco a Milano. Un subitaneo sgomento apparve negli occhi di Teresina. Milano era piú lontano di Parma; e quantunque non conoscesse la grande città, intuiva vagamente ch'egli vi avrebbe incontrato maggiori tentazioni. Il cuore le si strinse di indefinibile malinconia. Vide d'un tratto tutta la sua umiltà, la sua povertà, la sua impotenza. Ebbe voglia di dirgli: Portami via! ma la parola le morì strozzata da un singhiozzo e non poté far altro che nascondere la faccia sul petto di lui. - Vedi, vedi? Te lo dissi che questa vita è impossibile. Ho rimorso di veder sciupare la tua giovinezza; Teresa, mia povera Teresa ... - Oh! sì chiamami tua perché lo sono! Gli si abbandonò sul petto con tale impeto disperato che, per un istante, Orlandi ebbe una fiamma negli occhi, e tremò come preso dalla febbre. Ma quasi subito ella rallentò la stretta, scivolando accasciata quasi fino a terra. dove stette col viso chiuso nelle mani, il corpo piegato in due. Orlandi contemplò quella testolina di vergine prostrata davanti a lui. - Che cosa intendi di fare? - le chiese con accento grave e dolce, rialzandola. - Amarti, sempre, qualunque cosa accada, qualunque sia il mio destino. Egli accostò alle labbra la mano della fanciulla: vi depose un bacio, esitante, turbato, ridivenuto improvvisamente freddo; affettuoso, ma distratto. Ella non se ne accorse; sentiva ancora i suoi baci, lo vedeva, lo toccava. Era impossibile che pensasse ad altro. Quando Orlandi scomparve dietro il muricciolo, Teresina fu presa dalla tentazione di seguirlo, volle gridare, volle chiamarlo, ma volgendosi improvvisamente, come se avesse udito una voce, si trovò davanti alla sua casa, alla casa casta e severa, dove sua madre riposava fidando in lei; e tornò indietro a capo chino, malcontenta di quel colloquio che le lasciava una tristezza insolita, uno scoramento da cui fuggiva la fede.

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CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 4 occorrenze

Pochi istanti dopo si abbandonava sfinita sopra uno scoglio a fior d'acqua e scoppiava in pianto. Tutta l'acqua del mare non può lavarmi da questa profanazione, - ripeteva sconsolata. E allora ebbe come una visione dell'avvenire sentendo che la sua pace, la sua lieta esistenza, il suo amore; tutto sarebbe stato distrutto da Franco. 0168 Sarà il mio carnefice - mormorò. Il duca non aveva osato inseguirla, ma risalito nella barca si era accostato allo scoglio e la guardava così bellina e sottile, con il vestito di lana aderente al corpicino elegante, con le braccia nude, abbandonate lungo la persona, con i piedini rossi baciati dalle onde lievi, con quella pelle delicata. Egli la divorava con gli occhi e nel passarle a poca distanza s'alzò sulla barca e le disse in atto di sfida: - A un'altra volta! Velleda, più morta che viva, tornò nella cabina e cadde sopra una panca, tremante, pallida o sconvolta. Hai la febbre Leda? - le diceva Maria. No, mi sono stancata troppo, ma non è nulla, non ti spaventare. Costanza, che era intenta ora a strizzare i costumi del bagno, teneva gli occhi bassi; aveva veduto tutto, ma non aprì bocca. Ogni dolore di Velleda era una gioia per lei. Più tardi quando il duca e Velleda s'incontrarono a colazione, sotto lo sguardo dolce di Roberto, Franco ebbe il coraggio di domandare alla signora se si sentiva male perché la vedeva pallida e abbattuta, Leda s'è sentita male nel bagno, - rispose Maria, - è uscita tutta tremante, pareva che avesse la febbre. Ho commesso un'imprudenza nuotando troppo, disse la signora per rassicurare Roberto, che la guardava ansioso. - Non farò più bagni. L'agitazione di Velleda continuò per un pezzo. Dopo pranzo non ebbe la forza di fare la solita gita sul " Selino " e passò alcune ore seduta nell'acropoli deserta di lavoratori, con un libro in mano, senza leggere. I più strani pensieri le correvano alla mente; pensieri baldi di resistenze violente, di acerbe lotte; pensieri di fuga. di sparizione senza lasciare traccia di sé: ma tutti cadevano allorché il cuore le ricordava che non era sola, 0169 che non aveva il diritto di abbandonare un uomo buono, del quale aveva accettato l'affetto. Mentre stava così perplessa invocando un'idea cui attaccarsi, un'idea che la salvasse in mezzo a tanto sconforto, udì dei passi dietro a sé e si alzò spaventata. Siala vista del Lo Carmine la calmò. Come mai è divenuta così nervosa che si spaventa a ogni rumore? - le domandò. L'estate mi ha spossata, - rispose Velleda, - uia non è nulla e l'autunno mi renderà vigore. Volevo giusto parlarle, - disse il Lo Carmine, ma è sempre accompagnata e non bramo che le mie parole giano udite da altri. C'è forse qualche pericolo? - domandò ansiosamente. No, si calmi, ha i nervi agitati; anzi ... ! Sono stato a Trapani in questi giorni, e come ella sa, per tutto si prepara la lotta elettorale, benché il decreto di scioglimento della Camera non sia anche firmato. Ebbene, molti amici miei, persone anche influenti, vorrebbero che nella lista dei deputati moderati della provincia figurasse il nome del signor Roberto e mi hanno detto d'interrogarlo se si lascerebbe portare. Che cosa crede lei? Queste poche parole erano bastate a dare un altro avviamento ai pensieri di Velleda. Ritornata a un tratto padrona di sé, esaminava la situazione con calma. Naturalmente, il collegio che gli si offre sarebbe. Castelvetrano? - domandò ella Appunto. Non so se accetterà, ma sono quasi sicura che riu scirebbe se si portasse. Veda, l'avvocato Orlando, ministeriale, riuniva fin ora molti voti, perché vi era lo scrutinio segreto e per lui votavano in altre circoscrizioni della provincia. Ritornati al collegio uninominale, egli avrebbe pochi voti, perché non ha, base a Castelvetrano, dove il partito di sinistra è in minoranza. Sono 0170 tutti moderati o socialisti. I primi voteranno certo per il signor Roberto; i secondi, a meno che non portino un candidato proprio, che non riuscirebbe, darebbero i loro voti a un candidato d'opposizione piuttosto che a un ministeriale. In tutti i casi ci sarebbe dispersione di voti e per conseguenza ballottaggio, ma il risultato finale -sarebbe reiezione del signor Roberto. Questi stessi calcoli sono stati fatti dai miei amici di Trapani, ma ora si tratta di sapere se il signor Roberto accetterà. Vorrebbe ella interrogarlo, per evitarmi un rifiuto, o nel caso affermativo, preparare il terreno alla mia proposta? - Volentieri, - rispose Velleda, tutta infervorata da quell'idea. - Se posso, lo interrogo stasera e domani le darò una risposta per lettera. Allora il Lo Carmine si diede a esporre a Velleda il bene che Roberto avrebbe potuto fare a quel paese così abbandonato dal Governo. Prima di tutto bonificarlo, riprendendo dopo tanti secoli i lavori intrapresi da Empedocle; poi creare una colonia agricola nei terreni strappati alla palude e alla malaria, in terzo luogo ottenere del bilancio dell'istruzione pubblica maggiori fondi per gli scavi. Qui la volevo! - esclamò Velleda. - Dica la verità: ella desidera che un uomo colto, un archeologo, conoscitore di questi luoghi vada alla Camera, per ottenere che Selinunte esca dalla terra che la copre, perché lei possa frugare questa spiaggia in tutti i versi. Sarebbe forse un desiderio colpevole? - domandò il Lo Carmine, balbettando più del consueto. No davvero. Anzi è un'ambizione molto modesta ; le mie sono più vaste, più grandi. Lo scienziato non le domandò a che miravano quelle ambizioni; lo indovinava ed era sicuro che Roberto avrebbe accettato il mandato per compiacerla. Noi vi sorprendiamo! - esclamò Roberto mostrando 0171 la testa di dietro un muro basso. - Ah! ho capito! aggiunse rivolgendosi a Velleda scherzando. - Non è voluta venir con noi perché aveva un appuntamento col Lo Carmine! Il viso di lui mi dice che qui si tratta di un complotto. Sì, - rispose Velleda, - noi si cospira contro l'onorevole Orlando, il quale sarà in questo momento nella suo villetta, senza sospettare che dinanzi al mare due persone attentano alla sua felicità. Franco, che era sopraggiunte insieme con Maria, non capiva nulla; Roberto credere che si trattasse del processo, perché l'avvocato Orlando era appunto il difensore d'Alessio e disse : Io non devo saper nulla di questo complotto? Per ora no; più tardi forse. È curioso? - gli domandò ridendo Velleda. - Un poco. Tutti insieme si diressero verso casa. Roberto aveva pregato il Lo Carmine di pranzare con loro, così che quella sera il pranzo fu più animato. Velleda però era taciturna. Era bastato un sorriso di trionfo di Franco per agghiacciarle il sangue. Evitava d'incontrare lo sguardo freddo, sarcastico del duca, ma bastava la voce di lui per ferirla e barbaramente ripeteva a sé stessa, per risentire la vergogna dell'insulto : Mi ha baciata! Mi ha baciata! Era già notte alta, una notte quieta e serena, quando Velleda si alzò da tavola. Ella offrí il caffè agli ospiti e a Roberto e poi per non parlare con Franco, condusse Maria a letto. Le altre sere lasciava per solito a Costanza quella cura, ma quella sera volle spogliare da sé la bambina. Che cosa hai fatto oggi? - le domandò. Niente; mi sono divertita con lo zio Franco. Figurati; fingeva che io fossi grande e mi trattava come 0172 una signora. Mi diceva che ero bella, che avevo gli occhi come un'orientale, la pelle morbida e tante altre schiocchezze. E tu gli credevi? No! Che me ne importa di esser bella ora? Quando sarò grande, allora sarò duchessa. - Ma che duchessa! Egli non può trasmettere il suo titolo altro che ai proprj figli. - T'inganni, Leda: tu sai tutto, ma queste cose le sa meglio Franco di te. Il duca non lasciò a lui il suo titolo? - Perché era un maschio. Le femmine non ereditano titoli; esse portano il nome del padre e poi quello del marito; e se tu mi vuoi bene, Maria, la prima volta che lo zio ti parla di queste sciocchezze devi rispondergli che tu non hai bisogno di titoli, perché ti basta il nome onorato del babbo. Me lo prometti, Maria? S'era inginocchiata accanto al letto della bimba e la guardava con tale intensità d'affetto, che ella, attratta da quello sguardo, le buttò le braccia al collo, dicendole : Farò quello che tu vuoi; Leda, perché ti voglio tanto bene! Ora; dormi, cara, - disse, e chiamata Costanza ricornò in sala. Il Lo Carmine, già s'era alzato per andarsene. Bravo, - gli disse in modo da essere udita da Franco - Lei sa che devo parlare al signor Roberto. Gli parli subito e farà bene, - rispose l'altro. Il duca rimase un momento perplesso, ma poi si rassicurò pensando che del fatto della mattina non avrebbe letto niente a suo fratello, che si sarebbe fatta piuttosto ammazzare. Per via voleva confessare il Lo Carmine e per questo gli usò la cortesia di ricondurlo fino alla Casa dei Viaggiatori, ma il Lo Carmine non si fece confessare. Era 0173 uomo di poche parole ed aveva quella serietà di carattere che è uno dei tanti pregi dei siciliani; eppoi il duca non gl'ispirava nessuna simpatia. Franco rimase per alcun tempo a passeggiare sulla spiaggia, guardando la villa illuminata e specialmente la sala, nella quale scorgeva Velleda seduta vicino alla vetrata aperta. Non vedeva Roberto, ma ne indovinava la presenza, osservando che Velleda parlava animatamente come se cercasse di convincerlo di un fatto. Gli rivela tutto, lo aizza contro di me! - diceva perplesso e ansioso. - Perfida! Ma un momento dopo, vedendo Velleda che cessava di parlare e appoggiando la testa alla spalliera della poltrona sorrideva ascoltando tranquillamente ciò che rispondevate l'altro, si calmò. Non è di me che parla: c'è un altro mistero; una cosa che la fa felice. Se avesse narrato di me, avrebbe pianto, sarebbe andata in collera; invece ha una espressione severa sul volto; non ha astio! La conversazione fra Velleda e Roberto durava lungamente e Franco non sapeva scendere dal monticello di sabbia dal quale il suo occhio si spingeva dentro la sala. A un tratto vide Roberto alzarsi, accostarsi a lei, ma invece di curvarsi a baciarla, sollevò la mano che Velleda posava sul bracciale del seggiolone e se la portò alle labbra. Un momento dopo Roberto era in giardino, e chiudeva il cancello; dall'alto della terrazza Velleda gli gridava : Buona notte, mio buon signore! - e rientrava in sala per scomparire. Velleda aveva vinto le esitazioni di Roberto perché gli aveva detto: Io, che ho rasentato la gloria, non ho più ambizioni per me; tutte le mie ambizioni sono riposte in lei. Accetti e sarà eletto. Col suo ingegno, con la sua attività, con le larghe vedute e specialmente col suo cuore, 0174 che ha tutte le virtù più elette e si commuove a tutti i dolori, capisce tutti i bisogni dell'età moderna; potrà fare tanto bene. Lei, che è un solitario, un carattere integro e assolutamente puro, portando fra tanti utilitarj la sua rettitudine di giudizio e la sua coscienza retta, farà, dei proseliti. Non è possibile che non si manifesti una reazione; che un bisogno di probità e di onoratezza non si faccia strada nelle masse; e lei sarà l'apostolo di queste due virtù, il rigeneratore. Accetti! Ma saremo spesso divisi! - aveva osservai Roberto. È vero, - aveva risposto Velleda, - ma quello divisioni ci faranno meglio sentire l'affetto che ci lega. Accetti e mi farà felice! Roberto s'era lasciato convincere ed era stato in quel momento che Velleda aveva appoggiato la testa alla spalliera della poltrona, e, sicura della vittoria, aveva tracciato a Roberto tutto quello che poteva far di utile, specialmente nel campo della legislazione sociale, proponendo leggi per migliorare la condizione degli operai, per assicurare le famiglie in caso d'infortunio, per far cessare quell'odio di classe; che si accentua ogni giorno più contro la borghesia, la trionfatrice crudele del 1793. Sì Vellcda, io farò tutto quello che vuole, io mi lascerò guidare da lei, - aveva risposto Roberto e le aveva baciato la mano. Franco aveva assistito a quella scena, avevo udito Velleda dar la buona notte a Roberto, eppure non credeva alla purezza del loro affetto, e la sua fantasia eccitata glieli rappresentava ora stretti in un ardente abbraccio, ora dolcemente stanchi dopo lunghe ore d' amore, ma mai mai egli voleva ammettere che amandosi così profondamente, essi si fossero imposti un sacrifizio sovrumano. Anche quella sera Franco tornò stanco e irritato nel suo quartiere e penò molto prima di addormentarsi. 0175 Perché il Signorini non gli rispondeva? Ah! se avesse potuto scoprire una macchia sul passato di Velleda, l'avrebbe avuta in suo potere! Come sarebbe stato felice allora di sapere umiliata quella superba, di poterla piegare alle sue voglie, di vedersela dinanzi supplichevole, offrendo il suo amore in cambio del silenzio. La solita idea fissa lo torturava. Ora anche l'invidia per Roberto era meno viva; non lo invidiava più per la fortuna negli affari, per la stima di cui godeva, per quella superiorità che tutti gli riconoscevamo su di lui e neppure per i benefizj che Roberto gli aveva fatti ; lo invidiava soltanto per essersi fatto amare da Velleda. Questa invece non pensava a lui. Il passo che stava per dare Roberto dietro suo consiglio, le pareva così grave che ne esaminava con mente calma tutti i vantaggi e gli svantaggi, e in certi momenti si pentiva del consiglio, ma subito dopo ripensava alla nobile opera che egli avrebbe potuto compiere e ricacciava nel fondo dell'anima i dubbj. Fu in uno di questi momenti di fiducia che scrisse al Lo Carmine di comunicar pure ai suoi amici che Roberto accettava. Ella posò la lettera senza chiuderla sulla scrivania, per vederla appena desta e modificarla nel caso che il sonno le avesse dato un altro consiglio. Sia il sonno l'avvalorò, invece, nel suo proposito e la lettera fu recapitata la mattina presto al suo indirizzo.

Mia madre mi abbandonava interamente e io non ero infelice per questo, anzi ero lieto sentendo che nuovi legami si stabilivano fra mio padre e me quanto più io rimaneva nella sua biblioteca e imparava da quell' uomo, che m'incuteva tanto rispetto, mille cose che un professore non avrebbe saputo insegnarmi. Egli era versatissimo non solo nel diritto, ma anche in letteratura, in istoria e in archeologia, e tutto ciò che sapeva voleva che io pure lo apprendessi, ripetendomi: " Queste cognizioni saranno un giorno la tua ricchezza " e sospirava forse pensando alla mia povertà relativa e al cospicuo patrimonio che avrebbe ereditato mio fratello, il quale montava a cavallo, guidava una pariglia di bellissimi sauri, aveva la sua servitù ed era educato con quel fasto proprio delle famiglie principesche romane, mentre io crescevo senza lusso, senza idee di grandezza, sgobbando sui libri e assuefacendomi a considerare il lavoro come una necessità della vita. Mia madre si ammalò gravemente mentre io avevo quindici anni, e dopo una lunga malattia, morì. Mi duole il confessarlo, ma io non provai un dolore profondo vedendola mancare, prima di tutto perché non ero assuefatto a lei, e la sua perdita non lasciava un vuoto nella mia vita, in secondo luogo perché ella mi feriva sempre vantando la disinvoltura, l'eleganza, l'intelligenza di Franco, per stabilire fra noi un paragone, nel quale io scapitavo molto; Franco era il suo figlio d'elezione. Ella mi tacciava di essere calcolatore, gretto d'animo, sornione e se osavo farle osservare che speravo crearmi una posizione col lavoro e occorreva che studiassi, ella faceva una risata assicurandomi che non sarei mai stato nulla, e che quelle fisime andavano lasciate ai plebei, ai borghesucci. " Del resto, - concludeva, - tuo fratello ti aiuterà; egli sarà tanto ricco! " Anche al suo letto di morte, negli ultimi momenti della vita, ella riuscì a ferirmi. Se mio fratello era assente, era rosa dall'impazienza che tornasse; appena entravo io in camera, con un cenno impaziente della mano, con una parola che tradiva la noia che io le procuravo, mi indicava l'uscio, e io chinavo il capo e obbedivo. E queste scene si ripeterono molte volte, perché l'agonia fu lunga e straziante. Durante quella agonia io avevo sperato che ella mi chiedesse un bacio; ma non lo fece. Ella spirò guardando Franco, accarezzandogli il volto, e io non ho mai potuto ripensare a quell' estremo disprezzo senza soffrire. Dopo la morte di mia madre, il babbo lasciò Roma e mio fratello rimase in casa del duca; noi ci stabilimmo a Castelvetrano. Mio padre continuò a farmi studiare i classici, a istruirmi nell' archeologia, ma volle pure che a queste cognizioni io unissi quelle dell'agricoltura e della chimica. Prese dunque presso di noi una specie d'intendente molto abile e nell'inverno mi faceva passare alcuni mesi a Palermo per seguire il corso di chimica. Mio fratello scriveva raramente e sempre più io mi avvicinava a mio padre e mi staccavo da Franco. Non avevamo nulla di comune e le nostre lettere erano fredde e insulse. Quando avevo appena ventidue anni, mio padre morì, ed io che sentivo in me tanto bisogno di attività, fondai lo stabilimento vinicolo di Selinunte, costruendo la villina che ella abita, per portarvi la giovane e bellissima Maria, che fu la mia compagna per un anno solo. Vi è un periodo nella vita in cui l'ammirazione per il bello, rappresentato dalla donna, vince ogni altro sentimento, ogni altra considerazione. Maria era una mezza popolana, incolta, senza educazione, ma era divinamente bella, bella come la piccola Maria, ed io la sposai, nonostante i sarcasmi di mio fratello, nonostante l'opposizione di mio zio, che giurò di non volermi più vedere. Queste ostilità servirono d'impulso alla mia voglia di lavorare. Volevo crearmi una posizione indipendente. I beni di mia madre, indivisi con mio fratello, non erano una base di ricchezza e bastavano appena a una modesta esistenza. Io volevo esser ricco, non per procurarmi le soddisfazioni che la ricchezza offre, ma soltanto per lasciare un patrimonio ai miei figli, per vedere la mia Maria nella cornice elegante che richiedeva la sua bellezza. Ella mi amava con una dolcezza da schiava, e la sua adorazione per me, la sua sottomissione, non mi facevano accorgere quanto le mancava per esser davvero la mia compagna. Ed io che ero soltanto innamorato della sua bellezza, non le chiedevo quelle soddisfazioni dello spirito che ella non poteva darmi. Quell'anno fu un sogno di felicità completa, troncato dalla morte, ma io mi domando se ora che gli anni mi hanno reso più esigente, io l'avrei amata egualmente, se sarei stato abbastanza generoso per non farle sentire la mia superiorità. Il dolore mi straziò, ma non mi vinse. Da quel giorno ho esteso il mio commercio, sono diventato possessore di molti terreni, ho lavorato con maggior lena pensando all'avvenire del fiore delicato, che avevo visto crescere sulla tomba della mia cara morta, alla quale rivolgo la mente come si ripensa a una bella e lieta primavera. Ella mi conosce bene, poiché è un anno che si è offerta per vegliare sulla mia Maria e che mi vede al lavoro e nella vita di famiglia, dunque è inutile che le parli di me. Ma è necessario che le parli di Franco, che sarà nostro ospite e che giungerà costà il giorno successivo a questa mia. La prego di fargli preparare il quartiere dei forestieri, che è nel centro dello stabilimento. Quelle quattro stanze basteranno a mio fratello. Vi faccia portare i tappeti che sono in camera mia e alcuni libri. Mi affido al suo gusto per dare a quelle stanze un aspetto allegro ed elegante. Al servizio di Franco destinerà il mio cameriere, che dormirà nella retrostanza, accanto al bagno. Mio fratello giungerà col treno delle cinque a Castelvetrano. Gli mandi la carrozza e faccia preparare un buon pranzo e una tavola elegante. Franco è assuefatto a tutte le raffinatezze del lusso e siccome voglio affezionarlo a Selinunte, egli non deve provare impressioni penose al suo arrivo. Prepari anche Maria a riceverlo affettuosamente, ma non permetta che egli passi tutto il giorno alla villa. Il suo tatto le sarà di guida per tenerlo distante di costì fin dal primo momento. Ponga a sua disposizione l' yacht i miei cavalli, lo spinga a far gite in terra e in mare, lo occupi, ma non gli faccia prendere la consuetudine di vivere fra noi e non gli affidi mai Maria. Mi dispiacerebbe che la bambina interrompesse per lui la sua vita metodica e che noi fossimo privati di quella libertà di leggere e di studiare che è il conforto delle nostre serate. Faccia conoscere Franco al sotto direttore degli scavi, al buon Lo Carmine, e lo conduca dai Moltedo a Castelvetrano, dove troverà sempre gente. Però la prego di non presentarlo come duca d'Astura, nè dargli in casa il titolo cui mi pare non abbia più diritto dal momento che ha sprecato il patrimonio che a quello andava unito. Non mi dilungo su questo tasto doloroso; ella si accorgerà che Franco manca assolutamente di educazione morale, come d'istruzione. Il mondo si compone di edificatori e di distruttori; a quest'ultima categoria appartiene mio fratello; ma io spero con l'esempio, con la dolcezza di piegarlo al lavoro, di fare di lui, che è passato fin qui nella vita come un flagello, un uomo utile. E forse in quest'opera di rigenerazione, ella mi aiuterà. Dovrò stare a Roma forse per settimane, forse per mesi; è un sacrifizio immenso che compio, ma non sarei degno della stima degli onesti, se non lo facessi. Si tratta di salvare dal disonore il nome di mio fratello. Se non riuscirò a salvare altro, avrò già compiuto un'opera buona. Mi accompagni col pensiero in questa difficile e dolorosa missione che m'impongo e vegli sulla mia Maria, cui mando mille teneri baci. Il suo affezionatissimo "ROBERTO FRANGIPANI. "

La sua bella calma non lo abbandonava. Non posso dare aumenti e anche se potessi non cederei mai dinanzi al tuo " voglio ". Alessio. Tu guadagni più degli altri e mi fa specie che tu osi lamentarti. - Io difendo i diritti dei miei compagni e sono con 0129 loro solidale. Se non abbiamo la promessa di un aumento, lunedì nessuno di noi si presenterà al lavoro. Ebbene; lo stabilimento rimarrà chiuso, - rispose Roberto. - Potete andare, e con un gesto della mano indicò agli operai la porta. Fuori gli altri attendevano e quando Alessio riferì la risposta avuta, si udirono fischi e grida. Roberto non s'intimorì per questo. Uopo aver firmato le lettere, guardò la pendola sospesa al muro e vedendo che indicava l'ora del desinare, si alzò, prese il cappello e traversato il piazzale uscì dalla porta dello stabilimento, passando in mezzo alla turba eccitata. Nessuno lo salutò, ma nessuno osò torcergli un cappello. Il lunedì mattina neppur un operaio andò al lavoro; ma il giovedì già cento si erano raccomandati per venire riammessi e il lunedì successivo anche Alessio tornava, insieme con gli altri della deputazione. In quella settimana aveva fatto baldoria e spesso alla sera era andato a cercar Costanza nella grotta per chiederle danaro, che ella gli dava tutta lieta, dicendogli : Prendi; tutto quello che ho è tuo: non sono tua io? Pochi giorni dopo che era terminato lo sciopero, Roberto aveva trovato Alessio in combriccola insieme con altri operai nell'ora del lavoro e aveva sorpreso queste parole : Abbiamo dovuto chinar la testa, ma verrà il giorno che la chinerà lui. Il padrone aveva fissato Alessio per fargli intendere di aver capito tutto, ma non aveva aperto bocca. Però, essendosi accorto in seguito che molti lavoravano svogliatamente, aveva chiamato Alessio e gli aveva detto : Se l'ordine e la disciplina non ritornano nello stabilimento, tu sarai licenziato. 0130 Perché io? - aveva domandato sfrontatamente Alessio. Perché tu sei il mal seme, che occorre estirpare. Ti ho ammonto più volte, ho cercato di ricondurti sulla buona via; tutto è stato inutile, peggiori sempre. Alessio era andato via borbottando. La sera dopo Roberto, tornando da Castelvetrano a cavallo seguito da un guardiano aveva sentito due palle fischiargli all'orecchio. Non aveva fatto denuncia, anzi aveva ingiunto al guardiano di tacere, ma la mattina dopo s'era rinchiuso insieme con Alessio nello studio e gli aveva detto : Tu hai voluto uccidermi ieri sera. Se ritenti il colpo e sei più fortunato, vai in galera, perché io ho scritto un rapporto del fatto, designandoti come colpevole. Per ora non ti denuncio, ma ti mando via. Esci subito. Alessio non aveva detto una parola a sua discolpa e se n'era andato. Alla fine della settimana erano licenziati i suoi amici, e da quel giorno l'ordine, la disciplina e il rispetto per il padrone avevano regnato nello stabilimento. Però da quel momento era incominciata una vita d'inferno per Costanza. Alessio non aveva trovato lavoro non voleva andarne a cercare a Marsala e viveva alle spalle di lei. Prima le aveva finito tutti i risparmj, poi le aveva preso le gioie, e se la donna non si mostrava arrendevole, egli stava giorni e giorni senza farsi vedere. Più volte le aveva chiesto di farlo entrare di notte alla villa, per non esser sorpresi nella grotta o in aperta campagna, ma ella si era sempre rifiutata per timore d'essere scoperta dal padrone. Dopo la partenza di Roberto aveva ceduto ed Alessio era stato diverse notti nella camera di Costanza, salendo da una scala di corda che ella gettava già dopo le undici prima che la signora sciogliesse i cani e si ritirasse in camera. Un indugio di Velleda nella sera fatale aveva 0131 portato all'arresto d'Alessio, e ora nella camera che le rammentava tante voluttà, la selvaggia contadina in preda alla smania malediceva la signora e con la mano alzata in alto minaccioso, diceva: Madonna, fate che possa soffrire quanto soffro io!

