Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbandonato

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Passa l'amore. Novelle

241490
Luigi Capuana 4 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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La baronessa e le figlie, quando il barone più non comparve in casa, erano rimaste atterrite del loro audace tentativo e avevano abbandonato la domanda d'interdizione. Ercole riprendeva le sue caccie; Marco non lasciava in pace la baronessa perchè gli desse i mezzi di costruire in casa loro il gran mulino di sua invenzione; Feliciano avea sostituito il padre nell'amministrazione, duro e inesorabile coi fittaioli della dote della madre, fissato anche lui nell'idea di liberare tutte le proprietà di famiglia dalle onerose ipoteche che assorbivano il fruttato. Si rivelava della pura razza dei Zingàli, ostinato; testardo,imperioso fin con la madre, che non osava di resistergli. - Egli sa meglio di noi quel che fa! - diceva la baronessa a Rosaria, che spesso borbottava contro il fratello. Una schietta Zingàli anche lei, muta, impenetrabiie, con quegli occhi che mettevano sgomento quando restavano fissati nel vuoto, quasi attratti da paurose visioni che gli altri non potevano vedere. Da che il barone aveva abbandonato la casa, ella aveva voluto occupare la stanza di lui. - Non hai dunque paura di dormir sola colà? - le disse la madre. - No. Durante la giornata, la madre la voleva in camera, anche pel rosario e per le altre preghiere in comune, quando il canonico Rametta veniva a confessare, al solito, la signora baronessa, e a discorrer di cose sante e di pettegolezzi. Il canonico avea creduto che l'assenza del barone avrebbe vivificato un po' l'aspetto triste e opprimente di quella casa e il santo prete vedeva ora quasi con rimorso che la tristezza si era piuttosto aumentata. Quell'uomo che stava rinchiuso nella sua stanza, sepolto tra le vecchie scritture, di nient'altro occupato all'infuori di esse, avea lasciato un gran vuoto nel vasto palazzo, di cui il povero canonico non si sapeva rendere ragione. - Nessuna notizia? - domandava timidamente alla baronessa. - Nessuna! - Nessuna! - ripeteva Mariangela, alzando al cielo le pupille stanche e trasognate. - Il Signore gli aprirà gli occhi, gli rammollirà il cuore! Preghiamo per lui! - replicava il canonico. Rosaria aggrottava le sopracciglia, si mordeva le labbra carnose, e non si capiva se per isdegno o per rimpianto dell'assente. Spesso, durante la conversazione, si alzava tutt'a un tratto da sedere e andava a rinchiudersi nella sua nuova stanza. Una mattina Mariangela l'avea sorpresa bocconi a traverso il letto, soffocata da singhiozzi. Le mani brancicavano convulsamente le coperte, e nell'agitarsi scomposto della testa le nere e lunghe treccie le si erano disciolte ed arruffate. - Oh, Dio!... Che hai? Rosaria!... Al grido della sorella, ella si era rizzata rapidamente, buttando indietro con le mani i capelli che le ricadevano su la faccia e su le spalle; e spalancando gli occhi, avea portato l'indice alla bocca, imponendo silenzio. - Non dir nulla alla mamma!... Non è niente!... Manda a chiamare il canonico Rametta.... Ho bisogno di lui.... Voglio confessarmi.... Non dir nulla alla mamma! Bada; non dirle nulla! Mariangela, sbalordita, spaventata, aveva atteso il canonico in cima alla scala, e lo aveva fatto entrare in punta di piedi, perchè la baronessa non si accorgesse della venuta di lui. - Lasciaci; va di là, - Rosaria aveva ordinato alla sorella. - Cattive notizie? - domandò allora il canonico. Rosaria, chiuso l'uscio e messo il paletto interno, si fermò in faccia al sacerdote, che la guardava, aspettando ansioso la risposta. - Sono dannata! - ella esclamò portando le mani attorno alla bocca, a fin di reprimere il suono della voce e renderlo nello stesso tempo più vibrante. - Dannata? Figliuola mia! Dannata? Ella lo spinse su la seggiola a bracciuoli presso il tavolino e gli cadde davanti in ginocchio. - Dannata?... Non è possibile!... Che hai fatto da dover disperare del perdono di Dio? Oh, figliuola mia!... China con la testa rovesciata in giù, coprendosi la faccia con le mani, Rosaria ripeteva straziante: - Dannata!... Dannata! Il confessore le accarezzava i capelli, tentava di confortarla. - Parla, figliuola mia! Ora sei davanti al cospetto di