Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbandonato

Numero di risultati: 3 in 1 pagine

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Lo stralisco

208488
Piumini, Roberto 3 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Lucrezia, a volto alto, non fissava ormai piú l'angolo della tela che già il giorno prima, in certi affannati versetti delle lodi di san Macario, aveva abbandonato, ma gli occhi del pittore, che con i suoi pienamente le rispondeva, solo interrompendosi per silenziosi tocchi di pennello. Se avesse guardato quel che della tela poteva vedere, Lucrezia si sarebbe accorta che non era la stessa dei giorni passati: anzi era una tavola scura, piuttosto massiccia, come se Filippo avesse preferito dipingere ora su legno. Lo stesso modo della pittura non era quello dei giorni andati: fatto adesso di tocchi leggeri, vaganti, rapidi, lievemente concitati. Ma suor Marta a quello non badava: solo guardava, con lo sguardo fisso, gli occhi devoti del suo pittore. Nel maturo silenzio del mattino, ornato solo da strilli di rondini affaccendate nel piccolo cielo del chiostro, Filippo non stava dipingendo un volto, ma un busto di sposa: una veste di stoffa leggera, rosata, scollata a quadro su un collo bianchissimo, nel giro doppio di una collana di pietre rosse e azzurre. Attorno allo spazio del volto, si stendeva una chioma libera e mossa, gonfia di luce e trapunta di fiori nuziali. Era un ritratto di sposa senza volto, in cui mancava anche il più piccolo tocco di nero. Nonostante i lunghi sguardi a Lucrezia, Filippo niente dipingeva di ciò che vedeva, ma soltanto ciò che immaginava, e voleva. Lungo e silenzioso mattino: barbagli bianchi di cavolaie alla porta, come fiori incuriositi dell'opera muta; canti di uccelli nuovi fra lo strillo fervoroso di rondini; sotto a tutto, dallo spazio che splendeva oltre le mura del monastero, sterminato frinío di cicale. Nessun suono usciva, invece, dal tremito solerte delle labbra di suor Caterina, che a tratti chiudeva gli occhi, e gonfiava l'invisibile petto, sotto la stoffa bruna, di penitenziali cospirazioni. Immobile negli occhi di Filippo, Lucrezia si stordiva al canto degli uccelli, al profumo delle rose che veniva dal chiostro, al ronzìo solare degli insetti che, capitati alla finestrella, fuggivano presto da quello spazio freddo e inerte, verso pollini e colori. Era affascinata dal fervore dell'opera, dalla propria emozione: respirava in silenzio, calma di una gioia paziente. Le campane del duomo di Prato, un po' lontane, suonarono il culmine del giorno. Filippo alzò la faccia verso suor Caterina, immobile statuetta di legno presso il muro, intenta al suo muginìo. Riaprendo gli occhi da una di quelle brevi abluzioni nel buio, lo vide farle un cenno di richiamo, discreto come ogni cosa della mattina, e spostarsi davanti al cavalletto. Con un piccolo balzo la monaca scese dal trespolo, e gli andò vicina. — Suor Caterina, — bisbigliò a voce calda il pittore, — per l'ultimo tocco mi occorre un po' d'olio, di quello puro... Mentre esco a respirare nel chiostro, potresti tu, che sai a chi e dove chiedere, portarmene una boccettina? Ma senza spreco: due soli cucchiai. Senza aspettare assensi, Filippo arretrò fino alla soglia e uscí nel chiostro sempre tenendosi a vista, per togliere alla monaca ogni possibilità di guardare il dipinto. E suor Caterina lo seguí, come trascinata, ancor prima di considerare che avrebbe agevolmente potuto tenerlo d'occhio dalla cucina non distante: e mosse le corte gambe lungo il porticato, abbagliandosi a tratti per il sole. Ora Lucrezia era sola. Una vampata le corse il volto, il collo, il corpo intero: un caldo capogiro la stordí. Chiuse gli occhi, per togliersi la tavola dall'anima, lí a tre passi soltanto: ma li riapri subito, come le palpebre avessero sfiorato spine. Sperò che suor Caterina tornasse; sperò persino che il pittore, venendo a far qualche ribalderia, la obbligasse al rifiuto, allo sdegno... Ma suor Caterina, adocchiando dalla cucina Filippo che fiutava languido rose, non si affrettava, e scambiava qualche parola con la suora pentoliera, che era tra le sue confidenti e curiosa quanto bastava della faccenda di pittura: tanto che quell'olio avrebbe potuto gocciar piú presto dalle olive, che a esser tirato, come lo si tirava, dall'orciolo. E Filippo, compiaciuto del tempo, si crogiolava nello sguardo della monaca: sedendo persino a braccia conserte su una panchinetta di pietra, e chiudendo gli occhi al sole, come per riposarli un poco. Là dentro, Lucrezia si sentiva tirare anima e capelli verso il ritratto, abisso quadrato nella luce della soglia. E nessuno tornava. Suonò la campana a Duomo, come dire che l'attimo passa, e non è eterno il tempo delle creature. Tremando si alzò. Barcollò passi, aggirò il cavalletto, guardò, vide: una figura splendente, nuziale, un canto gioioso di colori e bellezza: e al centro della festosa immagine il suo volto, ma non dipinto, giacché Filippo non aveva lavorato su tela, né su legno, ma su finissima lastra di specchio. Fra veste e capelli, fra collana e fiori di serto, Lucrezia vide il proprio volto malconosciuto: mobile, splendente, arrossato, sorpreso e ridente volto di sposa. Quando suor Caterina tornò, svegliando al passaggio il finto sopito con uno stropiccio di gola, ed entrò abbassando la testa per non vedere nemmeno di sfuggita il ritratto, e posò l'ampollina d'olio sul tavolo di Filippo, Lucrezia sedeva al suo posto, quietamente. E allora rientrò il pittore dal chiostro, con un petalo di rosa fra le dita macchiate di vernice bruna. Guardò Lucrezia, vide uno sguardo di pianto felice. Guardò il dipinto, e notò sullo specchio, nella parte vuota del volto, l'impronta fresca e ancora vaporante di un bacio. Un bacio a sé, al ritratto incantato, a lui stesso? Non importava: era dato.