Quelle scene straziavano il suo cuore di bimba ed ella si faceva protettrice dell'oppresso, del debole e inimicavasi la madre, la quale per fuggire la noia, pentita di avere sposato un oscuro artista, lo abbandonava, lasciandogli come elemosina la villa di Fiesole e i poderi acquistati, allorché del povero artista ella si era foggiata un ideale molto diverso dal vero, credendolo dotato di attitudini straordinariamente felici. Quella lettera io l'ho bruciata perché nessuno potesse mai leggerla, ma mi è rimasta scolpita nel cuore e posso citargliela periodo per periodo; da quello in cui mi descriveva la tristezza di suo padre dopo l'abbandono, e lo strazio della sua anima di bimba nel vedersi dimenticata assolutamente dalla madre, all'altro nel quale dipingevami la reazione che nacque in lei, l'amore allo studio dei classici italiani, destato dall'amore per Firenze, il desiderio di soffocare nel lavoro le malinconie languide della giovinezza, di conquistare quella fama che suo padre non aveva saputo conseguire e ornarne, a guisa di gloriosa corona, la canizie del vecchio sfiduciato. Il titolo dei suoi primi scritti, i passi penosi nel campo delle lettere, le sfiducie, gli entusiasmi, distratti dalla critica inesorabile, tutto, tutto rammento fino a quel grido di gioia, che il ricordo di un grande trionfo riportato dal suo romanzo: Vincitori e vinti dava a quel brano della sua lettera un colorito, che mancava al resto della narrazione. Poi sobriamente ella mi accennava all'amore per un giovane avvocato, più innamorato della sua fama che di lei, al loro matrimonio, alla morte del padre e alla nascita di una creatura. Qui la narrazione si faceva angosciosa e io nel leggerla capivo lo sforzo che doveva esserle costato lo scriverla. Ella parlava più lungamente dei suoi lavori, che continuavano a portarla sempre più in alto, che di quel dissipatore egoista, il quale aveva in odio il lavoro e avrebbe voluto vivere alle sue spalle oziosamente e signorilmente, che della lotta sostenuta per difendere il piccolo patrimonio della sua bambina, che delle minaccie e delle percosse per ottenere da lei denaro che correva a spendere in orgie e a sciupare nel giuoco. Su tutto questo ella sorvolava quasi, ma io indovinai più di quello che ella mi diceva, come capii quanto insopportabile doveva esser diventato per lei quel giogo, per ricorrere ai tribunali e chiedere una separazione legale. Ma ottenutala ella non ottenne la calma. Quel vile continuava a perseguitarla e mentre la diffamava con tutti, ricorreva poi a lei per aver soccorsi, l'aspettava sulla via per intimorirla e giungeva fino a rubarle la sua bimba, che moriva lontana da lei, in un paese del Mugello. Tutti quei dolori, sopportati senza sfogo, alteramente, la tennero più mesi fra la morte e la vita, e quando tornò in sé seppe che il marito scontava in un bagno penale il delitto di aver strappato una donazione a un ebete a danno degli eredi naturali. Allora un sentimento di vergogna la vinse; ripudiò il nome di quel vile, riprese il casato di suo padre, non ebbe più sogni di gloria, affittò la villa e cercò, mutando paese, di dimenticare a di farsi dimenticare. Quando io ebbi terminato di leggere quella confessione, Velleda, io provavo già una profonda stima per lei, un'ammirazione viva, per quell'alto sentimento di dignità che aveva saputo conservare in mezzo a tante sventure; ero già l'amico disinteressato che erale mancato nella vita, ero già penetrato da un senso di tenerezza per quell'anima afflitta, ma forte, che cercava nel lavoro l'oblìo, che non si sgomentava al pensiero di ricominciare a trent'anni l'esistenza, e pieno di fiducia le dissi di venire presso la mia bambina. La mia fantasia ha poco agio di correre dietro a visioni; e io non vestii di nessuna delle forme muliebri quell'anima afflitta; ma quando la vidi, se ne rammenta? scendere dal treno e stendermi le mani senza arrossire, capii che la sua figurina era il degno involucro dell'anima sincera e buona che aveva parlato alla mia, e il suo sguardo sereno mi scese al cuore. Da quel giorno l'affetto; nato spiritualmente, si accrebbe sempre, ma non ha mai degenerato, mai. Ella, invece di cadere nelle volgarità che è difficilissimo evitare nella vita in comune, si è sempre più inalzata nella mia stima ed ha costretto la mia ammirazione a convertirsi in una venerazione quasi sacra, in un culto ardende e rispettoso. Quando la vedo accanto a Maria pazientemente intenta a educarla, mi pare l'angelo della mia casa; quando poi la incontro nelle case degli operai malati, o la vedo presiedere ai loro pasti frugali, mi appare come il genio della carità, e allorché la sento accanto a me nelle lunghe e silenti serate, curva sopra un libro, o la odo parlare, allora mi pare la compagna invocata nella solitudine, la fata misteriosa che mi legge nel cuore e nel pensiero, la donna ideale, che si compiace di elevarmi, di schiudermi una nuova esistenza: quel paradiso riservato agli eletti dello spirito, nel quale è difficile penetrare senza aver fatto una lunga sosta nel regno del dolore. Questa fusione perfetta che riscontro in lei di tutte le qualità del carattere e della mente, racchiuse in un involucro di una bellezza tutta ideale, che sfugge allo sguardo di chi cerca nella donna la femmina, hanno determinato il mio affetto per lei. Badi che parlo d'affetto e non d'amore, perché non voglio offenderla con una espressione alla quale si dà in genere un significato materiale, di cui è scevro il mio sentimento. Affetto! ecco la parola vera, la parola santa di cui non possiamo arrossire. Non le ho mai chiesto se il mio sentimento fosse corrisposto, ma son certo da molto tempo che ella mi vuole un bene immenso. L'ho capito da quel linguaggio misterioso che si parlavano i nostri cuori, mentre le labbra restavano chiuse, dalla perfetta comunione dei nostri pensieri, dalla facilità con cui io leggevo in lei ogni moto dell'anima, dal desiderio di farsi umile dinanzi a me, da quel dolce riposo che le procura la mia presenza. Senza la catena che la lega a un essere che sconta tutti i misfatti commessi contro di lei, io l'avrei supplicata di accettare il mio nome, non perché il mio affetto avesse bisogno di questa sanzione legale per sussistere, ma soltanto per avere il diritto di starle sempre vicino e di proteggerla da ogni dolore. Questo non può accadere e io ricaccio il sogno in fondo al cuore, e mi stimo beato del legame spirituale che ci unisce. Mantenendo il nostro affetto in questi limiti, noi non abbiamo ragione di arrossire dinanzi al mondo, non offendiamo Maria, e la nostra coscienza non ci rimprovera nessuna azione turpe. So bene che la gente crederà poco a un affetto che non abbraccia altro che una parte della nostra vita, quella immateriale; che si ritempra nella rinunzia; che si alimenta nei sacrifizii. Essa ci getterà alle spalle le sue turpitudini, cercherà d'insozzarci col suo fango, ma noi serenamente procederemo per la via che ci siamo tracciati, facendo del bene e tenendo l'occhio rivolto in quell'etere profondo ove non giungono le volgarità del mondo e nel quale forse si ricongiungono le anime pure. Fra quelli che meno capiranno il carattere elevato del nostro affetto, sarà Franco. Egli è vissuto troppo male, fra gente troppo profondamente corrotta per credere alla idealità di un sentimento fra persone di sesso diverso, giovani ancora, ma è troppo signore, e mi dovrà tanta gratitudine per quello che faccio per lui, per amareggiarmi la vita. A lei sola lo dico. Per impedire il fallimento, ho impegnato la mia firma per una somma vistosa che non le preciso. È stato uno sforzo, perché ella sa che noi industriali immobilizzando dei capitali ci tagliamo le gambe. Ma il dovere me lo imponeva e quando saremo alla liquidazione finale, Franco mi pagherà. Ma egli non potrà mai compensarmi del sacrificio che faccio stando lontano da lei, o mia gentilissima, privandomi della sublime consolazione di vederla e di udirla. Mi voglia bene, me ne voglia molto e pensi a me condannato a vedermi passare sotto gli occhi tante turpitudini di avidi speculatori, a lottare con loro accanitamente per salvare le briciole di un patrimonio regale. Baci teneramente la nostra Maria. Il suo ROBERTO Egli ha ragione, - pensava Velleda - la confessione che mi fa in questa lettera, non mi cagiona nessuna sorpresa, nessuna. Anche se non avesse mai parlato, io ne sarei stata certa; l'affetto di Roberto non poteva essere un mistero per me. Ella si alzò e portò alla bimba addormentata il bacio paterno, poi toltasi il severo vestito di lana grigia, indossò un accapatoio di trasparente batista e andò sul terrazzo a respirare l'aria fresca della sera. Com'era beata per quella lettera affettuosa! Dal suo pensiero sparivano tutte le piccole contrarietà di quegli ultimi giorni e s'immergeva nel ricordo dell'assente carissimo. Le pareva che il vento agitando i palmizi, le onde lambendo la sabbia, le parlassero di altre serate egualmente felici, trascorse insieme con Roberto nella contemplazione di quello spettacolo sublime del mare, del quale i loro occhi non si stancavano mai. Il mare si associava a tutti i ricordi della nuova esistenza di Velleda; esso accompagnava col rumore scrosciante della burrasca le loro letture invernali, esso li alliettava col suo azzurro nei tepidi giorni primaverili, esso, col morniorìo cadenzato delle onde che andavano a morire al piede delle dune, interrompeva le loro meditazioni nelle serate calde. Trepidavano insieme allorché vedevano partire un vapore carico durante una tempesta; si facevano una festa di abbandonarsi al mare in una barca nei giorni in cui il lavoro taceva nello stabilimento; facevano insieme lunghe passeggiate sulla riva mentre Maria raccoglieva le conchiglie, e sempre sul mare si posavano i loro sguardi allorché temevano che s'incontrassero. Nè Velleda nè Roberto in quelle passeggiate, in quelle ore che passavano insieme, parlavano mai della loro vita anteriore. I loro discorsi sì aggiravano sul periodo di tempo di quell'ultimo anno, come se entrambi non volessero confessar di vivere altro che dal momento che s'erano incontrati. E mentre si parlavano la loro voce acquistava un tono carezzevole, che non aveva per solito, e i loro occhi una espressione di infinita dolcezza. Essi evitavano di stringersi la mano, di star vicini quando erano soli e i loro atteggiamenti erano sempre rigidamente casti. Pareva che sprezzassero tutte le manifestazioni materiali dell'affetto per rinchiuderle nel cuore e dare maggiore intensità al sentimento che li univa. Velleda non aveva mai permesso che Roberto leggesse un libro scritto da lei e firmato col pseudonimo di "Melusina", sotto il quale era nota nel mondo delle lettere. Una volta egli le aveva chiesto I Vincitori e i Vinti Vintied ella avevagli risposto: Ora non scriverei più in quella maniera, i miei sentimenti sono cambiati; non provo più certi risentimenti, non vedo più l'amore sotto lo stesso aspetto, mi sono fatta più calma e più umana; mi faccia il piacere di non leggere quel libro, che rinnego. Roberto aveva ubbidito, ma per giudicare il suo valore di romanziera, non aveva avuto bisogno di leggere libri di lei; gli era bastato di ascoltarla mentre narrava a Maria le avventure commoventi di poveri bimbi, le novelle meravigliose delle fate per convincersi della ricca fantasia di quella creatura eletta, nella quale vibrava alta la corda del sentimento, e queste qualità essenziali per chi deve dipingere la vita andavano unite a un gusto finissimo, a una perfetta dizione che accarezzava dolcemente l'orecchio e che scendeva nel cuore di Roberto commovendolo. Velleda, in quella sera di dolcissima meditazione; aveva dimenticato di scendere, come faceva sempre, a chiùdere il cancello e a sguinzagliare i due mastini che vegliavano sulla villa solitaria, nella quale dormivano il cuoco, Costanza, la bambina e la signora soltanto, ora che Saverio stava presso Franco. I rintocchi della mezzanotte, suonati dall'orologio dello stabilimento, la fecero balzare in piedi e senza chiamare Costanza, che doveva essere in camera di Maria, ella scese in giardino e s'avviò al canile. In quel momento i cani si misero ad abbaiare e Velleda vide un' ombra sgattaiolare fra i palmizj a poca distanza da lei e perdersi sotto il fogliame scuro delle folte piante d'arancio. Ella tremò, ma vinta la paura, sciolse presto i cani dicendo : Cerca Lampo! cerca Etna! E i due cani, col muso in terra, abbaiando, s'allontanarono di corsa. Per Velleda fu quello un momento di suprema angoscia. Non sapeva che fare, se risalire in camera di Maria, o correre a suonar la campana per chiamare aiuto dallo stabilimento, quando un colpo di fucile ruppe l'alto silenzio della spiaggia, e uno solo dei cani tornò a lei spaventato latrando. I malandrini! - esclamò la signora atterrita, e senza riflettere più gettò un sasso contro la finestra della camera del cuoco e salendo a precipizio le scale si attaccò alla corda della campana. Costanza era andata sulle scale, pallida e tremante, il cuoco era corso su col fucile in mano, mezzo vestito; Maria sola dormiva placidamente. Velleda collocò Costanza accanto al letto della bambina, chiuse a chiave le porte e preso che ebbe un revolver di Roberto, incominciò a perquisire la casa, insieme col cuoco, premendo ovunque i bottoni della luce elettrica, affinchè se vi era qualcuno nascosto, fosse subito visto a quel chiarore vivo. Ella era ancora al piano superiore, allorché giunsero due guardiani armati, Saverio e il Varvaro. Quest'ultimo aveva in mano la lanterna e avanzandosi nel viale dei palmizj guardava a destra e a sinistra, proiettando in basso e in alto la luce e intanto gridava per annunziare il suo arrivo. Velleda udi quei gridi e scese incontro al direttore. Ma che cosa è avvenuto? - domandò questi. Non so precisamente" - diceva con voce interrotta cercando di ritrovare il filo delle idee, - mi ero un po' attardata prima di sciogliere i mastini e quando sono scesa per isguinzagliarli ho veduto un'ombra nera fra gli alberi. Allora immediatamente ho sciolto Lampo ed Etna. I cani certo debbono avere scoperto il malfattore, perché ho sentito un colpo di fucile e Lampo solo è tornato verso di me ed è rifuggito subito. Ponetevi a difesa della casa sulla terrazza e non lasciate avvicinare alcuno, - ordinò il Varvaro ai guardiani, - Saverio e il cuoco cercheranno insieme con me. Velleda risalì in camera di Maria e vi si rinchiuse ; Costanza, in preda a un cieco terrore, aveva acceso tante candele a una immagine della Vergine, e balbettava : Maria, bedda matri aiutatemi! Salvatemi! Maria dormiva sempre e Velleda, con l' orecchio teso, spiava ogni lieve rumore. La camera di Maria, che era pure la sua, non guardava sul viale dei palmizj ne su quella parte del giardino in cui erasi svolta poco prima la rapida scena, e per questo ella non poteva seguire le indagini del Varvaro. Però a un certo momento sentì un rumore di passi nell'anticamera terrena e non reggendo più, corse sul pianerottolo, spenzolandosi nel vano della scala per veder chi era. Saverio! Saverio! che cosa è successo? - diceva scorgendo il cameriere, che correva verso la cucina. Lampo ha fatto il suo dovere! - rispose il servo nel passare. Poco dopo Saverio ripassava portando una spugna e una catinella piena d'acqua. Ma Saverio, per carità, spiegatevi! - diceva Velleda che lo aveva atteso trepidante. Signora, un malandrino ferito. Laconico nelle risposte come ogni siciliano, non disse altro e tornò verso i suoi compagni nel giardino. Suonate! - gridò Velleda ai guardiani affacciandosi al terrazzo. - Sparate i fucili, fate che vi odano dalla Casa dei Viaggiatori. Lo Carmine con i suoi ci verrà in aiuto. Oh se i carabinieri fossero in perlustrazione, se i doganieri accorressero; sparate! Partirono quattro colpi di fucile a breve intervallo e poi la campana suonò a distesa. A un tratto s'illuminò la Casa de' Viaggiatori, s'illuminò il " Selino " e da quello partì un colpo per avvertire che l'appello era stato udito. Lampo abbaiava furiosamente e i cani dello stabilimento pareva che gli rispondessero. Velleda correva ansiosa dalla camera di Maria alla terrazza e il suo pensiero volava a Roberto. Oh.' come lo invocava in quel momento; come sentiva il bisogno di averlo accanto a sé, a difesa della casa! A un tratto vide Costanza, che rompendo la consegna, scendeva le scale e le ingiunse di tornare dalla bimba. Sotto la chiara luce lunare, la signora scorse una lancia del " Selino " accostarsi alla banchina e vide dalla Casa de' Viaggiatori uscire un gruppo scuro, che correva in direzione della villa. Ma intanto che tutti quei soccorsi si avvicinavano, e Velleda ne affrettava col desiderio l'arrivo, più colpi di fucile erano sparati nel cortile dello stabilimento. I marinari del "Selino, che erano giunti al cancello della villa, retrocessero di corsa, i due guardiani che erano sul terrazzo della villa traversarono la sala; gridando a Velleda : Era una finta per allontanarci; il pericolo è là. Il pericolo! - ripeteva la signora atterrita. Dunque attentavano alla proprietà di Roberto, al frutto paziente del suo lavoro? Il Varvaro anch'egli s'era unito ai guardiani e correva verso il luogo più minacciato. Velleda non sapeva più che cosa fare e le fucilate che continuavano a turbare l'alto silenzio della notte, le ferivano dolorosamente gli orecchi. Ella scese incontro al Lo Carmine e ai due tedeschi e non seppe dire altro che : Maria! Lo stabilimento! Anche il sottodirettore degli scavi e i suoi due compagni erano armati di fucile e nella cintura portavano il revolver. revolver.Signori, - ella disse ai due giovani architetti tedeschi, conducendoli sulla porta della camera di Maria, restino qui, non si muovano, non lascino uscir nessuno, veglino per me. Io devo correr là. Non si muovano! Ella aveva preso in mano il revolver e trascinava seco il Lo Carmine verso il cancello, quando s'imbattè in Saverio e nel cuoco che portavano sopra un asse un uomo con la gola aperta e sanguinante. Velleda si fermò un momento, lo fissò con raccapriccio e poi esclamò: Alessio, il capo degli scioperanti di quest' inverno! Proprio lui! - rispose Saverio. - Ma Lampo gli ha levato la voglia di ricominciare. Lo rinchiudo in camera mia e dopo frugheremo la casa. Lampo seguiva il ferito mandando latrati feroci annunzianti che non era soddisfatto dell'opera sua. La fucilata era cessata allo stabilimento e il Lo Carmine, che vedeva con dispiacere Velleda dirigersi verso quel punto più minacciato, la trattenne quando stava per varcare il cancello. Resti qui, - le disse. - Se Maria si destasse, non avrebbe forse bisogno della sua parola rassicurante? Pensi che questa bimba è quello che di più caro ha il signor Roberto. Là vi è il Varvaro, vi sono tanti uomini. A quel nome, invocato da un amico, Velleda non seppe resistere e dopo aver chiuso a chiave il cancello, disse : Frughiamo il giardino, Ella aveva preso nella sinistra la lanterna abbandonata da Severio e col revolver nella destra, coraggiosa e cauta, si avanzava sotto le piante di arancio e sulla sua testina piovevano i petali bianchi. A un tratto si fermò, In una pozza di sangue giaceva Etna, con la testa squarciata da una palla, gli occhi spalancati e vitrei e intorno, mescolati al sangue, i soliti fiori profumati. Povera bestia! - esclamò, - mi voleva tanto bene ed è andata incontro alla morte per ubbidirmi. Più là vi erano altre tracce di sangue; il sangue di Alessio e sempre fiori, ovunque fiori nivei. Una corda abbandonata era attaccata con un arpione alla sommità del muro del giardino. Velleda l'accennò al suo compagno, il quale la staccò. Camminavano in silenzio esplorando. In un altro punto era stata tagliata un'alta pianta di fico d'India, in terra trovarono un altra corda avvoltolata. Velleda e Lo Carmine andavano sempre avanti, senza scambiare una parola. Quando ebbero esplorato tutta la parte anteriore del giardino, passarono in quella a tergo della casa. Velleda alzò la lanterna e mandò un grido. Attaccata al davanzale della finestra di Costanza, attigua alla camera di Maria, stava una scala di corda, e in terra, sulle aiuole di margherite e di pelargoni si vedevano tracce di pedate e piante calpestate. Velleda impallidì. Ormai il complotto era palese. Volevano rubare Maria per esigere poi da Roberto una somma prima di restituirla. Sventato il colpo avevano tentato di penetrare nello stabilimento, per rifarsi, rubando i denari che vi erano sempre. Quando la signora ebbe la percezione esatta del pericolo corso dalla bambina, impallidì e rimase irrigidita senza poter fare un passo. Se i malandrini avessero avuto tempo di mandare ad effetto il rapimento, che sarebbe avvenuto di Maria? Come avrebbe lei, Velleda, sostenuto la vista di Roberto? Oh! si sentiva impazzire a pensarvi. Pochi momenti più che si fosse indugiata nella meditazione della lettera di Roberto, e il colpo era fatto. Posò la lanterna; strappò la scala con un atto repentino e poi invasa dal terrore di un nuovo pericolo, corse in casa, salì in fretta le scale e penetrata in camera di viaria s'inginocchiò accanto al letto di lei e pianse, pianse lungamente. Costanza, inginocchiata pure e con aspetto truce pareva pregasse. Così Franco vide Velleda giungendo, così la vide il Varvaro, che andava a dirle quello che era accaduto. Ella fece loro cenno di non fiatare per non turbare il sonno della bambina, e senza accorgersi dei due tedeschi che facevano sempre la guardia, come sentinelle, andò in sala e lasciandosi cadere sopra una poltrona; disse al Varvaro: Ora mi racconti tutto! L' attacco allo stabilimento non era preparato, disse il direttore, - ma appena i malandrini hanno udito il suo appello, hanno veduto che io mi dirigevo qui con i guardiani e che i marinari del " Selino " venivano pure alla villa, hanno dato la scalata al muro di cinta e senza esser visti dal solo guardiano che era rimasto là, si son diretti alla segreteria, ove sanno che vi sono danari. I cani hanno dato l'allarme, il guardiano ha incominciato a tirare schioppettate e s'è attaccato alla campana. Allora io, destato all' improvviso, - continuò Franco, ho preso il revolver e, spalancata la finestra, ho mirato su quello dei malandrini che stava dietro a tutti e gli ho messo due palle nella schiena. Gli altri - erano sette - hanno rivolto i fucili verso la mia finestra facendo un fuoco di fila. Io sono andato a quella accanto e di dietro la persiana ho continuato a tirare. I marinari del " Selino " allora sono entrati nel cortile insieme col signor Varvaro ed i guardiani ed hanno fatto fuoco. Due altri malandrini sono caduti, i quattro rimasti illesi, mettendo mano ai coltelli hanno attaccato i difensori per aprirsi un varco e fuggire. Due vi sono riusciti; due sono stati presi e legati. Velleda con gli occhi pieni di lagrime che le scendevano sul dolce visino coperto da un pallore mortale, narrò quello che era accaduto alla villa e come avesse acquistato la convinzione che il colpo era diretto contro Maria. Era una imprudenza di restar qui quasi sola, disse Franco, - da stasera in poi mi permetterà di occupare la camera di mio fratello, e Saverio ed io faremo una ispezione nel giardino prima di coricarci. Il Varvaro approvò quella risoluzione, ma Velleda che non dimenticava mai Roberto, rispose: Farò avvertire i carabinieri, grazie; essi veglieranno nella villa. Franco non rispose, e non insistè perché sapeva che era inutile. Intanto erano giunti i doganieri, i quali trovandosi in perlustrazione verso il porto di Palo, avevano udito la fucilata, e quando l'alba rosea già illuminava le imponenti rovine, la villa e lo stabilimento, nessuno pensava ancora a cercare il riposo, e Velleda, con gli occhi sempre pieni di lagrime vegliava onde sparisse dal giardino ogni traccia dell'assalto notturno e Maria potesse ignorare il pericolo che aveva corso. Alessio, il ferito, era vegliato da un guardiano, il cadavere di Etna era stato sotterrato nella sabbia, i due tedeschi e il Lo Carmine erano tornati alla Casa dei Viaggiatori, e quando Maria aprì gli occhi sorrise vedendo Velleda da un lato del suo letto e dall' altro Franco. Oh! zio che sorpresa! - disse e cinse con un braccio il collo del duca, mentre con l'altro attirava a sé Velleda. gàra sui capelli. Sì, amore, - le rispose, - la mattinata è tanto bella! Anzi faremo il primo bagno di mare. I carabinieri dovevano giungere presto e Velleda era impaziente di allontanare la bambina dalla villa. Non voleva che sentisse parlare di quell' eccidio, come non avrebbe voluto che quella notizia giungesse a Roma a Roberto. Ma come fare? Ella affidò Maria alla balia; che aveva ancora gli occhi rossi, e fatto cenno a Franco di seguirla nella sala, gli disse: I giornali di Roma avranno probabilmente stasera la notizia del fatto, suo fratello la leggerà; non sarebbe meglio avvertirlo con un lungo telegramma? Non so, - rispose Franco. - Forse è più prudente di avvertire le autorità di tener celato l'acccaduto. Certe cose non si nascondono; sono troppi i testimoni e a quest' ora una cinquantina di persone sanno tutto. Io non posso celar nulla al signor Roberto; egli ha diritto di saper quello che avviene in bene e in male e io non meriterei più la sua stima se tacessi. Telegrafi allora; ma gli dica che il pericolo è scongiurato, - rispose Franco il quale non pensava ad altro che ai suoi interessi che sarebbero rimasti abbandonati se Roberto fosse partito.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679089
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Egli parlava un linguaggio che tutti capivano; raccomandava la devozione a Dio, l'affetto per il prossimo e la carità, e la sua voce era così attraente, e la sua parola tanto persuasiva, che la gente abbandonava le osterie ed i giuochi per correre ad ascoltarlo. Non v'erano più risse in paese; i nemici di antica data, commossi da quella parola dolce e penetrante, smettevano le animosità e facevano la pace. Da più anni, a Bibbiena, nessuno aveva rubato, nessuno aveva ucciso e nessuno aveva fatto danno al prossimo, e tutti quelli che morivano, volavano dritti in paradiso, senza far neppure una piccola sosta in purgatorio. Il Diavolo, vedendo che Bibbiena non gli dava più nessun contingente di anime, disse: - Bisogna che vada a fare un viaggetto in cotesto paese; così le cose vanno male. E senza neppur prendere seco un poco di bagaglio, soltanto camuffato da cavaliere, scese a Bibbiena. A tutti i crocevia le lampade ardevano dinanzi alle immagini sacre; dai monasteri partivano canti pietosi, e il Diavolo, per quanto cercasse, non trovò neppure un'osteria aperta. - Era tempo che scendessi in questa terra, - egli disse, mentre percorreva le vie deserte. - Qui la gente è troppo buona. Bisogna che io inventi qualcosa per tirarla a me. Bussò a un albergo e, dopo aver tempestato un pezzo, riuscì a farsi aprire. L'oste lo condusse in una cameretta, ma il Diavolo, appena vide un fascio di ulivo benedetto e una piletta d'acqua santa a capo del letto, indietreggiò, e disse: - In questa camera c'è un puzzo di rinchiuso che soffoca; datemene un'altra. L'oste lo condusse in una seconda, ma la vista di quelle due cose che lo fanno sempre fuggire, spinsero il Diavolo a non accettarla. - Dormirò sulla panca del focolare; - disse, - lì l'aria non manca. E così il Diavolo passò la notte in riposo. La mattina dopo si fece fare una frittata col prosciutto, una di quelle frittate che erano celebri anche all'inferno, perché vi avevano mandati tanti Casentinesi ghiottoni; e mentre l'ostessa sbatteva le uova, il Diavolo la faceva parlare. - Come mai, - le domandava, - qui non si trova neppur un'osteria aperta giungendo di sera? - Non avreste detto così qualche anno addietro, - rispose l'ostessa. - Allora eran tutte piene di giuocatori e di ubriaconi, e ogni momento correva il sangue per le vie; ma dacché in paese c'è il Romito, tutti si sono pentiti, e le benedizioni del Cielo piovono sulla nostra Bibbiena. Non vi sono più poveri, perché tutti lavorano, e anche chi stenta, si contenta del suo stato, sperando in una vita migliore, che si cerca di acquistare con la tolleranza, il perdono delle offese e la carità del prossimo. Il Diavolo aveva saputo quanto gli premeva di sapere e dopo aver mangiato la frittata, di cui fece molti elogi all'ostessa, andò in cerca del Romito. Non stentò a trovarlo, e appena lo ebbe veduto, gli disse: - Io credo, o mortale, che tu usurpi i miei diritti! - Perché? - domandò l'altro umilmente. - Sai bene che, nonostante il tuo Nazzareno sia morto in croce per redimere il genere umano dal peccato, metà della gente che muore, se non più, deve venire a popolare il mio regno. Se il tuo Nazzareno voleva davvero che tutto il genere umano salisse nel suo paradiso, doveva incominciare dal togliergli la carne, che è quella che induce gli uomini a peccare. - Addietro, Satana! - urlò il Romito facendosi il segno della croce. Il Diavolo fuggì facendo un ghigno tale, che echeggiò lontano nel bosco. Ma non per questo si diede per vinto, e passo passo ritornando verso Bibbiena, si mise a pronunziare parole misteriose in una lingua che nessun uomo parla, né capisce sulla terra. A quelle parole uscirono dalla profondità del bosco, dal fondo dei torrenti, dalle fratte, dai cespugli, una quantità innumerevole di animali spaventosi, di ogni forma e di ogni colore, come serpi, vipere, ramarri, grosse lucertole, salamandre, rospi e bòtte. Più il Diavolo camminava accostandosi alla città, e più il suo strano corteo, composto di rettili striscianti la terra o saltellanti, si ingrossava. Quando fu giunto al basso della collina su cui s'ergeva la città, Satana si fermò e disse a quella turba, nel linguaggio che ella capiva: - Salite, invadete, spaventate! E i rettili salirono alla città, invasero le vie e le case, spaventarono gli abitanti penetrando nelle camere, nei letti, nelle culle dove riposavano i bimbi lattanti, nelle dispense dove la gente serbava le provviste, in ogni cantuccio, in ogni luogo, meno che nelle chiese e nei conventi. Il pensiero dei poveri abitanti di Bibbiena, colpiti da un flagello più spaventoso di quello che colpì l'Egitto al tempo della schiavitù degli ebrei, ricorse subito al santo Romito. Essi portarono nelle poche chiese della città i loro bambini e quindi abbandonando le loro case agli invasori, mossero in processione, con i sacri stendardi spiegati, verso il bosco, dove sapevano di trovare colui che li aveva resi buoni, caritatevoli e pii. Ma appena furono usciti dalla città, videro, in mezzo alla strada, un uomo tutto vestito di nero e circondato da un numero infinito di vipere, le quali alzarono la testa, misero fuori la lingua e, come una schiera di saettatori, mossero all'attacco degli uomini salmodianti. Questi, spaventati, voltarono le calcagna e si diedero a fuga precipitosa, e una volta dentro la città sbarrarono le porte; ma le vipere, strisciando lungo le mura, salirono fino ai merli, e di lassù, con le fauci aperte, la testa eretta, parevano pronte a scendere nella misera Bibbiena. Intanto gli immondi animali, che già erano penetrati prima nelle case, avevano distrutto gran parte delle provviste e insozzate le altre, per modo che gli abitanti non avevano più da mangiare né da bere perché i pozzi e le cisterne erano pieni di bòtte e di serpi acquaiuole. Venne la domenica, giorno in cui il Romito soleva recarsi a Bibbiena, e gli abitanti, non vedendolo giungere, incominciarono a pensare che egli pure li avesse abbandonati, e, ritenendo inutili le preghiere, si diedero a mormorare contro il cielo e contro i santi. - A che ci è valsa la nostra devozione, se nessuno ci aiuta? - dicevano molti, che avevano veduti spirare i loro cari fra atroci spasimi, in seguito alle morsicature delle