Dio.... Dimentica la miserablle persona del suo indegnissimo servo.... Parla! Mai il canonico Rametta, da che era stato autorizzato ad amministrare il Sacramento della penitenza, mai si era trovato davanti a una scena simile; e tremante, smarrito, non sapeva in che maniera indurre quella figliuola a calmarsi. Terribili, incredibili cose aveva poi udito. - Tu, figliuola mia?... Tu hai invocato il diavolo?... Perchè? Come? E Rosaria, a testa china, con la faccia tra le mani che a stento lasciavano passar libera la parola, aveva rivelato il segreto che da due anni le gravava sul cuore, e che aveva formato la sua felicità e la sua disperazione nello stesso tempo; quel terribile segreto che più volte le era parso avessero indovinato o volessero indagare la madre, la sorella, i fratelli, e che ella aveva per ciò più rabbiosamente calcato in fondo al petto!... Ma ora.... ora non ne poteva più! E così dentro quella buia sepoltura della loro casa era penetrato un raggio di sole. Ella aveva amato, forse riamata!... Perchè, perchè il Signore l'aveva fatta nascere una Zingàli? Per questo, colui non aveva mai osato farlo sapere direttamente.... E forse anche per lo stato della loro famiglia! - Come lo hai dunque saputo, figliuola mia? - Un accenno, due parole dettemi da una povera donna.... - Quali, figliuola mia? E udendo l'ingenuo racconto, l'esperto confessore capiva a poco a poco quale pertinace lavorìo della giovanile immaginazione aveva potuto intessere la fallace lusinga di quell'amore nel silenzio, nella penombra, nella solitudine di quei malinconici stanzoni, dove i suoni della vita che ferveva fuori giungevano ammortiti, affievoliti o non arrivavano affatto. E per ciò ella si era ribellata al destino; per ciò avea protestato contro la tirannia di Gesù Cristo che la condannava a essere una Zingàli, cioè un'ombra, un fantasma, un nome e nient'altro. - Sì, sì padre!... Ho maledetto Gesù!... Ho maledetto la Madonna! - E hai mentito nella confessione? E ti sei cibata sacrilegamente delle carni immacolate del Redentore? - Sì, sì padre!... Un giorno, rovistando uno scaffale di vecchi libri, dietro i volumi in foglio legati in pergamena, aveva trovato un libro involtato in un foglio di carta e sigillato. Ingiallito, squadernato, senza frontispizio, con strane figure quasi a ogni pagina, quel volumetto aveva tentato la sua curiosità. Sigillato con cinque larghi sigilli, nascosto colà, dietro agli altri libri, era dunque qualcosa di vietato? E se lo era portato in camera, e lo aveva nascosto tra le materassa del suo lettino, sotto il capezzale.... E la notte, fingendo di dir le preghiere, si era messa a leggere.... - Diceva: Modo di far apparire nella propria camera la persona amata. Si doveva recitare per tre notti consecutive una lunga preghiera latina.... Adonai, omnipotens sempiterne Deus.... La so tutta a memoria! - Il demonio, figliuola mia!... Il demonio!... - Che m'importava? Abbandonata da Dio, mi rivolgeva al diavolo, che almeno mi prometteva quella felicità.... Ah sono stata ingannata anche da lui!... Mi sentivo morire dal terrore, e leggevo, leggevo quella preghiera di cui capivo soltanto poche parole, con la fronte bagnata di sudore diaccio, col cuore che quasi non mi batteva più, con la voce che mi moriva in gola, ginocchioni presso la finestra aperta di quella stanzaccia dove mi recavo a notte avanzata, brancolando nel buio, portando i fiammiferi e la candela benedetta della Candelora, perchè, occorreva una candela benedetta.... E poi ho continuato per mesi e mesi, qui, in questa camera, invocando, persistente, colui che non appariva, che non è apparso mai! Mai!... - Domine, ignosce illae! - balbettava il canonico, alzando pietosamente gli occhi. E soggiungeva: - Dio misericordioso.... Tu, povera figliuola, non sapevi quel che facevi. - Lo sapevo, padre; lo facevo a posta!... - Ma era un'aberrazione, un suggerimento del demonio.... Ora che ti accusi del peccato, ora che, pentita, domandi perdono.... - Sono dannata!... Sono dannata! - tornava a singhiozzare Rosaria desolatamente. - Ah, figliuola! Questo, questo peccato ancora più grande: disperare della misericordia di Dio!... Sei già perdonata! In nome di Colui che me n'ha dato potestà, ego te absolvo!... E ora che intendi di fare, figliuola mia? - Voglio andar via, lontano, Suora di Carità!... Partire sùbito.... sùbito!

