Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbandonato

Numero di risultati: 21 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Il codice della cortesia italiana

184223
Giuseppe Bortone 1 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Poi, come tutte le cose di moda, l'uso si venne rarefacendo, fin che fu quasi completamente abbandonato . Qualche anno fa, tutto il campo grammaticale-letterario fu messo a rumore per l'abolizione del lei. - Chi voglia essere informato delle ragioni che militano per l'uso o contro l'uso del tu, del voi e del lei, legga il grazioso dialogo del Baretti fra i tre pronomi personali. Si disse, dunque, che era strano ed illogico rivolgere il discorso a persona presente col pronome di persona assente, oltre che era - l'uso del lei - un inutile esotismo. Ma si contrappose che era un esotismo anche l'uso del voi; ed era altrettanto strano ed illogico rivolgere il discorso a una sola persona col pronome che ne indica di piú. Il tentativo fascista di sostituire il lei col voi ebbe qualche successo nelle relazioni ufficiali, perché ripetutamente e minacciosamente imposto: caduto il fascismo, son tramontate, con tutte le altre, anche le innovazioni nel campo grammaticale. Senza dubbio, molto meglio sarebbe che si adoperasse la sola seconda persona singolare. Forse, da principio, stenterebbe ad assuefarsi l'orecchio - e la lingua - alla grande novità; ma stenterebbe per poco; perché, del resto, siamo già abituati, attraverso i classici, a sentire il « tu » sulle labbra del popolano di Roma, sia ch'egli si rivolgesse all'amico, sia che si rivolgesse a un senatore, a un pontefice o all'imperatore. Nelle relazioni sociali, si può passare dal lei al tu, quando si desidera stabilire rapporti piú cordiali, piú confidenziali e quasi amichevoli: il che è prudente fare soltanto quando la conoscenza è divenuta, direi quasi, piú ampia e piú profonda. E siccome può anche darsi che sia uno solo dei due a voler questo, è bene andar motto cauti; non foss'altro per evitare l'affronto di sentirsi ancora opporre al tu confidenziale il lei, piuttosto compassato e freddo. Non sbaglia chi attende che l'iniziativa sia presa da chi è, o si crede, piú in alto o piú autorevole: per quanto, anche in questo caso, sia meglio che l'inferiore, pur grato del tono confidenziale, continui ad usare il lei. Se una persona con cui si era in rapporti confidenziali sale di qualche gradino e diviene superiore, è opportuno, per quanto sembri strano, passare con lei dalla seconda singolare alla terza: ciò sia come riconoscimento della autorità, sia perché a me pare buona regola di vita non cercar di superare in alcun modo le distanze gerarchiche. Mal fatto sarebbe se una tale iniziativa fosse presa dal superiore; il quale, invece, deve insistere perché continuino le relazioni amichevoli. Mi par qui necessario ricordare ancora l'uso del signore. Non è uno scimmiottare i Francesi metterlo sempre dopo i monosillabi di affermazione e di negazione. Che volete vi dica: quando sento pronunziare un sí o un no secco, provo subito l'impressione di trovarmi di fronte a una persona poco fine: mi par che il sí, signore; sí, signora; sí, signorina conciliino simpatia, e che il no, signore; no, signora; no, signorina, attenuino quel non so che di aspro che quasi sempre contiene la particella negativa.

Pagina 71

Passa l'amore. Novelle

241490
Luigi Capuana 4 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

La baronessa e le figlie, quando il barone più non comparve in casa, erano rimaste atterrite del loro audace tentativo e avevano abbandonato la domanda d'interdizione. Ercole riprendeva le sue caccie; Marco non lasciava in pace la baronessa perchè gli desse i mezzi di costruire in casa loro il gran mulino di sua invenzione; Feliciano avea sostituito il padre nell'amministrazione, duro e inesorabile coi fittaioli della dote della madre, fissato anche lui nell'idea di liberare tutte le proprietà di famiglia dalle onerose ipoteche che assorbivano il fruttato. Si rivelava della pura razza dei Zingàli, ostinato; testardo,imperioso fin con la madre, che non osava di resistergli. - Egli sa meglio di noi quel che fa! - diceva la baronessa a Rosaria, che spesso borbottava contro il fratello. Una schietta Zingàli anche lei, muta, impenetrabiie, con quegli occhi che mettevano sgomento quando restavano fissati nel vuoto, quasi attratti da paurose visioni che gli altri non potevano vedere. Da che il barone aveva abbandonato la casa, ella aveva voluto occupare la stanza di lui. - Non hai dunque paura di dormir sola colà? - le disse la madre. - No. Durante la giornata, la madre la voleva in camera, anche pel rosario e per le altre preghiere in comune, quando il canonico Rametta veniva a confessare, al solito, la signora baronessa, e a discorrer di cose sante e di pettegolezzi. Il canonico avea creduto che l'assenza del barone avrebbe vivificato un po' l'aspetto triste e opprimente di quella casa e il santo prete vedeva ora quasi con rimorso che la tristezza si era piuttosto aumentata. Quell'uomo che stava rinchiuso nella sua stanza, sepolto tra le vecchie scritture, di nient'altro occupato all'infuori di esse, avea lasciato un gran vuoto nel vasto palazzo, di cui il povero canonico non si sapeva rendere ragione. - Nessuna notizia? - domandava timidamente alla baronessa. - Nessuna! - Nessuna! - ripeteva Mariangela, alzando al cielo le pupille stanche e trasognate. - Il Signore gli aprirà gli occhi, gli rammollirà il cuore! Preghiamo per lui! - replicava il canonico. Rosaria aggrottava le sopracciglia, si mordeva le labbra carnose, e non si capiva se per isdegno o per rimpianto dell'assente. Spesso, durante la conversazione, si alzava tutt'a un tratto da sedere e andava a rinchiudersi nella sua nuova stanza. Una mattina Mariangela l'avea sorpresa bocconi a traverso il letto, soffocata da singhiozzi. Le mani brancicavano convulsamente le coperte, e nell'agitarsi scomposto della testa le nere e lunghe treccie le si erano disciolte ed arruffate. - Oh, Dio!... Che hai? Rosaria!... Al grido della sorella, ella si era rizzata rapidamente, buttando indietro con le mani i capelli che le ricadevano su la faccia e su le spalle; e spalancando gli occhi, avea portato l'indice alla bocca, imponendo silenzio. - Non dir nulla alla mamma!... Non è niente!... Manda a chiamare il canonico Rametta.... Ho bisogno di lui.... Voglio confessarmi.... Non dir nulla alla mamma! Bada; non dirle nulla! Mariangela, sbalordita, spaventata, aveva atteso il canonico in cima alla scala, e lo aveva fatto entrare in punta di piedi, perchè la baronessa non si accorgesse della venuta di lui. - Lasciaci; va di là, - Rosaria aveva ordinato alla sorella. - Cattive notizie? - domandò allora il canonico. Rosaria, chiuso l'uscio e messo il paletto interno, si fermò in faccia al sacerdote, che la guardava, aspettando ansioso la risposta. - Sono dannata! - ella esclamò portando le mani attorno alla bocca, a fin di reprimere il suono della voce e renderlo nello stesso tempo più vibrante. - Dannata? Figliuola mia! Dannata? Ella lo spinse su la seggiola a bracciuoli presso il tavolino e gli cadde davanti in ginocchio. - Dannata?... Non è possibile!... Che hai fatto da dover disperare del perdono di Dio? Oh, figliuola mia!... China con la testa rovesciata in giù, coprendosi la faccia con le mani, Rosaria ripeteva straziante: - Dannata!... Dannata! Il confessore le accarezzava i capelli, tentava di confortarla. - Parla, figliuola mia! Ora sei davanti al cospetto di Dio.... Dimentica la miserablle persona del suo indegnissimo servo.... Parla! Mai il canonico Rametta, da che era stato autorizzato ad amministrare il Sacramento della penitenza, mai si era trovato davanti a una scena simile; e tremante, smarrito, non sapeva in che maniera indurre quella figliuola a calmarsi. Terribili, incredibili cose aveva poi udito. - Tu, figliuola mia?... Tu hai invocato il diavolo?... Perchè? Come? E Rosaria, a testa china, con la faccia tra le mani che a stento lasciavano passar libera la parola, aveva rivelato il segreto che da due anni le gravava sul cuore, e che aveva formato la sua felicità e la sua disperazione nello stesso tempo; quel terribile segreto che più volte le era parso avessero indovinato o volessero indagare la madre, la sorella, i fratelli, e che ella aveva per ciò più rabbiosamente calcato in fondo al petto!... Ma ora.... ora non ne poteva più! E così dentro quella buia sepoltura della loro casa era penetrato un raggio di sole. Ella aveva amato, forse riamata!... Perchè, perchè il Signore l'aveva fatta nascere una Zingàli? Per questo, colui non aveva mai osato farlo sapere direttamente.... E forse anche per lo stato della loro famiglia! - Come lo hai dunque saputo, figliuola mia? - Un accenno, due parole dettemi da una povera donna.... - Quali, figliuola mia? E udendo l'ingenuo racconto, l'esperto confessore capiva a poco a poco quale pertinace lavorìo della giovanile immaginazione aveva potuto intessere la fallace lusinga di quell'amore nel silenzio, nella penombra, nella solitudine di quei malinconici stanzoni, dove i suoni della vita che ferveva fuori giungevano ammortiti, affievoliti o non arrivavano affatto. E per ciò ella si era ribellata al destino; per ciò avea protestato contro la tirannia di Gesù Cristo che la condannava a essere una Zingàli, cioè un'ombra, un fantasma, un nome e nient'altro. - Sì, sì padre!... Ho maledetto Gesù!... Ho maledetto la Madonna! - E hai mentito nella confessione? E ti sei cibata sacrilegamente delle carni immacolate del Redentore? - Sì, sì padre!... Un giorno, rovistando uno scaffale di vecchi libri, dietro i volumi in foglio legati in pergamena, aveva trovato un libro involtato in un foglio di carta e sigillato. Ingiallito, squadernato, senza frontispizio, con strane figure quasi a ogni pagina, quel volumetto aveva tentato la sua curiosità. Sigillato con cinque larghi sigilli, nascosto colà, dietro agli altri libri, era dunque qualcosa di vietato? E se lo era portato in camera, e lo aveva nascosto tra le materassa del suo lettino, sotto il capezzale.... E la notte, fingendo di dir le preghiere, si era messa a leggere.... - Diceva: Modo di far apparire nella propria camera la persona amata. Si doveva recitare per tre notti consecutive una lunga preghiera latina.... Adonai, omnipotens sempiterne Deus.... La so tutta a memoria! - Il demonio, figliuola mia!... Il demonio!... - Che m'importava? Abbandonata da Dio, mi rivolgeva al diavolo, che almeno mi prometteva quella felicità.... Ah sono stata ingannata anche da lui!... Mi sentivo morire dal terrore, e leggevo, leggevo quella preghiera di cui capivo soltanto poche parole, con la fronte bagnata di sudore diaccio, col cuore che quasi non mi batteva più, con la voce che mi moriva in gola, ginocchioni presso la finestra aperta di quella stanzaccia dove mi recavo a notte avanzata, brancolando nel buio, portando i fiammiferi e la candela benedetta della Candelora, perchè, occorreva una candela benedetta.... E poi ho continuato per mesi e mesi, qui, in questa camera, invocando, persistente, colui che non appariva, che non è apparso mai! Mai!... - Domine, ignosce illae! - balbettava il canonico, alzando pietosamente gli occhi. E soggiungeva: - Dio misericordioso.... Tu, povera figliuola, non sapevi quel che facevi. - Lo sapevo, padre; lo facevo a posta!... - Ma era un'aberrazione, un suggerimento del demonio.... Ora che ti accusi del peccato, ora che, pentita, domandi perdono.... - Sono dannata!... Sono dannata! - tornava a singhiozzare Rosaria desolatamente. - Ah, figliuola! Questo, questo peccato ancora più grande: disperare della misericordia di Dio!... Sei già perdonata! In nome di Colui che me n'ha dato potestà, ego te absolvo!... E ora che intendi di fare, figliuola mia? - Voglio andar via, lontano, Suora di Carità!... Partire sùbito.... sùbito!