vipere. Intanto, nella lotta per non morire di fame, avvenivano risse; gli antichi rancori si riaccendevano e la gente, inferocita dallo spavento, dai dolori e dalle sofferenze, si allontanava dalla via del bene. Satana credé giunto il momento di impossessarsi di tutte le anime, e un giorno bussò alle porte della città. Aveva lasciato l'abito nero e nascondeva il volto maligno sotto il cappuccio di un frate francescano. - Chi è? - domandò l'uomo cui era affidata la guardia della porta. - Sono un francescano, - disse il Diavolo, facendo la voce umile. - Apritemi e vi libererò dal flagello che vi colpisce, Il guardiano della porta corse per il paese, cercando i cittadini più cospicui per riferir loro l'accaduto. Essi deliberarono che era meglio aprir subito, e mossero verso la porta, che si spalancò per lasciar entrare il finto frate. - Io vi prometto, - egli disse, - di liberare Bibbiena in poche ore dal flagello; ma voi dovete promettermi di non fare entrare più il Romito nel recinto della città; è lui che ha attirato sopra questo povero paese tanta maledizione. In quel momento i Bibbienesi dimenticarono i beneficî ricevuti dal pio Romito, e promisero tutto ciò che esigeva colui che si proclamava apportatore di salvezza. Il Diavolo incominciò a girare per le vie, a penetrare per le case e nei giardini pronunziando misteriose parole, che nessuno capiva. Però, a quelle parole, serpi, vipere, ramarri, salamandre, grosse lucertole, rospi e bòtte uscivano dai loro nascondigli, salivano su dai pozzi e dalle cisterne, sbucavano dalle tane, e intorno al frate si formava uno stuolo di quei ributtanti animali. Quando egli ebbe esplorato ogni luogo, mosse, seguìto da quel lurido corteo, verso la parte della città dalla quale era entrato, e, sceso nella pianura, disperse tutti i rettili pronunziando altre magiche parole. Dall'alto delle torri della città i Bibbienesi lo avevano seguìto con lo sguardo, e appena lo videro solo, gli andarono incontro riconducendolo a Bibbiena con grandi onori. Fu mandata subito gente nei paesi vicini a far provvista di vettovaglie, e la sera i signori della città offrirono al loro liberatore un banchetto. Il vino bevuto in grande quantità, dette alla testa a molti; nacquero delle dispute, un uomo fu ucciso, le osterie si ripopolarono, si riprese a giuocare, a bestemmiare, e nessuno pensava più al Romito né alle massime di pace, di rassegnazione e di carità che egli aveva predicato per tanto tempo. Una famiglia sola non partecipò alla baldoria generale. Questa famiglia si componeva di un vecchio padre e di due figli, i quali, prima che il Romito facesse udire la sua voce persuasiva ed ispirata, vivevano in continua discordia, con grande amarezza del vecchio. Un giorno, nel calore di una disputa, il maggiore di essi aveva preso un coltello ed erasi avventato contro il suo secondogenito, ferendolo al viso. La cicatrice di quella coltellata era ancora visibile, e il feroce e barbaro giovane, ora che si era pentito, la guardava di continuo. Appena un lampo di risentimento contro il fratello gli offuscava la ragione, la vista di quella ferita bastava a calmarlo e a suggerirgli sentimenti miti e buoni. Il vecchio e i due fratelli, udendo che il patto della liberazione di Bibbiena dal terribile flagello che li aveva colpiti si era che il Romito non riponesse più piede in città, li aveva indotti a non partecipare alla gioia generale e alle feste che si facevano in onore del liberatore. Essi erano tre poveri e rozzi uomini, ma facevano questi ragionamenti: - Se il frate ha paura del Romito, che aveva convertito tutta Bibbiena alla carità, alla tolleranza e al perdono delle offese, vuol dire che è un nemico del nostro bene, un ribaldo, forse il Diavolo in persona. E mentre tutti i cittadini bevevano, cantavano e giuocavano, padre e figli stavano rinchiusi nella loro casetta, pregando il Cielo di non abbandonare la loro città. E le loro preghiere furono udite in Cielo, dove le preci degli umili e dei buoni vengono trasportate dagli Angeli Custodi. E la Madonna s'impietosì sulla sorte di Bibbiena per l'intercessione di quel padre e di quei figli riconciliati dal Romito, e mandò loro una ispirazione. - Perché, - disse un giorno il padre, - non andiamo noi nel bosco a supplicare il Romito di riprendere le sue prediche? Egli, come quelli che sono mossi da vero spirito di carità, saprà affrontare i pericoli e trionferà del Demonio. Andiamo. E mentre la città era tutta immersa nei tripudî e nei sollazzi, il vecchio e i suoi due figli ne varcarono le mura, e andarono nel bosco. - Santo vecchio, - dissero allorché furono alla presenza del Romito, - perché hai abbandonata la nostra Bibbiena? - Io non avrei altro desiderio che quello di ritornarvi; - rispose il Romito, - ma il Diavolo vi ha stabilito il suo dominio e ogni tentativo per sloggiarlo mi pare inutile. - Vieni e tenta di cacciarlo. La fede non ti può mancare, e la fede opera miracoli. Il Romito pronunziò una breve preghiera, invocando l'aiuto del Cielo sulla impresa sua, e, accompagnato dai tre uomini, salì a Bibbiena. Nessuno guardava più le porte, perché il popolo faceva continua baldoria, e il Romito poté giungere sulla piazza della Pieve, senza che alcuno lo riconoscesse. Ma invano egli fece udire la sua voce dolce e persuasiva. Intorno a lui non vi erano altro che il padre e i due figli; il popolo, adunato nelle osterie e schiamazzante, non poteva afferrare le parole del santo uomo, il quale tornò nel bosco dopo lungo predicare. Però il Diavolo, che sapeva tutto ciò che avveniva in città, fu informato che i Bibbienesi non avevano tenuto il patto, e, adunatili la sera sulla piazza, li rimproverò acerbamente, minacciandoli di una nuova invasione di rettili, e designò i tre colpevoli, i quali vennero legati dal popolo inferocito, e rinchiusi in una prigione sotterranea. Ciò nonostante, il Romito tornò a Bibbiena dopo pochi giorni, attrattovi dalla carità verso quel misero popolo, e si mise di nuovo a predicare in piazza. Questa volta il suo uditorio si componeva di una vecchia, abbandonata nella miseria dai figli, i quali non lavoravan più per andare all'osteria a giuocare e a bere, e della moglie di un uomo ucciso in rissa. Le due povere donne piansero amaramente alle parole del Romito, il quale cercò di consolarle come meglio poteva. Anche questa volta il Diavolo fu informato di tutto, e disse fra sé: - Qui ci vuole un esempio, se no Bibbiena mi sfugge dalle mani. E appena calò la sera fece apparire sulla città tante lingue di fuoco che, abbassandosi, lambirono le mura e i tetti delle case. La gente, impaurita, temendo che l'incendio distruggesse le loro abitazioni, corse nelle vie e nelle piazze urlando e strascicandosi dietro i bambini. Il finto frate s'insinuò tra la folla e incominciò a pronunziare misteriose parole, che i grandi non udivano, ma che i piccini capivano bene. Con quelle parole prometteva loro giuochi, sollazzi, ghiottornie, ogni cosa che alletta la fantasia dei bimbi. E questi gli correvano intorno giulivi e lo seguivano. Quando ebbe radunati tutti coloro che potevano camminare, uscì da Bibbiena e si diresse verso un bosco, dove sapeva che vi era una grotta immensa, praticata nei fianchi di un monte, e ve li rinchiuse. Allora le lingue di fuoco cessarono di lambire le case, e la gente, dopo aver domato alcuni incendi prodotti da quelle, si diede a cercare i bambini. Le donne correvano sgomente per le vie chiamandoli con alte grida, gli uomini si spingevano fuori del paese, frugavano i boschi, urlavano, ma nessuna voce infantile rispondeva al loro appello e soltanto l'eco dei boschi ripeteva quei suoni desolati. Il finto frate, dopo aver compiuto il ratto dei bambini, ritornò in paese fra la gente afflitta e sconsolata. Appena i Bibbienesi lo videro, rammentando che li aveva liberati dai rettili, ricorsero a lui. - Rendeteci i nostri bimbi, - supplicarono essi, - e la nostra gratitudine sarà eterna. Il Diavolo fece un ghigno spaventoso. - Due volte, - egli rispose, - avete calpestati i nostri patti; due volte il Romito ha predicato in piazza. - Abbiamo punito coloro che lo fecero venire la prima volta, - risposero gli afflitti cittadini. - Ma non avete punito le donne che lo hanno ascoltato la seconda; mettetele a morte. - E chi sono? - domandò la folla. Il Diavolo le nominò. - Voi chiedete troppo, - risposero i cittadini, - la prima è una infelice già abbastanza provata dalla sventura; la seconda è una povera vedova; lasciatele dunque vivere, giacché non hanno mai fatto alcun male a nessuno. - Riflettete, - disse il Diavolo. - Se le ucciderete, i vostri bimbi ritorneranno in paese; se le lascerete vivere, non li vedrete più. Il finto frate, dopo aver pronunziate queste parole, sparì. I cittadini rimasero perplessi. Però non potevano risolversi a mettere a morte due innocenti; no, non potevano. - Il loro sangue ricadrebbe su noi in tanta maledizione, - dicevano i più saggi, - lasciamole vivere; Iddio ci renderà i nostri figli. E inteneriti e resi migliori da quella grande sventura, si riversarono nelle chiese, si prostrarono dinanzi agli altari e ripresero a recitare le preci che eran soliti innalzare a Dio allorché il Romito era di continuo in mezzo a loro, sostenendoli con la dolce e persuasiva sua parola. E spinti di nuovo sulla via del bene, liberarono i tre prigionieri che avevano condotto a Bibbiena il Romito, e le preci di questi e delle due donne salvate dalla carità popolare, operarono un vero miracolo. Il Romito, nella sua capannuccia, ebbe un avvertimento nel sonno. Egli si sentì chiamare da una voce celeste, che gli disse: - Va' in città; lassù hanno bisogno di te. Il Romito si alzò nel cuor della notte dal suo giaciglio di foglie secche, e si avviò, in mezzo alle tenebre, verso Bibbiena. Il Diavolo però, che non lo perdeva di vista, gli suscitò contro una quantità di ostacoli. Prima di tutto il sant'uomo fu avvolto da una nebbia impenetrabile, ed egli, in mezzo alle alte piante, non trovava il sentiero battuto tante volte, di modo che dovette fermarsi per non camminare in una direzione opposta alla sua mèta, attendendo che sorgesse il sole. Poi, quando questo ebbe diradata la nebbia, si scatenò all'improvviso un temporale fortissimo. Fulmini spaventosi squarciavano le nubi, il vento turbinoso schiantava gli alberi, l'acqua torrenziale convertiva in fiumi i rigagnoli, la grandine percuoteva il volto del viandante, il quale dovette di nuovo fermarsi. Quando il temporale si fu sfogato, due serpenti, sbucati fuori da un ciuffo di felci, gli si avviticchiarono alle gambe, in modo che egli non poteva più camminare. Allora il Romito, supponendo che tutti quegli ostacoli fossero creati dal Diavolo, toccò con la croce i due rettili spaventosi, e questi si sviticchiarono e fuggirono via. Da quel momento egli poté continuare il cammino senza ostacoli, e giunse a Bibbiena. Il popolo, vedendolo, gli corse incontro esultante, e inginocchiatosi intorno a lui, gli disse: - Rendeteci i nostri figli; noi siamo peccatori indegni di perdono, ma intercedete per noi. E allora il sant'uomo s'inginocchiò in mezzo alla piazza della Pieve, e il popolo unì le sue preci a quelle di lui. Dopo aver lungamente pregato, il Romito volle venti uomini robusti e disse loro: - Seguitemi. Ed essi lo seguirono giù nella valle, ubbidienti ad ogni suo cenno. Mentre camminavano, egli pregava ancora. Allora si vide una bianca colomba staccarsi da un albero e volare prima verso un balconcino dove erasi affacciata una giovanetta e poi volare dinanzi a lui. Il Romito la seguiva, e finalmente ella si fermò sopra un grosso macigno. - Qui sono i vostri figli, - disse il Romito, - qui deve averli celati il finto frate. E i venti uomini si diedero, con quanta forza avevano, a smovere il macigno, ma non riuscirono neppure a scostarlo. - Qui è inutile arrabattarsi, - dissero, - ci vogliono delle corde e diverse paia di manzi! E lasciando il Romito a guardia del luogo, gli altri tornarono al paese a provvedersi dell'occorrente. La colomba intanto non si moveva dal posto ov'erasi posata, come per dire che i piccini di Bibbiena erano lì davvero. E vi rimase finché gli uomini andati in città non furono tornati con cinque coppie di bei manzi alti e poderosi, e muniti di corde e di catene. Avvolsero queste intorno al macigno, vi legarono le corde, e i buoi si misero a tirare; ma tira tira, il sasso non si moveva. Gli uomini sudavano freddo, il Romito era sgomento, e i buoi, stanchi, si rifiutavano di tirare ancora. - Figli miei, - disse il sant'uomo, - mi accorgo che il macigno è sigillato al monte da una forza soprannaturale. Andate, abbiate fede, e se le mie preci saranno ascoltate lassù ove tutto si può, io vi ricondurrò a Bibbiena i vostri figliuoli. Fra i venti uomini andati nel bosco a liberare i bambini, v'erano i due giovani figli del vecchio, quelli, cioè che nonostante il divieto del finto frate, avevano ricondotto il Romito a Bibbiena ed erano stati rinchiusi in prigione. Essi pregarono il santo vecchio di conceder loro di rimanere a fargli compagnia, e il Romito non seppe rifiutare a quei due buoni giovani ciò che gli chiedevano. Gli altri diciotto se ne tornarono dunque in paese a testa bassa, tutti pensosi, disperando quasi di rivedere i loro piccini, e non sapendo come dar la dolorosa notizia, che non erano riusciti a nulla, alle mamme ansiose e piangenti. Il Romito, appena rimasto solo con i due fratelli, disse: - Figli miei, preparatevi a passar una notte angosciosa; il Diavolo cercherà di sgomentarci con ogni mezzo. - Siamo pronti a tutto, - essi risposero. Appena le ombre della sera si allungarono sul bosco, un'aquila gigantesca incominciò a descrivere giri attorno al macigno. La bianca colomba, spaventata, volò via, ma l'aquila la inseguì e la ghermì. Un grido straziante echeggiò nel bosco, indicando che l'innocente uccello era stato vittima del suo poderoso aggressore. Poco dopo il bosco fu pieno di urli di lupo. Pareva che quei famelici animali fossero scesi a branchi dalle vette più alte in cerca di cibo. Uno di essi si accostò ai due fratelli, con la bocca spalancata, pronto ad azzannarli, ma il Romito si fece avanti coraggiosamente e invece di lanciargli contro un sasso, lo toccò con la croce del rosario. L'animale barcollò e diedesi a fuga precipitosa. Allora, sul macigno comparvero due diavoli, che mandavano fuoco dagli occhi e dalla bocca e tenevano a distanza chiunque per il fetore che emanava dai loro corpi. Il Romito alzò la mano e fece tre grandi croci nell'aria, e subito i diavoli sparirono. Ma le prove dei tre uomini non eran terminate, e poco dopo che avevano visto sparire i diavoli, si presentò Satana in persona, non più sotto le sembianze del frate francescano, ma con la sua effigie stessa, spaventosa a vedersi. - Romito, - diss'egli, - tu hai troppo potere sull'animo dei mortali; io non voglio che tu continui a vivere. - Io vivrò finché piacerà al Signore Iddio di tenermi su questa terra e con l'aiuto del Cielo spero che la mia anima non ti apparterrà mai. Il Diavolo pronunziò due parole magiche, due sole, e una schiera di demoni s'impossessò del vecchio e diedesi a soffiargli fuoco sulle carni. Queste bruciavano orribilmente, e il santo vecchio pregava, con lo sguardo rivolto al cielo. A un tratto comparve su quello una stella luminosa che via via si avvicinava alla terra spandendo una luce più mite del sole, ma egualmente bella. Quella stella si fermò di fronte al Romito e lo avvolse tutto nei suoi raggi, come avvolse il macigno, il quale incominciò a liquefarsi come se fosse stato di cera molle esposta al fuoco. Quando il macigno, ridotto liquido, ebbe lasciato aperto l'ingresso della grotta, la stella lentamente si allontanò per andarsi a confondere con le sue sorelle del cielo. Allora il Romito, cessando di pregare, chiamò a sé i compagni e disse loro: - Andiamo, con l'aiuto di Dio. E s'internarono nelle viscere della terra. Giunti che furono a una vôlta bassissima, sotto la quale bisognava andar carponi, la stella ricomparve, e i raggi di lei, invece di battere in faccia al Romito e ai due fratelli, si mossero verso il punto opposto. - Là, là debbono essere i bambini, - disse il santo vecchio, e strisciando il corpo sul terreno si avanzò seguìto dai compagni. Giunto nel punto in cui la vôlta toccava quasi il suolo, il Romito vide una pietra posata in modo da far supporre che al di là vi fosse una grotta, e rimossala fu sorpreso di scorgere una specie di sala che prendeva luce dall'alto, nella quale centinaia di bambini erano distesi per terra come morti. La stella allora li toccò con i suoi raggi, ed essi, stropicciandosi gli occhi, si alzarono e vedendo aperta la porta della prigione, ne uscirono frettolosi, curvandosi per passare. Il Romito li trattenne e disse loro di lasciarlo prima uscire con i due giovani ed essi sarebbero venuti poi; i bimbi si fermarono ubbidienti, poi lo seguirono in silenzio. Giunti che furono all'imboccatura della camera, la stella, che fino allora aveva rischiarate le buie gallerie, s'alzò splendente nel cielo e andò a posarsi sulla città di Bibbiena. Gli abitanti, vedendola, sperarono subito che essa fosse annunziatrice di felicità e mossero incontro al Romito. Questi camminava in mezzo alla turba dei bimbi, esultanti per la ricuperata libertà. Così lo videro i Bibbienesi da lungi. Impossibile descrivere la loro gioia. Ognuno chiamava a nome i figli, ognuno se li prendeva fra le braccia, e quando furono tornati in paese, le grida, le esclamazioni, i pianti delle mamme coprirono ogni altro rumore. Il Romito riprese da quel tempo le sue prediche, e Bibbiena ebbe un lungo periodo di calma dovuta alle parole del santo vecchio. Il Diavolo, per quanto facesse onde combatterne il potere, rimase sempre vinto e scorbacchiato e dovette rinunziare all'impresa, aspettando rabbiosamente che il Romito morisse. E quando questi ebbe chiusi gli occhi nella pace del Signore, tornò a regnare in Bibbiena, come regna in molti paesi, ove non c'è un'anima santa per tenerlo lontano. - E qui la novella è finita, bambini, - disse la Regina, - e forse per qualche settimana non ne racconterò altre. - Perché? - domandarono essi. - Perché la signora Durini mi vuole per un po' di tempo a Camaldoli per insegnarle a conservare le frutta, e io non posso rifiutarle questo favore. I bimbi fecero il broncio, ma tacquero, perché erano assuefatti a rispettare la volontà della nonna.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679326
Praga, Emilio 2 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Egli non fu sorpreso di trovarla in quel soave rifugio dove egli dava da quindici anni convegno ai sogni della sua gioventù; e si abbandonava alle vaghe carezze della fantasia. La fantasia fu la galeotta. Egli non seppe mai bene ciò che gli accadesse colà. La realtà si perdette nei limbi profondi di un misticismo inebbriante. Il pietoso inganno per cui la povera Rosilde fe' sagrificio di tutta sè stessa, non sarebbe mai svanito se non erano gli sciagurati avvenimenti di questi giorni. I loro ritrovi, liberi di ogni estraneo ritegno, presero una intonazione assai più ardente. Quando Rosilde arrivava per sentieri remoti e veniva a sedersi presso di lui, spesso chinava il bel capo sulle sue ginocchia e passavano delle ore in silenzio, oppure ella narrava del teatro, gli raccontava le favole da lei eseguite. Una fra l'altre aveva la preferenza. Quella del poema di Guarini, che era stata la sorgente del suo primo successo a Venezia. Ella si godeva di ripeterne le scene gentili: di fingersi Silvia e chiamare Aminta il suo compagno. La funesta fantasia la sedusse al punto che un giorno tirato fuori dal suo baule il costume in cui aveva sostenuta la parte della ninfa - ella lo teneva sempre come ricordo - lo recò alla Carbonaia prima dell'ora del ritrovo, e indossatolo quando Luigi venne a sedersi sotto le querele centenarie, ella sfilò in mezzo alle macchie, e gli si presentò in quella foggia, col gonnellino azzurro, i biondi capelli intrecciati di rose bianche e coperti di un lungo velo sottilissimo, bella, affascinante, smagliante di amore. Al povero uomo parve una visione, egli cadde sbalordito, delirante ai suoi piedi. Da quel giorno essi non vissero più su questa terra. In casa non si incontravano quasi più: Rosilde, per convenienza non erasi mai seduta alla mensa del presbiterio. Ella evitava con cura di lasciarsi trovare in giardino: temeva i confronti, voleva che la sua gioia fosse fuori della vita, lontana dal reale, immensa, senza limiti. E tal fu per due mesi, in cui il povero Luigi spesse volte si sentì venire meno dinanzi all'altare e visse come rapito in un sogno. Egli non viveva più veramente che alla Carbonaia, dove dimenticava la vita, dove obblioso del suo cielo muto, impassibile egli trova un paradiso di delizie ardenti. La povera Rosilde fu la prima a risvegliarsi - e pur troppo toccò a me il tristo ufficio di richiamarla alla triste realtà. Un giorno ch'io mi recavo al Fontanile la incontrai per istrada: dapprima parve volesse cansarmi, - ma poi mi venne incontro ella stessa e mi accompagnò per un buon tratto. Le chiesi della sua salute con premura. - Benissimo, rispose, ma impallidì un poco. L'esaminai attentamente, le feci qualche altra interrogazione. Sembrava avesse a dirmi qualcosa e non ardisse. Allora presi il suo polso fra le mie mani, la costrinsi con delle violenze a levare la fronte, le fissai uno sguardo penetrante negli occhi. Una febbriciuola le serpeggiava per le vene: le sue palpebre avevano dei toni lividi. Il mio sospetto si mutò in certezza. - Povera amica mia, sclamai con accento di dolore e di sorpresa. Ella capì, diventò smorta come fosse di cera e mormorò: - Lo sapevo ... Mi parve intravvedere nel tono della sua voce subitamente risoluta, una così profonda disperazione che mi sgomentai e per un pezzo non seppi trovar parola. Ma quando ella mi porse la mano per congedarsi le dissi con tutto il calor dell'amicizia ch'io avevo per lei: - Rosilde, badate ad avervi cura ... promettetemi di aver confidenza in me. Qualunque cosa vi occorra - ricordatevi del vostro amico. - Io ripasserò a prender vostre nuove. Chinò il capo distrattamente e ritornò indietro frettolosa. Due giorni dopo ripassai da Sulzena e chiesi di lei: era sparita. Ma prima che la settimana finisse una sera per un caso stranissimo, fui dal sospetto di un tentativo funesto condotto in una casupola del sobborgo qui di Zugliano e vi ritrovai Rosilde. Ella s'era posta nelle mani di un'empirica per troncare le conseguenze del suo fallo. La rampognai vivamente. Ella per un po' stette chiusa, negò, ma le vedevo la triste risoluzione negli occhi. Mi incollerii e mi lasciai sfuggire qualche parola contro Don Luigi. Allora, vedendo che io conosceva il suo segreto, mi si buttò piangendo ai piedi, e mi scongiurò di non tradirla, di rispettare la pace dell'uomo per cui ella stava morendo. - Egli non sa nulla, mi disse torcendosi le mani, non sa nulla ..... io sola ..... io sola ..... E la piena della emozione le mozzava le parole. Era angosciata; le chiesi perdono, la levai da terra, cercai di calmarla, di dissipare i suoi timori, di farle coraggio, di prendere con leggerezza la cosa. - Giuratemi, disse, ch'egli nè altri non saprà mai nulla. La guardavo sorpreso. - Ella mi afferrò le mani e mi guardò supplichevole in modo ch'io mi affrettai a prometterle tutto quel che voleva. Sedette, chinò la testa stanca sul petto ansante e pianse lungamente, angosciosamente. Mi alzai. Ella si riscosse, e mi pregò di rimanere. - Debbo dirvi, soggiunse, com'è stato, voi non dovete sospettare che di me ..... Allora ella mi narrò le deplorevoli vicende che erano seguite dopo il nostro ultimo colloquio sulla strada del Fontanile. Già da alcuni giorni ella aveva avuto presentimento della disgrazia. Le mie parole le avevano tolto le ultime illusioni. La buona creatura, al primo affacciarsi della terribile certezza, aveva subito pensato: - che si dirà di lui? Ella non si inquietava di sè, della sua vita, della sua salute, ma della riputazione di lui - povera martire! Ella che aveva voluto dargli la gioia, si trovava repentinamente di fronte alla probabilità di nuocergli. Questo pensiero la disperava. Ella fargli del male? ella rovinarlo? - lo vide colpito dalle dicerie dei malevoli, dallo scandalo, dalle condanne della disciplina ecclesiastica, che si immaginava crudele, implacabile, e disse a sè stessa: - orsù, tu hai fatto il male, e tu devi scontarlo: ma come? Il come si affacciò con una orribile limpidezza alla sua mente: sparire colle prove che accusavano il suo Don Luigi. - Ella non arretrò: - ebbene, disse colla calma della disperazione, sparirò. Ma per lei, senza mezzi, in quello stato, sola al mondo, senz'altri parenti che la Mansueta, la quale non doveva saper nulla, lo sparire, equivale a morire. Vide la necessaria conseguenza della risoluzione e l'accettò tutta quanta. Riunì le sue robe migliori e venne a Zugliano, si pose in casa di una lavandaia che aveva conosciuto quando stava qui con noi. Ella era risoluta di morire - ma non poteva andare lontano, eppoi temette che il suicidio non facesse rumore, e questo ella non voleva per niun conto. Così si apprese al mezzo che mi condusse a scoprire il suo rifugio. Io cercai di confortarla dicendo che si sarebbe potuto riparar tutto, evitare i sospetti. Ella non vi pensava; ma mi ringraziava e mi scongiurava: - fatelo per lui - egli è innocente ... io sola ... io sola ... Venni da lei qualche volta nei giorni seguenti, - ma dovevo usare molte precauzioni per non suscitar le ciarle così micidiali della provincia. E una sera non la trovai più. La donna che l'aveva ospitata mi disse che era andata con un uomo di cui non mi volle dire il nome. Seppi poco dopo ch'ella viveva quasi matrimonialmente col De Boni in una cascina poco lontana di qui e che non faceva mistero alcuno della sua sciagurata condizione. A tutta prima questa notizia mi rivoltò contro di lei, e mi ispirò dei giudizi che poveretta non meritava davvero ... ma il cuore mi diceva che Rosilde non era la donna volgare che allora sembrava a tutti, che nella sua repentina arrendevolezza ci doveva essere un perchè non ordinario, - mi diceva il cuore che doveva essere qualche nuovo sagrifizio. Diffatti! ..... Io non potevo per diverse ragioni approfondire la cosa: fra l'altre il timore di adombrare il De Boni, così permaloso. Ma circa sette mesi dopo venne egli stesso a cercarmi e mi condusse nella stamberga dove aveva nascosto, come un lupo la sua preda, la povera Rosilde e dov'ella era agonizzante. Egli mi fe' visitare la donna e s'informò da me minutamente del suo stato e delle origini di esso. Mi tenni sulle generali - uno sguardo supplice dell'inferma mi aveva messo sull'avviso. Tornai da solo l'indomani. Appena mi vide mi trasse vicino e mi disse sommessamente: - Son sicura che voi non avete detto nulla al De Boni: ma perdonatemi, ho bisogno che me lo promettiate solennemente ... egli deve credere quello che voglio io ..... Mi ritrassi vivamente e la guardai con isgomento. Avevo intravveduto il suo disegno. Frode orribile ed ammirabile! La sua abnegazione mi schiacciava; non sapevo se doveva rimproverarla o benedirla. Era una cosa enorme. Ella aveva trovato sette mesi prima, mentre dimorava dalla lavandaia, il De Boni un giorno che errava forsennata per la campagna cercando con continua e disperata cura una morte certa e completa. L'omaccio l'aveva perseguitata altra volta e qui, quando stava con noi e a Sulzena dove si recava tutte le settimane. Egli aveva per lei una di quelle sue feroci concupiscenze che sapete per il caso della povera Gina. Il luogo era solitario. Quella bestiaccia si lanciò su lei, le attenagliò il braccio e le disse balbettando: - Bella ragazza, lasciate ch'io vi faccia un bacio. Rosilde alzò di terra il suo occhio smarrito e rispose con un'occhiata - un'occhiata aguzza di lince alla sua d'orso furioso. Un pensiero, tutto un progetto le si era affacciato alla mente ad un tratto. Per sopprimere i sospetti sul fatto di Don Luigi, ella meditava di uccidere sè stessa; ora aveva trovato un mezzo più sicuro; uccidere la sua riputazione. La maldicenza che avrebbe cercato i motivi del sagrifizio, sarebbe indotta nell'inganno dalla finta dissolutezza. Per questo ella aveva quasi ostentata la sua relazione col De Boni. Chi può sapere quel che l'infelice abbia sofferto in quei mesi! Fissa nel suo divisamento essa non tentennò un minuto: i maltrattamenti dello sciagurato non valsero a smuoverla; anzi servivano di scusa alla sua frode, a darle un acre sapore di vendetta. Ella persistette sino alla fine, fino alla morte ... Era riuscita ad acquistare una certa influenza su quella belva; a dominarlo ad intervalli col desiderio. E se ne giovò per strappargli delle confessioni scritte di una paternità supposta. Quando egli andava a Sulzena, gli scriveva fingendo una subita disperazione del suo stato ed esprimendo l'intenzione di sottrarsi alla vergogna di cui mostrava grande paura. Egli, imprudente, che non poteva rassegnarsi a perdere quest'insperata avventura, le rispondeva qualche volta ed ella conservava le lettere. S'era informata e sapeva che potevano servire come principio di prova legale. Quando ebbe finito il suo racconto, il sentimento del giusto si sollevò in me. - Rosilde, amica mia, le dissi con una certa severità, quel che fate non istà bene, e io non posso in coscienza farmi complice vostro. Il suo viso si contrasse paurosamente, - il pensiero ch'io potessi distruggere l'edifizio con tante pene innalzato, la mise alla disperazione. Mi guardò cupamente e disse: - Ebbene io mi ammazzerò e finirò ogni cosa ... E alzatasi repentinamente con una vivacità di cui non l'avrei creduta capace, sbattè il capo nel muro due o tre volte prima ch'io potessi trattenerla. Riuscii, con stento, a calmarla. È inutile dire che le giurai di tacere. Però qualche ora dopo, cercai d'intenerirla con altre ragioni: le parlai della creatura che stava per nascere: le feci presentire ciò che avrebbe avuto a soffrir dal De Boni a cui ella lo imponeva. Strano! ella non aveva mai pensato al frutto delle sue viscere! Fu tocca dalle mie osservazioni: - si raccolse dolorosamente; lagrime cocenti le sgorgarono dagli occhi. Ma subitamente si rasserenò e mi disse: - Ebbene voi siete buono, ci penserete un po' voi a difenderlo. Fu la prima volta, credo, che parlasse di suo figlio che nacque quella sera stessa. Ma in quegli ultimi giorni della sua vita se ne occupò assiduamente e lo raccomandò a me ed alla Mansueta che le avevo condotta. La vigilia della morte, disse a Mansueta di porgli nome Aminta, nell'agonia essa pensava ancora alla Carbonaia! Volle rivedere Don Luigi: il suo occhio moribondo si spense in uno sguardo di amore per lui! ... Il dottore fu ancora lui a rompere il silenzio e disse ad Attilio: Signor avvocato, se avesse veduto la Rosilde in quei tali momenti avrebbe promesso come me di non funestare la vita dell'uomo ch'ella ha tanto amato. Quanto a Don Luigi è superfluo dirle che egli, appena sospettò i vincoli che lo legavano ad Aminta mise a repentaglio la sua pace, per sottrarlo alle torture del De Boni. Attilio era commosso quanto me. Egli disse che era persuaso e che non avrebbe tenuto conto della calunnia del Sindaco. Io partii quella stessa sera per Milano e l'indomani cercai un avvocato per il povero Beppe. Il dibattimento si fece due mesi dopo alle Assise di Novara, ed io assisteva. Beppe fu assolto. Quando lo rilasciarono in libertà, gli andai incontro gli chiesi: - Non siete contento? - Non so cosa mi faccia, rispose, non ho più nessuno ... e si guardava attorno smarrito, come un uomo che non sa raccapezzarsi a vivere. Partì quella stessa primavera per l'America e non seppi altro di lui.