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Lui che era stato abbandonato dalla moglie, dalle figlie, dai figli come un rognoso, come un appestato! - Ah, certamente già si apprestano a rappresentare la commedia! Ora che non sono più un matto da interdire, ora che non sono più un rognoso, ora che non sono più un appestato, ora verranno a chiedere perdono, si umilieranno, commetteranno tutte le viltà. - C'è Cento-Salme in vista. Ci sono diecimila onze per colui del mulino.... e dieci per l'avvocatino don Felicianino.... l'ipocrita, il gesuita!... Via! Via!... Non sono più marito, non sono più padre!... Sono soltanto don Pietro-Paolo Zingàli, barone di Fontane Asciutte e Cantorìa.... no, anzi, barone di Cento-Salme; otterrò un decreto pel nuovo titolo.... Era già sera; il mulo trascinava stancamente il carretto per lo stradone polveroso. Il carrettiere cantava. Il barone rizzò la testa; vide, lontano, spiccar neri sul cielo rossiccio, i campanili, le cupole, del paesetto da cui mancava da tre anni e un'inattesa forte commozione lo invase. Durante il viaggio aveva scambiato poche parole col carrettiere; ma in quel punto sentì il bisogno di parlare con lui, d'interrogarlo. - Che dicono di me? - Dicono che voscenza ha vinto la causa. Ora don Marco non penserà più al mulino.... - Forse.... - È stata una pazzia. I signori debbono fare i signori, ed io che sono un carrettiere, il carrettiere; dico bene, voscenza? - Ferma; scendo qui. Non far sapere a nessuno che mi hai portato. - Come vuole voscenza. E si arrampicò lentamente pel viottolo che saliva a destra su per la collina. I cani abbaiarono poco dopo, un contadino s'affacciò dal ciglione: - Zitto! - gli disse. - Sono stanco; la salita è ripida.

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Relegato in quel paesetto siciliano abbandonato, come egli diceva, dagli uomini e da Dio, Pietro Vètere aveva trovato modo di continuare la sua vita di pigro, pur essendo uffiziale postale e telegrafico. Non già che la corrispondenza e i telegrammi da spedire e da ricevere fossero tanti da tenerlo occupato da mattina a sera. Consegnata al postino la valigia con le lettere, alle sette del mattino, perchè quegli arrivasse laggiù, all'osteria del Colombaccio, prima che passasse la corriera postale - l'osteria, con alloggio e stallatico, era posto di ricambio per cavalli - Pietro Vètere doveva attendere fino alle nove per aprire il doppio ufficio, consistente in uno stanzone diviso in tre scompartimenti da due rustici tavolati: uno davanti, con gli sportelli, pel servizio pubblico; l'altro, interno, per circondare di un po' di mistero le operazioni di distribuzione, di contabilità e il funzionamento della macchina telegrafica. Da un anno e mezzo, egli si scomodava raramente, la mattina, a scendere in ufficio dalle stanze superiori concessegli dal Municipio per abitazione. Aveva istruito la giovane moglie di tutti i più minuziosi segreti dell'amministrazione postale, l'aveva resa in pochissimo tempo valentissima trasmettitrice e ricevitrice di dispacci, e, con le compiacenti raccomandazioni del Sindaco e del Deputato provinciale, aveva ottenuto che ella fosse nominata aiutante; così aveva messo in salvo, per ogni caso, al cospetto dei superiori, la sua responsabilità. Alla nomina anzi aveva pensato un po' tardi, sei o sette mesi dopo che sua moglie già eseguiva, illegalmente, tutte le operazioni dei due uffici e fin firmava per lui, imitandone con amorosa abilità, la calligrafia. Per questo, ora, egli restava a letto, attendendo che la moglie, sbrigato il postino, gli recasse la consueta tazza di latte e caffè assieme con la pipa e uno o due giornali arrivati la sera avanti, ch'egli leggeva da cima a fondo prima di consegnarli agli abbonati. Per questo, appena finito di desinare, egli aveva agio di andarsene nella Farmacia Russo, là di faccia, a farvi col farmacista bellicosissime partite di briscola, che radunavano attorno a loro parecchi frequentatori sfaccendati, partigiani