Pagina 117

Lui che era stato abbandonato dalla moglie, dalle figlie, dai figli come un rognoso, come un appestato! - Ah, certamente già si apprestano a rappresentare la commedia! Ora che non sono più un matto da interdire, ora che non sono più un rognoso, ora che non sono più un appestato, ora verranno a chiedere perdono, si umilieranno, commetteranno tutte le viltà. - C'è Cento-Salme in vista. Ci sono diecimila onze per colui del mulino.... e dieci per l'avvocatino don Felicianino.... l'ipocrita, il gesuita!... Via! Via!... Non sono più marito, non sono più padre!... Sono soltanto don Pietro-Paolo Zingàli, barone di Fontane Asciutte e Cantorìa.... no, anzi, barone di Cento-Salme; otterrò un decreto pel nuovo titolo.... Era già sera; il mulo trascinava stancamente il carretto per lo stradone polveroso. Il carrettiere cantava. Il barone rizzò la testa; vide, lontano, spiccar neri sul cielo rossiccio, i campanili, le cupole, del paesetto da cui mancava da tre anni e un'inattesa forte commozione lo invase. Durante il viaggio aveva scambiato poche parole col carrettiere; ma in quel punto sentì il bisogno di parlare con lui, d'interrogarlo. - Che dicono di me? - Dicono che voscenza ha vinto la causa. Ora don Marco non penserà più al mulino.... - Forse.... - È stata una pazzia. I signori debbono fare i signori, ed io che sono un carrettiere, il carrettiere; dico bene, voscenza? - Ferma; scendo qui. Non far sapere a nessuno che mi hai portato. - Come vuole voscenza. E si arrampicò lentamente pel viottolo che saliva a destra su per la collina. I cani abbaiarono poco dopo, un contadino s'affacciò dal ciglione: - Zitto! - gli disse. - Sono stanco; la salita è ripida.

Pagina 126

Relegato in quel paesetto siciliano abbandonato, come egli diceva, dagli uomini e da Dio, Pietro Vètere aveva trovato modo di continuare la sua vita di pigro, pur essendo uffiziale postale e telegrafico. Non già che la corrispondenza e i telegrammi da spedire e da ricevere fossero tanti da tenerlo occupato da mattina a sera. Consegnata al postino la valigia con le lettere, alle sette del mattino, perchè quegli arrivasse laggiù, all'osteria del Colombaccio, prima che passasse la corriera postale - l'osteria, con alloggio e stallatico, era posto di ricambio per cavalli - Pietro Vètere doveva attendere fino alle nove per aprire il doppio ufficio, consistente in uno stanzone diviso in tre scompartimenti da due rustici tavolati: uno davanti, con gli sportelli, pel servizio pubblico; l'altro, interno, per circondare di un po' di mistero le operazioni di distribuzione, di contabilità e il funzionamento della macchina telegrafica. Da un anno e mezzo, egli si scomodava raramente, la mattina, a scendere in ufficio dalle stanze superiori concessegli dal Municipio per abitazione. Aveva istruito la giovane moglie di tutti i più minuziosi segreti dell'amministrazione postale, l'aveva resa in pochissimo tempo valentissima trasmettitrice e ricevitrice di dispacci, e, con le compiacenti raccomandazioni del Sindaco e del Deputato provinciale, aveva ottenuto che ella fosse nominata aiutante; così aveva messo in salvo, per ogni caso, al cospetto dei superiori, la sua responsabilità. Alla nomina anzi aveva pensato un po' tardi, sei o sette mesi dopo che sua moglie già eseguiva, illegalmente, tutte le operazioni dei due uffici e fin firmava per lui, imitandone con amorosa abilità, la calligrafia. Per questo, ora, egli restava a letto, attendendo che la moglie, sbrigato il postino, gli recasse la consueta tazza di latte e caffè assieme con la pipa e uno o due giornali arrivati la sera avanti, ch'egli leggeva da cima a fondo prima di consegnarli agli abbonati. Per questo, appena finito di desinare, egli aveva agio di andarsene nella Farmacia Russo, là di faccia, a farvi col farmacista bellicosissime partite di briscola, che radunavano attorno a loro parecchi frequentatori sfaccendati, partigiani accaniti dell'uno o dell'altro, e non meno accaniti scommettitori in favore dell'uno o dell'altro. Al ritorno del postino con la corrispondenza, Pietro Vètere fingeva di accorrere in ufficio per fare il suo dovere; ma, in verità, non si occupava d'altro che di caricare accuratamente la sua pipetta di terra cotta, di star a guardare fumando, seduto in un angolo, le operazioni di ufficio eseguite dalla moglie, e di dare un'occhiata ai giornali illustrati del "Casino dei Civili„ e della "Società Operaia, che mandavano a prenderli sùbito appena arrivati. Di tratto in tratto sua moglie gli mostrava, presa con le punte di due dita, una lettera, e sorrideva maliziosamente. - Ancora? - Ancora. Anzi, da un mese in qua le risposte piovono. - Risposte?... Ma se la baronessa non scrive mai!... - Come sei sciocco! Scrive, ma fa impostare altrove. - Dici bene; può darsi. - Certe volte mi viene la tentazione.... - Oh, Dea! Dea! (La signora Vètere si chiama Dorotea, ma questo nome, in paese, veniva accorciato a quel modo). - Eppure tu mi hai detto.... Pietro Vètere, rimproverando con aria severissima la sua signora, aveva dimenticato di averle confidato, tempo fa, che uguale curiosità lo aveva vinto parecchie volte, e di averle spiegato in che modo una lettera non sigillata si poteva aprire e chiudere senza che di tale operazione rimanesse traccia. - E poi - egli tagliò corto - certe cose si fanno ma non si dicono! E gli parve di aver affermato una bella cosa. Per fortuna, la curiosità della signora Dea non andava tant'oltre: le bastava di sapere che l'intrighetto della baronessa Toroni continuava. Ormai riconosceva anche da lontano la calligrafia dell'amante, di cui tutti sapevano vita e miracoli. Soltanto il barone aveva l'aria di non saper niente; soltanto lui ancora credeva, o fingeva di credere, che la baronessa non era scappata via con quell'amante, ma era andata in campagna, da certi suoi lontani parenti. Alla sentenza del marito, la signora Dea fece una spallucciata per significare che, infine, non le importava nulla delle prodezze della baronessa, e continuò a disporre negli scompartimenti lettere e giornali. - Torno in farmacia. Se occorre.... - Va pure.