L'altrui mestiere

680141
Levi, Primo 1 occorrenze

Uno degli animaletti aveva inventato un gioco: entrava nella gabbietta, e correndovi dentro la metteva in rapida rotazione; poi si arrestava di colpo, ma la gabbia, più pesante di lui, continuava a girare trascinandolo per alcuni giri; allora abbandonava la presa, e si lasciava scagliare di sbieco e all' in su attraverso la faccia libera della gabbia, come un sasso lanciato da una fionda. Non volava a caso; aveva preso le sue misure, ed atterrava dove voleva, ad esempio su una piccola altalena a un metro e mezzo di distanza, dove rimaneva poi a dondolare con visibile compiacimento. In un altro prigioniero mi sono imbattuto molti anni addietro, in un laboratorio di biochimica. Anche lui stava in una "gabbia di scoiattolo", ma questa volta la gabbia era chiusa dai due lati, ed era mantenuta in lenta rotazione da un motorino elettrico: lo scoiattolo era costretto a camminare continuamente dentro la gabbia per evitare di essere trascinato. In quel laboratorio si stavano facendo esperimenti sul problema del sonno; immagino che dalla bestiola si prelevassero periodicamente campioni di sangue, per ricercarvi le tossine prodotte dall' insonnia prolungata. Lo scoiattolo era esausto: zampettava pesantemente su quella strada senza fine, e mi ricordava i rematori delle galere, e quegli altri forzati in Cina che venivano costretti a camminare per giorni e giorni entro gabbie simili a quella per sollevare l' acqua destinata ai canali d' irrigazione. Nel laboratorio non c' era nessuno; io ho chiuso l' interruttore del motorino, la gabbia si è arrestata e lo scoiattolo si è addormentato all' istante. È dunque forse colpa mia se del sonno e dell' insonnia si sa tuttora così poco.

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Il sistema periodico

681146
Levi, Primo 1 occorrenze

Lanza gustava il soave riposo, e si abbandonava alla danza di pensieri e d' immagini che prelude al sonno, pur evitando di lasciarsene sopraffare. Faceva caldo, e Lanza vedeva il suo paese: la moglie, il figlio, il suo campo, l' osteria. Il fiato caldo dell' osteria, il fiato pesante della stalla. Nella stalla filtrava acqua ad ogni temporale, acqua che veniva dal di sopra, dal fienile: forse da una crepa del muro, perché i tegoli (a Pasqua li aveva controllati lui stesso) erano tutti sani. Il posto per un' altra mucca ci sarebbe, ma (e qui tutto si offuscò in una nebbia di cifre e di calcoli abbozzati e non conclusi). Ogni minuto di lavoro, dieci lire che gli venivano in tasca: adesso gli pareva che il fuoco strepitasse per lui, e che l' agitatore girasse per lui, come una macchina per fare i quattrini. In piedi, Lanza: siamo arrivati a 1.0ä, bisogna sbullonare il boccaporto e buttare dentro il B41; che è poi proprio una gran buffonata dover continuare a chiamarlo B41 quando tutta la fabbrica sa che è zolfo, e in tempo di guerra, quando tutto mancava, parecchi se lo portavano a casa e lo vendevano in borsa nera ai contadini che lo spargevano sulle viti. Ma insomma il dottore è dottore e bisogna accontentarlo. Spense il fuoco, rallentò l' agitatore, sbullonò il boccaporto e mise la maschera di protezione, per il che si sentì un po' talpa e un po' cinghiale. Il B41 era già pesato, in tre scatole di cartone: lo introdusse cautamente, e nonostante la maschera, che forse perdeva un poco, sentì subito l' odore sporco e triste che emanava dalla cottura, e pensò che magari poteva anche aver ragione il prete, quando diceva che nell' inferno c' è odore di zolfo: del resto, non piace neanche ai cani, tutti lo sanno. Quando ebbe finito, affrancò di nuovo il boccaporto e rimise tutto in moto. Alle tre di notte, il termometro era a 200ä: bisognava dare il vuoto. Alzò la manetta nera, e lo strepito alto ed aspro della pompa centrifuga si sovrappose al tuono profondo del bruciatore. L' ago del vuotometro, che stava verticale sullo zero, cominciò a declinare strisciando verso sinistra. Venti gradi, quaranta gradi: buono. A questo punto ci si può accendere una sigaretta e stare tranquilli per più di un' ora. C' era chi aveva il destino di diventare milionario, e chi il destino di morire d' accidente. Lui Lanza, il suo destino (e sbadigliò rumorosamente, per tenersi un poco compagnia) era di fare di notte giorno. Neanche se l' avessero saputo, in tempo di guerra l' avevano subito sbattuto a fare quel bel mestiere di starsene di notte in cima ai tetti a tirare giù gli aeroplani dal cielo. Di scatto fu in piedi, gli orecchi tesi e tutti i nervi in allarme. Il fracasso della pompa si era fatto di colpo più lento e più impastato, come sforzato: e infatti, l' ago del vuotometro, come un dito che minacci, risaliva sullo zero, ed ecco, grado dopo grado, cominciava a pendere sulla destra. Poco da fare, la caldaia stava andando in pressione. "Spegni e scappa". "Spegni tutto e scappa". Ma non scappò: acchiappò una chiave inglese, e menava colpi sul tubo del vuoto, per tutta la sua lunghezza: doveva essere ostruito, non c' era altra ragione possibile. Picchia e ripicchia: niente di fatto, la pompa continuava a macinare a vuoto, e la lancetta ballonzolava intorno a un terzo di atmosfera. Lanza si sentiva tutti i peli in piedi, come la coda di un gatto in collera: ed in collera era, in una rabbia sanguinaria e forsennata contro la caldaia, contro quella bestiaccia restia seduta sul fuoco, che muggiva come un toro: arroventata, come un enorme riccio a spine dritte, che non sai da che parte toccarlo e prenderlo, e verrebbe voglia di volargli addosso a calci. A pugni stretti e a testa calda, Lanza andava farneticando di scoperchiare il boccaporto per lasciare sfogare la pressione; cominciò ad allentare i bulloni, ed ecco schizzare friggendo dalla fenditura una bava giallastra con soffi di fumo impestato: la caldaia doveva essere piena di schiuma. Lanza richiuse precipitosamente, con una tremenda voglia in corpo di attaccarsi al telefono e chiamare il dottore, chiamare i pompieri, chiamare lo spirito santo, che venissero fuori della notte a dargli una mano o un consiglio. La caldaia non era fatta per la pressione, e poteva saltare da un momento all' altro: o almeno così pensava Lanza, e forse, se fosse stato giorno o non fosse stato solo, non l' avrebbe pensato. Ma la paura si era risolta in collera, e quando la collera sbollì gli lasciò la testa fredda e sgombra. E allora pensò alla cosa più ovvia: aprì la valvola della ventola d' aspirazione, mise questa in moto, chiuse il rompivuoto e fermò la pompa. Con sollievo e con fierezza, perché l' aveva studiata giusta, vide l' ago risalire fino a zero, come una pecora smarrita che ritorni all' ovile, e inclinarsi di nuovo docilmente dalla parte del vuoto. Si guardò intorno, con un gran bisogno di ridere e di raccontarla, e con un senso di leggerezza in tutte le membra. Vide per terra la sua sigaretta ridotta ad un lungo cilindretto di cenere: si era fumata da sola. Erano le cinque e venti, spuntava l' alba dietro la tettoia dei fusti vuoti, il termometro segnava 210ä. Prelevò un campione dalla caldaia, lo lasciò raffreddare e lo saggiò col reattivo: la provetta rimase limpida qualche secondo, e poi diventò bianca come il latte. Lanza spense il fuoco, fermò l' agitazione e la ventola, ed aperse il rompivuoto: si sentì un lungo fischio rabbioso, che piano piano si andò placando in un fruscio, in un mormorio, e poi tacque. Avvitò il tubo pescante, mise in moto il compressore, e gloriosamente, in mezzo a fumi bianchi ed all' aspro odore consueto, il getto denso della resina andò a placarsi nella bacinella di raccolta in un nero specchio lucente. Lanza si avviò al cancello, ed incontrò Carmine che stava entrando. Gli disse che tutto andava bene, gli lasciò le consegne e si mise a gonfiare le gomme della bicicletta.

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Lilit

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Levi, Primo 1 occorrenze

Un giorno radunò parecchi macigni che le parevano di forma adatta, e cercò di edificare un ponte come quello, ma che fosse della sua misura; non ci fu verso, non appena aveva installato il terzo macigno, e lo abbandonava per afferrare il quarto, il terzo le crollava addosso, e qualche volta le ammaccava le mani. Avrebbe dovuto avere quindici o venti mani, una per ogni pietra. Un giorno chiese a Brokne come, quando e da chi il ponte era stato fatto, ma Brokne le rispose di malumore che il mondo è pieno di misteri, e che se uno volesse risolverli tutti non digerirebbe più, non dormirebbe e forse diventerebbe matto. Quel ponte c' era sempre stato; era bello e strano, ebbene? Anche le stelle e i fiori sono belli e strani, e a farsi troppe domande si finisce con il non accorgersi più che sono belli. Se ne andò a pascolare in un' altra valle; a Brokne l' erba non bastava, e ogni tanto, di nascosto da Danuta, divorava alla svelta un giovane pioppo o un salice. Sul finire dell' estate, Danuta s' imbatté un mattino in un faggio abbattuto: non poteva essere stato il fulmine, perché splendeva il sole da molti giorni, e Danuta era sicura di non averlo urtato lei stessa inavvertitamente. Si avvicinò, e vide che era stato reciso con un taglio netto, si vedeva a terra il disco biancastro del ceppo, largo come due delle sue dita. Mentre guardava stupita, sentì un fruscio, e vide, dall' altra parte della valle, un altro faggio che crollava a terra, sparendo fra gli alberi vicini. Discese e risalì, e scorse un animaletto che fuggiva a tutta forza verso la balza delle caverne. Era diritto e correva con due gambe; buttò a terra un arnese lucente che lo impacciava nella corsa, e s' infilò nella caverna più vicina. Danuta sedette lì accanto con le mani tese, ma l' animaletto non accennava ad uscire. Le era sembrato grazioso, e doveva anche essere abile se da solo era riuscito ad abbattere un faggio; Danuta fu subito sicura che il ponte l' aveva costruito lui, voleva fare amicizia, parlargli, non farselo scappare. Infilò un dito nell' apertura della grotta, ma sentì una puntura e lo ritirò subito di scatto con una gocciolina di sangue sul polpastrello. Aspettò fino a buio, poi se ne andò, ma a Brokne non raccontò niente. Il piccolino doveva avere una gran fame di legno, perché nei giorni seguenti Danuta ne rinvenne le tracce in vari punti della valle. Abbatteva di preferenza i faggi più grossi, e non si capiva come avrebbe fatto per portarseli via. In una delle prime notti fredde Danuta sognò che la foresta era in fiamme e si svegliò di soprassalto; l' incendio non c' era ma l' odore dell' incendio sì, e Danuta vide sull' altro versante un chiarore rosso che palpitava come una stella. Nei giorni seguenti, quando Danuta tendeva l' orecchio, sentiva un ticchettio minuto e regolare, come quando i picchi perforano le cortecce, ma più lento. Cercò di avvicinarsi a vedere, ma appena lei si muoveva il rumore cessava. Venne finalmente un giorno in cui Danuta ebbe fortuna. Il piccolino si era fatto meno timido, forse si era abituato alla presenza di Danuta, e si mostrava di frequente fra un albero e l' altro, ma se Danuta accennava ad avvicinarsi scappava svelto a rintanarsi fra le rocce o in mezzo al fitto del bosco. Danuta lo vide dunque avviarsi verso la radura dell' abbeveratoio; lo seguì di lontano cercando di non fare troppo rumore, e quando lo vide allo scoperto con due lunghi passi gli fu addosso e lo intrappolò fra i cavi delle mani. Era piccolo ma fiero: aveva con sé quel suo arnese lucente, e tirò due o tre colpi contro le mani di Danuta prima che lei riuscisse a pizzicarlo fra l' indice e il pollice ed a buttarglielo lontano. Adesso che l' aveva catturato, Danuta si rese conto che non sapeva assolutamente che cosa farsene. Lo sollevò da terra tenendolo fra le dita: lui strideva, si dibatteva e cercava di mordere; Danuta, incerta, rideva nervosamente e tentava di calmarlo carezzandolo con un dito sulla testa. Si guardò intorno: nel torrente c' era un isolotto lungo pochi passi dei suoi; si sporse dalla sponda e vi depose il piccolino, ma questo, appena libero, si buttò nella corrente, e sarebbe certo annegato se Danuta non si fosse affrettata a ripescarlo. Allora lo portò da Brokne. Neppure Brokne sapeva che farsene. Brontolò che lei era proprio una ragazza fantastica; il bestiolino mordeva, pungeva e non era buono da mangiare, che Danuta gli desse il largo, altro da fare non c' era. Del resto, stava scendendo la notte, era ora di andare a dormire. Ma Danuta non volle sentire ragione, l' aveva preso lei, era suo, era intelligente e carino, voleva tenerselo per giocare, e poi era sicura che sarebbe diventato domestico. Provò a presentargli un ciuffo d' erba, ma lui girò la testa dall' altra parte. Brokne sogghignò che tanto domestico non era e che in prigionia sarebbe morto, e si stese in terra già mezzo addormentato, ma Danuta scatenò un capriccio d' inferno, e tanto fece che passarono la notte col piccolino in mano, a turno, uno lo teneva e l' altro dormiva; verso l' alba però anche il piccolino era addormentato. Danuta ne approfittò per osservarlo con calma e da vicino, ed era veramente molto grazioso: aveva viso, mani e piedi minuscoli ma ben disegnati, e non doveva essere un bambino, perché aveva la testa piccola e il corpo snello. Danuta moriva dalla voglia di stringerselo contro il petto. Appena si svegliò cercò subito di fuggire, ma dopo qualche giorno incominciò a farsi più lento e pigro. _ Per forza, _ disse Brokne: _ non vuole mangiare _. Infatti il piccolino rifiutava tutto, l' erba, le foglie tenere, perfino le ghiande e le faggiole. Ma non doveva essere per selvatichezza, perché invece beveva avidamente dal cavo della mano di Danuta, che rideva e piangeva dalla tenerezza. Insomma, in pochi giorni si vide che Brokne aveva ragione: era uno di quegli animali che quando si sentono prigionieri rifiutano il cibo. D' altra parte, non era possibile andare avanti così, a tenerlo in mano giorno e notte, un po' l' uno, un po' l' altra. Brokne aveva provato a fabbricargli una gabbia, perché Danuta non aveva accettato di tenerlo nella grotta: lo voleva avere sotto gli occhi e temeva che al buio si ammalasse. Aveva provato, ma senza concludere nulla: aveva divelto dei frassini alti e diritti, li aveva ripiantati in terra a cerchio, ci aveva messo in mezzo il piccolino e aveva legato insieme le chiome con dei giunchi, ma le sue dita erano grosse e maldestre, e ne era venuto fuori un brutto lavoro. Il piccolino, benché indebolito dalla fame, si era arrampicato in un lampo su per uno dei tronchi, aveva trovato una lacuna ed era saltato a terra all' esterno. Brokne disse che era tempo di lasciarlo andare dove voleva; Danuta scoppiò a piangere, tanto che le sue lacrime rammollirono il terreno sotto di lei; il piccolino guardò in su come se avesse capito, poi prese la corsa e scomparve fra gli alberi. Brokne disse: _ Va bene così. Lo avresti amato, ma era troppo piccolo, e in qualche modo il tuo amore lo avrebbe ucciso. Passò un mese, e già le fronde dei faggi volgevano al porporino, e di notte il torrente rivestiva i macigni di un sottile strato di ghiaccio. Ancora una volta Danuta fu svegliata in angoscia dall' odore del fuoco, e subito scosse Brokne per ridestarlo, perché questa volta l' incendio c' era. Nel chiarore della luna si vedevano tutto intorno innumerevoli fili di fumo che salivano verso il cielo, diritti nell' aria ferma e gelida: sì, come le sbarre di una gabbia, ma questa volta dentro erano loro. Lungo tutta la cresta delle montagne, sui due lati della valle, bruciavano fuochi, ed altri fuochi occhieggiavano molto più vicini, fra tronco e tronco. Brokne si levò in piedi brontolando come un tuono: eccoli dunque all' opera, i costruttori di ponti, i piccoli e solerti. Afferrò Danuta per il polso e la trascinò verso la testata della valle dove pareva che i fuochi fossero più radi, ma poco dopo dovettero tornare indietro tossendo e lacrimando, l' aria era intossicata, non si poteva passare. Nel frattempo, la radura si era popolata di animali di tutte le specie, anelanti ed atterriti. L' anello di fuoco e di fumo si faceva sempre più vicino; Danuta e Brokne sedettero a terra ad aspettare.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Alle tre e quaranta minuti si libravano sopra il capo Fuels, avvistando l'isola del Fuoco, e pochi minuti più tardi l'aerostato abbandonava l'isola, filando sopra l'oceano Atlantico, le cui onde si urtavano con profondi muggiti, coprendosi d'un immenso manto di candida spuma." "Addio terra!" esclamò O'Donnell. "D'ora innanzi non vedremo che acqua." "Purché il vento non cambi direzione," disse l'ingegnere. "Potrebbe spingerci verso il nord e fors'anche ricondurci verso l'America." "Dove ci porta ora?" "Diritti al grande banco. Non vedete laggiù, verso l'est, quei punti neri? Sono le navi occupate nella pesca ai merluzzi." "E lontano però il grande banco" "Vi giungeremo fra un paio d ore, se la nostra velocità, che è ora di quaranta miglia, non diminuisce." "Si pescano dappertutto i merluzzi, intorno all'isola?" "Sì, specialmente quando i pesci cominciano a lasciare il banco per cercare un altro cibo. In primavera i merluzzi si radunano in grandi masse nei dogger-banks delle coste di Islanda, nei fiorden della Norvegia e nei golfi dell'Irlanda, poi si dirigono tutti insieme verso Terranova. È in questa stagione che dalle coste della Norvegia, della Francia, dell'Inghilterra e dell'Olanda partono vere flottiglie di pescatori, i quali, cosa sorprendente davvero, qui vengono senza bisogno di carte e di strumenti necessari a fare il punto, seguendo, direi quasi, una traccia secolare. Si calcolano fino a seimila navi che tutti gli anni vengono impiegate nella pesca del prezioso pesce." "Devono pescarne una quantità immensa." "Dai 35 ai 40 milioni." "E chi per primo s'accorse della riunione dei merluzzi su questo grande banco?" "Caboto lo aveva notato; poi un altro ardito navigatore italiano, il fiorentino Giovanni da Verrazzano, che prese possesso di Terranova nel 1525 in nome di Francesco I re di Francia e che poco dopo cadde sotto le lance e le scuri degli indigeni; poi Cartier, lo scopritore del fiume San Lorenzo." "Si pescano anche nel San Lorenzo?" "No, i merluzzi non penetrano mai nei fiumi, anzi si tengono lontani dalle foci." "Terminata la stagione sul grande banco, si radunano altrove?" "No, si disperdono, scompaiono e non si vedono più per il resto dell'anno. Si ignora dove vadano a svernare durante la stagione fredda, ma pare che si tengano in acque assai profonde. Ma ecco le prime barche da pesca, O'Donnell, aprite bene gli occhi, e non vi dispiacerà di aver fatto una volata sopra il grande banco di Terranova.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