accaniti dell'uno o dell'altro, e non meno accaniti scommettitori in favore dell'uno o dell'altro. Al ritorno del postino con la corrispondenza, Pietro Vètere fingeva di accorrere in ufficio per fare il suo dovere; ma, in verità, non si occupava d'altro che di caricare accuratamente la sua pipetta di terra cotta, di star a guardare fumando, seduto in un angolo, le operazioni di ufficio eseguite dalla moglie, e di dare un'occhiata ai giornali illustrati del "Casino dei Civili„ e della "Società Operaia, che mandavano a prenderli sùbito appena arrivati. Di tratto in tratto sua moglie gli mostrava, presa con le punte di due dita, una lettera, e sorrideva maliziosamente. - Ancora? - Ancora. Anzi, da un mese in qua le risposte piovono. - Risposte?... Ma se la baronessa non scrive mai!... - Come sei sciocco! Scrive, ma fa impostare altrove. - Dici bene; può darsi. - Certe volte mi viene la tentazione.... - Oh, Dea! Dea! (La signora Vètere si chiama Dorotea, ma questo nome, in paese, veniva accorciato a quel modo). - Eppure tu mi hai detto.... Pietro Vètere, rimproverando con aria severissima la sua signora, aveva dimenticato di averle confidato, tempo fa, che uguale curiosità lo aveva vinto parecchie volte, e di averle spiegato in che modo una lettera non sigillata si poteva aprire e chiudere senza che di tale operazione rimanesse traccia. - E poi - egli tagliò corto - certe cose si fanno ma non si dicono! E gli parve di aver affermato una bella cosa. Per fortuna, la curiosità della signora Dea non andava tant'oltre: le bastava di sapere che l'intrighetto della baronessa Toroni continuava. Ormai riconosceva anche da lontano la calligrafia dell'amante, di cui tutti sapevano vita e miracoli. Soltanto il barone aveva l'aria di non saper niente; soltanto lui ancora credeva, o fingeva di credere, che la baronessa non era scappata via con quell'amante, ma era andata in campagna, da certi suoi lontani parenti. Alla sentenza del marito, la signora Dea fece una spallucciata per significare che, infine, non le importava nulla delle prodezze della baronessa, e continuò a disporre negli scompartimenti lettere e giornali. - Torno in farmacia. Se occorre.... - Va pure.

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Andava fuori di città, in un convento abbandonato e in rovina, e passeggiava per ore intere da un capo all'altro del corridoio centrale, sempre solo, in abito nero, guanti, tuba e canna d'India con pomo d'oro cesellato. I topi, ormai abituati alla sua innocua presenza, gli ballavano sotto gli occhi; le rondini, che avevano coperti di nidi la vôlta, gli svolazzavano attorno stridendogli agli orecchi, quasi si divertissero a dargli un po' di noia. Il vento sbatteva paurosamente gli usci delle celle deserte, parte senza tetto, parte senza solai; scoteva i vetri polverosi e coperti di ragnateli, della finestra di fondo e l'imposta tarlata del terrazzino al capo opposto del corridoio; l'ombra della sera invadeva il luogo, accrescendo la tristezza di quella desolata solitudine; e il barone andava su e giù picchiando con la punta della canna d'India i mattoni sdrusciti del pavimento, contando i giri di passeggiata che dovevano essere, non ricordo bene, se dugento venti o dugento cinquanta, non uno di più non uno di meno, in due ore. Non sapeva neppur lui da quanti anni facesse quella passeggiata, tutti i giorni, tirasse vento, piovesse, nevicasse. Una volta Io aveva sorpreso colà una forte scossa di terremoto. Erano crollati dei muri nelle celle accanto, erano cascati calcinacci dalla vôlta del corridoio dove egli passeggiava. Un altro sarebbe scappato via di corsa; ma egli era arrivato a non so quale centesimo giro; glie ne mancavano ancora parecchi per formare il numero sacramentale. Arrestatosi un momento, un po' sbalordito e impaurito, aveva sùbito ripreso ad andare in su e in giù, affrettando il passo per compensare il po' di tempo perduto. Una sera, dunque, non mi ero limitato a seguirlo fino alla porta del