Pagina 223

Andava fuori di città, in un convento abbandonato e in rovina, e passeggiava per ore intere da un capo all'altro del corridoio centrale, sempre solo, in abito nero, guanti, tuba e canna d'India con pomo d'oro cesellato. I topi, ormai abituati alla sua innocua presenza, gli ballavano sotto gli occhi; le rondini, che avevano coperti di nidi la vôlta, gli svolazzavano attorno stridendogli agli orecchi, quasi si divertissero a dargli un po' di noia. Il vento sbatteva paurosamente gli usci delle celle deserte, parte senza tetto, parte senza solai; scoteva i vetri polverosi e coperti di ragnateli, della finestra di fondo e l'imposta tarlata del terrazzino al capo opposto del corridoio; l'ombra della sera invadeva il luogo, accrescendo la tristezza di quella desolata solitudine; e il barone andava su e giù picchiando con la punta della canna d'India i mattoni sdrusciti del pavimento, contando i giri di passeggiata che dovevano essere, non ricordo bene, se dugento venti o dugento cinquanta, non uno di più non uno di meno, in due ore. Non sapeva neppur lui da quanti anni facesse quella passeggiata, tutti i giorni, tirasse vento, piovesse, nevicasse. Una volta Io aveva sorpreso colà una forte scossa di terremoto. Erano crollati dei muri nelle celle accanto, erano cascati calcinacci dalla vôlta del corridoio dove egli passeggiava. Un altro sarebbe scappato via di corsa; ma egli era arrivato a non so quale centesimo giro; glie ne mancavano ancora parecchi per formare il numero sacramentale. Arrestatosi un momento, un po' sbalordito e impaurito, aveva sùbito ripreso ad andare in su e in giù, affrettando il passo per compensare il po' di tempo perduto. Una sera, dunque, non mi ero limitato a seguirlo fino alla porta del convento in rovina, da me visitato nei giorni precedenti. A costo di riuscire indiscreto, avevo montato le scale sdrucite e mi ero trovato faccia a faccia col barone nel lungo e vasto corridoio. - Scusi - dissi, salutandolo. - È forestiero? Giurato, credo - egli mi domandò dopo di avermi reso gentilmente il saluto. - In questo paese vediamo meno di rado faccie nuove dacchè vi è il Circolo delle Assise. - Disturbo, forse, - balbettai un po' imbarazzato. - Niente affatto. Questo convento è mio, - riprese, - nessuno ha il diritto di entrarvi, quantunque esso non abbia uscio alla porta.... Perché dovrei mettercelo? La gente ha paura di venire tra queste rovine. Io.... Oh, per me è un'altra cosa! Sono uomo di abitudini, e non ho mai voluto mutare il posto della mia passeggiata pomeridiana di ogni giorno.... Devono averglielo detto. Mi credono un po' matto. Eh! eh! Faccio il comodo mio, faccio quel che mi pare e piace, senza curarmi di quel che pensano e dicono gli altri. Lei, probabilmente, è venuto qui per accertarsi coi propri occhi.... Vede? Passeggio. Il luogo ha una grande e speciale attrattiva; non saprei però spiegargliela.... Abitudine. Ho dovuto comprarlo. Volevano farne una specie di caserma pel caso di arrivo di soldati in certe circostanze. Non avrei più potuto farvi la mia passeggiata.... Per ciò questo mucchio di macerie mi costa seimila lire; male spese, dirà lei. Ma una sera io l'ho trovato invaso dalla truppa arrivata la notte avanti. La sentinella non voleva farmi entrare. Dovetti parlamentare col tenente che aveva il comando, dare spiegazioni, pregare, insistere. Il corridoio era ingombro di paglia, di soldati sdraiati per terra, di soldati che ripulivano armi; il fumo dei fornelli del rancio toglieva il respiro. E passeggiai quella sera e le due sere seguenti, sotto gli occhi dei soldati che mi guardavano stupiti e motteggiavano, e ridevano. Ma la settimana dopo il convento era mio. - Se avessi saputo.... - dissi. - Non importa. Soltanto mi permetta di continuare. E m'invitò con la mano ad imitarlo. Aveva non so quanti altri giri da compire; li compì seguitando a parlare. Mi accorsi che li contava, aprendo e chiudendo i diti di una mano. - Ah, lei è felice! - lo interruppi. - Può cavarsi qualunque capriccio. - Felice? La mia vita è un continuo tormento, caro signore. L'idea che qualche incidente possa disturbare anche per un istante la regolarità, l'ordine che mi sono imposti, non mi dà pace un momento. Sto sempre come in attesa.... Ecco, sono le sette meno tre minuti; se dovessi rimanere qui fino alle sette e un minuto.... lei non può immaginar quel che soffrirei; così se arrivassi a casa mia dopo le otto. È ridicolo, è assurdo; ma che farci?... Ho trecento sessantacinque vestiti da casa, numerati, per ogni giorno dell'anno. Ho provato due o tre volte a indossarne uno diverso da quello destinato per quel giorno; ero come tra le fiamme; ho dovuto svestirmi. Io invidio, creda, gli sporcaccioni; ma se scopro un granellino di polvere sopra un mobile.... Rida pure; invece dovrebbe compiangermi. Darei tutte le mie ricchezze per fare l'opposto di quel che fo.... - Chi la costringe? - Io, io stesso! Qualche cosa che è nel mio sangue, ne' miei nervi, nel mio cervello.... Il mio destino! Sono solo; ho un figlio che fortunatamente.... o disgraziatamente - si corresse - non mi somiglia affatto. Chi lo sa? Forse è bene che io sia come sono; sarei, forse, più infelice di quanto sono adesso. Mio figlio.... S'interruppe, guardò l'orologio e si avviò: - Buona sera, signore! Rimane? - No; se mi permette l'accompagno. - Grazie; io vado di fretta. Buona sera! Doveva essere davvero un grande infelice colui, se due giorni dopo, quando gli riportarono morto, ucciso da uno de' suoi campieri in campagna, l'unico fìglio, invece di indossare un abito di lutto, dovette indossare un abito di filo bianco, candidissimo, perchè il calendario dei suoi vestiti gl'imponeva così!

Pagina 273

Cosima

243878
Grazia Deledda 2 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Oh, oh; Elia; e tutto questo perché i miei figlioli hanno abbandonato le vie del Signore.» «Lei esagera, padrona: ci sono figli peggiori: tutte le famiglie hanno la lor croce. Il signorino Andrea, dopo tutto, bada alla roba e la fa fruttare; è, dirò cosí, come un fattore, che si piglia la porzione maggiore. Ma poi metterà giudizio.» «No, Elia, non lo spero. D'altronde, che si fa? Siamo povere donne sole, con quel castigo terribile di Santus: e bisogna pure appoggiarsi ad Andrea. Tante volte penso di dividere il patrimonio: a ciascun figlio il suo; ma sarebbe peggio, poiché il disgraziato Santus in pochi mesi cadrebbe nella miseria, e anche il tuo signorino Andrea si giocherebbe la sua parte. Non c'è via di uscita: bisogna soffrire. E poi io voglio bene ai miei figli: troppo bene gli voglio; piú sono disgraziati piú li amo e li compatisco. Ma quella Cosima! È quella che piú mi dà pensiero.» «E invece sarà quella che piú le darà consolazioni: vedrà.» Ma la madre, mentre rimuginava nella padella le patate che lentamente si arrossavano e spandevano un buon odore, continuava a sospirare. Non è questo, Elia, io non ho bisogno di consolazione: la mia strada è finita, e nulla esiste piú per me tranne il bene dei miei figli. Ma essi non seguono la via giusta, quella che abbiamo percorsa io e il padre loro, benedetto sia. Sarà mia la colpa: sono una donna senza forza e senza volontà; ma loro dovrebbero capirlo. E se parlo cosí con te, questa sera, Elia, è perché so che tu solo puoi compatirmi.» Oh, padrona!» egli esclamò: e una commozione sincera, piena di sorpresa e di gratitudine, gli vibrava nella voce: probabilmente nessuno, da molto tempo, gli aveva parlato cosí. E intese forse quello che la padrona voleva dirgli, che anche lui aveva peccato e sofferto, ma era rientrato nella giusta via, perché aggiunse: «Le strade del Signore sono tante, ed Egli aiuta sempre i buoni cristiani». «Tu, dunque, credi in Dio? Io, vedi, a volte, non ci credo piú.» Non so: anche io non vado a messa da venti anni. Non so; non so: ma so che ad essere buoni e pazienti ci si guadagna sempre. E, dunque, padrona, coraggio.» Tacquero un momento: si sentiva il friggere sommesso della padella sulla fiamma: un odore di gente umile ma rassegnata usciva da quella stanzetta solitaria. Il pino vibrava ancora di fruscii, di pigolii, di vaghi lamenti, e dallo stradone arrivava il rumore di un passo di cavallo: Andrea. Cosima sentiva voglia di appoggiarsi al muro e piangere: in quel momento avrebbe rinunziato a tutti i suoi sogni, pur di consolare la madre: pensò che bisognava almeno darle il conforto della speranza di un buon matrimonio, fra lei e un qualche bravo giovane del luogo, e passò in rassegna tutti i proprietari, i professionisti, gli impiegati di sua conoscenza. Ma essi erano tutti imbevuti del pregiudizio che ella non potesse, con quella sua passione dei libri, diventare una buona moglie; né, d'altronde, ella voleva piú umiliarsi con nessuno. E fu in quel momento che le venne l'idea di muoversi, di uscire dal ristretto ambiente della piccola città, e andare in cerca di fortuna. Per dare consolazione alla madre.