L'alcade fa rispondere che egli non poteva offrire a tali ladroni altro che della polvere e delle palle, e le une e le altre erano pronte, e che in quanto ai prigionieri li abbandonava alla Provvidenza e intanto li avvertiva che stava radunando forze imponenti per ricacciarli nell'Oceano Pacifico. A tale risposta Tusley fa incendiare la città, caricano viveri e bottino su due grosse scialuppe che avevano prese sul vicino fiume e cominciano la ritirata. Qui però cominciano i primi disastri. Trecento spagnuoli, imboscati ad un gomito del fiume, s'impadroniscono delle due scialuppe e trucidano gli equipaggi. I filibustieri, che si ritraevano attraverso le boscaglie, a tale nuova mandano altri messi all'alcade, minacciando di massacrare i trecento prigionieri se non viene loro restituito il bottino e pagato il riscatto. Indugiando la risposta, Tusley fa fucilare una parte di quei prigionieri e manda le loro teste a Villia. L'alcade, atterrito, restituisce il bottino e le due barche, e vi aggiunge diecimila piastre per salvare la vita agli altri disgraziati che si trovano nelle mani dei corsari. Non dovevano tardare però gli spagnuoli a prendersi a loro volta delle splendide rivincite. Sorprendono una partita di filibustieri, composta di trentasei uomini, che si era gettata sulla Boccachica per passare alla sponda orientale del continente e li fanno a pezzi, ad eccezione d'uno solo che viene condotto prigioniero a Panama. Quasi nel medesimo tempo sorprendono pure due piccole colonne di filibustieri inglesi, formate di quaranta uomini ciascuna, e le annientano completamente in mezzo alle folte boscaglie dell'istmo. Tusley però, quantunque perseguitato da tutte le parti, conduce la sua colonna fino sulle sponde dell'Oceano e giunge felicemente a Taroga, colle sue venticinquemila piastre intatte, le sue merci, i suoi viveri e le sue due navi. Quella spedizione non era durata che una quindicina di giorni, durante i quali, i filibustieri rimasti sull'isolotto non erano vissuti che di testuggini marine e di poche frutta, con pochissimo piacere del guascone e dei due suoi compagni, i quali si erano specialmente lamentati della pessima qualità dell'acqua e dell'assenza completa di bottiglie di Xeres e di Alicante da vuotare. Ben provvisti di viveri e soprattutto di munizioni, i filibustieri, dopo un nuovo consiglio, decisero di tentare il blocco di Panama, per imporre a quel viceré la consegna della sorella del signor di Ventimiglia e di alcuni prigionieri. Dopo quattro giorni dal ritorno di Tusley, i filibustieri s'imbarcarono. Non erano però piú numerosi come prima, poiché centoquarant'otto francesi si erano separati dai loro compagni, in causa delle solite questioni religiose, navigando verso settentrione, coll'idea di predare le coste della California. Erano però ancora abbastanza bene in forza per farsi temere dagli spagnuoli, tanto piú che erano guidati da quattro valorosissimi capi. Avendo saputo da un prigioniero che due grossi velieri spagnuoli erano attesi da Panama provenienti da Lima con un carico di farine e di denaro, i filibustieri decisero innanzi a tutto di abbordarli, prima che giungessero in porto. La mancanza di viveri era sempre quella che piú preoccupava quegli uomini, non avendo nessun mezzo di procurarsene, fuorché nel saccheggi, poiché tutte le coste erano guardate e tutte le piantagioni erano state distrutte per molte leghe entro terra. Guidavano il primo vascello, il signor di Ventimiglia e Raveneau de Lussan; l'altro Tusley e Grogner. Non sarebbe necessario dire che i tre terribili avventurieri avevano preso imbarco sulla nave del conte, ansiosi di aver nuova occasione per menare le loro formidabili draghinasse. - Taroga è un'isola di tartarughe, aveva detto don Barrejo, mettendo i piedi sul ponte della nave. Non siamo già venuti in America per provare il filo della spada contro i gusci di quei rettili. - Ed io non sono venuto per guardare le sabbie ed ascoltare il rumoreggiare della marea, - aveva aggiunto Mendoza. - Ed io non ho lasciato il Brabante per veder arrugginire le mie braccia, - aveva detto il fiammingo. E si erano imbarcati lietamente, promettendosi di compiere altre meravigliose imprese e di non perdere per un solo istante di vista il marchese di Montelimar, che era stato affidato alla loro sorveglianza. Il primo giorno passò senza incidenti. Le due navi, che non erano molto grosse, né molto armate, avevano navigato sempre in vista dell'isolotto, colla speranza di sorprendere i due velieri provenienti da Lima. Il secondo giorno, non avendo incontrato alcun bastimento, avevano fatto un'ardita punta verso Panama, senza però osare accostarsi troppo al porto, non ignorando che il viceré poteva, in poche ore, radunare una squadra considerevole. La mattina del terzo, i gabbieri che erano di guardia sulle coffe mandarono il primo grido d'allarme. - Vele a levante! Il signor di Ventimiglia e Raveneau de Lussan, i quali erano saliti appena allora in coperta, erano stati i primi a precipitarsi verso il castello di prora. Quel grido di "vele a levante" non aveva mancato di produrre su di loro una certa sorpresa, poiché non era da quella parte che dovevano avanzarsi i due vascelli provenienti dai mari del sud. - Che siano legni che vengono da Panama? si era chiesto il conte. - È quello che purtroppo temo, - aveva risposto Raveneau de Lussan. - Gli spagnuoli devono aver le tasche piene di noi e avranno organizzata qualche flottiglia. - Che noi prenderemo d'assalto e che affonderemo, - disse Mendoza, il quale non aveva indugiato a raggiungerli, insieme ai suoi due compari. - Signor de Lussan, prepariamoci al combattimento, - disse il conte di Ventimiglia. - Abbiamo uomini decisi a tutto e artiglierie non del tutto in cattivo stato. Mostreremo ancora una volta agli spagnuoli come sanno lottare e morire i forti fratelli della Costa. Le trombe avevano suonato. - Tutti in coperta! I filibustieri, sempre pronti a qualunque cimento, si erano slanciati ai loro posti di combattimento: i vecchi bucanieri in coperta, dietro le brande arrotolate sulle murate, ed i corsari nelle batterie. La nave di Tusley e di Grogner aveva subito raggiunta, con una splendida bordata, quella del signor di Ventimiglia, la quale muoveva audacemente incontro alle vele segnalate. - Don Barrejo, - disse il basco, il quale provava il filo della sua draghinassa. - Temo che questa volta la faccenda sia piú seria di quella di Pueblo-Viejo e di Nuova Granata. Quelle navi vengono da Panama; ve lo dice un vecchio uomo di mare che conosce i venti meglio che Eolo in persona. - I capitani delle fregate, che voi sappiate, hanno sempre una buona riserva di bottiglie? - chiese il guascone, il quale stava pure esaminando la sua draghinassa. - Che cosa diavolo mi domandate, don Barrejo? - chiese il basco, non senza un certo stupore. - Il signor guascone ha parlato bene, - disse il fiammingo, colla sua solita gravità. - Rispondete alla sua domanda, don Mendoza. - Io credo che abbiano piú palle che bottiglie, - disse il basco. - Non escludo però che posseggano una piccola cantina. - Non voglio sapere altro, - rispose il guascone. - Andremo ad assaggiare quel vino e vedremo se è piú squisito quello che si trova sepolto nelle cantine o quello navigato. Un grido, che scese in quel momento dalla coffa dell'albero maestro, interruppe la loro conversazione. - Fregata in vista! ... - Ve lo dicevo io? - disse Mendoza. Altro che le navi cariche di farina e di denaro provenienti da Lima. Troveremo ferro e piombo. - Ma anche una cantina, - aggiunse il guascone. Per la terza volta la voce del gabbiere di guardia si fece udire. - E due barconi di appoggio! ... - Quelle non hanno di certo delle bottiglie, - disse il basco. - Conteranno probabilmente un bel numero di corde per appiccarci. - Appiccare noi! - gridò il guascone, trinciando l'aria colla sua draghinassa. - Ah! ... Ci vuole ben altro per appiccare della gente come noi! ... - Già, - disse il fiammingo. - Gente come noi. I filibustieri si preparavano animosamente alla battaglia, cercando di raggiungere la fregata prima che le barcaccie, pessime veliere, potessero accorrere per appoggiarla. Il conte di Ventimiglia, dall'alto del cassero, impartiva con voce squillante gli ordini, mentre Grogner faceva altrettanto sul secondo vascello. La fregata, che era di forte tonnellaggio ed armata di una trentina di cannoni, muoveva pure risolutamente contro i corsari, sicurissima di sgominarli con poche bordate. Il signor di Ventimiglia, accortosi a tempo che gli spagnuoli muovevano all'arrembaggio con animo risoluto, aveva dato l'ordine alle due navi di scostarsi, per prenderli in mezzo, prima che giungessero le barcaccie, le quali contenevano numerosi combattenti e anche dei grossi pezzi d'artiglieria. A mille passi, il combattimento s'impegnò ferocissimo da ambe le parti. La fregata tuonava ed avanzava, tentando di disalberare i due legni corsari; questi rispondevano come potevano, non disponendo che di pochissimi pezzi. A cinquecento passi, gli spagnuoli i quali si tenevano sicurissimi di aver ben presto ragione di quell'accozzaglia di ladroni di mare, imbrogliano le vele di parrocchetto e di pappafico, per essere piú liberi nella manovra e filare sulla nave del conte di Ventimiglia, la quale era piú vicina, per abbordarla. I tamburi rullano fragorosamente sui suoi altissimi ponti ed il grande stendardo di Spagna sventola orgogliosamente al vento. I suoi archibugieri ed i suoi alabardieri sono schierati dietro i bastingaggi, pronti a montare all'abbordaggio, mentre dalle due barcaccie partono scariche violentissime, quantunque quasi inefficaci, in causa della distanza. - Fra poco qui farà molto caldo, - disse Mendoza, il quale non perdeva di vista la fregata. - Se gli spagnuoli muovono su di noi cosí risolutamente, è segno che sono ben decisi a sterminarci. Don Barrejo, temo che le bottiglie del capitano siano un po' dure da guadagnare. - Io ho l'abitudine di rispettare tutte le opinioni, però vi dico che il conte monterà all'abbordaggio prima degli spagnuoli. Ho sete: perché non dovrei bere? - Ben detto, - disse il fiammingo. - Noi berremo il vino di Panama. Le due navi corsare, con una manovra fulminea, avevano ripreso il largo, rispondendo vigorosamente coi loro pezzi. Subivano gravi danni per quel continuo cannoneggiamento, tuttavia non disperavano di dare ai loro nemici un'altra formidabile battuta. La fregata, che precedeva sempre le due barcaccie di parecchie gomene, si getta improvvisamente fra i due legni corsari, alternando scariche di mitraglia e palle. Era il momento atteso dai quattro capi della filibusteria, per tentare un attacco disperato. I due velieri in pochi istanti si stringono addosso al vascello nemico e, come era loro abitudine, scagliano sui ponti un numero cosí enorme di granate, da mettere, in pochi minuti, fuori di combattimento la maggior parte degli archibugieri e degli alabardieri e poi, approfittando della Grande confusione prodotta da tutti quegli scoppi, montano arditamente all'abbordaggio, con un urlio assordante. Bucanieri e artiglieri, tutti si precipitano all'assalto con una ferocia inaudita. Il conte di Ventimiglia e Raveneau de Lussan, insieme ai tre avventurieri, sono i primi che montano sulla fregata. Un combattimento omerico s'impegna. Anche gli uomini di Tusley e di Grogner hanno abbordata la nave e si rovesciano, con impeto irresistibile, attraverso ai ponti, battagliando come leoni scatenati. Gli spagnuoli, già respinti a prora, attraversano a corsa sfrenata la tolda e si rifugiano sul cassero dove hanno un pezzo da caccia in batteria, ma la pioggia di bombe, scagliate dai filibustieri e dai gabbieri che sono rimasti sulle coffe e sulle crocette dei due vascelli, li raggiungono anche là, causando un panico indescrivibile. Il loro valore nulla può contro quella pioggia di fuoco e contro l'urto formidabile dei corsari, troppo abituati alle strepitose vittorie, ed il grande stendardo di Spagna viene calato fra gli urrah degli assalitori, ai quali la fortuna, ancora una volta, ha arriso. Di cento e venti uomini che si trovavano sulla fregata, ben ottanta erano caduti morti o gravemente feriti. Sbarazzatisi del nemico piú pericoloso, i filibustieri, lasciati alcuni uomini sulla fregata, tornano ad imbarcarsi sui loro legni, i quali durante quel formidabile cannoneggiamento non avevano riportati che pochissimi danni, e si mettono nuovamente in caccia per catturare le due barcaccie che erano montate da numerosi equipaggi. Un nuovo combattimento, non meno feroce e sanguinoso, s'impegna, ma i due legni corsari non tardano ad avere anche questa volta il sopravvento. Con un attacco fulmineo s'impadroniscono della barcaccia maggiore, nonostante la terribile resistenza che oppone l'equipaggio, forte di settanta uomini, dei quali soli diciannove sfuggono alla morte; l'altra, vedendosi perduta, alza tutte le sue vele e cerca di raggiungere la costa. Invece urta contro una scogliera, si spezza a metà e perde la maggior parte della sua gente. Non era però ancora finita e la stella che proteggeva quei formidabili scorridori dei mari non si era ancora offuscata. Erano intenti a liberare la fregata dai morti che la ingombravano ed a rattoppare alla meglio le attrezzature delle loro navi, alquanto malmenate dalle grosse artiglierie nemiche, quand'ecco che altre due barcaccie, montate pure da equipaggi numerosi, compariscono all'orizzonte. I filibustieri, inquieti, interrogano i superstiti della fregata e con minacce di morte riescono a sapere che quelle navicelle avevano ricevuto l'ordine di muovere al piú presto in soccorso della flottiglia. I filibustieri, quantunque esausti per tante ore di combattimento, non si perdono d'animo. Comprendendo che a Panama si ignorava ancora la sconfitta subita dalle navi spagnuole, s'imbarcano sulla fregata e sulla barcaccia catturata, alzano ai corni d'artimone lo stendardo di Spagna e muovono verso quei nuovi nemici che s'accostano fiduciosi, credendo avere da fare coi loro compatriotti. - Don Barrejo, - disse Mendoza, il quale essendo, come abbiamo già detto, uno dei migliori artiglieri della filibusteria, era stato incaricato del servizio del pezzo da caccia del cassero. - Spero che non vi lamenterete piú di non menare abbastanza le mani. - Perdinci, - rispose il guascone, il quale stava accomodandosi alla meglio la sua casacca squarciata da un colpo d'alabarda. - Non credevo d'aver tanto lavoro. La mia draghinassa, a forza di picchiare sugli elmi e sulle corazze, è diventata una vera sega. Sarà necessario che io scovi in qualche luogo un arrotino o finirà per non tagliare piú nemmeno il collo d'una bottiglia. - Cambiatela: ne abbiamo prese un buon numero sulla fregata. - Oibò! ... Io lasciare la spada di mio padre! ... Non sapete che questa lama ha preso parte a piú di venti combattimenti? È una lama storica nella famiglia dei de Lussac. - Mi rincresce che tagli poco ora. - Perché? - Non vi hanno detto che quelle barcaccie sono montate da biscaglini, i migliori marinai che abbia la Spagna? - Basterà per oggi anche contro di loro. - Badate che lavori bene, perché si dice che in quelle navicelle vi sia una grossa provvista di corde. - Che dovranno servire? - Ad appiccarci, se ci prendono vivi. - Dite sul serio? - Lo hanno confessato i prigionieri della fregata, - rispose Mendoza. - Oh! ... I bricconi! ... - Il viceré di Panama è stanco di noi ed ha giurato di farci fare l'ultima danza, appesi ai pennoni. - Brutto ballo, - disse il fiammingo, il quale si trovava presente. - Infatti non deve essere molto piacevole, - rispose il guascone. Mi raccomanderò alla mia draghinassa. - Sapete però che cosa hanno deciso i filibustieri? - Di adoperarle per legare come salami i prigionieri. - Niente affatto: di servirsene per far danzare sui pennoni, o meglio sotto i pennoni, gli equipaggi delle barcaccie. - Non li abbiamo ancora presi. - Eh! ... aspettate un po'. La fregata era giunta allora a buon tiro. Le due barcaccie, ingannate dallo stendardo che sventolava sempre sul corno dell'artimone, non avevano cessato di avanzarsi. Un comando breve, secco, echeggiò sul ponte della nave predata. - Fuoco di bordata! In un lampo la bandiera di Spagna viene ammainata e sostituita dagli stendardi di Francia e d'Inghilterra, e una tempesta di palle prende d'infilata le due barcaccie, disalberandole e rasandole come due pontoni. Una barcaccia s'incendia e brucia come un pezzo di legno secco e le polveri scoppiano con fracasso orrendo, scaraventando in alto la coperta, sventrando la poppa e sfondando le murate di babordo e di tribordo. L'altra però tiene vigorosamente testa all'attacco, cannoneggiando furiosamente coi due soli pezzi che aveva a bordo. La lotta non dura che pochi minuti, poiché in aiuto dei filibustieri accorrono anche i due vascelli, i quali fanno un fuoco infernale sulle due disgraziate navicelle. Quella che brucia va a fondo e nessuno degli uomini che la montano sfugge al disastro, l'altra viene abbordata e presa dopo un brevissimo combattimento. Ventidue filibustieri però cadono gravemente feriti e fra di loro Tusley, il quale doveva morire qualche giorno dopo avendo ricevuto una palla avvelenata. I filibustieri, furiosi per le gravi perdite subite e per aver trovato tante funi destinate ad impiccarli, non ostante le proteste del conte di Ventimiglia, non lasciano vivo nemmeno uno dei prigionieri che montavano la seconda barcaccia. Superbi di tanta fortuna, lo stesso giorno si ritirarono a Taroga per deliberarvi sul da farsi, avendo saputo che non uno bensí cinque dei loro compagni si trovavano prigionieri a Panama, soggetti a durissima schiavitú. Era loro intenzione di muovere audacemente sulla ricca città e di tentarne l'assalto. Ma avendo appreso che una forte squadra aveva lasciato i porti del Perú e che moveva in cerca di loro per finirla una buona volta, decisero di mandare un messo a Panama e d'intimare al Presidente dcll'Udienza Reale la pronta restituzione dei cinque prigionieri e della figlia del Corsaro Rosso, minacciando, in caso di rifiuto, di uccidere, per ognuno di essi, quattro spagnuoli dei tanti che tenevano nelle loro mani. Il Presidente manda ai filibustieri un ufficiale per dire loro a voce che nulla poteva fare e nel medesimo tempo ricorre al vescovo di Panama per tentare se il suo carattere potesse avere qualche efficacia, almeno sui francesi che si piccavano di mostrarsi sempre cattolici. Il vescovo scrisse infatti dicendo che il rifiuto del Presidente da non altro dipendeva che dalla obbedienza che egli doveva agli ordini sovrani, i quali gli proibivano una tale sorta di scambi ed avvertendoli nell'istesso tempo che quattro prigionieri inglesi si erano ormai convertiti al cattolicismo e che erano decisi a rimanere cogli spagnuolí. Quelle risposte, come si può ben comprendere, non erano sufficienti per persuadere quei formidabili corsari. In un altro consiglio decisero di rimandare un altro prigioniero a Panama affinché avvertisse anche a voce il Presidente che erano piú che mai risoluti a massacrare i trecento spagnuoli che tenevano nelle loro mani, anche per vendicarsi delle palle avvelenate usate dagli archibugieri della fregata, le quali avevano causata la morte di Tusley e dei ventidue feriti. Per fare maggior impressione, decapitarono venti prigionieri estratti a sorte e mandarono le teste a Panama. Un tale atroce fatto indusse il Presidente a non piú tardare a mettere in libertà quei prigionieri ed a pagare diecimila piastre. Nel numero mancava però la figlia del Corsaro Rosso. Fu un'esplosione di collera terribile, poiché i filibustieri ci tenevano soprattutto ad avere la fanciulla, perché ormai riguardavano il conte di Ventimiglia come il loro vero capo. Il progetto di trucidare tutti i prigionieri spagnuoli, compreso il marchese di Montelimar, per un momento trionfò ... - Mandate la testa dell'ex-governatore di Maracaibo al Presidente dell'Udienza Reale di Panama, - avevano detto Grogner e Raveneau de Lussan, che parevano i piú inferociti. - Diamo una terribile lezione a quegli uomini che usano contro di noi palle avvelenate, cosa contraria a tutte le leggi della guerra! ... - No, - aveva risposto fermamente il conte. - Io vi lascio liberi e mi risolvo ad andare a Panama a cercare mia sorella. Se avrò bisogno di voi, non dubito che voi accorrerete tutti in mio aiuto. Mettete a mia disposizione una barcaccia, affinché possa avviarmi alla costa ed uno schifo per entrare inosservato in porto. La testa del marchese di Montelimar risponderà della mia vita.

IL RE DEL MARE

682270
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il Re del Mare abbandonava rapidamente i paraggi delle Romades, prendendo la corsa verso il sud. Colle carboniere piene, ed un sopraccarico di combustibile nella stiva, poteva sfidare alla corsa tutte le navi che gli alleati dovevano aver radunate nelle acque di Sarawak. Il poderoso incrociatore che divorava miglia su miglia, due giorni dopo avvistava già il capo Tanjong-Datu, passando dinanzi alla medesima rada dove erasi rifugiata la Marianna. Nulla avendo incontrato in quei paraggi, riprese senza indugio la corsa verso il sudest, per raggiungere la foce del Sedang. Sandokan voleva innanzi a tutto accertarsi se l'equipaggio della sua piccola nave era riuscito nella missione affidatagli, ossia di armare e di sollevare i suoi vecchi alleati, i dayaki dell'interno, che lo avevano così vigorosamente aiutato contro James Brooke, il famoso sterminatore dei pirati. Quarant'otto ore dopo, il Re del Mare, che non aveva rallentata la sua velocità, avvistava il monte Matang, un picco colossale che si erge presso la costa di ponente dell'ampia baia di Sarawak e che lancia la sua vetta verdeggiante a duemila novecento e settanta piedi, e l'indomani navigava dinanzi alla foce del fiume che bagna la capitale del rajah. Era il momento di aprire per bene gli occhi, poichè da un istante all'altro delle navi inglesi o del rajah di Sarawak potevano mostrarsi. Certo la comparsa del corsaro doveva essere stata segnalata alle autorità di Sarawak ed i migliori incrociatori dovevano aver preso il largo, onde proteggere da un improvviso assalto le navi che lasciavano il fiume, dirette a Labuan o a Singapore, che potevano venire facilmente catturate o affondate dagli audaci pirati di Mompracem. Perciò una rigorosa sorveglianza era stata ordinata a bordo dell'incrociatore. Giorno e notte dei gabbieri si tenevano costantemente sulle piattaforme superiori, muniti di cannocchiali di lunga portata, pronti a dare l'allarme nel caso che qualche colonna di fumo apparisse all'orizzonte. Sandokan e Yanez, per maggiore precauzione, avevano anche comandato che dopo il calar del sole più nessun lume si accendesse a bordo, nemmeno nelle cabine che avevano le finestre sui bordi esterni, e nemmeno i fanali regolamentari. Volevano passare dinanzi la foce del Sarawak inosservati, per non farsi inseguire sulle coste orientali e compiere le loro operazioni senza venire disturbati. Sentivano per istinto che li cercavano e che navi inglesi e del rajah dovevano scorazzare quei paraggi. Chissà, forse avevano indovinato le loro intenzioni o peggio ancora, qualcuno poteva averli informati dei loro progetti. Ed infatti, contrariamente alle loro abitudini, i due ex pirati apparivano assai preoccupati. Si vedevano passeggiare per delle ore intere sul ponte, colla fronte increspata, poi arrestarsi per interrogare, con una certa ansietà, l'orizzonte. Specialmente di notte abbandonavano di rado la coperta, accontentandosi di riposare solo poche ore dopo il levar del sole. - Sandokan, - disse Tremal-Naik, quando già il Re del Mare aveva oltrepassata la seconda bocca del Sarawak di qualche dozzina di miglia, - mi sembri molto inquieto. - Sì, - rispose la Tigre della Malesia, - non te lo nascondo, mio caro amico. - Temi qualche incontro? - Io sono certo di essere seguìto o preceduto, e un marinaio difficilmente s'inganna. Si direbbe che io senta odor di fumo e di fumo di carbon fossile. - E da chi? Da squadre inglesi o da quelle del rajah? - Di quelle del rajah non mi occupo troppo, perchè l'unica nave che poteva misurarsi colla mia, ora giace sventrata in fondo al mare. - Quella di sir Moreland? - Sì, Tremal-Naik. Le altre che possiede il rajah sono vecchi incrociatori di ordine secondario, che non valgono assolutamente nulla come navi da battaglia. È la squadra di Labuan che mi preoccupa. - Sarà forte? - Molto forte no, numerosa di certo. Potrebbe prenderci nel mezzo e crearci molti fastidi, quantunque io ritenga il nostro incrociatore così poderoso d'aver ragione di essa. I migliori, l'Inghilterra se li tiene in Europa. - Sono ben lontani da noi, - disse Tremal-Naik. - E chi mi assicura che non ne mandi alcuni a darci la caccia? Mi hanno detto che ve ne sono dei poderosi anche nell'India. Quando si apprenderà quali danni noi abbiamo recato alle loro linee di navigazione, gli inglesi non esiteranno a lanciare su questi mari il meglio della loro squadra indiana. - E allora? - chiese Tremal-Naik. - Faremo quello che potremo, - rispose Sandokan. - Se il carbone non ci mancherà la faremo correre e molto. - È sempre il carbone il nostro punto nero. - Di' il nostro lato debole, Tremal-Naik, perchè a noi tutti i porti sono chiusi. Fortunatamente la marina inglese è la più numerosa del mondo e piroscafi ne troveremo sempre, dovessimo andarli a cercare perfino nei mari della Cina. Ah! Cala la nebbia! È una fortuna per noi, che stiamo per passare dinanzi alle coste del sultanato. - Quanto distiamo dal Sedang? - Forse duecento miglia. Queste sono le acque più pericolose. Se questa notte non facciamo alcun incontro, domani troveremo la Marianna. Apriamo gli occhi, Tremal-Naik ed aumentiamo la nostra velocità. Tanto peggio a chi tocca se taglieremo qualche legno. Pareva che la fortuna proteggesse le ultime tigri di Mompracem, perchè poco dopo il tramonto del sole una folta nebbia era cominciata a scendere sul golfo, in dense ondate. Il Re del Mare aveva quindi maggiori possibilità di sfuggire alla caccia delle navi alleate, ammesso che si fossero realmente messe in moto per sorprenderlo. Nondimeno Sandokan e Yanez avevano dati gli ordini per tenersi tutti pronti. Qualche nemico poteva comparire, impegnare subito la lotta e colle sue cannonate attirare l'attenzione della squadra. L'incrociatore, che aveva aumentata la sua velocità portandola a tredici miglia, muoveva rapido attraverso il nebbione che sempre più si addensava. Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e l'ingegnere americano erano tutti sul cassero, presso i timonieri, cercando, ma invano, di distinguere qualche cosa attraverso le ondate caliginose che il vento, di quando in quando, scompaginava. Gli artiglieri erano dietro i loro mostruosi pezzi o accanto alle piccole artiglierie; i malesi ed i dayaki dietro le murate. Tutti tacevano ed ascoltavano attentamente. Non si udivano che i rauchi muggiti del vapore ed il gorgoglìo prodotto dalle eliche e dallo sperone fendente le acque. La seconda foce del Sarawak doveva essere stata oltrepassata di una cinquantina di miglia, quando tutto d'un tratto si udì a echeggiare una sirena. - Una nave esplora il mare e segnala la sua presenza ad altre, - disse Yanez a Sandokan. - Sarà mercantile o da guerra? - Suppongo che sia qualche avviso del rajah, - rispose la Tigre della Malesia. - Ci aspettavano? - Fa' puntare verso levante. - Vorrei però prima conoscere con quale avversario abbiamo da fare. - Con questa nebbia non sarà cosa facile, Sandokan, - disse Tremal-Naik. - Quando potremo giungere alla foce del Sedang? - Fra cinque o sei ore. Vedi nulla, Yanez? - Null'altro che nebbia, - rispose il portoghese. - Non devieremo: tanto peggio per chi si caccerà sotto il nostro sperone. Poi, accostandosi al tubo che comunicava colla sala della macchina, gridò con voce poderosa: - Signor Horward! Avanti a tutto vapore, a tiraggio forzato! Il Re del Mare continuava la sua corsa, aumentandola rapidamente. Da tredici nodi era salita a quattordici all'ora, e non bastava ancora. L'ingegnere americano aveva comandato il tiraggio forzato per raggiungere possibilmente i quindici. Era ben vero che il carbone se ne andava rapidamente, però ne avevano in quantità sufficiente per tenere il mare alcune settimane senza bisogno di provvedersi. Erano già trascorse due ore, quando tutto d'un tratto la nebbia s'illuminò come se un gran fascio di luce l'attraversasse. Luce lunare non doveva essere, perchè assai più intensa e brillante e poi non ne aveva l'immobilità. Veniva dall'est e scorreva dal sud al nord, facendo scintillare vivamente le acque. - Un fanale elettrico! - esclamò Yanez, trasalendo. - Ci si cerca. - Sì, ci cercano, - disse Tremal-Naik. - Che siano in molti? Sandokan non aveva aperto bocca; la sua fronte però si era bruscamente aggrottata. Trascorsero alcuni minuti ancora. - Macchina indietro! - tuonò ad un tratto la Tigre della Malesia. Il Re del Mare trasportato dal proprio slancio, s'avanzò per due o trecento metri, poi s'arrestò lasciandosi cullare dall'onda larga del golfo. Una nave e forse non sola, si trovava dinanzi all'incrociatore ed esplorava il mare, proiettando dovunque fasci di luce. - Che la squadra di Sarawak si sia accorta della nostra presenza? - chiese Tremal-Naik. - Dobbiamo essere stati segnalati da qualche veliero, forse da qualche praho che è sfuggito alla nostra sorveglianza, - disse Sandokan. - Che cosa farai, Sandokan? - Aspetteremo, per ora, poi passeremo, dovessi fracassare dieci navi a colpi di sperone. Il Re del Mare ha la prora a prova di scoglio e le macchine d'una solidità tale che non si sconquasseranno per l'urto. Il fascio di luce continuava a scorrere lentamente dal nord al sud, tentando di forare la nebbia, fortunatamente sempre foltissima. D'improvviso, un secondo ne apparve dal lato opposto, ossia verso la poppa dell'incrociatore, poi altri due al nord e uno al sud. Una sorda imprecazione sfuggì dalle labbra del portoghese, il quale stava a guardia dei timonieri. - Ci hanno ben circondati! Alla malora quegli squali! Fra poco qui farà caldo! La Tigre della Malesia aveva seguìto attentamente la direzione di quei diversi fasci di luce. La sua nave che occupava il centro, non poteva essere stata ancora scorta, però non poteva slanciarsi innanzi nè retrocedere senza farsi scoprire. Con un gesto chiamò Yanez e l'ingegnere americano. - Si tratta di forzare il passo, - disse. - Dinanzi, presumibilmente, non abbiamo che una sola nave. Il nostro carico è stato ben stivato? - Assaliremo collo sperone? - chiese l'americano. - Ne ho l'intenzione, signor Horward. Fate raddoppiare il personale delle macchine. - Bene, comandante, - rispose lo yankee. - I miei compatriotti non agirebbero diversamente in simile frangente. - Sono tutti ai pezzi gli artiglieri? - Sì, - rispose Yanez. - Avanti a tutto vapore! Passeremo a qualunque costo. I fasci di luce elettrica continuavano ad incrociarsi in tutti i sensi e a poco a poco diventavano più luminosi. Probabilmente i comandanti di quelle navi dovevano aver scorta l'ombra immensa del Re del Mare e si preparavano ad assalire, dirigendosi verso uno stesso punto. Il momento stava per diventare terribile; tuttavia malesi, dayaki ed americani conservavano anche in quel supremo momento, una calma ammirabile. - Tutti nelle batterie! - gridò Sandokan, entrando nella torretta di comando con Yanez e con Tremal-Naik. Il Re del Mare balzò avanti. La sua velocità aumentava di momento in momento ed il fumo usciva turbinando dalle due ciminiere abbattendosi sui ponti in causa della nebbia. Un fremito sonoro lo scuoteva tutto, mentre gli alberi delle eliche raddoppiavano i giri ed il vapore muggiva nelle caldaie. L'incrociatore attraversò come un gigantesco proiettile la zona luminosa, ma appena rientrato nella nebbia oscura, altri fasci di luce lo raggiunsero, diventando rapidamente più luminosi. Le navi nemiche si erano messe in caccia e cercavano di rinchiuderlo in un cerchio di ferro e fuoco. Sandokan non si sgomentava e lasciava che la sua nave corresse sempre verso l'est. Alcune cannonate rimbombarono al largo e si udì in aria il rauco sibilo dei proiettili. - Pronti pel fuoco di bordata! ... - gridò Yanez. - Per Giove! ... E le fanciulle? - Sono al sicuro nel quadro, - rispose Tremal-Naik. - Manda qualcuno ad avvertirle che non si spaventino se succede un urto, - disse Sandokan. Delle ombre gigantesche si muovevano fra la nebbia che i riflettori elettrici rendevano sempre più luminosa. La squadra nemica stava per piombare sull'incrociatore delle tigri di Mompracem per tentare di sbarrargli il passo. Ad un certo momento una massa nera comparve bruscamente dinanzi la prora, sulla dritta del Re del Mare, a meno di quattro gomene di distanza. Era impossibile arrestare lo slancio dell'incrociatore. - Speronate! - gridò Sandokan con voce tuonante. Il Re del Mare si precipitava sul legno nemico come un ariete. Un rombo assordante, spaventevole, seguìto da urla d'angoscia echeggiò fra la nebbia perdendosi lontan lontano sul mare. Lo sperone dell'incrociatore era entrato tutto dentro la nave avversaria, producendole uno squarcio immenso ... Il Re del Mare s'arrestò un momento inclinandosi a prora, mentre degli scoppi accadevano sulla nave investita e colpita a morte da quella terribile speronata. Le caldaie scoppiavano. - Macchina indietro! - gridò l'ingegnere americano. Si udirono a prora dei sordi scricchiolii, poi il Re del Mare con una brusca scossa liberò il suo sperone indietreggiando e virando a babordo. La nave sventrata calava a fondo a vista d'occhio, fra i clamori assordanti del suo equipaggio. Il Re del Mare aveva ripresa la corsa, passando a poppa della nave sommergentesi, gettandosi nuovamente tra mezzo alla nebbia. Altre ombre pure apparivano a babordo e a tribordo. Le navi della squadra, approfittando di quel momento di sosta, avevano raggiunto il Re del Mare e gli proiettavano sul ponte fasci di luce. - Fuoco accelerato! - comandò Yanez. L'incrociatore s'infiamma come un vulcano in eruzione, con un rimbombo orrendo. I giganteschi pezzi delle torri hanno fatto fuoco quasi simultaneamente, facendo tremare la nave dalla chiglia alla punta degli alberi, scagliando sulle navi nemiche i loro grossi proiettili, poi i pezzi di medio calibro delle batterie hanno seguìto l'esempio, tempestando i nemici. Gli inseguitori non parvero spaventarsi, quantunque quella tremenda scarica delle più grosse artiglierie moderne dovesse aver prodotto danni gravi e forse, per qualche piccolo e maldifeso legno, irrimediabili. Da tutte le parti i lampi spesseggiano. I proiettili delle granate che si spaccano sulla solida blindatura della nave corsara, scoppiano sui ponti lanciando dovunque schegge di metallo. Colpiscono il tribordo ed il babordo, piombano a poppa ed a prora, scivolando sui ponti e rimbalzano sulle cime delle torri. Il Re del Mare nondimeno non s'arresta, anzi risponde con una furia spaventevole, mandando palle a destra, a sinistra e dietro la poppa. Una piccola nave, che fila con una velocità vertiginosa, emerge bruscamente fra la nebbia e con una pazza temerità corre addosso all'incrociatore. È una grossa scialuppa a vapore che porta a prora una lunga asta, l'antica torpediniera Horward. L'ingegnere americano, che conosce quell'arme micidiale, manda un grido: - Badate, cercano di torpedinarci! Sandokan e Yanez erano balzati fuori della torretta di comando. La scialuppa, che era illuminata dalle lampade elettriche delle altri navi, muoveva veloce verso il Re del Mare, cercando di raggiungerlo. Un uomo, il comandante, stava a prora, dietro l'asta. - sir Moreland! - gridarono ad una voce. Era infatti l'anglo-indiano che cercava, con una pazza temerità, di torpedinare l'incrociatore. - Arrestate quella scialuppa! - aveva gridato Sandokan. - No, nessuno faccia fuoco! - urlò invece Yanez. - Che cosa fai, fratello? - chiese la Tigre della Malesia, stupita. - Non uccidiamolo: Darma piangerebbe troppo. Lascia fare a me. A tribordo vi erano parecchi pezzi di medio calibro. Yanez s'appressò al più vicino che era stato già puntato sulla scialuppa, corresse rapidamente la mira, poi diede uno strappo al cordone tirafuoco. La scialuppa non si trovava allora che a trecento metri, non riuscendo a guadagnare via sull'incrociatore. Il proiettile la colpì con matematica precisione a poppa, asportandole ad un tempo il timone e l'elica e fermandola, per modo di dire, in piena volata. - Buon viaggio, sir Moreland! - gli gridò il valente artigliere, con voce ironica. L'anglo-indiano aveva fatto un gesto di minaccia, poi il vento portò fino agli orecchi delle tigri di Mompracem queste parole: - Fra poco incontrerete il figlio di Suyodhana! ... V'aspetta nel golfo! ... L'incrociatore aveva allora oltrepassata la zona luminosa e si rituffava nella nebbia. Scaricò un'ultima volta i suoi pezzi da caccia in direzione delle navi nemiche, che non potevano gareggiare colle sue macchine e sparve verso l'est, mentre i malesi ed i dayaki urlavano a squarciagola: - Viva la Tigre della Malesia! ...