convento in rovina, da me visitato nei giorni precedenti. A costo di riuscire indiscreto, avevo montato le scale sdrucite e mi ero trovato faccia a faccia col barone nel lungo e vasto corridoio. - Scusi - dissi, salutandolo. - È forestiero? Giurato, credo - egli mi domandò dopo di avermi reso gentilmente il saluto. - In questo paese vediamo meno di rado faccie nuove dacchè vi è il Circolo delle Assise. - Disturbo, forse, - balbettai un po' imbarazzato. - Niente affatto. Questo convento è mio, - riprese, - nessuno ha il diritto di entrarvi, quantunque esso non abbia uscio alla porta.... Perché dovrei mettercelo? La gente ha paura di venire tra queste rovine. Io.... Oh, per me è un'altra cosa! Sono uomo di abitudini, e non ho mai voluto mutare il posto della mia passeggiata pomeridiana di ogni giorno.... Devono averglielo detto. Mi credono un po' matto. Eh! eh! Faccio il comodo mio, faccio quel che mi pare e piace, senza curarmi di quel che pensano e dicono gli altri. Lei, probabilmente, è venuto qui per accertarsi coi propri occhi.... Vede? Passeggio. Il luogo ha una grande e speciale attrattiva; non saprei però spiegargliela.... Abitudine. Ho dovuto comprarlo. Volevano farne una specie di caserma pel caso di arrivo di soldati in certe circostanze. Non avrei più potuto farvi la mia passeggiata.... Per ciò questo mucchio di macerie mi costa seimila lire; male spese, dirà lei. Ma una sera io l'ho trovato invaso dalla truppa arrivata la notte avanti. La sentinella non voleva farmi entrare. Dovetti parlamentare col tenente che aveva il comando, dare spiegazioni, pregare, insistere. Il corridoio era ingombro di paglia, di soldati sdraiati per terra, di soldati che ripulivano armi; il fumo dei fornelli del rancio toglieva il respiro. E passeggiai quella sera e le due sere seguenti, sotto gli occhi dei soldati che mi guardavano stupiti e motteggiavano, e ridevano. Ma la settimana dopo il convento era mio. - Se avessi saputo.... - dissi. - Non importa. Soltanto mi permetta di continuare. E m'invitò con la mano ad imitarlo. Aveva non so quanti altri giri da compire; li compì seguitando a parlare. Mi accorsi che li contava, aprendo e chiudendo i diti di una mano. - Ah, lei è felice! - lo interruppi. - Può cavarsi qualunque capriccio. - Felice? La mia vita è un continuo tormento, caro signore. L'idea che qualche incidente possa disturbare anche per un istante la regolarità, l'ordine che mi sono imposti, non mi dà pace un momento. Sto sempre come in attesa.... Ecco, sono le sette meno tre minuti; se dovessi rimanere qui fino alle sette e un minuto.... lei non può immaginar quel che soffrirei; così se arrivassi a casa mia dopo le otto. È ridicolo, è assurdo; ma che farci?... Ho trecento sessantacinque vestiti da casa, numerati, per ogni giorno dell'anno. Ho provato due o tre volte a indossarne uno diverso da quello destinato per quel giorno; ero come tra le fiamme; ho dovuto svestirmi. Io invidio, creda, gli sporcaccioni; ma se scopro un granellino di polvere sopra un mobile.... Rida pure; invece dovrebbe compiangermi. Darei tutte le mie ricchezze per fare l'opposto di quel che fo.... - Chi la costringe? - Io, io stesso! Qualche cosa che è nel mio sangue, ne' miei nervi, nel mio cervello.... Il mio destino! Sono solo; ho un figlio che fortunatamente.... o disgraziatamente - si corresse - non mi somiglia affatto. Chi lo sa? Forse è bene che io sia come sono; sarei, forse, più infelice di quanto sono adesso. Mio figlio.... S'interruppe, guardò l'orologio e si avviò: - Buona sera, signore! Rimane? - No; se mi permette l'accompagno. - Grazie; io vado di fretta. Buona sera! Doveva essere davvero un grande infelice colui, se due giorni dopo, quando gli riportarono morto, ucciso da uno de' suoi campieri in campagna, l'unico fìglio, invece di indossare un abito di lutto, dovette indossare un abito di filo bianco, candidissimo, perchè il calendario dei suoi vestiti gl'imponeva così!

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