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Si perse a guardare una luna dorata che a destra, sulle colline della sponda opposta, si spingeva lentamente nel cielo appena abbandonato dagli echi rossastri del sole. Sentì un rumore nella stanza dietro di sé. Pensò che i servi fossero tornati ad accendere le lampade. Anche nella città sotto di lui e nei piccoli villaggi lontani al di là dello stretto, luci di fiamma si accendevano, come frammenti di sole che solo ora, nell'ombra crescente, si facessero notare. Senti alle spalle due leggeri colpi di mano: un frammento d'applauso. Si voltò, incuriosito: e vide a tre passi Maometto, in una liscia veste dorata; al posto del turbante aveva una piccola calotta di seta nera. Due passi dietro all'Imperatore, un po' di lato, stava un personaggio sconosciuto, alto e magro, completamente vestito di scuro, con braghe a fascia aderenti, spada e pugnale appese ad una cinghia di pelle nera che gli attraversava il petto. Gentile, col fiato sospeso, non disse parola. L'Imperatore sorrise, e senza muovere le mani unite davanti al ventre, piegò appena la testa di lato. Poi disse con voce profonda: — Ospite, non spaventarti per la mia visita inattesa: nulla ti minaccia. Considera questo, dopo la parata di oggi, il mio vero e fraterno benvenuto. Gentile goffamente apri le braccia, in un vago gesto di ringraziamento e accoglienza. — Mi cogli impreparato, Signore, — disse. — Qui ogni cosa è tua, né io conosco questa casa abbastanza da saperti offrire qualcosa, come ad un ospite conviene... — Godiamoci dunque senza altre preoccupazioni la stupenda luna, che non appartiene a nessuno, eppure si mostra a tutti con la meravigliosa intimità di una sposa, — disse Maometto, avvicinandosi al pittore, e voltandosi accanto a lui verso il quieto e vasto luccichío dei Dardanelli. L'uomo vestito di nero, ombra silenziosa, rimase alle loro spalle, immoto. — Il mio accompagnatore non è muto, — disse l'Imperatore, — ma è come se lo fosse. Non è sordo, ma è come se lo fosse. È piú fedele a me di quanto sia la mia stessa mano: e della mia mano è anche piú saggio e preciso. Non inquietarti per la sua presenza: egli è solo in certo modo presente. Gentile tornò a guardare la luna. Anche Maometto, accanto a lui, la guardò per un lungo momento: come se lassú ci fosse, svelabile allo sguardo, il modo giusto per dire le parole.

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Potrebbe forse il piú eloquente degli uomini descrivere a un cieco l'immensità del mare, la luminosità dell'alba, lo struggimento di un tramonto, o la gioia di un piccolo che torna a vedere la madre dopo essersi creduto abbandonato? Come potrei io, seppure con parole innamorate, descrivere qualcosa di ancora piú grande e forte: un mistero che, per quanto guardi e scruti, io non capisco e in cui continuamente mi perdo? Dunque, tu vedrai gli occhi di Amilah: il modo e il luogo, li saprai al momento opportuno.

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