I CORSARI DELLE BERMUDE

682298
Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Farebbero meglio a conservare le loro polveri - borbottò Testa di Pietra, il quale, pur fumando ferocemente, non abbandonava la ribolla. La corvetta superò l'ultimo passo dell'avamposto e scomparve nella notte nebbiosa, salutando ironicamente la squadra con quattro colpi di mortai, i cui proiettili probabilmente caddero sullo specchio d'acqua. Il Corsaro si era avvicinato, insieme col suo luogotenente, a Testa di Pietra, il quale, per rispetto, aveva deposta la sua vecchia pipa sul coronamento della poppa. - Rotta per le Bermude - gli disse. - Dobbiamo raccogliere tutti i corsari e spazzare l'oceano dalle navi inglesi. La città deve cadere, e Maria di Wentwort ritornerà fra le mie braccia. Tre giorni dopo la Tuonante dava fondo colle sue àncore dinanzi alla baia di Somerset, della grande Bermuda dove si trovavano già raccolti tre briks armati da gentiluomini francesi. Sir William, che aveva corseggiato la Manica, era troppo noto. Fu dunque accolto a braccia aperte dai tre valorosi e nominato seduta stante ammiraglio della piccola flottiglia. Fu deciso di tornare verso Boston per impedire l'approvvigionamento della piazza, nella quale, di giorno in giorno, venivano a mancare viveri e munizioni Gli assedianti non si trovavano in migliori condizioni, poiché tutto, il territorio intorno a Boston era stato saccheggiato, e il lungo e feroce bombardamento aveva esaurito quasi completamente le loro provviste da guerra, sebbene navi americane velocissime fossero state spedite sulla costa della Guinea Africana per acquistare polveri ed armi, e i finlandesi avessero mandato una grossa giunca e i caroliniani una corvetta con barilotti di polveri. Gli americani si erano dati d'attorno per provvedere polveri e viveri. Il New Hampshire aveva già armata una nave di trentadue cannoni; il Massachussetts altre due di ventiquattro bocche da fuoco; un'altra il Connecticut di ventiquattro, e quattro altre l'isola di Rodi, il Maryland e la Pennsylvania. Quella squadra, abbastanza potente per battere l'Atlantico, a poco a poco si era radunata intorno a quella di sir William, riconosciuto ormai il più abile ed intrepido marinaio ai servigi degli insorti americani. Predavano, i corsari, le navi cariche di polveri e di armi destinate alla guarnigione di Boston, ma soprattutto facevano grande raccolta di viveri. Il governo inglese, informato delle gravi strettezze nelle quali si trovava la guarnigione di Boston, aveva con incredibili spese imbarcato un numero enorme di buoi, di capre, di vitelli, di carni salate e di vegetali, e su rapide navi li aveva inviati verso quella città. La squadra americana comandata da sir William, che incrociava sempre dinanzi a Boston, era piombata improvvisamente su di essa, le aveva catturate. Era una risorsa enorme, inaspettata per gli assedianti, anche perché, oltre a viveri e munizioni, c'era una quantità straordinaria di carbone. Howe non vedendo nessuna risorsa giungere dal mare, aveva fatto cacciar fuori dalla città ben ottocento abitanti inabili, per la maggior parte affetti da vaiuolo. Suo disegno era di contaminare il campo americano e di portarvi dentro la strage, senza bisogno di bombe e di combattimenti furiosi. A questa infame guerra risposero gli americani stringendo sempre più l'assedio. La Camera del Massachussetts, temendo che gli americani stringendo sempre più la piazza, se ne tornassero alle loro case prima che fosse presa la città, aveva prontamente emessi cinquantamila biglietti di sterline di credito, sui quali era rappresentato un soldato americano, impugnante una spada diritta, attorno alla quale si leggevano queste parole latine: Ente petit placídam sub libertate quietem. Gli americani peraltro decisero di fare uno sforzo supremo per impadronirsi di Boston. Washington, e i generali Lee e Gage, che armeggiavano nei dintorni di New York, avendo compreso che la buona riuscita della causa americana dipendeva dalla caduta di Boston, scesero verso il sud, conducendo seco parecchie migliaia di stanziali ed un buon numero di pezzi d'assedio Quel rinforzo fu di grande utilità agli assedianti, i quali cominciavano a trovarsi a mal partito a cagione del freddo sopravvenuto. Washington e i suoi generali avevano prese le misure necessarie per stringere maggiormente la piazza ed impedire che la guarnigione potesse in qualche modo approvvigionarsi. Approfittando del ghiaccio, il prode americano aveva spinto grosse avanguardie fin quasi sotto le mura di Boston, affinché tribolassero giorno e notte, con finti assalti, agl'inglesi. Per di più, aveva fatto costruire due grosse batterie galleggianti alle bocche del fiume Cambridge per battere la piazza anche da quella parte, Poi fu decisa l'occupazione di tutte le alture dominanti la città che gl'inglesi, affievoliti dagli stenti, poveri di munizioni, non si trovavano più in grado di difendere. La notte del 3 marzo del 1776 tutti i pezzi americani, cominciarono a tirare, cagionando dentro la piazza molti incendi, e la notte del 4 marzo si impadronirono delle ultime alture. Gli americani si erano messi nell'impresa con grande slancio malgrado il freddo intenso. Protetti dalle batterie di Phipps Farm e di Roxbury, ottocento scorridori passavano l'istmo di Dorchester, seguiti subito da milleduecento stanziali e da molti carri pieni di gabbioni e di travi e di balle di fieno, onde improvvisare trincee che li mettessero al coperto dai tiri della squadra inglese. Gli americani giunsero felicemente sugli ultimi baluardi senza che la guarnigione se ne fosse accorta. Al mattino, diradatasi la nebbia, Howe vide, con sua grande sorpresa e rabbia, che il nemico si era già rafforzato anche lassù e vi aveva piantato le artiglierie. Comprese che la piazza stava per venire rinchiusa in un cerchio di ferro e di fuoco, e decise di tentare un supremo assalto alle ultime posizioni americane. Washington, avvertito di quel disegno, non aveva indugiato a prendere le sue precauzioni per respingere il presidio e distruggerlo. Aveva fatto rafforzare rapidamente le trincee improvvisate munendole di nuovi pezzi, fatto accorrere soldati da tutti i dintorni e stabilito i segnali che dovevano farsi su tutte le alture. Non contento di ciò, considerando che la squadra di sir William avrebbe potuto forzare il blocco e gettare le àncore alla foce della Mistica, vi aveva aggiunto quattromila uomini scelti, affinché approfittassero della confusione della lotta per attraversare il Cambridge e tentare un assalto disperato. Il generale Sullivan comandava le prime schiere incaricate di assalire le ultime alture; Greene lo seguiva con parecchie migliaia di soldati. Dal canto suo Howe, comandante della piazza, aveva fatto costruire gran numero di scale per montare all'assalto delle trincee americane, affidando la temeraria impresa a lord Percy, ai suoi comandi aveva messo più di tremila soldati, il meglio di quanto gli rimaneva della sua stremata e affievolita guarnigione. Già si erano mossi animosi gli assediati, quando scoppiò un violentissimo uragano, che respinse le acque fuori della baia, accompagnato da una pioggia dirottissima che rendeva quasi nulla l'efficacia delle armi da fuoco. Howe, disperando di spuntarla per quella notte, aveva dovuto richiamare le sue forze, mentre gli americani si affrettavano a rafforzarsi. Il colonnello Mifflin aveva apprestato gran numero di botti piene di sassi e le aveva collocate intorno alle alture, affinché muovendo il nemico all'assalto, le facessero rotolare con grande furia per romperne gli ordini. Howe, accortosi dell'impossibilità di forzare le posizioni americane e disperando ormai di ricevere soccorsi dall'Inghilterra, decise, anche per consiglio di lord Durmonth, uno dei segretari di Stato, di evacuare la città e di fuggire a New York che gl'inglesi allora tenevano saldamente. Non aveva una squadra potente, tuttavia i sette od ottomila uomini, che erano scampati alla fame, al vaiuolo, ai bombardamenti, vi potevano trovare rifugio. Si trattava di centocinquanta navi, fra grosse e piccole già assai invecchiate dai lunghi ancoraggi, e d'una sola fregata, l'unica che avesse potuto forzare il blocco, poiché la squadriglia del baronetto e dell'ammiraglio americano si erano affrettate a tornare in mare per mettersi in agguato. Le grandi difficoltà consistevano nel trasportare gli abitanti fedeli alla causa inglese e le loro famiglie per sottrarli ad un massacro. Il viaggio era lungo e difficile, l'inverno infieriva, i viveri scarseggiavano, e le soldatesche incapaci ormai di opporre valida difesa. Howe cionondimeno non esitò. Aveva preso la decisione di ritirarsi a New York o all'isola d'Halifax. Mandati a chiamare i notabili della città, espose loro la gravità della situazione e mostrò le materie incendiarie che aveva fatto preparare, affinché mettessero fuoco alla città nel momento in cui gli americani entravano. Quella brava gente fu poi mandata al campo americano per pregare il generale Washington che non volesse disturbare la loro partenza. Il comandante supremo delle forze americane, preso fra l'incudine ed il martello, e non volendo d'altronde la distruzione della città e la perdita di tutti gli averi di quei disgraziati abitanti, cedette, a condizione che Howe lasciasse indietro le artiglierie e tutto quello che non avrebbe potuto imbarcare. Alle 4 del mattino del 17 marzo cominciò l'imbarco della guarnigione, alla quale si erano unite mille e duecento famiglie d'inglesi. La squadra inglese si componeva, come abbiamo detto, di circa centocinquanta navi fra grosse e piccole. Washington lasciò che la flotta, fra una grande confusione prendesse il largo, ed entrava poco dopo nella città, colle bandiere spiegate e i tamburi rullanti. Il colonnello Moultrie, appena appresa la decisione di Washington di non ostacolare l'uscita della flotta, aveva subito pensato a sir William, ed aveva mandato uomini fidati a spiare l'imbarco dei. fuggiaschi. Come già se l'era immaginato, Howe, il marchese d'Halifax, ormai completamente ristabilito, ed i generali inglesi avevano preso posto sulla fregata, e su quella avevano veduto imbarcarsi anche una giovinetta bionda, che non poteva essere altro che Mary di Wentwort. Moultrie aveva fatto armare una scialuppa e si era portato a bordo della Tuonante, la quale aveva già messo a terra le truppe americane e si trovava in compagnia dei briks dei corsari delle Bermude. Una breve spiegazione aveva avuto luogo fra i due uomini, dopo di che sir William, comprendendo benissimo che per una donna non si potevano compromettere i destini d'una nazione, spiegò le vele verso l'uscita del porto coi briks, risoluto ad abbordare la fregata o morire nella temeraria impresa. Alle tre del pomeriggio la fregata, per la prima, lasciava la baia, guidando l'immensa turba delle sconquassate navi inglesi. Il baronetto, scorgendola, mandò un altissimo grido: - In caccia! Abbordiamola! Salvate la mia fanciulla! Non fate fuoco sul quadro! Il capitano della fregata, avvertito forse dal marchese dell'agguato che gli si tendeva, premendogli soprattutto di condurre in salvo, più che Mary di Wentwort, il generale Howe ed il suo Stato Maggiore, con una lunga bordata aveva subito appoggiato verso la costa, filando velocemente a settentrione. Le due navi, in piena corsa, cercavano di stringersi da presso, ma anche la fregata, che, come sfida, aveva inalberato sul corno della mezzana i colori del marchese d'Halifax, era uno splendido veliero. Le cannonate si succedevano alle cannonate. Mentre gl'inglesi sparavano sulla coperta, i corsari tiravano sull'alberatura dell'avversaria coi pezzi da caccia di prova, colla speranza di fracassarle un albero e di fermarla. Già la squadra inglese non era quasi più visibile, quando due palle incatenate, partite dai cannoni poppieri della fregata, presero di traverso l'albero di trinchetto della Tuonante, un po' sopra la coffa, spaccandolo di colpo. Il Corsaro mandò un grido terribile: - Mia Mary! Ancora una volta ti ho perduta. La corvetta, oppressa dal peso dell'albero che le gravitava sulla dritta, si era inclinata sul fianco, fermandosi quasi di colpo. La partita era perduta. Ancora una volta il marchese d'Halifax trionfava. Testa di Pietra, che teneva la ribolla del timone, vuotò sul coronamento di poppa la sua storica pipa, poi scuotendo la testa brontolò - Corra pure a nascondersi in qualche angolo dell'America: lo ritroveremo. Intanto la fregata, sbarazzatasi del suo pericoloso avversario, fuggiva lesta come un gabbiano verso il settentrione.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Alle sei di sera lo "Sparviero" abbandonava quel vallone, scendendo verso gli opposti altipiani. La catena era stata superata e agli ultimi raggi del sole morente si era scorto scintillare verso l'est il lago, incassato fra gigantesche montagne. Una fermata era necessaria, essendo tutti non solo stanchi, ma anche gelati. Il capitano si era messo in osservazione per cercare un luogo acconcio e che fosse riparato dai venti e anche dalle valanghe. - Là - disse a un tratto, indicando una specie di bacino circondato da un anfiteatro di muraglie granitiche. - Sembra fatto apposta per noi. Lo "Sparviero" cominciava ad abbassarsi lottando faticosamente coi venti, che continuavano ad investirlo. Sorpassò le rocce e si adagiò dolcemente sullo strato di neve che copriva il fondo di quella depressione del terreno. Furono visitate innanzi tutto le ali e le eliche, per vedere se avevano sofferto, poi tutti s'affrettarono a entrare nel fuso, dove era stata accesa una piccola stufa a carbone. Al di fuori, dopo la scomparsa del sole, il freddo era diventato intenso e il vento crudissimo e nembi di neve turbinavano sugli altipiani. Chiusero il boccaporto, cenarono alla lesta e si cacciarono sotto le coperte, ben contenti di trovarsi in un ambiente riscaldato, dopo tutta quella neve e quelle raffiche. La notte passò tranquilla. D'altronde, chi poteva importunarli, su quei deserti di ghiaccio, dove nessun essere umano poteva abitare? Alle otto del mattino lo "Sparviero" riprendeva la sua corsa verso il sud-est, diretto verso la catena dei Crevaux e gli altipiani del Kuku-Nor. Il tempo era pessimo. Nevicava abbondantemente e il vento spazzava il deserto con foga incessante, facendo scricchiolare le armature d'acciaio delle due ali. - Avremo bufera - disse il capitano con qualche inquietudine. - Non sarebbe stato meglio fermarci dove ci siamo accampati? - chiese Rokoff. - Il vento ci avrebbe guastato le nostre ali sbattendole al suolo. Preferisco affrontare la burrasca. Ci terremo però vicini al suolo, non essendovi altezze da superare, almeno fino ai Crevaux, che non raggiungeremo prima di questa sera. Sapete che seguiamo una via già percorsa da un europeo? - Da chi? - chiese Fedoro. - Da Donvalot nel 1889-90. - Capitano! - esclamò Rokoff. - Vedo delle abitazioni in quell'avvallamento. - Anche Donvalot ne aveva trovato in questa parte dell'altipiano. Quale esistenza devono condurre quei disgraziati! - Da esquimesi, se non peggio. Non lasciano le loro casupole che nell'estate, per dedicarsi alla caccia o per condurre i loro montoni e i loro cammelli al pascolo. - E quali piante possono spuntare su questi desolati altipiani? - Delle misere graminacee e pochi ciuffi d'un'erba corta e legnosa che non deve essere troppo eccellente anche per le bestie più accontentabili. - E quella costruzione che vedo laggiù in fondo a quell'orribile burrone, che cos'è? - chiese Fedoro. - Un monastero buddista - rispose il capitano. - Fabbricato in mezzo a questo deserto? - Questo deserto è santo, mio caro amico, al pari dei dintorni del Tengri-Nor e di Chassa. Tutto il Tibet è terra venerata, perché tutto appare meraviglioso agli occhi dei pellegrini. Qualunque spaccatura, pei fanatici, è stata aperta dal Dio; qualunque piramide deve essere d'origine divina; perfino i sassi sono cose sante e si portano religiosamente via come reliquia d'una delle trecentosessanta montagne che si elevano in questa regione. - E che cosa fanno quei monaci in queste gole e fra questi dirupi? - Raccolgono le salme dei pellegrini morti in causa delle lunghe sofferenze, delle fatiche e della fame, o delle frecce o delle palle dei briganti, per cremarle e quindi mandare le ceneri ai monaci del Tengri-Nor affinché le gettino nell'acqua più sacra della terra. - Se scendessimo presso quel monastero, ci accoglierebbero male? - chiese Rokoff. - Nella nostra qualità di stranieri non buddisti, avremmo più da temere che da sperare un cordiale ricevimento - rispose il capitano. - Continuiamo perciò il nostro viaggio e teniamoci lontani da tutti. Il viaggio però minacciava di diventare molto difficile e anche assai pericoloso. La bufera di neve aumentava di violenza, e i venti, ormai scatenati, soffiavano con furia irresistibile minacciando di travolgere lo "Sparviero". Una fitta nebbia si estendeva a poco a poco sull'altipiano, coprendo le spaccature, i burroni, gli abissi e facendo velo alle montagne. La neve cadeva a larghe falde, turbinando burrascosamente, levandosi poi in cortine così fitte che talvolta Fedoro, il capitano e Rokoff non riuscivano a scorgere più il macchinista e il silenzioso passeggero che si trovavano a poppa del fuso. Lo "Sparviero", quantunque le sue ali e le sue eliche funzionassero rabbiosamente, descriveva dei bruschi soprassalti e piegava ora a destra e ora a sinistra, imitando il volo incerto e irregolare dei pipistrelli. Talvolta il vento riusciva a vincerlo, abbattendolo verso qualche abisso, ma passata la raffica il fuso si risollevava slanciandosi nuovamente attraverso gli altipiani. Nondimeno tutti erano inquieti, compreso il capitano, il quale temeva di dover cedere o di doversi abbassare in mezzo al turbine di neve. E poi vi era anche un altro pericolo gravissimo, quello di trovarsi improvvisamente dinanzi a qualche picco che la nebbia, che diventava sempre più fitta, alzandosi verso lo "Sparviero", non permetteva di distinguere a tempo. - Come finirà questa corsa? - chiese Rokoff al capitano. - Potremo noi continuarla senza riportare qualche grave avaria? Pensate che una delle ali è stata spezzata sull'Hoang-ho. - Lo so - rispose il comandante, la cui fronte si abbuiava. - E dove scendere? L'altipiano non si scorge più e potremmo cadere in qualche abisso. - Se ci alzassimo ancora? - Nelle alte regioni il vento sarà più impetuoso. Guardate le nuvole come vengono scompigliate e lacerate dalle raffiche. - Sapete dove ci troviamo? - So che corriamo verso i Crevaux. - Saranno ancora lontani? - Lo suppongo. - Non ci fracasseremo contro quei picchi? - Non sono molto alti, signor Rokoff; uno solo, il Ruysbruk mi dà molto da pensare, ignorando le sue dimensioni. - Speriamo che il vento non ci spinga da quella parte. Dove si trova quella montagna? - All'ovest. - E il vento soffia sempre dall'est, signore - disse il cosacco. - E non poter vedere più nulla! La nebbia avvolge tutto l'altipiano e aumenta sempre, salendo verso di noi. - E l'ala ferita scricchiola - disse il capitano, le cui preoccupazioni aumentavano. - Finiremo per vederla ripiegarsi. - E cadremo? - Ci sono i piani orizzontali, signor Rokoff, e ci sosterranno benissimo. Una discesa, anche con questo vento, non mi spaventa. La situazione dello "Sparviero" si aggravava di momento in momento. Le raffiche, sempre più violente, lo gettavano a ogni istante fuori di rotta, travolgendolo nonostante le battute poderose delle ali e pareva che anche il timone non servisse quasi più. Il fuso cadeva, si rialzava, volteggiava in mezzo al turbine, poi tornava ad abbassarsi: non aveva più alcuna direzione. E intanto la nebbia saliva avvolgendolo e la neve, spazzata dai venti, investiva gli uomini, impedendo loro di tenere quasi aperti gli occhi. D'un tratto lo "Sparviero" si rovesciò violentemente su un fianco. Rokoff aveva mandato un grido: - L'ala ha ceduto! Cadiamo! Era vero. L'ala, già guastata dalla palla dei cinesi e poi raccomodata dal macchinista, si era nuovamente spezzata a metà piegandosi in due. Il capitano, vedendola cadere sul fuso, era diventato pallido, però aveva subito riacquistato il suo sangue freddo. - Arrestate la macchina! - gridò. - Si rovescerà lo "Sparviero"? - chiesero a una voce Rokoff e Fedoro. - No, non c'è pericolo - rispose il capitano. - Lasciamoci portare dal vento. - Dove cadremo? - chiese Rokoff. - Non lo so, vedremo poi. Lo "Sparviero" cadeva, ma lentamente, essendo sempre sorretto dai piani orizzontali e dalle eliche, le quali funzionavano ancora. Il vento lo spingeva verso ponente, facendogli descrivere degli zig-zag che impressionavano il russo e il cosacco, i quali temevano sempre che venisse trascinato contro qualche picco e fracassato. Il capitano, curvo sulla balaustrata di prora, cercava di discernere la terra che la nebbia e la neve turbinante gli nascondevano. Dove cadeva lo "Sparviero"? Sull'altipiano, sulla cima di qualche rupe o in fondo a qualche spaventevole abisso? - Non vedete nulla? - chiese Rokoff, che si teneva da un lato onde il fuso non si squilibrasse. - Nulla, ma la terra non deve essere lontana. - Il vento ci porta e minaccia di travolgerci. Toccheremo rudemente. - Tenetevi saldi; possiamo venire rovesciati. - Maledetta nebbia! - Macchinista! - Signore! - Ferma anche le eliche. - Capitano! - esclamò a un tratto Fedoro. - Il vento è improvvisamente cessato. - Me ne sono accorto. - Dove siamo dunque noi? - Suppongo che scendiamo in un abisso. Non udite dell'acqua scrosciare? Pare che qualche cascata ci sia vicina. - Sì, l'odo anch'io - disse Rokoff. - E a me pare d'aver veduto un'enorme muraglia fra uno squarcio della nebbia - disse Fedoro. - Dobbiamo scendere in qualche abisso - rispose il capitano. - Diversamente il vento continuerebbe a soffiare. Preparatevi a saltare a terra appena toccheremo. Lo "Sparviero" continuava la sua discesa, lentamente, senza scosse, come un aquilone che viene tirato al suolo. Il vento non ruggiva più attorno ad esso, anzi regnava una certa calma. Doveva aver già raggiunto l'orlo dell'altipiano spazzato dalla bufera; la nebbia però non permetteva agli audaci aeronauti di vedere dove calavano. Lo scrosciare della cascata si udiva sempre verso destra e diventava anzi più assordante. Qualche enorme colonna d'acqua, proveniente da qualche ghiacciaio, doveva precipitarsi attraverso quella spaccatura, o burrone, o abisso che fosse. Il capitano cercava d'indovinare dove scendevano e non gli riusciva di discernere le pareti del vallone che la nebbia ostinatamente teneva celate. Era già trascorsa quasi una mezz'ora dalla rottura dell'ala, quando il fuso subì una scossa, piegandosi per un momento sul fianco destro. - Capitano! - gridò Rokoff, aggrappandosi fortemente alla balaustrata. - Abbiamo toccato. Il comandante si era spinto fuori dal bordo per riconoscere l'ostacolo e vide confusamente una punta aguzza che si piegava sotto il peso del fuso. - È la cima d'un abete o d'un pino - disse. - Pare che vi sia una foresta sotto di noi. - Potremo scendere? Invece di rispondere il capitano si slanciò verso la macchina mettendo in movimento l'elica anteriore. Cercava di spingere innanzi lo "Sparviero", temendo che dovesse cadere in mezzo a qualche foresta, ciò che avrebbe prodotto qualche catastrofe o per lo meno dei gravi danni. E infatti il fuso, non trovando spazio sufficiente, poteva rovesciarsi e piombare in mezzo alle piante fracassando i piani orizzontali e lacerandosi le ali. Sembrava però poco credibile al capitano che sotto di lui si estendesse una vera foresta, essendo gli altipiani del Tibet settentrionale quasi privi di piante d'alto fusto. Qualche abete o qualche pino, trovato il terreno favorevole, poteva essere cresciuto, ma non di più. Fortunatamente lo "Sparviero", rimorchiato dall'elica, a poco a poco si spostava, cadendo molto lontano da quell'ostacolo che aveva sfiorato l'estremità inferiore del fuso. Il capitano, che non aveva abbandonato il suo posto a prora, non ne aveva scorto altri. La nebbia però era sempre foltissima, anzi più che sull'altipiano. D'improvviso il fuso tornò a toccare. Si udì un urto, seguito poco dopo da uno scricchiolare di tavole o di rami, accompagnato da grida acute. - Mille milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Schiacciamo della gente noi? - Mi pare che siamo caduti su un'abitazione - disse il capitano. Urla di terrore risuonavano fra la nebbia, mentre il fuso s'inclinava verso poppa, trattenuto da un impedimento che non gli permetteva di adagiarsi orizzontalmente. A un tratto però l'ostacolo cedette sotto il peso e si sfasciò con mille scricchiolii. L'abitazione doveva essersi spezzata, perché lo "Sparviero" riprese il suo appiombo, rimanendo immobile. - Le armi! Le armi! - gridò il capitano. Attraverso la nebbia aveva scorto delle ombre umane agitarsi. Il macchinista e il suo muto compagno avevano portato in coperta degli Snider e dei Remington. Il capitano era balzato a terra assieme a Fedoro e a Rokoff, gridando in lingua mongola. - Pace! Pace! Non temete! Siamo amici! Degli uomini coperti di pellicce che li facevano rassomigliare ad orsi, si erano accostati. - Chi siete! - chiese una voce imperiosa. - Amici - rispose il capitano. - Da dove siete caduti? Avete schiacciato la mia capanna. - Siamo pronti a indennizzarvi dei danni che vi abbiamo recato. - Siete mongoli? - Europei che non vi faranno alcun male. - Che cosa sono questi europei? - Degli uomini bianchi - rispose il capitano. - Chi comanda qui? Conduceteci dal vostro capo. Quindici o venti uomini si erano radunati attorno al capitano e ai suoi compagni, mentre altri s'aggiravano presso lo "Sparviero", cercando di distinguere che cosa fosse quella massa enorme che cadeva dall'alto schiacciando le case. Un uomo, grosso come una botte, che aveva un enorme berretto di pelo e una casacca di grosso feltro, si era avvicinato al capitano, dicendo: - Se cercate il capo del villaggio, sono io. Che cosa volete? Da qual parte siete scesi in questa valle senza chiedermi il permesso e mettendo in pericolo i miei sudditi? Per poco non avete schiacciato una intera famiglia. - È l'uragano che ci ha fatto cadere qui. Se il vento non ci avesse spinti, non saremmo discesi. - E che cos'è quella bestia? Sarà poi una bestia? - È la nostra casa. - Gettata giù dal vento? E non vi siete uccisi? Siete uomini o demoni? - Vi ho già detto che siamo degli uomini bianchi. - Venite nella mia capanna; voglio vedere se somigliate a quelli che sono passati per di qui molti anni or sono. - Vi consiglio di far ritirare tutti i vostri uomini e di non toccare la nostra casa. Potrebbe scoppiare e farvi saltare tutti in aria. - Allora la vostra casa è una bestia cattiva! - esclamò il tibetano, retrocedendo vivamente. - Non toccatela e non farà male ad alcuno. Se ci accordate ospitalità, noi vi faremo dei regali. - So che gli uomini bianchi sono generosi. Anche gli altri mi hanno fatto dei regali. - A quali europei allude? - chiese Rokoff, cui il capitano traduceva le risposte del tibetano. - A quelli della missione Bonvalot - rispose il comandante. - Questo selvaggio probabilmente ha veduto il principe Enrico d'Orléans, il figlio del duca di Chartres e cugino del pretendente al trono di Francia. Giacché acconsente a offrirci ospitalità, andiamo subito nella sua capanna. Qui fa un freddo cane e non si vede a due passi di distanza. - E il macchinista e il vostro amico? - chiese Fedoro. - Rimarranno a guardia dello "Sparviero". - Che corrano qualche pericolo? - Ho detto loro di montare la piccola mitragliatrice e con un simile arnese possono tenersi sicuri. D'altronde non mi pare che questi montanari abbiano intenzioni ostili. Andiamo nella casa di questo capo. I tibetani, dopo aver ronzato un po' attorno allo "Sparviero", senza poter indovinare che cosa fosse, in causa della foltissima nebbia che lo avvolgeva, a poco a poco si erano dileguati. Era rimasto solamente il capo, il quale continuava a infagottarsi nelle sue pelli. - Vi seguiamo - disse il capitano, dopo essersi fatto dare dal macchinista dei viveri, alcune bottiglie e delle bazzecole che contava di regalare al montanaro. Tenendosi per mano onde non smarrirsi, si lasciarono condurre. A destra e a manca scorgevano confusamente delle masse oscure che dovevano essere o tende o capanne e che erano avvolte fra un denso fumo che il nebbione impediva di disperdersi. Dopo trenta o quaranta passi il tibetano aprì una porta e li introdusse nella sua abitazione formata da una sola stanza ingombra di pelli, di caldaie di rame, di quarti di jacks quasi gelati e ammassi di vecchi tappeti di feltro che dovevano servire da letto. Nel mezzo, su quattro sassi, bruciava dell'argol, il quale non è altro che dello sterco di toro indurito, l'unico combustibile usato sull'altipiano e che produce fumo in abbondanza. Un'apertura però, fatta nel tetto, permetteva che bene o male uscisse; ve ne rimaneva tuttavia tanto dentro, che gli aeronauti credettero per un momento di morire asfissiati. - All'inferno i palazzi tibetani! - esclamò Rokoff, che tossiva fragorosamente. Questa è una tana da volpi! - Ci abitueremo presto a questo fumo - rispose il capitano. Il capo si era intanto sbarazzata del suo immenso mantello, formato da una intera pelle di jack, che portava col pelo all'infuori, e del suo berrettone di pelle d'orso, che gli nascondeva mezzo volto. Era il vero tipo del montanaro tibetano, basso di statura, secco, con occhi piccoli, un po' obliqui come quelli della razza mongola, senza un pelo sul volto e invece con una capigliatura lunga e abbondante, molto ruvida e che portava raccolta in trecce cadenti sulla fronte bassa e depressa e sulle spalle. Aveva gli zigomi molto più pronunciati dei cinesi, il naso grosso, la bocca larga fornita di denti lunghi e acuti come quelli delle belve, male disposti e sporgenti in modo che gli uscivano dalle labbra. La sua pelle poi scompariva sotto un vero strato di sporcizia. Probabilmente quell'uomo non si era mai lavato dal giorno che era venuto al mondo. Prima d'accostarsi agli aeronauti, fece un goffo inchino alzando poi i pollici delle mani fino all'altezza della fronte e cacciò fuori dalle labbra una lingua lunga quasi mezza piede, che lasciò penzolare per alcuni istanti. - Per le steppe del Don! - esclamò Rokoff, guardandolo con stupore e con disgusto. - Sta appiccandosi costui? - Ci saluta - rispose il capitano. - Con quella lingua! Da dove l'ha cacciata fuori! - Tutti i tibetani l'hanno così lunga. - Dite mostruosa. È ributtante! Sembra quella d'un orso formichiere. - Se saremo costretti a fermarci qui ne vedrete ben altre più enormi. - Mille storioni! Il tibetano, dopo quel saluto, con una mimica molto espressiva, aveva invitato i suoi ospiti a sedersi attorno al fuoco, dove già si trovavano dei grossolani tappeti di feltro. Tutti i montanari di quei desolati altipiani, per lo più non si esprimono che con moti, come se incontrino qualche difficoltà nel parlare. Dipende forse dalle mostruose dimensioni della loro lingua e anche dalla pessima disposizione dei loro denti? Il fatto sta che fra di loro non parlano quasi mai. Si esprimono e si comprendono benissimo con moti della bocca e della lingua, agitando le labbra in vari sensi, aiutandosi anche coi pollici delle mani per meglio far comprendere i loro desideri. Anche quando vogliono salutare, invece di dare un cordiale "buon giorno" o la "buona sera", si limitano a sporgere più che possono la lingua. Il capo andò a prendere un coltellaccio e da un quarto di jack che era sospeso alla parete, staccò alcuni enormi pezzi che depose dinanzi agli ospiti invitandoli a mangiare. - Mille milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Questo scimmiotto ci prende per tigri o per lupi per darci della carne cruda. - Non usano cucinarla - disse il capitano. Questi montanari vivono nel modo più primitivo che si possa immaginare e non si nutrono che di farina d'orzo e di carne cruda. Immaginatevi che non conoscono nemmeno il tè! - Io non farò onore a questo pasto da cannibali - disse Fedoro. Abbiamo le nostre provviste e vedrete che il capo non si farà pregare per assaggiarle. Aveva portato delle scatole di carne conservata, un pudding gelato, dei biscotti, dello zucchero per prepararsi il tè e due bottiglie di ginepro. Depose ogni cosa intorno al fuoco e invitò il capo a prendere parte al pasto. Il montanaro, vedendo gli ospiti lasciare intatta la carne cruda era rimasto un po' confuso, però aveva subito accettata la parte che il capitano gli offriva, gettandosi avidamente sul pezzo di pudding e sulle gallette e guardando cogli occhi accesi i pezzetti di zucchero. - Io conosco quei pezzi di pietra - disse. - Gli uomini bianchi che sono passati per di qua molti anni or sono, me ne hanno fatto assaggiare. - To'! Li chiama pezzi di pietra! - esclamò Rokoff, dopo aver udita la traduzione. - A te, mio caro selvaggio, addolcisciti la bocca; poi te la riscalderai col ginepro. Terminato il pasto il capo, che era diventato molto loquace dopo parecchi bicchieri della forte bevanda, spiegò al capitano che erano caduti in una profonda vallata racchiusa fra montagne tagliate a picco, che aveva una sola uscita verso il Ruysbruck, il più alto ed imponente picco dei Crevaux e che il suo villaggio si componeva di sessanta famiglie di pastori. Si dimostrava però sempre curioso di sapere in qual modo erano caduti da una così spaventevole altezza senza fracassarsi le ossa e di sapere che cosa era quella massa enorme che aveva schiacciata una capanna. La spiegazione fu laboriosa ma senza successo, non avendo quel tibetano mai udito parlare né di palloni, né di macchine volanti e tanto meno di uomini che viaggiavano fra le nubi. - Se è vero quello che tu mi racconti - concluse il montanaro - tu devi essere l'uomo più potente della terra. Finché però non ti vedrò volare come le aquile, non ti crederò mai, perché solo Buddha, potrebbe tentare una simile cosa. Volle in seguito vedere i fucili degli aeronauti senza poter comprendere come facessero fuoco non avendo la miccia. Gli sguardi d'ardente cupidigia che lanciava su quelle armi erano tali da impressionare il capitano. - Finirà per chiedercele - disse a Rokoff ed a Fedoro. - Noi però non gliele daremo. Si accontenti del suo moschettone a miccia. Dopo un paio d'ore lasciarono la capanna, non fidandosi di dormire in compagnia del capo. Il nebbione non si era ancora alzato e la neve cadeva abbondante anche nel vallone. Il macchinista e lo sconosciuto per riparare il ponte del fuso, avevano in quel frattempo tesa una immensa tenda di tela cerata e messa in batteria una piccola mitragliatrice a sette canne disposte a ventaglio, arma sufficiente per tenere in rispetto i tibetani, nel caso che avessero tentato di saccheggiare o di guastare lo "Sparviero". - È venuto nessuno ad importunarvi durante la nostra assenza? - chiese il capitano. - Abbiamo veduto, a più riprese, aggirarsi fra la nebbia alcune ombre che si sono subito dileguate al mio grido d'allarme - rispose il macchinista. - Si direbbe che voi non siete tranquillo - disse Fedoro, un po' sorpreso. - I tibetani non vedono volentieri gli stranieri - rispose il capitano. - E poi qui, in queste gole, non vivono che dei briganti, non essendovi pascoli fra questi orridi dirupi. E poi sapete che cosa m'inquieta? - Dite, signore. - L'assenza completa delle donne; ne avete vedute voi? - Io no. Dunque non credete che le capanne e le tende siano abitate da famiglie. - Solamente da uomini. - Che ci diano delle noie? - chiese Rokoff. - Non mi sorprenderei. Durante la buona stagione, all'epoca dei pellegrinaggi, tutte le vie che attraversano gli altipiani sono infestate da banditi. Chi mi assicura che non lo siano anche questi? Vegliamo amici e non lasciamoci sorprendere. - Brutto affare, collo "Sparviero" immobilizzato. - Aiuteremo il macchinista ad accomodare l'ala. I pezzi di ricambio sono già pronti. - Sarà lunga la riparazione? - Non avrò terminato prima di domani a mezzodì - disse il macchinista. - Il vento ha spezzato più di mezze verghe. - Al lavoro - disse il capitano. - Intanto uno di noi veglierà passeggiando intorno al fuso, onde i Tibetani non ci guastino i piani orizzontali. Se sventrano la seta, per noi sarebbe finita e l'idea di un viaggio a piedi attraverso il Tibet, specialmente in questa stagione così fredda, vi assicuro che non mi sorride affatto. - M'incarico io del primo quarto di guardia - disse Rokoff. Si gettò sulle spalle un ampio gabbano di tela impermeabile, si calcò in testa il suo berretto di pelo simile a quello che portano i tartari della steppa e armatosi dello Snider balzò a terra, scomparendo nella nebbia.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

