Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

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Il ponte della felicità

219086
Neppi Fanello 3 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Già si sapeva che nella notte del 5 ottobre i Turchi, spiegando i trinchetti, avevano abbandonato Lepanto e, attraverso il golfo di Corinto, si apprestavano a incontrare i nemici. L'armata cristiana aveva raccolto le forze maggiori al centro, intorno alle capitane dei tre generali: don Giovanni d'Austria, con la reale nel mezzo; Marc'Antonio Colonna e la capitana di Savoia, a destra; a sinistra il Veniero, con a lato la capitana di Genova. Ultime venivano quelle di Malta e della Lomellina. Sessantuna galee che inalberavano bandiera azzurra circondavano le navi ammiraglie. Alla destra di questo schieramento si raggruppavano cinquantatrè galee, con insegna verde attaccata alla punta dell'antenna, ed erano comandate da Giovanni Andrea Doria; a sinistra, altre cinquantatrè galee, che spiegavano bandiera gialla al calcese, erano agli ordini di Agostino Barbarigo. Precedevano le galeazze veneziane, munite ognuna di quattrocento archibugieri, sessanta cannoni, fuochi artificiali, e governate da Francesco Duodo, Andrea Pesaro, Pietro Pisani, Antonio e Agostino Bragadino, Giacomo Guoro. Alla retroguardia, pronte al soccorso, il marchese di Santa Cruz comandava trenta galee che inalberavano bandiera bianca al calcese. Su quelle navi che si apprestavano alla lotta sotto l'insegna di Cristo erano presenti i più bei nomi d'Italia e di Spagna. Principi illustri avevano abbandonato la reggia, con il cuore infiammato di fede; membri di nobilissime famiglie avevano lasciato senza un rimpianto gli agi dei loro castelli per militare nell'armata cristiana. Alessandro Farnese, principe di Parma, ubbidiva a Ettore Spinola, sulle galee di Genova; Francesco Maria della Rovere, figlio di Guidobaldo duca di Urbino, si era imbarcato sulla capitana di Savoia, agli ordini dell'ammiraglio Legni. Don Giovanni d'Austria, dopo aver disposto lo schieramento in maniera che tra galea e galea rimanesse tanto poco spazio che un'altra nave non potesse passare, diede ordine di alzare sulla reale lo stendardo della Lega, innanzi al quale si ammainarono tutti gli altri stendardi. Indi scese in un'agile fregata e si diede a percorrere l'intera linea della battaglia, incitando i suoi uomini a combattere gagliardamente. Passata in rassegna la flotta, l'ammiraglio supremo, prima di tornare alla sua nave, si fermò presso la capitana del Veniero per salutare il prode e bollente alleato. Ritto sulla poppa, a capo scoperto ma armato di tutto punto, il condottiero veneto rispose cordialmente al saluto. Un'ombra di titubanza si leggeva in quell'istante sul viso di don Giovanni d'Austria. Tremava forse al pensiero della grande responsabilità che prendeva sopra di sè? O qualche dubbio all'ultimo momento era sorto nella sua mente? D'improvviso la sua voce risonò alta, dominando il canto solenne del mare. - Che si combatta? - chiese al Veniero. È necessario, nè si può evitare, - gli rispose il vecchio guerriero. L'ombra scomparve dal viso dell'ammiraglio supremo. Un ultimo saluto, e l'agile fregata raggiunse la nave reale. Il dado era tratto. L'armata turca, intanto, ammainati i trinchetti, a voga arrancata e in formazione di mezzaluna, si spingeva innanzi contro i cristiani per aggirarli. Ma le galeazze veneziane