Pagina 138

Uno sguardo, solo, ma Cosima vide un misterioso balenio in fondo alle pupille che non erano quelle del duro e freddo Elia, ma di un uomo disperato, che aveva paura di morire solo, abbandonato, come un vecchio cane. Gli si avvicinò e disse: «Come vi sentite? Faremo venire il dottore, o vi porteremo a casa.» Egli accennò di no, di no: per quanto solo e malato, non voleva il dottore e non voleva muoversi dalla sua tana: ma l'occhio gli si era rischiarato, pieno di una dolcezza, quasi di un sorriso infantile. «Andate, andate pure» disse. «Vadano pure a casa, signorina, lei e la signora padrona: bisogna pigiare l'uva e metterla nel tino.» «Eh, non la pigiamo noi, coi nostri piedi» disse Cosima, tentando di scherzare. «C'è poi Andrea, che ci bada: non pensateci. E poi il tempo si cambia: minaccia di piovere. Non vogliamo lasciarti cosí, zio Elia.» Ella lo chiamava cosí, come si usava con tutti i vecchi servi; ma era la prima volta che egli si sentiva accomunato agli altri, come fosse nato nella stessa terra e tutto il suo passato sprofondasse quasi in una vita anteriore. Tuttavia non parlò, non dimostrò la sua gratitudine: anzi fece un po' indispettire la padroncina col rispondere sempre con un cenno negativo del capo a tutte le sue domande premurose. No, egli non voleva il dottore, non voleva muoversi, non voleva che nessuno si disturbasse per lui. Vecchio testardo. Pareva volesse morire solo, come solo era vissuto. Ma le padrone restarono, finché arrivò Andrea che portò del chinino: si discusse però se si doveva o no somministrarlo al malato: e del resto la discussione fu vana, perché egli dichiarò che non avrebbe preso nessuna medicina. Durante la notte si scatenò una forte bufera: la grandine mitragliava la piccola casa, e il pino urlava come un mostro. Dietro gli scurini mal connessi i vetri della finestra parvero spaccarsi e spargersi in frammenti d'oro e d'ametista, con un rombo spaventoso. Lampi e tuoni. Non c'è da nascondere che Cosima aveva paura e la madre tremava come una fronda sbattuta dal vento. Storie spaventose di banditi e malfattori, che in notti simili sbucano come demoni dalla tempesta e assalgono le dimore solitarie, tornavano in mente alle donne: e il fatto che il servo e Andrea erano rimasti sul posto, non le rassicurava. Il vento gridava e piangeva nella pianura come nel mare, e solo il pino pareva potesse combattere con l'uragano come un eroe inferocito contro un intero esercito. Nel suo giaciglio Elia, con la febbre alta, ricordava come il signor Antonio lo aveva accolto benevolmente quando lui si era presentato in cerca di lavoro, mentre nessun altro dei diffidenti proprietari del luogo aveva accettato la sua offerta; e il padrone gli aveva affidato la vigna nuova, l'orto, la terra intorno. Adesso il vecchio amava questa terra con una passione tenace; era diventata la sua nuova patria, la sua famiglia; e il solo pensiero che i padroni giovani avrebbero potuto mandarlo via, come una vecchia bestia che non può più lavorare, lo colmava di tristezza: non per la probabile ventura povertà, ma per l'amore alla terra che oramai faceva parte della sua carne e del suo sangue. Ed ecco, invece, la padrona e la signorina, e lo stesso Andrea, si mostravano benevoli, fino al punto di restare vicino a lui in quella notte tempestosa mentre avrebbero potuto già essere nella loro casa tranquilla. E non lo avrebbero cacciato, no: lo sentiva; lo aveva sentito nella voce di Cosima, e gli sembrava che questa voce fosse l'unica medicina che potesse guarirlo. E la certezza che un giorno forse avrebbe potuto dimostrarle la sua riconoscenza, già lo alleviava dal male. All'alba il tempo si calmò, d'un tratto, dopo un tuono formidabile che parve un ordine militare: la battaglia doveva cessare. Solo il pino continuò in un suo lieve brontolio, quasi pensieroso. Cosima lo sentiva nel sonno lieve del mattino: e le pareva che il pino mormorasse: "Perché tutto questo? Si combatte, si soffre, ci si tormenta per nulla: la forza del vento è vana; tutto è vano e vuoto; eppure bisogna combattere perché cosi vuole Dio". Poi tacque anche l'albero; ma quando Cosima aprí la finestruola vide uno spettacolo indimenticabile: centinaia di uccelli svolazzavano sui rami battuti dal sole, e parevano d'oro e d'argento: ogni loro battere d'ali faceva cadere goccie simili a scintille: e ad ogni ago delle foglie era infilata una perla dai colori dell'iride. Pareva un albero magico, fatto di uccelli, di rubini, smeraldi e diamanti.

Pagina 144

Documenti umani

244723
Federico De Roberto 3 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

L'esercizio prolungato dei muscoli, il consumo fisiologico, sono certo causa di sensazioni penose; ma basta che lo sforzo si arresti, che l'organismo sia abbandonato all'inerzia, perchè un profondo benessere, un sollievo quasi voluttuoso guadagni tutte le fibre. Il lavoro dello spirito non conosce queste tregue ristoratrici; l'attività cerebrale, una volta destata, non si può più arrestare; le idee succedono alle idee, le imagini alle imagini, secondo una legge di associazione incosciente; e la volontà, non solo impotente a frenare questo movimento, ma spesso ancora a dirigerlo. Un malessere fisico ordinariamente ne deriva, come effetto dell'afflusso del sangue al cervello, ed in questo stato irritante la stessa riparazione del sonno tarda a venire. Carlo Landini, con la fronte scottante, la vista intorbidata dalle lunghe letture dei voluminosi processi accatastati sul grande tavolo da lavoro, aveva dato ordine che nessuno fosse introdotto per quel giorno nel suo studio. Se negli anni della sua prima giovinezza si era parlato di lui come di uno cui l'avvenire arrideva, il fatto si era lasciato indietro le più liete promesse. A poco meno di quarant'anni, in una professione dove la concorrenza è grandissima, egli aveva conseguita la più chiara delle reputazioni, si era fatto un posto eminente non solo fra i suoi compagni, ma perfino fra i maestri, ed era talmente affollato di affari, da vedersi spesso costretto a rifiutarne ed a chiudere l'uscio di casa sua ai troppo numerosi clienti. Quel giorno, l'ordine era stato appena impartito, il Landini aveva appena chiusa l'ultima memoria, che il campanello elettrico risuonò. - Chi è ancora? - chiedeva egli infastidito, al servo che, aperto l'uscio, se ne stava lì in mezzo, come cercando le parole. - Una persona che vuol parlare al signore... che insiste.... - Ho già detto che non sono in casa per nessuno. - Dice, scusi, che deve consegnare a lei personalmente una lettera urgente.... L'avvocato Landini passò egli stesso in sala, non cercando di nascondere la sua contrarietà. Si trovò dinanzi ad uno sconosciuto, che dall'abito, dall'attitudine umile più che rispettosa, pareva dover essere un domestico. - Che cosa volete? - È lei il signor avvocato Carlo Landini? - Io in persona. - Debbo consegnarle questo. Cavò di tasca una lettera e la porse al Landini. Appena questi ebbe gettato uno sguardo sulla busta, il fastidio che s'era fino a quel momento letto sulla sua fisonomia, dette luogo ad una specie di attenzione concentrata, di preoccupazione mista ad una inquieta curiosità. - Sta bene.... grazie.... - disse alla persona che aspettava, congedandola; e passò rapidamente nella sua stanza da studio. Prese sul tavolo un piccolo tagliacarte a foggia di scimitarra, e come la luce si andava ritirando, si fece presso la finestra. Stava per aprire la lettera, quando si arrestò un momento, considerando il carattere dell'indirizzo, sulla busta moyen-âge, suggellata di ceralacca azzurra in un angolo. - Dieci anni! - mormorò, facendo mentalmente il conto del tempo trascorso dacchè quella persona non gli aveva più scritto. - Dieci anni!.... - e una tristezza gl'invadeva lentamente l'anima, come una nebbia, mentre sollevava uno sguardo al cielo occidentale, sul cui fondo rosato si ergeva gloriosamente la cupola di Santa Maria del Fiore. Dieci anni, dacchè aveva ricevuta l'ultima lettera di lei; e quei dieci anni non erano valsi ad abolirne il ricordo, se appena scorto quel carattere fine, minuto, ma inchiostrato nei pieni e dalla asteggiatura eguale, lo aveva immediatamente riconosciuto, senza esitare un istante! Dieci anni - e il sangue gli aveva dato un tuffo, ora come allora, come quando ogni lettera di lei lo colmava di un turbamento delizioso!... Le memorie irrompevano nella mente del Landini, ed egli se ne restava lì, dinanzi alla finestra con gli sguardi errabondi, tenendo la lettera in mano, ma senza decidersi ancora ad aprirla... Era stato tutto un romanzo, un romanzo di passione, di tormenti, di felicità, un romanzo in fondo al quale non era stata però scritta la parola piena di soave rammarico e di composta rassegnazione: Fine. Bruscamente, quella donna a cui lo legavano i vincoli più teneri e più saldi, le gioie insieme gustate, i pericoli sfidati insieme, lo aveva messo quasi alla porta, gli aveva ingiunto di non tentar di rivederla, mai più! Che cosa era avvenuto? Perchè quella risoluzione incredibile, contro la quale ogni sua insistenza si era spuntata?... Non aveva potuto saperlo. A tutte le lettere che egli le aveva scritte, alle umili lettere di preghiera, alle appassionate lettere d'amore, alle fiere lettere di minaccia, ella non aveva voluto rispondere. Un momento, era stato per ismarrire la ragione dinanzi a tanta ostinatezza di repulse. Il secreto che essi erano riusciti a serbare a costo di mille rischi e di mille sacrifizii , egli era stato sul punto di andarlo a rivelare a chi più interessava di conoscerlo; le aveva fatto sapere che se ella non si fosse piegata a rivederlo, ad ascoltarlo, a dargli una ragione di quel suo repentino mutamento, sarebbe andato a dir tutto al marito di lei!... Pazza minaccia, che non era stata seguita da effetto, grazie al sopravvenire del freddo ragionamento, non già perchè ella si fosse piegata!... Ed era stato per un caso, molto tempo dopo, quando ella era scomparsa nella solitudine di una campagna ignorata, che egli aveva intraveduto il possibile motivo di quella rottura. Poco prima che questa scoppiasse, un suo amico, quasi un fratello, gli aveva chiesto uno di quei servigi che solo un fratello può rendere: gli aveva affidata una donna compromessa per causa propria. Durante tutto il tempo da costei passato a Firenze, egli si era perciò messo a sua disposizione; le aveva reso tutti quei piccoli servigi che erano in suo potere, le aveva fatto meno insopportabile la sua posizione disgraziata. Ed ecco che una voce si era sparsa a sua insaputa, ed ecco che tardi, troppo tardi, veniva al suo orecchio quella voce, secondo la quale quella signora sarebbe stata la sua propria amante!... Allora, egli si era tutto spiegato: l'invenzione assurda, malvagia, aveva dovuto arrivare fino all'altra, fino a lei; ella l'aveva creduta; e la cieca prepotenza dell'amor suo non gli aveva data una prova preventiva di quel che avrebbe dovuto essere la sua gelosia?... Tutta questa storia, nei suoi più minuti particolari, si svolgeva ora nella memoria del Landini. Girando quella lettera da una mano all'altra, egli pensava che in quel pezzo di carta doveva essere la conferma o la smentita di quella sua spiegazione. Però non si decideva ad aprirla. Un tumulto di sentimenti gli si era scatenato nell'anima, e con quell'acutezza di indagine psicologica che metteva nello studio dei suoi processi, analizzava ora raffinatamente sè stesso. Perchè il suo cuore batteva dunque così forte? Ah! egli è che di un amore come quello, da lui ricordato, non se ne provano due nella vita!... Egli aveva amato ancora, aveva cercato attraverso le rinnovate esperienze qualche scintilla di quella gran fiamma: ma non l'aveva trovata. Come il duca d'Illiria della Dodicesima Notte di Shakespeare, egli avrebbe voluto esclamare:

"Ho troncata la mia carriera, ho abbandonato il mio paese che potevo ancora servire, mi sono ridotto in questa terra d'esilio; e tutto ciò è nulla! È l'aria che mi manca, è la gola che mi si stringe, è il petto che mi si opprime.... Senta, dopo tutto è una provvidenza che lei mi abbia scritto, che mi abbia offerta l'occasione di sfogarmi, di buttar sulla carta una parte di ciò che mi tempesta nel cranio e che minaccia di farmi ammattire! "Allora, stia a sentire: bisogna che io le dica tutto, non è vero? Ebbene, la prima colpa è un po' sua. Perchè si ostinò a farmi conoscere quella donna? Perchè mise tanto zelo ad interessarmi a lei? Si diverte dunque a far degli esperimenti in anima vili? Lei lo sapeva bene quel che doveva accadere in me, il bisogno che io aveva di un poco di cuore, malgrado il cinismo della caserma, malgrado la facilità degli intrighi di guarnigione, che l'ordine di tramutamento rompe, come rompe il contratto d'affitto delle camere mobiliate!... Egli è che questo cinismo è una specie di obbligo; che a fare i sentimentali si corre il rischio di esser messi in berlina dagli ufficialetti freschi di spalline! Egli è che vi sono dei sentimenti che si esprimono come si indossa l'uniforme d'ordinanza, perchè così va fatto, per non essere consegnati e per non essere canzonati! "Ebbene, quello che doveva accadere accadde! Io l'amai, quella donna; l'amai subito che la vidi, l'amavo prima! Quando io ricordo i primi tempi di questo amore muto, inconfessato, forse per ciò stesso più intenso - no, dico male, più raro - quando io ricordo questi giorni che non potranno ritornare mai più, è come se tutte le mie vene si vuotassero.... Sarebbe stato molto meglio che si fossero vuotate allora davvero! "Perchè dunque colei mi fece capire che non le ero indifferente?Perchè, invece di rafforzare la mia paura di offenderla, le sue parole, i suoi sguardi, i suoi stessi silenzii mi spinsero alla confessione? E quando io non potei più frenarmi, quando le ebbi fatto leggere nell'anima mia come in un libro, sa Ella la risposta che mi diede? "Mio Dio!... esclamò, che cosa ha fatto!" Dunque ella aveva paura? Dunque mi amava!... Quale altra interpretazione potevano avere quelle parole?... No, ella non aveva ragione di temere; io non le domandavo nulla che non volesse accordarmi ella stessa. Che cosa mi rispose ancora? Che solo così poteva essere amata, come una sorella; che una fatalità pesava su di lei, che forse un giorno avrei tutto saputo.... "Perchè quella reticenza? Che cosa poteva essere quella fatalità? Era libera, era stato suo marito che l'aveva lasciata per la prima venuta: lo avevo sentito ripetere da tutti. E nessuno dava una colpa a lei, nè prima nè dopo quell'abbandono; neppure l'ombra d'un sospetto la sfiorava. Allora? Aveva un amante ad insaputa del mondo? Ma se lo aveva perchè accettare la confessione dell'amor mio?perchè non dirmi alle prime parole che non era libera?.... Chi l'obbligava a fingere quella paura: "Mio Dio, che cosa ha mai fatto?" Perchè non mi aveva fatto mettere alla porta, o non si era messa a ridermi in faccia? "Non v'ha di peggio che trovarsi dinanzi all'assurdo e sentire nello stesso tempo la necessità imperiosa di trovargli una spiegazione. Quando mancano le induzioni ragionevoli, le più pazze ipotesi si presentano allo spirito. Dire tutte quelle che io formulavo e che dopo un attimo respingevo, non è assolutamente possibile. Ma quell'ansioso farneticamento, quell'assiduo lavorìo dell'imaginazione, se non mi avanzava di un passo nella scoperta della verità, riusciva però ad offuscare la figura della persona amata, gettava il dubbio su di lei, menomava, contaminava l'idolo che io me ne ero formato! "Questo, da una parte. Dall'altra, vedendola spesso, restando solo con lei, respirando la sua stessa aria, stringendo la sua mano, il mio martirio si raffinava; e se aveva voluto mettermi alla prova, qual prova maggiore potei darle del rispetto timido di cui la circondai? "Vi è un limite a tutto. Quando io non potei più oltre resistere, che cosa feci? Le scrissi che non l'avrei più rivista; non avevo il coraggio di dirglielo a voce. Ella mi richiamò, mi suplicò di rivederla; era necessario!... Mi amava! Era lei che lo scriveva! era lei che me lo ripeteva, aggiungendo che un giorno mi avrebbe tutto rivelato.... Che importava tutto il resto? Io non chiesi più nulla; me le affidai; non sospettavo ancora gli abissi di doppiezza di cui un cuore di donna è capace! "Non chiesi più nulla. Avevo sete dei suoi baci, non volevo aver l'aria di rubarglieli. Vi erano dei momenti in cui la mia ragione minacciava di smarrirsi; allora ella gemeva: "È una colpa!..." Perchè colpa? Se mi amava? Se io non avevo altri doveri, e se lei non ne aveva più? Poteva esser l'idea del dovere astratto, della legge divina che l'arrestava? Se era così, perchè non lo diceva? "Un giorno, non so più come, io nominai suo marito. Si turbò tutta, scongiurandomi di non parlare di lui. Comprendevo bene come il ricordo di quell'uomo non dovesse riuscirle gradito; però le dissi: "Fortunatamente egli è lontano..." Ella stette un momento guardando dinanzi a sè; poi rispose: "È ancora troppo vicino!" E nascose la faccia tra le mani. La luce d'un lampo traversò il mio spirito. Mi sentii morire. Nondimeno tacqui. "Al ballo del generale, qualche sera dopo, come il fascino di lei era irresistibile, io le mormorai: "Ebbene.... a quando la rivelazione?..." - "Anche ora! rispose; bisognerà però avere molto coraggio." - "È dunque molto triste a sapere? - "Anche a dire; credevo che avesse indovinato..." Allora io sentii come una mano che mi afferrasse alla gola, che mi strozzasse, che mi facesse schizzar gli occhi dalle orbite. Potei dire ancora: "Suo marito?" Ella chinò la testa. Poi mi afferrò una mano: "Mi giuri che non farà nulla, mi giuri che prima mi ascolterà..." "Io non le rivelo delle cose nuove; sono tanto amiche! Quel marito che l'aveva oltraggiata ed abbandonata, tornava ora da lei, pentito, ma non abbastanza da riparare alla luce del giorno i propri torti! Veniva a trovarla, di quando in quando; non si faceva veder da nessuno in città, restava nascosto il giorno, passava le notti da lei.... Ah! ah! non avevo io l'anima sua! "Che importa il resto?" ella mi domandava "il resto non esiste!" rispondeva quest'uomo accomodante! E appena io andavo via, quell'altro veniva ad esercitare i suoi diritti; faceva, secondo ogni probabilità, le grasse risate alle mie spalle! E colei, da economa esperta, dava l'anima a me, il resto all'altro! Io le schiudevo le gioie del cuore, l'altro... Oh! in nome di Dio, io vorrei scendere in istrada e fermare i passanti, il primo galantuomo che passa; io vorrei domandare: Di qual nome è degna costei? Che perfidia deve annidarsi nel suo petto, di quali transazioni è capace, se avendo dei pretesi doveri da custodire, allettava me di lusinghe; se giurandomi di non amare che me, non sapeva rinunziare a quell'altro; se si ridava a chi l'aveva offesa, se vilipendeva il sentimento sacro di cui le avevo fatto l'omaggio?... Come aveva mentito, sapientemente, dal primo all'ultimo giorno! Come aveva dovuto prendersi beffe di me!... In nome di Dio, perchè non mi aveva detto, se non era libera: "Andatevene, io non sono per voi?" Perchè quando volli io andarmene, mi trattenne? Perchè non mi disse da principio, subito, la verità; e mi derise invece con quella fatalità assurda, inverosimile, da lei stessa creata? Come mi accecai così; come caddi in tanto ridicolo? Guardi, io piango di rabbia! Che cosa aspettava, dunque; che cosa sperava? Che una vampa di desiderio mi avesse un giorno fatto perdere la ragione e che io avessi preso i resti di quell'altro? Che mi fossi accomodato di questa divisione amichevole?... Guardi, piango di umiliazione.... "Andiamo, via; ho torto di prendermela così calda. "Perfida come l'onda" il giudizio è antico; ma sono soltanto gli ammaestramenti della propria esperienza quelli che ci s'inchiodano nella mente. Ella mi perdoni queste lunghe ed inutili geremiadi; ma gli ammalati non provano una soddisfazione lor propria nel parlare del loro male? "Io non so ancora quel che farò; il presente è incerto e l'avvenire più tenebroso che mai. Si ricordi di me." Come il Darsi ebbe decifrato la firma: Alessandro Morea, la signora Auriti domandò: - Ebbene, che cosa ne dice? - Ecco un uomo - esclamò vivacemente il Darsi, credendo di aver trovato un argomento in suo favore - a cui la passione strappa accenti di una grande eloquenza! Lei non mi sosterrà, credo, che quest'uomo non sia sincero, che egli faccia delle frasi, se ha abbandonato il suo paese, se ha distrutta la sua vita.... - Non è vero che egli ha ragione? Non pare anche a lei che sarebbe difficile giustificare la parte avversa, e più difficile ancora ritorcere le accuse contro di lui?... Stia dunque a sentire. E questa volta, presa un'altra lettera dalla stessa cassetta dell'armadio, la signora Auriti cominciò a leggere ella stessa: "Amica mia, "Partito? per sempre?... Egli è partito, dopo avermi giurato di attendere dei mesi, degli anni, un'eternità? Di attendere la confessione di tutta la mia vita, dello strazio dell'anima mia? Partito, lui, senza ascoltarmi, abbandonandomi vilmente dopo aver rubata la mia pace, la tranquillità del mio povero cuore che io custodivo