682363
Salgari, Emilio 1 occorrenze

§Agli orologi della città inglese suonava la mezzanotte, quando la Devonshire, che sin dal mattino aveva acceso i suoi fuochi, abbandonava a tutto vapore il molo del forte William, scendendo la nera corrente dell'Hugly. La notte era assai oscura. Non luna e non stelle in cielo, il quale era coperto da una nera fascia di vapori. Pochi affatto i lumi, la maggior parte immobili, accesi dentro le capanne di Kiddepur, o sulla prua di legni ancorati sotto la riva. Solamente verso il nord si scorgeva uno strano bagliore, una specie d'alba biancastra, dovuta alle migliaia e migliaia di fiamme che rischiarano la città inglese e la città nera che formano Calcutta. Il capitano, ritto sulla passerella, comandava la manovra con voce metallica, dominando il fragore delle tambure che mordevano furiosamente le acque e il formidabile russare della macchina. Sul ponte, mozzi e marinai, si affaccendavano, al vago chiarore di poche lanterne, a stivare le ultime botti e le ultime casse che ancora ingombravano il ponte. Già Kiddepur era scomparsa nelle fitte tenebre, già gli ultimi lumi delle barche e dei navigli più non si scorgevano, quando un uomo, che sino allora aveva tenuto la ruota del timone, attraversò quatto quatto il ponte, urtando forte col gomito un indiano che stava chiudendo il boccaporto di maestra. - Affrettati, - gli disse, nel passargli vicino. La camera è deserta. - Pronto, Hider, - rispose l'altro. Pochi minuti dopo i due indiani scendevano la scaletta che conduceva nella camera comune, la quale in quel momento era deserta. - Ebbene? - chiese brevemente Hider. - Nessuno ha sospettato di nulla. - Hai contato le botti segnate? - Sì, sono dieci. - Dove le hai collocate? - Sotto poppa. - Riunite? - Tutte vicine l'una all'altra, - disse l'affiliato. - Hai avvertito gli altri? - Sono tutti pronti. Al primo segnale si getteranno sugli inglesi. - Bisogna agire con prudenza. Questi uomini sono capaci di far fuoco alle polveri e far saltare amici e nemici. - Quando si farà il colpo? - Questa notte, dopo che avremo dato un buon narcotico al capitano. - Cosa dobbiamo fare intanto? - Manderai due uomini a impadronirsi della sala d'armi poi attenderai nella macchina cogli altri due fuochisti. Avremo bisogno della tua abilità. - Non è la prima volta che lavoro alle caldaie. - Va bene. Io comincio ad agire. Hider risalì in coperta e diresse lo sguardo sulla passerella. Il capitano passeggiava innanzi e indietro, colle braccia incrociate sul petto, fumando una sigaretta. - Povero capitano, - mormorò lo strangolatore, non meritavi un così brutto tiro. Ma bah! Un altro al mio posto, invece di renderti nell'impossibilità di nuocere, ti avrebbe spedito all'inferno con una buona dose di veleno. Si diresse verso poppa e senza essere veduto discese sotto coperta, arrestandosi dinanzi la cabina del comandante. L'uscio era socchiuso, l'aprì e si trovò in uno stanzino di otto piedi quadrati, tappezzato in rosso ed ammobiliato elegantemente. S'accostò ad un tavolino, sul quale stava una bottiglia di cristallo, piena di limonata. Un sorriso diabolico gli sfiorò le labbra. - Ogni mattina la bottiglia risale vuota, bisbigliò. - Il capitano, prima di coricarsi, beve sempre. Cacciò la mano in petto e trasse una fiala microscopica, contenente un liquido rossastro. Lo fiutò più volte, poi lasciò cadere nella bottiglia tre goccie. La limonata ribollì diventando rossa, poi riacquistò la sua tinta primitiva. - Dormirà due giorni, - disse il thug. - Andiamo a trovare gli amici. Uscì ed aprì una porticina che metteva nella stiva. Un leggier rumore si udì sotto la poppa, seguito da uno scricchiolìo, come di un'arma da fuoco che veniva montata. - Tremal-Naik, - chiamò il thug. - Sei tu Hider? - domandò una foce soffocata. Apri, che qui dentro ci asfissiamo. Il thug raccolse in un angolo una lanterna cieca, colà precedentemente nascosta, l'accese e s'avvicinò alle dieci botti collocate l'una presso l'altra. I cerchi vennero levati e gli undici strangolatori, mezzo asfissiati, colle membra indolenzite, madidi di sudore per l'eccessivo caldo che regnava là sotto, uscirono. Tremal-Naik si slanciò verso Hider. - La Cornwall? - gli chiese. - Corre verso il mare. - C'è speranza di raggiungerla? - Sì, se la Devonshire accelera la corsa. - Bisogna abbordarla, o perderò la mia Ada. - Ma prima bisogna impadronirsi della cannoniera. - Lo so. Hai un piano tu? - Sì. - Parla, presto, io ardo. Guai, se non raggiungiamo la Cornwall! ... - Calmati, Tremal-Naik. Ogni speranza non è ancora perduta. - Dimmi quale è il tuo piano. - Innanzi tutto c'impadroniremo della macchina. - Ci sono affiliati nella camera delle caldaie? - Tre, e sono tutti fuochisti. In quattro, non faticheremo troppo a legare l'ingegnere. - E poi? - Poi andrò a vedere se il capitano ha bevuto il narcotico che gli versai nella sua limonata. Allora voi entrerete nel quadro di poppa e al primo fischio salirete sul ponte. Gli inglesi, colti lì per lì, si arrenderanno. - Sono armati? - Non hanno che i loro coltelli. - Affrettiamoci. - Sono pronto. Vado a legare l'ingegnere. Spense la lanterna, ritornò nel quadro di poppa e risalì sul ponte, proprio nel momento in cui il capitano lasciava la passerella. - Tutto va bene, - mormorò il thug, vedendolo dirigersi a poppa. Caricò la pipa e discese nella camera della macchina. I tre affiliati erano al loro posto, dinanzi ai forni, discorrendo a voce bassa. L'ingegnere fumava, seduto su di una scranna e leggeva un libriccino. Hider con un'occhiata avvertì gli affiliati di tenersi pronti, e s'avvicinò alla lanterna sospesa alla volta, proprio sopra il capo dell'ingegnere. - Permettetemi, sir Kuthingon, d'accendere la pipa, - gli disse il quartier-mastro. - Sopra tira un ventaccio che spegne l'esca. - Con tutto il piacere, - rispose l'ingegnere. S'alzò per tirarsi indietro. Quasi nel medesimo istante lo strangolatore lo afferrava per la gola e così fortemente, da impedirgli di emettere il più lieve grido, poi con una scossa vigorosa lo rovesciò sul tavolato. - Grazia, - poté appena balbettare il povero uomo che diveniva nero sotto il ferreo pugno del quartier-mastro. - Sta zitto e non ti verrà fatto alcun male, - rispose Hider. Gli affiliati ad un suo cenno lo legarono e lo imbavagliarono, trascinandolo dietro un grande ammasso di carbone. - Che nessuno lo tocchi, - disse Hider. - Ed ora andiamo a vedere se il capitano ha bevuto il narcotico. - E noi?- chiesero gli affiliati. - Non vi muoverete di qui, sotto pena di morte. - Sta bene. Hider accese tranquillamente la pipa e salì la scala. La cannoniera filava allora fra due rive completamente deserte, e il suo sperone fendeva gruppi di vegetali galleggianti. I marinai erano tutti in coperta e guardavano distrattamente la corrente, discorrendo o fumando. L'ufficiale di quarto passeggiava sulla lunetta, chiacchierando col mastro-cannoniere. Hider, soddisfattissimo, si stropicciò allegramente le mani e ritornò a poppa, scendendo la scala in punta di piedi. Presso la cabina del comandante accostò l'orecchio alla porta ed udì un sonoro russare. Girò la maniglia, aprì ed entrò dopo essersi levato della cintura un pugnale, per difendersi se fosse stato necessario. Il capitano aveva bevuto quasi tutta la bottiglia di limonata e dormiva profondamente. - Non lo sveglierà neanche il cannone, - disse l'indiano. Si slanciò fuori della cabina e discese nella stiva. Tremal-Naik e i suoi compagni lo attendevano colle rivoltelle in pugno. - Ebbene? - chiese il cacciatore di serpenti, saltando in piedi. - La macchina è nostra e il capitano ha bevuto il narcotico, - risposte Hider. - L'equipaggio? - Tutto in coperta e senz'armi. - Saliamo. - Adagio, compagni. Bisogna prendere i marinai fra due fuochi, per impedire che si barrichino sotto il castello di prua. Tu, Tremal-Naik, rimani qui con cinque uomini e io cogli altri raggiungo la camera comune. Al primo sparo salite sul ponte. - Siamo d'accordo. Hider impugnò una rivoltella nella dritta e una scure nella sinistra ed attraversò la stiva ingombra di cannoni smontati, di botti e di barilotti. Cinque thugs lo seguirono. Dalla stiva il drappello passò nella camera comune e salì la scala. - Preparate le armi e fuoco di fila, - comandò Hider. I sei uomini irruppero sul ponte gettando selvaggi clamori. L'equipaggio si slanciò a prua, non sapendo ancora di cosa si trattava. Un colpo di rivoltella echeggiò abbattendo il mastro-cannoniere. -Kâlì! ... Kâlì ... - urlarono i thugs. Era il grido di guerra degli strangolatori e fu appoggiato da una tremenda grandinata di palle. Alcuni uomini rotolarono sul ponte. Gli altri, smarriti, sorpresi da quell'improvviso attacco, che certamente non s'aspettavano, si precipitarono a poppa gettando urla di terrore. - Kâlì! ... Kâlì! - rimbombò a poppa. Tremal Naik e i suoi uomini s'erano slanciati sul cassero colle rivoltelle nella dritta ed i pugnali nella sinistra. Alcune detonazioni rintronarono. Una confusione indescrivibile accadde a bordo della cannoniera, la quale, senza timoniere, andava a traverso alla corrente. Gli inglesi, presi tra due fuochi, cominciarono a perdere la testa. Per fortuna l'ufficiale di quarto non era stato ancora ucciso. D'un balzo si gettò giù dalla lunetta colla sciabola in pugno. - A me, marinai! - urlò egli. Gli inglesi si radunarono in un baleno attorno a lui e si avventarono a poppa impugnando i coltelli, le scuri, le manovelle. Il cozzo fu terribile. I thugs di Tremal-Naik furono ributtati da quella valanga d'uomini. L'ufficiale di quarto s'impadronì del cannone, ma la vittoria fu di breve durata. Hider si era messo alla testa dei suoi e li assaliva alle spalle pronto a comandare fuoco. - Signor tenente, - gridò, puntando verso di lui la rivoltella. - Cosa vuoi, miserabile? - urlò l'ufficiale. - Arrendetevi e vi giuro che non verrà torto un sol capello né a voi, né ai vostri marinai. - No! - Vi avverto che abbiamo cinquanta colpi ciascuno da sparare. Ogni resistenza sarebbe inutile. - E cosa farai di noi? - Vi faremo scendere nelle imbarcazioni e vi lascieremo liberi di sbarcare sull'una o sull'altra riva del fiume. - E della cannoniera cosa vuoi farne? - Non posso dirlo. Orsù, o la resa o io comando il fuoco. - Arrendiamoci, tenente, - gridarono i marinai che si vedevano ormai in balìa di Hider. Il tenente, dopo d'aver esitato, spezzò la spada e la gettò nel fiume. Gli strangolatori si slanciarono sui marinai, li disarmarono e li fecero scendere nelle due baleniere, calandovi il capitano che ancora dormiva e l'ingegnere. - Buona fortuna! gridò il quartier-mastro. - Se ti prendo ti farò appiccare, - rispose il tenente, mostrandogli il pugno. - Come vi piacerà. - E la cannoniera riprese la corsa, mentre le imbarcazioni si dirigevano verso la sponda del fiume.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Non temete, - rispondeva con voce soffocata il bravo giovanotto, che non abbandonava la prua del veicolo dove maggiore era la pioggia dei ghiacciuoli, taluno dei quali gli lacerava il viso - guardo sempre. E la slitta scivolava, scivolava sempre più senza scosse, senza sbandamenti, senza deviare d'un solo centimetro sotto la robusta mano del tenente che non abbandonava il timone, lasciandosi a destra e a sinistra "icebergs" e "hummocks" e mettendo in fuga volpi, lupi e uccelli. Ben presto la sua velocità divenne tale che il tenente cominciò ad avere delle inquietudini. Oramai filava come un vero uccello, percorrendo non meno di cinquanta chilometri all'ora. Guai se si fosse trovata dinanzi ad un ostacolo o dinanzi ad una spaccatura del ghiaccio; l'urto l'avrebbe mandata in mille pezzi e i due uomini che la montavano non se la sarebbero cavata senza ossa rotte. A mezzogiorno il tenente stimò la distanza percorsa a centosessanta miglia, ma la costa americana non era ancora in vista, quantunque non dovesse essere molto lontana. - Fermiamoci! - disse al fiociniere. - Ammaina la vela. Koninson obbedì. La slitta, trasportata dallo slancio, percorse un buon miglio ancora, poi si fermò di fianco ad un alto masso di ghiaccio. Accesero la lampada che avevano portato seco loro, si prepararono un modesto desinare che in un baleno divorarono, indi rimontarono nel veicolo che riprese la corsa ma con minor velocità, essendo il vento un po' scemato. Alle 4 pomeridiane, dopo essersi più volte fermati per girare dei crepacci che erano stati scorti a tempo e per trascinare la slitta attraverso a ghiacci sollevati dalle pressioni, Koninson segnalava un'alta costa che, quantunque fosse tutta coperta di neve, non pareva una catena di "icebergs", e un pò più tardi, ad una grande distanza, mezze avvolte fra un fitto nebbione, scopriva delle vette che sembravano montagne. - Signor Hostrup! - esclamò con voce commossa. - È la costa americana! - disse il tenente, non meno commosso. - Così presto? - Abbiamo percorso oltre duecento e cinquanta miglia da stamane. Presto, fiociniere, cala la vela o ci sfracelleremo. Koninson si affrettò ad ubbidire. Dieci minuti dopo la slitta si arrestava a solo mezzo chilometro dalle sponde dell'America settentrionale.