dell'avanguardia, con le loro terribili artiglierie, tempestarono e sgominarono le galee turchesche, sventandone il piano e obbligandole a disserrare le file. Qualche attimo di sosta. Nel silenzio sopraggiunto, il vento, che fino allora aveva soffiato in favore dei Turchi, cessò di agitare le vele, il mare divenne tranquillo come un lago e il cielo sorrise, radiosamente azzurro. In mezzo a tanta serena dolcezza le due potenti armate si affrontarono. Il silenzio dell'atmosfera .... il vecchio.... passava, guidando e incitando. venne infranto dallo strepito delle armi, dagli urli degli assalitori, dal gemito dei morenti. Pareva che un'ebbrezza di morte si fosse impadronita di quelle ciurme assiepate; la terribile furia del fuoco e del ferro distruggeva ogni cosa. Prora contro prora, la galea di don Giovanni d'Austria e la capitana di Alì, generale supremo dell'armata turca, si batterono accanitamente.... Vuoti paurosi si aprivano nelle file degli archibugieri sardi e in quelle dei fanti turchi. La vittoria era incerta, allorchè Sebastiano Veniero, non ancora assalito dai nemici, spinse la sua galea in avanti per accorrere in difesa della reale. Fiero sopra tutti i suoi uomini, i candidi capelli al vento, corruscante l'armatura, il vecchio guerriero, con una balestra in mano, passava, guidando e incitando. I suoi sguardi erano terribili, la sua voce, imperiosa. Ma, quando si curvava sul ferito o sul moribondo, era l'immagine vivente di un padre che calma e conforta. La lotta asprissima sembrava centuplicargli le forze. Una freccia gli attraversò un piede. Per un attimo vacillò, e le braccia del nipote, che gli stava sempre al fianco, furono pronte a sostenerlo. - Non è nulla, Lorenzo, - mormorò, soffocando lo spasimo. - Presto, presto, all'arrembaggio! - soggiunse immediatamente, scorgendo una galea nemica che correva in aiuto di Alì. Ma prima che quella potesse raggiungere la mèta, un'altra nave, vogando disperatamente, le tagliò l'assalì passo e assalì con furia. - È la Santa Cattarina, - mormorò il vecchio condottiero, sorridendo, compiaciuto. - Buon sangue non mente! - La lotta prosegui sanguinosissima. Alla fine i veneziani e i pontifici, facendo impeto sul centro nemico, riuscirono a rompere il grosso della flotta turca e a uccidere Alì pascià. Quando le superstiti galee della mezzaluna seppero la fine del loro capo, con mossa improvvisa si gettarono sulla linea destra alleata, affondarono le navi dei cavalieri di Malta, e attraverso il varco così aperto si diedero alla fuga. La gigantesca battaglia promossa da Pio V, come una nuova crociata, era finita. Dopo quattr'ore di accaniti combattimenti si era conclusa con la vittoria delle armi alleate. Questo trionfo era stato pagato a duro prezzo giacchè, se pari era stata l'ira da una parte e dall'altra, pari ne era stato anche il valore. Si poteva ben dire che Lepanto rappresentava la sfolgorante luce che rompeva le tenebre onde era avvolta l'Europa cristiana. Sulle onde insanguinate rottami di ogni genere andavano alla deriva. Il cielo aveva perduto la sua azzurra trasparenza e una cavalcata di grige nuvole si affacciava a ponente. A poppa della reale un frate pregava per gli eroi che il Mediterraneo aveva trascinati nelle sue profondità misteriose. Quanti erano? Molti. Ogni regione d'Italia poteva vantare l'onore di aver dato la vita di qualche suo figlio; ma l'Europa era stata salvata dalla barbarie maomettana.