gelosamente, come il supremo dei beni? "Ah, se potessi credere che non è vero, che sono vittima d'una dolorosa allucinazione! Vorrei poterlo credere per me, ed anche per lui, per non disistimare quell'uomo che avevo messo molto in alto, in cima ai miei pensieri!... Non è possibile è vero? La realtà è schiacciante! Non è possibile neppure il pianto: gli occhi sono aridi, lo sguardo è inebetito.... "Mio Dio, mio Dio! perchè ha egli fatto questo! Che cosa aveva da rimproverarmi? Dici tu, amica, quali sono i miei torti? Non fui forse sincera con lui fino all'eroismo? La confessione che gli avevo promesso non mi avrebbe fatta l'anima a brani? La triste storia non mi avrebbe bruciato le labbra?... Eppure, avevo deciso di farlo ad ogni costo, come una espiazione, come un primo sacrifizio a quest'uomo che mi aveva dischiuso degli arcani dolcissimi, che mi aveva richiamata alla vita del cuore, mentre mi reputavo morta per essa! "Quest'uomo che io stimavo tanto diverso dagli altri sulla fede delle sue nobili parole, dei giudizii che gli altri, tu stessa per la prima, ne davano, aveva destato in me una grande simpatia; ma se io non ero padrona del mio sentimento, ero padrona della mia ragione; e può egli dire di essere stato da me incoraggiato, sia pure con la più innocente civetteria di cui nessuna donna va esente, a tentar di mutare la natura dei nostri rapporti? Se egli mi avesse subito fatto comprendere quali speranze nutriva, io avrei potuto farmi forza, disilluderlo fin dal principio, non vederlo più; egli invece seppe abilmente aspettare fino a quando io caddi in una fitta rete, quando la mia simpatia era diventata amore, amore potente, del quale non potevo più fare a meno, come non si fa a meno dell'aria che si respira!... ciò malgrado, che cosa gli risposi io? Chiedilo a lui stesso; mi affido alla sua coscienza, se ne ha una; che cosa gli risposi? Gli diedi forse allora qualche speranza vaga, lontana? Io gli dissi che non doveva concepirne nessuna, che non potevo amarlo se non come un amico, come un fratello; che una fatalità pesava sulla mia vita! "Una fatalità, la più triste, la più terribile: essere legata, indissolubilmente, a chi non si ama e non si può amare; esser libera agli occhi di tutti e sentire tutto il peso del dovere nell'intimo della coscienza! Tu lo sai, tu che sei stata presente alle mie dolorose vicende dal momento che fui legata a quell'uomo fino ad oggi, tu lo sai quel che mi fece soffrire! Ebbene, per ragione di queste sofferenze medesime, potevo io cacciarlo da me quand'egli era tornato pentito, umile, supplice, quando a sua volta tradito, invocava il mio perdono, quando io stessa avevo apprezzate tutte le tristi conseguenze della mia falsa posizione, i sospetti che la malignità sempre desta andava gettando su di me? "Il mio cuore era libero, allora; io non conoscevo ancora lui; avevo creduto che tutto fosse finito per me; non ebbi la forza di respingere mio marito che veniva in nome del nostro passato, che prometteva di riparare pubblicamente, alla luce del giorno, tutti i suoi torti, di smentire per ciò stesso le voci malvagie di cui ero l'oggetto. Quand'anche l'avessi avuta, questa forza, come resistere a lungo? Non aveva egli il diritto dalla sua parte? Non era mio marito?... Fu allora che conobbi lui, e puoi tu imaginare un tormento più grande del mio, spinta com'ero a gettarmi ai piedi dell'uomo amato, e incatenata intanto a chi avevo giurata la fede? Non erano tanto più grandi i miei doveri verso costui, quanto più grande era la mia apparente libertà, quanto più ero sottratta alla sua sorveglianza?... E non lo ingannavo, intanto? non gli mentivo? non avevo dato l'anima mia a quell'altro? Avrebbe quell'altro forse voluto che io mi fossi divisa fra loro due?... "Io non so; la mia mente si turba, la mia ragione si smarrisce! Quando io gli dissi che un triste secreto mi pesava sul cuore, che un giorno lo avrebbe saputo (non volevo, non dovevo confessarmi a lui?) io gli chiesi se avrebbe avuta la forza di affrontare una posizione tristissima, di contentarsi di quel che solo gli potevo dare. Che cosa rispose? "Non sa che forza la sicurezza di essere amato può dare ad un uomo!" Egli m'ingannava; traeva profitto del mio accecamento, contava presto o tardi di vincere in un modo o in un altro! Un galantuomo avrebbe detto "Questa forza io non l'ho; mi si chiede l'impossibile!" "Ed ancora, non gli avevo io chiesto di aver fede in me? Non aspettavo l'occasione propizia da un istante all'altro di dire a mio marito: Mantenete la vostra promessa, riprendetemi con voi dinanzi a tutti, o rinunziate per sempre a me? Non ero io quasi sicura ch'egli avrebbe esitato, nuovamente sedotto com'era da quella donna che lo aveva ammaliato, non più bisognante di me; che egli mi avrebbe presto lasciata libera, questa volta davvero, e per sempre?... Giurava di aver fede in me, lui, e mentiva; e quand'era il tempo di provarla, questa fede, mi abbandonava vilmente; vilmente, lo ripeto ancora, non mi stancherei di ripeterlo!... Dunque, il martirio che io sopportavo, i rimorsi di ogni natura che mi laceravano il cuore in tutti i sensi, la posizione di una donna che è sull'orlo della colpa, i mille pericoli cui andavo incontro, tutto questo era dunque nulla? Per chi mi aveva presa egli dunque?... "Ah, io mi lamento a torto! È forse provvidenziale che sia finita così! Egli mi avrebbe forse abbandonata dopo avermi avuta, come una cosa inutile ormai!... Mi ha lasciata prima; anche questa è una specie di lealtà di cui bisogna tenergli conto! "Non è men vero per ciò, amica mia, che sono delle nature predilette dalla sventura. Ed io sono del numero. Amami tu, per tutti gli altri, lascia che io versi nel tuo seno la piena del dolore; vieni, vieni presto, vieni a soccorrermi." La signora Auriti ebbe un piccolo sorriso di trionfo dinanzi al Darsi che restava un poco interdetto. - Vede se io avevo ragione? Sente come suona diversa l'altra campana? Mi parli dell'intesa, della compenetrazione delle anime, adesso!... - Ebbene! - esclamò il Darsi, che non si voleva arrendere. - Ciò prova che vi sono nella vita delle situazioni complesse, che ammettono per ciò stesso diverse soluzioni, tutte fino ad un certo punto legittime. Ma se queste persone giudicavano così diversamente della loro condotta di fronte al sentimento che li dominava, ella converrà meco che, almeno in questo sentimento, essi si accordavano del tutto, gettati com'erano per esso in preda al più disperato dolore... - Oh, non lo creda! - interruppe la signora Auriti, con un nuovo sorriso. - Non lo creda completamente. Certo, la scossa dovette esser sensibile; ma io penso che la previsione, in ciascuno di essi, del dolore dell'altro, dovesse essere più forte che non la personale sensazione dolorosa. - Come può dirlo? - Sa che cosa fece la mia amica, il giorno stesso in cui apprese la rottura? Andò a pranzo in casa di lady Dalty, dalla quale aveva già ricevuto un invito, dopo aver fatto un'accurata toletta. Per confessione stessa di lei - badi, io non metto una parola di mio - fattasi allo specchio, la sua meraviglia fu grande nel rivedersi la stessa, anzi più bella; il sangue affluito alla testa aveva acceso il suo volto, fatto come di bragia, coi grandi occhi sfavillanti. Quei preparativi di festa, i profumi dell'Ixora e della veloutine, le infusero quasi un benessere; a poco a poco una strana reazione si operò in lei; ebbe l'agio di trovare che il suo abito mauve, guernito di trine écrues e di jais, le stava a pennello... - Oh! - Aspetti ad esclamare. Per le vie, ella scambiava graziosi saluti e sorrisi, si sentiva ammirata da tutta quella folla; le pareva quasi che con quell'ammirazione le si rendesse giustizia... Esclami, amico mio; esclami pure; in quel momento ella pensava certo - questa è l'induzione mia, non me l'ha detto lei - alla disperazione dell'uomo, allo sconforto mortale a cui doveva essere in preda; e trovava giusto che egli soffrisse per lei e che lei si distraesse così... Egoismo, e del più puro! L'uomo invece... - L'uomo?... - Telegrafava ad un amico, per avere del danaro; il soggiorno di Parigi, anche quando ci si va per raccogliere un'eredità (suo fratello maggiore era stato colpito da paralisi, egli non fece che affrettare le sue dimissioni) non è una misura di economia. Da Milano a Torino fece il viaggio coi Marnengo; la signora conserva un gradevole ricordo dell'amabilità del capitano. Intanto che egli sfoggiava la sua più squisita galanteria, pensava probabilmente all'ambascia della donna, al rimorso che doveva divorarla, come la più giusta delle punizioni. Se gli avessero detto che in quell'ora precisa ella era a pranzo da lady Dalty, si sarebbe pentito di aver avuta tanta fretta!... - È disperante! - disse il Darsi, che vedeva l'inutilità dei suoi tentativi e cercava di lanciare un gran colpo. - Ella dunque crede che tutto sia finzione? Se io le provassi... - Mio Dio, vuol dire che non ho saputo ancora spiegarmi. Io dico che tutto è relativo, che tutto può esser vero e falso al tempo stesso, secondo il punto di vista. Lei, per esempio, è qui, nel mio salotto, a sostenere il disinteresse, l'altruismo, il sacrifizio. Questo, non è vero? è un concetto... - Del quale io non domando che darle la prova! - Allora, consideri un poco: non potrebbe anche essere un calcolo?