Il primo si mostrava impazientissimo e imprecava contro l'oscurità; il secondo invece, uomo flemmatico quanto mai, quantunque non meno intrepido marinaio del capitano, appariva tranquillissimo e taceva fumando con tutta flemma in una vecchia pipa che quasi mai abbandonava. Anche Koninson e l'equipaggio erano in preda ad una viva agitazione, e ingiuriavano il cetaceo che non si lasciava accostare dalla nave, quantunque questa filasse con una notevole velocità avvicinandosi alle isole Aleutine, che ormai non dovevano essere molto lontane. Finalmente cominciò a far chiaro. Ad oriente apparve una luce biancastra che fece impallidire la luce degli astri e che gettò sui neri flutti delle tinte madreperlacee di bellissimo effetto. Il capitano attese ancora un po', quindi tornò a puntare il cannocchiale verso il cetaceo che allora si trovava a due miglia dal "Danebrog", ma quasi nel medesimo istante il gigantesco pesce, quasi indovinasse che qualcuno lo spiava, si tuffò. - Ah, brigante! - esclamò Weimar. - Ma non per questo mi sfuggirai. Ehi, mastro Widdeak governa dritto su quel briccone! Il mastro non si fece ripetere il comando e lanciò il "Danebrog" verso il luogo ove il cetaceo si era inabissato; ma passarono dieci, venti, trenta minuti, senza che apparisse a galla. - Non è una balena quella là! - disse il capitano. - Se lo fosse, a quest'ora sarebbe già tornata a galla. - È un capodolio, capitano - disse il tenente. - Non ci sono che questi cetacei che siano capaci di starsene quaranta, cinquanta e anche sessanta minuti senza respirare. - Niente di meglio. Alla balena preferisco il capodolio che dà maggior profitto. Ma come mai si trova qui? - Guarda! Guarda! - gridò in quell'istante Koninson. A cinquecento metri dal "Danebrog" si era visto alla superficie dei mare un largo tremolio, segno evidente che il cetaceo stava per risalire; poi apparve un punto nero, indi una massa enorme che gettò in aria due nuvolette di vapore grigiastro. Koninson gettò un grido: - Un capodolio! Un capodolio! Alle baleniere, ragazzi!

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il marchese e Ben si posero all'avanguardia sui due mehari e mezz'ora dopo la carovana abbandonava l'oasi, inoltrandosi nel deserto. A mezzodì dell'indomani i minareti di Tombuctu e le cupole delle moschee, indorate dal sole, si delineavano all'estremità della pianura sabbiosa. "Non una parola che non sia araba," disse Ben al marchese. "Se vi sfugge una frase in francese siete perduto, ricordatevelo." "Non temete, Ben," rispose il signor di Sartena. "Parlerò arabo come un vero algerino e pregherò come un ardente mussulmano." Nondimeno il marchese internamente non si sentiva tranquillo; ma ciò lo attribuiva alla commozione di entrare in quella misteriosa città che era stata la meta sospirata di tanti audaci viaggiatori durante l'ultimo secolo, molti dei quali erano stati uccisi dal fanatismo dei Tuareg prima ancora di poter mirare, e da lontano, le cupole ed i minareti delle moschee. Attraversati i bastioni la carovana, in bell'ordine, fece la sua entrata per la porta del settentrione. I kissuri, bellissimi uomini, armati di lunghi fucili a pietra e di jatagan che davano loro un aspetto brigantesco, dopo averli interrogati uno ad uno sulla loro provenienza e aver constatato che i cammelli erano carichi di mercanzie, li lasciarono proseguire, credendoli in buona fede mercanti marocchini. Fu però per gli europei e anche pei due ebrei un momento di viva emozione. Il menomo sospetto sulla loro vera origine e sulla loro religione sarebbe stato più che sufficiente per perderli, essendo rigorosamente vietato l'ingresso a Tombuctu ai non mussulmani, soprattutto agli europei. "Dove andiamo?" chiese il marchese a El-Haggar quand'ebbero oltrepassato la porta. "Vi sono dei caravan-serragli qui," rispose il moro. "Non saremmo liberi," disse Tasili. "Andiamo ad accamparci nel giardino del mio padrone. La casa è diroccata, questo è vero, però alcune stanze sono ancora abitabili." "Si, andiamo alla dimora di mio padre," disse Ben. "Desidero ardentemente vederla." "E poi il tesoro è là," aggiunse Tasili a bassa voce. Attraversarono parecchie vie ingombre di mercanti e di animali, aprendosi il passo con molta fatica, e guidati dal vecchio moro si diressero verso i quartieri meridionali della città, i quali erano i meno frequentati, i meno popolati, e anche i più diroccati, avendo molto sofferto dagli assalti dei Tidiani che avevano assediato la città nel 1885. Dopo una buona ora, il moro si arrestava dinanzi ad una casa di forma quadra, sormontata da tre cupolette molto slanciate, e costruita con mattoni seccati al sole. Parte del tetto era stata diroccata e anche le pareti mostravano larghi crepacci. Dietro si estendeva un giardino incolto, pieno di sterpi e ombreggiato da un gruppo di palme, cinto da una muraglia ancora in ottimo stato. "È questa la dimora di mio padre?" chiese Ben, non senza commozione. "Si, padrone," rispose Tasili. Fecero entrare i cammelli nel giardino, il quale era tanto ampio da contenerli comodamente tutti, poi il marchese, Esther, Ben e Tasili visitarono l'abitazione. Come tutte le case di Tombuctu abitate da persone agiate, questa nell'interno aveva un cortiletto circondato da un porticato con colonne di mattoni, ed una fontana nel mezzo. Le stanze, in numero di quattro, erano ancora abitabili, quantunque legioni di ragni e di scorpioni le avessero invase. Fecero portare le casse sotto il porticato e diedero ordine ai due beduini di sbarazzare le stanze dai loro incomodi abitanti, soprattutto dagli scorpioni, insetti molto pericolosi, i cui morsi talvolta riescono mortali alle persone. "Andiamo a vedere il pozzo," disse il marchese. "Non facciamo però capire ai beduini e nemmeno agli altri che là dentro si nasconde un tesoro," disse il prudente e sospettoso moro. "Sarebbero capaci di denunciarvi per impossessarsene." "Conosciamo quei messeri," rispose il marchese. "Quantunque finora non ci abbiano dato alcun motivo di lagnarci di loro. Vuoteremo il pozzo di notte e durante la loro assenza." Il pozzo dove Tasili aveva seppellito le ricchezze accumulate dal suo padrone si trovava nel mezzo del giardino, fra quattro palme dûm d'aspetto maestoso. Aveva un parapetto basso, formato da mattoni seccati al sole, e non misurava più di due metri di circonferenza. Le sabbie ed i sassi erano stati gettati in così gran copia dal vecchio moro, che giungevano a due metri sotto il livello del suolo. "Quanto dovremo scavare?" chiese il marchese. "Dodici metri," rispose il moro. "Altro che le casseforti! L'impresa sarà dura, ma la fatica sarà ricompensata largamente. A quanto stimate le ricchezze rinchiuse nella cassa?" "A due milioni di lire, signore." "Sarà necessario però cercare un'altra via per ritornare al Marocco." "Ci pensavo anch'io," rispose l'ebreo. "È una ricchezza troppo vistosa per esporla ai pericoli del deserto." "Volete un consiglio?" "Parlate, marchese." "Scendiamo il Niger fino ad Akassa. Le barche non mancano sul fiume; ne compreremo una e ce ne andremo da quella parte." "Assieme a voi, è vero, marchese?" chiese Ben, guardandolo fisso e sorridendo. "Sì," rispose il signor di Sartena, che lo aveva compreso. "Assieme a voi ed a vostra sorella." "Queste ricchezze non appartengono a me solo," prosegui Ben; "e guardate da due uomini che hanno fatto le loro prove nel deserto contro i Tuareg, giungeranno più facilmente al mare." "Le difenderemo contro tutti, Ben, ve l'assicuro." "Io la mia parte, voi quella di mia sorella. Vi conviene, marchese?" "Tacete e fermiamoci qui, per ora." Ben prese la destra del marchese e gliela strinse con commozione. "Che il sogno si avveri," disse, "ed io sarò il più felice degli uomini, come mia sorella sarà la più felice delle donne." "L'amo," disse il marchese, semplicemente. "È il destino che ci ha fatto incontrare." "Ed il destino si compia," rispose Ben con voce grave.

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Poi cominciava a camminare, e lui la seguiva con gli occhi intenti, movendo i passi macchinalmente, concentrato tutto nell'attenzione; ella radeva appena la terra, abbandonava i sentieri noti, penetrava tra gli alberi, appariva e scompariva, voltandosi a sorridere, lasciando che il lembo bianco del suo abito radesse l'erba, con un piccolo e lusinghiero mormorìo. Egli non osava parlarle, tremava, la voce gli moriva nella gola; bastava alla sua felicità contemplare ardentemente, con la fissità della follia, con gli occhi aridi che gli bruciavano, il suo amore che fuggiva dinanzi a lui. Ella girava, girava pel bosco, arrestandosi soltanto un minuto, chinandosi a carezzare i fiori, ma non cogliendoli, non lasciando traccia sull'erbetta calpestata; appena egli la raggiungeva, ella riprendeva la sua corsa. Lui dietro, senza sentire la stanchezza delle sue gambe che diventavano pesanti come il piombo; lui dietro, sostenuto dall'indomita volontà, eccitato, esaltato, sospinto all'ultima e più acuta vibrazione dei nervi. Fino a che, approssimandosi al castello, il celeste fantasma cessava di sorridere, ed una malinconia si effondeva dal volto gentile; poi, entrato nel cupo androne, volgevasi per l'ultima volta, salutava, agitando la mano, e scompariva. Lui non osava gridarle: rimani, rimani! e s'abbandonava sopra un banco, spossato, abbattuto, morto. - Perché non siedi a me daccanto, o dolce amor mio? Perché non mi ti accosti? Non temere, non mi appresserò troppo. Sai che t'amo, so che m'ami; so che dobbiamo troppo avvicinarci. E neppure puoi parlarmi: così vuole il destino. Ma io t'amo; tu sei il mio cuore. L'anima mia è fatta di te; non sono io, sono te; se io muoio, tu morrai; se tu muori, io muoio. Come sei bianca, o divina fanciulla! I tuoi occhi sono trasparenti e chiari, non mi guardano; le tue guance hanno appena una trasparenza rosea, le tue labbra sono pallide pallide, le tue mani sono candide come la neve, ed un fiocco di neve è il tuo manto. Hai tu freddo, cuor mio? Non sai che io ho la febbre, che il, sangue schiuma e bolle nelle mie vene, come un'onda impetuosa? Sorridi? Puoi calmarmi così. Quest'ardor che m'infiamma, questo incendio che divampa in me, solo la carezza della tua gelida mano potrebbe domarlo, solo il tocco delle tue gelide labbra potrebbe assopirlo. No! Non allontanarti, resta, resta per pietà di chi t'ama. Non ti chiederò più nulla, creatura bianca ed innocente. Tu leggi in me, vedi che sono puro, che il mio cuore è candido come la tua veste, che non lo macchia desiderio di fango. Non fuggirmi, non rivolgere il, volto celestiale; quando tu m'abbandoni, ecco, la vita declina, in me: tutto diventa buio, tutto diventa muto, ed io piango sul mio sogno distrutto, sul mio cuore desolato. Donde vieni tu? Dove vai, quando mi lasci? E perché mi lasci? T'amo, non lasciarmi. Non parlava la fanciulla nei colloqui i d'amore. Ella ascoltava immobile, bianca, pronta sempre a partire; ogni tanto un sorriso indefinito le sfiorava le labbra, una mestizia le compariva in volto; ma sorriso e mestizia erano spostamento di linee, non corrugamento di fronte o espansione di labbra; era espressione, luce interna, quasi una lampada soave s'accendesse dietro un velo. Non parlava la fanciulla, ma ogni giorno ella restava più a lungo con colui che l'amava. Egli le parlava lungamente, poi stanco, la voce gli si abbassava a poco a poco, poi taceva. La contemplava, estatico. Ella si muoveva per andarsene. - Non partire, non partire! - supplicava lui. Ella restava ferma innanzi a lui, i piedini bianchi come ale di colombo, appena posati a terra, coi capelli vagamente adorni di rose bianche, con un lembo di abito sostenuto da rose bianche. - Siedi, siedi accanto a me! Ella non sedeva, immota, guardando dinanzi a sé coi grandi occhi senza pupilla. - Parlami, parlami - mormorava lui. Ella non aveva voce, non si muovevano le labbra. Invano egli la pregava, la scongiurava, s'inginocchiava, ella non gli rispondeva. Era inflessibile e serena. Ma in un crepuscolo d'autunno, egli trovò le frasi più eloquenti per esprimere la propria disperazione: batté la fronte a terra, sparse le lagrime più cocenti, adorò la fanciulla. Ella parea si trasformasse; dietro il candore della pelle pareva che cominciasse a correre il sangue. Egli, folle, morente di amore, le offerse la sua vita per una parola. - M'ami? - Sì - parve un sussurrìo. Allora, in un impeto di passione, egli l'abbracciò. Un orribile scricchiolìo s'intese e la divina fanciulla cadde al suolo, frantumata in tanti cocci di porcellana candida. Nella notte profonda, quando i custodi dormivano, nella deserta sala delle porcellane cominciò un mormorìo, un bisbiglio, un'agitazione. Correvano fremiti da una scansia all'altra, attraverso i cristalli; voci irose e sommesse si urtavano, fieri propositi, progetti di vendetta cozzavan l'un contro l'altro. Poco a poco la calma si ristabilì: tutto era deciso. La sfilata cominciò. Prima fu l'Aurora bianca sul suo carro tirato da quattro cavalli candidi; e discesa nel giardino dove lui giaceva svenuto accanto al suo idolo infranto, maledisse per sempre le sue albe; la seguirono le ventiquattro fanciulle che sono le Ore, e sfogliarono rose avvelenate sullo svenuto; dopo vennero gli Amorini, e gli conficcarono nel cuore i dardi acuti e dolorosi. Il gruppo passò. Secondi vennero i sette re di Francia, bianchi, sui cavalli bianchi, Carlomagno, S. Luigi, Francesco I, Enrico II, Enrico IV, Luigi XIII, Luigi XIV; galoppando pei viali, toccarono con lo scettro, con la spada l'infelice, ed ogni colpo gli rintronò nel cervello. Poi ogni statuina s'avviò, gli sputò in viso, lo insultò, lo calpestò; ogni tazza fu piena per lui di cicuta, ogni vassoio di cenere, ogni coppa da fiori contenne per lui fiori malefici e crudeli. Ed infine si mosse il grande gruppo dei Titani che vogliono scalare l'Olimpo: Giove, seduto sull'aquila, fulminò il moribondo, ed i Titani lo seppellirono sotto enorme sepolcro di massi. Poi ognuno riprese la sua via, i gruppi rientrarono nelle scansie e vi rimasero immobili. Fu questa la vendetta della fredda e candida porcellana su colui che aveva frantumata la fanciulla immortale. È questa la storia eterna e fatale. L'ideale raggiunto, toccato, va in pezzi - l'arte si vendica sulla vita - e l'anima muore sotto un immane sepolcro.

CONTRO IL FATO

682607
Steno, Flavia 1 occorrenze

Egli pensava al suo amore lontano che non aveva potuto conquistare ancora, e il cui pensiero ormai non lo abbandonava più. - Grazie; - rispose dolcemente - voi siete molto buona, ed io vi sarò infinitamente grato.... O Yvonne, anch'io voglio provarlo il vostro amore, anch'io vi voglio mia per deporvi ai piedi tutti i tesori della terra, ed è appunto perché voglio godere la vita con voi, che vi chiedo prima di fare l'enorme sacrificio e d'aiutarmi nella mia vendetta. Io non avrò mai pace, finché essa non sia compiuta. - Dove mi condurrete? - chiese Yvonne esitando. - A Biarritz ora: vi piace Biarritz? - Non vi sono stata mai. Ed a chi dovrò piacere io? Il signor Rook esitò. Ella se ne avvide e: - Non avete dunque fiducia in me? - chiese. - Non siamo uniti per sempre? - Accettate, dunque? - chiese lui. - Poiché lo volete.... - ed essa aveva l'aria d'una vittima pronta pel sacrificio, rassegnandosi così. - Chi è il vostro nemico? - proseguì. - Il duca d'Eboli! - disse Willian senza più esitare. Yvonne aggrottò un poco le ciglia come pensando. - Non lo conosco - soggiunse piano. - Lo so. - E avete un programma? - interrogò lei, diventata più cinica del suo complice. - Perderlo. - In che modo, con quali mezzi? - Oh, non è un delitto! - disse lui sorridendo. Non avete che a farvi amare! Non sono tutti perduti gl'infelici incatenati dal vostro fàscino? - Non voi. - Un giorno forse perderete me pure. - Oh! - protestò essa. - Ma non abbiate paura. Quel giorno è ancora lontano, perché le miniere di Wyoming sono molto più forti dei tesori europei.... - disse con un certo orgoglio. - E se il duca resistesse? Il signor Rook sorrise. - Allora sarete la padrona della mia vita. Essa comprese la sicurezza e la fiducia immensa ch'egli aveva nel potere della sua bellezza. - Credete adunque ch'egli mi amerà? - Perché farvi ripetere ciò che tanti anni di esperienza devono avervi già detto? - Partiremo presto? - Domani se non vi disturba. Ho molta premura. - Va bene, domani. - Intanto - soggiunse lui, sovvenendosi del dono che aveva seco - permettetemi d'offrirvi questo misero attestato della mia profonda ammirazione e della riconoscenza che mi lega a voi. Essa diede un'esclamazione di meraviglia alla vista di quegli splendidi rubini, che brillavano come brace ardenti al fioco lume della lampada. Non aveva sbagliato accettando lo strano patto di William. L'americano era splendido, quelle gemme valevano un patrimonio. - E - disse ancora il signor Rook, traendo di tasca il libretto degli chèques - siccome la partenza, soprattutto così improvvisa, esigerà delle spese, non permetto certo che voi abbiate a sopportarle sola. Qui vi sono tanti chèques chèquesper cinquecentomila lire - disse staccandoli e deponendoli sulla tavola sotto una fotografia di Yvonne - forse vi basteranno sino a domani. Gli occhi della giovane donna ebbero un lampo di gioia infinita. Ah, quell'americano! - Troppo gentile, - sussurrò chinandosi verso di lui, offrendosi tutta con un invito provocante nello sguardo improvvisamente lascivo. Ma William sfiorò appena colle labbra quella fronte bianca, poi si alzò per uscire. - Ho fatto tardi e dovete essere annoiata, non è vero? - disse galantemente coll'aria d'un gentiluomo che parli ad una contessa. - Tutt'altro! non volete restare a colazione con me? - Come, non avete ancora fatto colazione? Ma io ho mangiato da più d'un'ora! - esclamò lui fingendosi desolato. Yvonne sorrise. - Debbo venire a prendervi per l'Opéra, stasera? chiese ancora William. - Sarà meglio ch'io vada a letto presto, se dobbiamo metterci in viaggio domani! - Come volete; arrivederci a domani, allora. Ella suonò, ma nello stesso punto Maria entrava colla nota di Beudy per la piccola commedia combinata. Yvonne comprese e sorrise. Era ormai inutile quella farsa! Altro che diecimila lire! E quando Maria ritornò in salotto, dopo avere accompagnato il signor Rook fino sul pianerottolo, essa esclamò mostrandole gli orecchini e gli chèques: chèques:- Finalmente eccone uno che paga e che non sarà geloso di certo!...

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IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

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Bertelli, Luigi - Vamba 1 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il maleficio occulto

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Zuccoli, Luciano 1 occorrenze

. - E per ciò abbandonava qui sua moglie, senza curarsene, in un paese isolato, con un ladro in casa? Ma aveva preveduto, aveva osato sperare?.... Anastasia capì e storse la bocca. - Chi sa? - disse. - Certo, se si fosse ammazzata da sé, a lui poco ne sarebbe importato: avrebbe pianto un po' e riso un pezzo, come si dice. - E veramente - seguitai, a bassa voce io pure con gli occhi fissi negli occhi della giovane, che ora vedevo bene - e veramente quella morte gli è stata utile? - Ma! - disse Anastasia. - Di roba d'avvocati io non m'intendo; ma quando era viva la baronessa, egli non poteva mettere la mano su tutto: e subito dopo si mise a vendere, case, mobili, quadri, terre qui, terre in Valtellina, come capitava, all'uno per cento. Io non volevo più rimanere al suo servizio: è stato il mio uomo che con la miseria d'oggi, ha dovuto cedere e continuare. Il barone vorrebbe vendere anche la villa, ma grazie a Dio, non gli riesce; non gli riuscirà mai.... Lì dentro c'è l'ombra della signora, e l'ombra non si vende...... Io mi volsi a guardar di nuovo la villa, che di nuovo Anastasia mi accennava. - Noi ci dormiamo tutte le notti - ella continuò - perché abbiamo l'anima tranquilla; e se la baronessa torna, non ci fa male. Ma c'è qualcuno che non ci potrebbe stare un minuto senza sentire la terra scottargli sotto i piedi..... Già: e voi dite che l'innocenza trionfa e il colpevole è punito, mormorai avvedendomi che quell'ingenua creatura aveva l'intelligenza pronta e lucida di chi ama. Anastasia chinò il capo, quasi colta in fallo. In fondo - susurrò - noi non sappiamo niente, e forse è tutta fantasia..... Forse - ripetei alzandomi, e appoggiandomi alla ringhiera del terrazzo. - Però si dice che l'abbia trovata, la donna ricca che cercava, e la sposerà fra poco. - Dev'essere una donna piena di coraggio - osservò Anastasia, facendo dell'ironia senza volerlo. Poi aggiunse quasi trasognata: - Pover'anima! Le auguro bene, speriamo! - Diamine! - esclamai, preso a un tratto dall'amara ebbrezza del sarcasmo. - Pensate che non debba esser felice neppur questa? Non sapete quanto è piacevole il barone, come sa innamorar le donne, come le circonda, le accarezza, le rapisce? Io non la conosco, questa signora che lo sposa; ma scommetterei che ne è innamorata pazza e che unendosi a lui farà la sua fortuna. E' giuocatore: perderà il vizio di giuocare. Ha lasciato ammazzare la prima moglie..... - Io non ho mai detto questo, cara Madonna! - obiettò Anastasia sbigottita. - Lo dico io: ha lasciato ammazzar la prima moglie; e che cosa importa? E' forse un Barba-bleu, un Orco, un antropofago? Non vorrà mica ingoiarsele tutte, coteste donne!.... M'interruppi, avvedendomi che Anastasia, venuta presso di me, mi guardava di sottecchi, trepidante e sollecita come innanzi a un mentecatto. - Scherzavo, - dissi. - Dopo tutto, che cosa può rappresentare per me e per voi questo imbroglio? Ci pensino quelli che ci si trovan dentro, non è vero?.... Guardate la luna com'è bella! Si udì il gorgogliar dell'acqua agitata dai pesci che salivano a inargentar di raggi pallidi le squame; e Anastasia guardò il lago attonita, indifferente allo spettacolo noto e famigliare. - Non vorrei - mormorò timidamente - ch'ella pensasse male di me. Mi ha parlato della mia povera signora e io avrò forse detto delle cattiverie; ma del barone io non so proprio nulla. Qualche voce, raccolta qua e là, qualche pettegolezzo del paese.... Poi, già c'è stato il tribunale, ed il tribunale ha giudicato, che sarebbe come dire che l'affare è finito e sepolto, e del barone nessuno ha mai detto niente.... Non è vero? - Parole d'oro, Anastasia - confermai sorridendo; e aggiunsi: che sarebbe come dire che io non ho udito nulla, che non vi ho mai vista, e che il barone è il primo barone del mondo. Va bene così? Allora, consolata, ella pure sorrise con un certo sorriso arguto da contadina furba e intelligente; e rimanemmo ambedue a guardarci, in silenzio appoggiati al medesimo ferro fragile, a viso a viso. - Devo andarmene, - dissi scuotendomi. - Domattina mi alzo presto. - Ha già finito tutto in paese? - domandò la giovane. - Sì; dovevo visitare una famiglia e portarle un'ambasciata: due parole..... Non insistetti più oltre, sentendo che l'invenzione era goffa, e vedendo le labbra di Anastasia schiudersi al medesimo sorriso di poco prima. - Addio, dunque. Salutatemi vostro marito, se gli dite che io sono stato qui.... Feci alcuni passi verso la scala di marmo, che dal giardino menava alla strada comunale; ma udendo sulla ghiaia il passo della giovane che m'accompagnava, mi rivolsi improvvisamente. La malinconia di lasciare quell'anima ignara, che aveva almeno la fedeltà per una morta, e il bei viso cupreo con la bella bocca corallina; e forse l'acredine del sangue per quell'altra donna che avevo perduta; queste cose lontane e vicine, sottili e volgari mi turbarono. Afferrai con le mani il volto di Anastasia e le diedi un bacio lungo sulla bocca sensuale. - Addio - ripetei, scendendo gli scalini. - Se ti avessi incontrata prima, forse ti avrei sposata. E aggiunsi tosto, ridendo: - Ma è meglio che t'abbia incontrata dopo!... Anastasia rientrò in giardino senza ridere e senza rispondere.

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