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L'immaginazione di Loredana correva allora a quelle contrade straniere dovè suo padre viveva, ormai abbandonato da tutti, senza più speranza di ritorno, e dove Alvise e Zuambattista Benedetti dormivano il loro ultimo sonno. Ella si era fatta coraggio per sua madre, che ignorava sempre la grande sciagura, e per nonna Bettina il cui viso diveniva ogni giorno più pallido e affilato. Ma che cosa ne sarebbe stato di lei se nel mesto cammino della vita non si fosse incontrata con Teodora? Eccola lì, davanti al clavicembalo l'amica delle ore tristi, intenta a suscitare, con il tocco delle agili mani immagini fluttuanti nello sconfinato mondo dei sogni! In un momento particolarmente doloroso Teodora l'aveva presa per mano e l'aveva sollevata dal baratro di disperazione nel quale minacciava di perdersi. Era stata l'angiolo mandatole in aiuto dal buon Dio. Le note del clavicembalo sfarfallavano soavemente .... Teodora eseguiva qualche pezzo di musica.... nel tepore del salone patrizio, ma Loredana era lungi di lì con la mente. Si rivedeva, accompagnata da Teodora, varcare la soglia dello studio di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, che doveva diventare la sua guida e il suo maestro lungo il difficile cammino dell'arte. Quanta trepidazione nel suo cuore, in quei primi istanti! Poi la casa del pittore, a San Marcilian, presso il campo di Santa Fosca, era diventata il centro di attrazione per Loredana. E non soltanto per l'affetto che le dimostrava il Tintoretto, arrivato allora alla piena maturità della vita e dell'arte, ma anche per la presenza della figlia di lui, una fanciulla undicenne, bionda e rosea, vivace e birichina, dal cuore d'oro e dall'intelligenza sveglia. Marietta Robusti era la prediletta del grandissimo pittore che, instancabile, andava arricchendo di capolavori immortali la sua città nativa. Fino a qualche mese prima egli aveva fatto indossare alla figliuola abiti maschili, per essere accompagnato da lei nelle sue peregrinazioni attraverso la città, dovunque lo chiamavano incessanti impegni professionali, persino sulle impalcature e sugli assiti, nei palazzi pubblici e nelle chiese. E codesto travestimento, dal quale erano derivati talvolta degli equivoci spassosi, aveva contribuito a sviluppare in Marietta un certo spirito di iniziativa e molta disinvoltura nei modi; fin che il suo precoce orientamento verso l'arte stessa del padre e verso la seduzione del canto e del clavicembalo ne aveva ingentilito il carattere e il contegno. Allora il buon Jacopo, in pieno accordo con la moglie Faustina, aveva lasciato libero corso ai diritti della femminilità sul guardaroba e sulle acconciature della sua cara figliuola. A interrompere la quiete delle due artiste entrarono improvvisamente Mariolina Corner Contarini e Ludovica Vendramin Calergi, amiche di Teodora. - Che cosa state facendo, rinchiuse come due bruchi nel bozzolo, mentre fuori splende il sole e il carnevale invita alla gioia? - chiese con voce squillante Mariolina, una fanciulla quindicenne, biondissima e vivacissima. Ludovica Vendramin Calergi si era fermata davanti al ritratto di Teodora. - Come ti somiglia! - esclamò con la sua voce un po' strascicata. (Al contrario di Mariolina, essa aveva un carattere pacato e riflessivo, forse un tantino indolente.) - Voglio dire al babbo che desidero anch'io un ritratto eseguito da Loredana Sagredo, - prosegui, continuando ad ammirare l'opera d'arte che le stava di fronte. - Anch'io, anch'io! Loredana, domani verrai a casa mia e cominceremo subito le sedute, - squillò Mariolina con il suo facile entusiasmo e sicura di essere contentata dai genitori. In virtù del suo temperamento allegro, pieno di comunicativa, e anche perchè era la maggiore di una turbolenta schiera di maschietti, otteneva invariabilmente tutto quello che voleva. - Ma tu mi rubi sempre le idee! - esclamò la Vendramin Calergi, alquanto risentita. - Via, non t'inquietare, cara Ludovica! Non ho certo l'intenzione di accaparrarmi la nostra brava Loredana per tutta la vita. - Capisco! Ma intanto io debbo venire sempre dopo di te! - Non ti ammalerai per questo, stanne sicura! - Calma, calma, amiche mie! - disse a questo punto Teodora. Doveva intervenire spesso nelle dispute delle due fanciulle così diverse nel fisico e nel morale. - Mi pare che sia già l'ora della regata. Vogliamo uscire sul balcone per assistere allo spettacolo? - soggiunse poi, per allontanare definitivamente le nubi che minacciavano di addensarsi. La proposta venne accolta con entusiasmo e le