Franz von Rödrich ascoltava attentamente, coi gomiti sulla tavola e la testa fra le mani, mentre Ludwig Kopfliche, un po' abbandonato, le braccia pendenti, gli occhi rovesciati, seguiva per aria le spirali azzurrine della sua sigaretta odorosa. - Ed io ero in questa orribile alternativa - diceva Fritz Eisenstein - o di lasciare scoprire la mia relazione con quella donna, di vederla perduta per sempre agli occhi del mondo, di esser la causa di una rovina irreparabile, o di spingerla - io stesso! - in braccio all'unico uomo che avrei voluto fare scomparire dalla faccia della terra!... Ah! i miei capelli cominciano a brizzolarsi? Lo strano è come non sieno già tutti bianchi di neve!... Ludwig Kopfliche si attorcigliava ora lentamente i baffi candidissimi sulla faccia d'un bel roseo, di salute e di gioventù, e i suoi occhietti luccicavano sotto la larga fronte curiosa. - Non bisogna lamentarsi, perchè tutto può essere materia di studio, e di osservazione! Fra lo scatenarsi delle passioni più divoranti, c'è da fare delle raccolte preziose di piccoli documenti e di piccoli fatti! - Ed egli sviluppava le sue teorie di critico, di raffinato dilettante, capace di lasciare un brano del proprio cuore in fondo a una esperienza, pur di notare delle sensazioni nuove, o rare, o complesse. - Ma l'analisi non uccide il. sentimento? - Può anche crearlo! A furia di critica, si può costrurre - come, diciamo noi tedeschi - quel sentimento che più ti aggrada. L'amore? Anche quello. Io posso far nascere in me l'amore, quando voglio, artificialmente.... E mentre egli raccontava i risultati di qualcuna delle sue complicate esperienze psicologiche, Fritz scuoteva la testa, e replicava, opponendo argomento ad argomento, e caso a caso. Vive, appassionate, enimmatiche, si evocavano intanto ai loro occhi le scomparse figure di donne e, ad un tratto, dinanzi alla irrompente piena di ricordi, le voci tacevano un poco. Allora si sentiva il silenzio solenne della campagna assopita sotto il sole declinante, mentre l'azzurro del cielo leggermente velato pareva l'immensa evaporazione del mare e le vele latine si tingevano di porpora. Con la fronte sulla palma della mano, Franz von Rödrich lasciava annegare i suoi sguardi negli spazii profondi, e un brivido gli serpeggiò pel corpo quando gli amici si volsero a lui, strappandolo un po' bruscamente alla sua deliziosa rêverie. - Franz, tu sei ammutolito? - Non ci racconti la tua? - Che cosa volete che io vi racconti? - rispose egli, con lo sguardo un po' smarrito pel contrasto della chiara luce diffusa al largo e la penombra della stanza, dalla quale il sole si era già ritirato. - Per cercare che io faccia, non mi riesce di trovare in fondo alla mia memoria nessun fatto che sia degno di interessarvi come i vostri hanno interessato me. I casi più notevoli che mi sono capitati sono di quelli che, con parola espressiva, si chiamano fiaschi. Ora, i fiaschi è meglio vuotarli che raccontarli! - e nel ripetere il volgare doppio senso v'era qualcosa d'amaro nell'espressione della sua fisonomia. - Egli è che voi ne avete già vuotati parecchi - osservò Ludwig Kopfliche, che non beveva quasi vino - e sarebbe prudente di cambiar sistema! - Conciliamo! conciliamo! - rispose Fritz Eisenstein porgendo un bicchiere a Franz von Rödrich. - Vuota prima... Ora racconta! - Volete? E sia! Ma non vi stupirete se nel mio racconto non'v'è molto nesso?... Io lascierò che i ricordi si svolgano da loro; e se vi annoio, siamo intesi? la colpa è vostra. Voi avete conosciuta la Cabianchi? Fritz e Ludwig si guardarono. - Quello splendore?... Quella maestà?... - Sì, quello splendore, quella maestà di bellezza, completa, perfetta, ideale! Quella bellezza che non si concepiva di poter ammirare altrimenti che in ginocchio, dal basso all'alto, colle mani giunte, nell'attitudine di un prete dinanzi all'idolo! Quella bellezza pura, serena, intangibile e intatta! Io l'ho amata... Parlo con persone che intendono che cosa si racchiuda in questa parola: Amore; quali eterogenei elementi entrino a formarne il signiflcato. Fra tutti i secreti moventi che esercitavano la loro azione su di me, la curiosità di leggere in fondo a quel cuore, di risolvere l'enimma di quegli sguardi di sfinge tranquilla e superba, non era il meno forte.... Ma io l'amavo con più semplicità; la desideravo, anima e corpo, e tanto più intensamente, tanto più dolorosamente, quanto più scoraggiante era la leggenda che correva su quella Groenlandia ghiacciata. Chi potea vantarsi di aver avuto con quella donna una conversazione intima, sulle cose del cuore e dell'anima? La sua intimità, io voleva conquistarla. Ciò che mi arrestava di più in lei, era la sua serenità divina, di creatura superiore, a cui gli omaggi, il culto, sono dovuti, naturalmente; che nulla può commuovere, che nulla può interessare. E la frase di Spinoza mi tornava alla memoria: "Chi ama Dio non può far nulla perchè Dio lo ami in ricambio..." Vi era in questa indifferenza dinanzi alle prove della mia più fervida adorazione, della mia devozione più umile, qualche cosa che feriva il mio amor proprio, acutamente; non pertanto mi facevo forza, e persistevo, malgrado mille piccole amarezze, felice di sorprendere, di tanto in tanto, qualche barlume nella freddezza metallica di quegli sguardi. Alcune volte gli spiriti s'intendono, meglio che per via di lunghi discorsi, in un minuto di silenzio eloquente.... Noi eravamo alla terrazza del villino, verso il tramonto di una giornata autunnale. Il cielo dell'orizzonte era d'un rosa tenero che, per gradazioni delicatissime, sfumava in un verde impossibile a definire... Io ero riuscito a farle leggere un romanzo d'amore; ne avevamo parlato; mi era parso di scoprire, nel suo accento, qualcosa di tremante, di commosso, al ricordo del dramma... - Che cosa è la vita senza passione?... - Io ero stupito ancora delle mie parole; mi aspettavo di vedermi guardato con occhio curioso, come si guarda un originale, uno stravagante.... Ella guardava l'orizzonte, quel rosa e quel verde che infondevano una grande dolcezza nel cuore. Vista così di profilo, immobile, ai toni caldi del tramonto, ella era schiacciante di bellezza ieratica.... Tacevamo, e l'ora fuggiva, adorabile.... Lentamente, io avevo cavato il guanto dalla mia destra, e pigliando a un tratto congedo da lei, tenni, per la prima volta, la sua mano nuda nella mia. Era il freddo della sera? Un brivido mi passò pel corpo a quel contatto soave. Quanto tempo si può stringere una mano? Due, cinque secondi? A me parve che quella stretta durasse indefinitamente. Alla sensazione di freddo che mi aveva scosso, ora succedeva un tepore dolcissimo che, a ondate, dalla mano mi saliva pel braccio e mi serpeggiava per tutti i nervi... - Ci rivedremo presto?... - Martedì, al viale dei Platani. - Che scoppio d'allegrezza nell'anima!... Io mi sorprendevo, per le strade affollate, ad esclamare: È mia! È mia! Quanti mi avranno preso per pazzo?... Con quale ansia aspettavo che il tempo scorresse, che arrivasse quel martedì, quando avrei... che cosa? Non lo sapevo io stesso!... Io ero lì, a percorrere il viale coperto d'un tappeto di foglie morte, spiando la sua comparsa, sussultando ad ogni rumore, ad ogni forma lontana... Ella non veniva ancora.... Degli amici m'incontravano, mi trattenevano; io avrei voluto strozzarli.... Il tonno passava, le ore suonavano una dopo l'altra all'antico convento di San Domenico, le ombre si allungavano.... Ella non veniva.... Il freddo della sera mi pungeva, le gambe mi si piegavano.... Ella non veniva... Perchè? Che cosa le avevo fatto?... Ma insomma, non era quella mia disperazione puerile? Un contrattempo fa presto a sorgere... Però io provai una puntura acutissima, lancinante, quando, uscito di lì, nella baraonda della via, la scorsi, serena, indifferente, incedere tra la folla con lo sguardo fisso dinanzi a sè, senza guardare nessuno. Tu hai pratica del magnetismo, Ludwig?... Io la chiamavo imperiosamente, cogli occhi, e come ella si voltò a guardarmi, le feci l'affronto di non salutarla. Avevo voglia di piangere. Mi sentivo umiliato, avvilito da quella indifferenza, da quella serenità. Mi rivedevo, ridicolo, lì, in quel viale dei Platani, ad aspettare chi non veniva; a desiderare chi il desiderio non aveva mai compreso... Io stetti quindici giorni senza cercarla; meglio, evitandola. Poi la passione fu più forte. Ella pareva non essersi accorta di nulla; mi accolse come l'avessi lasciata il giorno prima. Le repulse decise, una dichiarata ostilità non mi avrebbero fatto tanto male quanto quella incoscienza serena che offendeva la mia passione d'amante e la mia dignità di uomo... Mi allontanai ancora; poi tornai nuovamente a lei... Vado per le lunghe? Un giorno, era sola. Come mi lasciai trascinare dalla piena dell'affetto? Che cosa le dissi? Io ero stupito della mia eloquenza; le frasi mi sgorgavano dalle labbra facili, incalzanti, come in certi momenti di dormiveglia, quando ci sembra di parlare con la stessa facilità con cui si legge in un libro stampato... - Voi non credete all'amore? Che cosa bisogna fare per convertirvi? Come dimostrarvi di che miracoli l'amore è capace? Come provarvi che non ostante l'accumularsi del ghiaccio, tra i rigori iperborei, le fiamme d'un vulcano possono erompere?... - Io ero al suo fianco, vicino, molto; sentivo il suo profumo penetrante salirmi al cervello; la guardavo supplicante... Nulla!... Non importa!... presi la sua mano nelle mie mani scottanti... Ella la ritirò... Non importa!... non volevo che mi sfuggisse, contavo di vincerla... Ah!... quella mano che ella mi aveva tolto, ora me la porgeva!... Come? Come si fa l'elemosina ad un miserabile, ad un fastidioso miserabile che vi stia dattorno, inevitabilmente!... Nel suo sguardo, l'impassibilità del Dio... No! Tutto il mio orgoglio dimenticato, soffocato, calpestato per l'amore di quella donna, si ridestò gigante, irresistibile. No!.... Se io avessi preso quella mano, sarei stato probabilmente l'amante della signora Cabianchi. Quella mano, io non la presi.... - Ah! Tu non l'amavi! - esclamò Fritz Eisenstein, picchiando sulla tavola e facendo col capo vivi segni di denegazione. - E poi, scusa - aggiunse Ludwig Kopfliche accendendo un'altra sigaretta - l'osservatore non deve aver tutte queste fisime pel capo! La ricerca del fatto, innanzi tutto. Sarebbe bella che il fisico non volesse curvarsi a guardare dentro il microscopio, col pretesto che l'uomo deve tener alta la fronte! Sarebbe ancora più bella che il fisiologo rinunziasse a provare l'efficacia d'un rimedio, per non aprire le viscere d'una creatura vivente! - Ah! eccomi giunto al mio secondo caso, - riprese Franz von Rödrich , dopo aver lasciato dire gli amici fissando le vaghe forme vaporose che si disegnavano all'orizzonte. - Una creatura vivente, e di che vita intensa, acuta e torturante! Voi non l'avete conosciuta. Il suo nome? Che cosa importa! Ella si chiamava la Leggiadria, la Grazia, l'Incanto. Nulla, in lei, di regolare e di previsto; il volgo la giudicava brutta. Ella era bella, della sovrumana bellezza consistente nell'espressione, nella simpatia, nell'anima rivelantesi dagli sguardi, dalla voce, dalla stessa attitudine di un corpo flessibile, ondulante, superbamente modellato. Dal primo giorno che la vidi, una dolcissima intimità si stabilì fra di noi. Io non ricordo di aver mai scambiato con lei fuorchè in presenza di altre persone i luoghi comuni delle conversazioni quotidiane. Che scienza del cuore ella aveva! Come era organata per la sofferenza l'eletta creatura, tutta spirito, tutta fantasia, - e come aveva sofferto! Vi era una tragedia nella sua vita, ed ella era ancora sotto l'impressione del fulmine cadutole dinanzi. Come esprimere l'intenerimento che ella mi dava? Io avrei voluto al mio comando ogni potenza per riparare l'evidente ingiustizia commessa a suo danno dal Destino, per restituirle i suoi sogni e le sue speranze, per cospargere di petali di rosa il suo cammino.... A poco a poco, arrivai a credermi capace di questo miracolo. Il prepotente amore nasceva in me: si traduceva, mio malgrado, in ogni mia parola, in ogni mio atto. Ah! che charme! che charme!... Ella mi comprendeva, mi era grata, mi amava.... Come spiegare altrimenti la metamorfosi che si operava in lei, l'adorabile sorriso che le splendeva ora negli umidi sguardi, la rifioritura di tutto il suo essere oppresso e quasi avvizzito dall'inclemente stagione?... Il mio più fervido voto stava dunque per essere compiuto? La gioia aspettata stava dunque per entrarmi nel cuore?... Oh, perchè, invece, una nebbia di tristezza si levava in me lentamente, ed invadeva le più recondite pieghe dell'anima? Perchè quel sentimento di profonda, di angosciosa commiserazione alla vista della creatura adorata? Perchè quella ostinata visione del male di cui le sarei stato causa, delle nuove inevitabili lacrime, delle nuove torture? In chiesa, un venerdì , il giorno che ella dedicava alla preghiera.... Era in ginocchio dinanzi l'altare dell'Addolorata. Non mi vide. Io bevevo la magia della sua vista, e il luogo, l'ora, tutto mi disponeva ad una mistica tenerezza. Oh, la povera adorata creatura! Come era debole, e tenue, e delicata, e fragile! Come il suo viso era lavato dal pianto! Come il più leggiero tocco l'avrebbe fatta dolorosamente vibrare in tutte le flbre! Come bisognava essere crudeli per tormentarla, ancora!... E un giorno che noi eravamo soli, e che io le ero vicino, e che le nostre fronti si avvicinarono per leggere le parole di un poeta, le mie labbra le sfiorarono le tempie.... Un grido represso, una angoscia nell'occhio rovesciato, uno scoloramento nel viso, un affannoso sollevarsi del seno.... Io presi le sue mani, le sue povere bianche mani tremanti che ella aveva portato sul cuore; io le baciai, filialmente.... La sera ero partito, lontano.... - Ah! Tu non l'a... - cominciò Fritz Eisen,stein; ma levandosi ad un tratto da sedere, in preda ad una grande emozione, si corresse vivacemente: - No! No!... Tu l'amavi; oh se l'amavi! Ed è bella, ed è buona, ed è vera questa pietà!... Ora, il cielo dell'oriente si colorava d'ametista e il mare si venava di grandi striscie, come un amuerro. Le barche si avvicinavano alla costa, in lunghe file, e il silenzio pareva piovere più profondamente sulla campagna e sul mare. - Che poesia nella rinunzia! - esclamò ancora Fritz Eisenstein, con un gesto largo. - Il Buddha! il Buddha! - disse sommessamente il raccontatore. Allora Ludwig Kopfliche, il dilettante, si rialzò sulla sedia, buttò la sua sigaretta, incrociò le braccia sulla sponda della tavola, e immobile in tutta la persona, come un idolo antico, cominciò: - Quando Sachia-Muni era ancora il principe Siddârtha, aveva ogni virtù del perfetto cavaliere. In un punto soltanto non rassomigliava a tutti gli altri. Nessuno era più abile di lui ad inseguire la caccia per la foresta; ma quando, al galoppo del suo focoso cavallo, con l'arco teso, vedeva saltellare rapidamente la gazzella spaurita, invece di lanciare la freccia egli si arrestava, preso da un subito tremore; lasciando i suoi compagni, se ne andava con uno strano sogno di tristezza e di pietà.... "Voi che volete seguire la strada regale" - disse Franz von Rödrich, interrompendo l'amico con un segno della mano - "ascoltate le quattro grandi verità! La prima è di conoscere il dolore; la seconda di penetrare la sua causa: il desiderio. La terza consiste nella fine del dolore, che è l'amore di sè vinto, la brama domata. La quarta è di conoscere la via che conduce al rifugio...." E mentre il sole tramontava e il velo dell'ombra si distendeva sul cielo e sul mare, i tre buddisti tacevano, nell'aspirazione al promesso Nirvâna. FINE.