quattro fanciulle, incappucciate ben bene per preservarsi dai rigori del gelo, aprirono la porta ogivale e uscirono sul balcone da dove lo sguardo spaziava sul Canal Grande. Le regate, promosse e incoraggiate dal Governo affinchè la gioventù si rafforzasse con l'esercizio fisico e potesse fornire buoni vogatori alle sue flotte, erano antiche quanto Venezia. Costretto a vivere sulle acque, il popolo veneto comprese fin da principio che saper remare era per lui una necessità di vita, e vi prese parte con grande entusiasmo. Questa gara atletica, chiamata la regata, posta in onore da Venezia e diffusa poi in tutto il mondo, costituiva uno spettacolo grandioso, molto ammirato anche dagli illustri ospiti di passaggio nella Repubblica di San Marco. Le barche che dovevano parteciparvi erano raccolte e allineate alla Motta di Sant'Antonio; di lì partivano, e dopo aver percorso il bacino di San Marco e tutto il Canal Grande, giungevano a Santa Chiara. A questo punto, giravano intorno a un palo confitto nel mezzo del canale, rifacevano il percorso fino a San Donà, dove trovavano il traguardo; una tribuna galleggiante lussuosamente addobbata. Lì avveniva la premiazione. I premi consistevano sempre in somme di denaro che venivano date ai vincitori, chiuse in borse di cuoio. Il primo arrivato riceveva inoltre una bandiera rossa; il secondo, verde; il terzo, azzurra, e il quarto, gialla. Su quest'ultima era dipinto nel mezzo un bel porcellino: effigie dell'animale vivo offerto a colui che l'aveva meritato. Allorchè le quattro giovinette posero piede sul balcone di casa Pisani Moretta, nei palazzi sul Canal Grande, sulle rive e sulle innumerevoli imbarcazioni addossate ad esse, si era ammassata una folla enorme per assistere allo spettacolo. Già le bissone, le margarote e le balotine, come venivano chiamate le barche della polizia. che aveva il compito di tenere sgombro lo specchio d'acqua necessario alla gara, si cominciavano ad addob bare per rendere più bello lo spettacolo. Poi, riunite in corteo, prima che la gara tradizionale avesse inizio, si avviarono per scortare il Doge e la Signoria verso la tribuna galleggiante dove le Autorità si sarebbero accomodate per assistere allo spettacolo. Il freddo era intenso, ma il sole splendeva luminoso, e sotto la sua carezzai i ghiaccioli si scioglievano in tante minute goccioline che cadendo nelle acque dei canali producevano un sussurro orchestrale. Teodora Pisani Moretta lo ascoltava, rapita, mentre Loredana Sagredo s'inebriava dei colori smaglianti sventagliati sotto il cielo d'opale.

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In quei tragici istanti il padre non aveva abbandonato la sua creatura. La stretta del suo valido braccio si era fatta più forte e aveva sostenuto Alvise, lo aveva riportato a galla; poi i suoi muscoli cominciarono a stancarsi. Al vivido tremolare di un lampo egli scòrse il rottame di un'alberatura. Verso quel legno, che poteva essere l'unica salvezza di Alvise, il padre nuotò con il braccio che aveva libero. Ma la lotta per impossessarsene fu lunga, estenuante. Quando egli credeva di averlo raggiunto e stava per afferrarlo, un'onda glielo ricacciava lontano. Allora ricominciava, sempre trascinandosi dietro il dolce peso del figlio. L'amore paterno gli centuplicava le forze. Per riprendere coraggio, egli guardava di tanto in tanto gli occhi di Alvise, quei cari occhi che rispondevano fiduciosi al suo sguardo. Fili d'alghe si erano impigliati tra i riccioli bruni del giovane, e il padre delicatamente glieli tolse. Tanti e tanti anni sembravano annullati. Zuambattista. Benedetti stringeva tra le braccia il suo piccino, ritratto vivente della sposa scomparsa. E andavano insieme, così. Finalmente un'onda spinse verso di lui l'alberatura spezzata. Con uno sforzo disperato l'afferrò e la tenne stretta al proprio cuore palpitante. Ma a un tratto • sentì che la sua resistenza era agli estremi. Stringendo i denti, nello spasimo di tutte le membra irrigidite, il capitano riuscì a far aggrappare Alvise al rottame della Santa Cattarina; poi si tolse la cintola dalla casacca, e con quella legò strettamente il giovane all'albero spezzato. - Addio, Alvise, e Dio ti accompagni! - mormorò Zuambattista Benedetti, mentre tracciava un gran segno di croce con la mano stanca. Il vento rubò e disperse le parole paterne. Alvise non le udì. Ma la benedizione rimase sul capo del figlio e l'accompagnò in quella tragica avventura, come un viatico, come una speranza, come una preghiera accolta dall'Altissimo.

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