Il marito dell'amica

245037
Neera 2 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Bastava una parola, un profumo, una data luce, uno scalino sprofondato nell'ombra perchè, in mezzo alle più aride occupazioni giornaliere, le si sprigionasse un vulcano di desideri, sopiti, non spenti; e un tormento continuo, e un rimorso d'averlo abbandonato; un accusare sè stessa di non essere stata generosa, di non essersi sacrificata interamente. Da queste lotte che avrebbero isterilita una persona volgare, Maria usciva radiante di fede, portando nel suo piccolo mondo un raddoppiamento d'affetti, una intelligenza squisita delle sofferenze umane; un compatimento, una misericordia che non si stancavano mai, perchè si alimentavano della ferita ch'ella aveva nel cuore. Improvvisamente suo marito morì, vittima di una rissa in una casa da giuoco. Trascorso l'anno di lutto, Maria affidando i suoi vasti possedimenti nelle mani di un agente sicuro, era venuta in Italia accompagnata dal suo fido Pablo. E quando, spoglio d'ogni riflessione personale, ella ebbe fatto a Sofia il racconto succinto del suo matrimonio, della vita in America e della morte del marito, Sofia celiando le disse: - E se ora ritrovassi il tuo primo innamorato? - Impossibile - rispose Maria, seria. - Perché? - È morto.

Pagina 51

«Felice colui che si alza dal banchetto della vita prima di vedere il fondo del bicchiere. » E rimase col libro aperto, abbandonato sui ginocchi e sovr'esso gli occhi immobili pieni dì lagrime. Fu bussato all'uscio timidamente. Maria si alzò. Era la cameriera che veniva a chiederle se le occorresse la sua opera prima della colazione. - La colazione? - domandò Maria trasognata - Quante sono le ore? - Le dieci e mezzo. Il padrone è già nella sala da pranzo. Il padrone! Maria aveva dimenticato che la. sua amica non c'era, che il padrone sarebbe stato solo con lei. - No - rispose in modo reciso - non vengo a colazione. Favorite dire al mio domestico che si tenga pronto. Esco. Uscì difatti quasi subito, seguita da Pablo.

Pagina 64

Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245390
Grazia Deledda 4 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Tobia era lì; in maniche di camicia, abbandonato su una sedia con la spalliera inclinata verso il muro; e dormiva, stanco. Chiunque avrebbe potuto saccheggiargli il negozio: egli dormiva, stanco di aver venduto a caro prezzo la sua roba diletta. Ma appena io misi piede nel negozio si svegliò di soprassalto e mi venne incontro quasi spaventato. Dapprima parve non ricordarsi, poi si mise al banco come per vendere, e io davanti come per comprare: e mi interrogò coi piccoli occhi porcini, di solito sfuggenti allo sguardo che li cercava. Io avevo preparato una specie di breve memoriale dove raccontavo quello che avevo imparato nell'istituto, e come non volendo più vivere alle spalle della zia desideravo ardentemente di lavorare e di guadagnare. L'ebreo lesse attentamente, anzi con una certa curiosità; poi mi restituì il foglio. E così fece in seguito per tutti i foglietti sui quali io gli scrivevo qualche cosa. Al contrario del padre di Fiora, non amava far raccolta di documenti e scritture a meno che non fossero di un valore serio e indiscutibile! Ecco dunque la conversazione scritta fra me e lui: Tobia: tutto questo va bene; ma, caro, è difficile trovare un posto d'agronomo, nelle tue condizioni. Io: ma io posso accettare di lavorare anche come contadino. Tobia: non ti conviene, caro, dimmi, piuttosto, perchè non pensi a coltivare il tuo terreno? Io: ci penso, sì, ma non ho denari. Tobia: quanto ti occorrerebbe? lo: per adesso duemila lire. Tobia: il tuo terreno quanto vale? Io: cinque o sei mila lire, com'è adesso. Tobia: se qualcuno ti offre le duemila lire in prestito, saresti tu disposto a firmare una cambiale ed a lasciar accendere un'ipoteca sul tuo terreno? Io ero disposto a tutto, anche a lasciare accendere un'ipoteca dal diavolo sull'anima mia. II droghiere Tobia mi significò essere lui medesimo in persona che dava i denari: prima però doveva informarsi se davvero il mio terreno era coltivabile, e volle sapere da me come intendevo disporre di quelle prime due mila lire. lo avevo fatto tante volte i miei conti; mi bastava in principio una capanna, degli strumenti per dissodare la terra, e piante e sementi. L'acqua c'era: bastava incanalarla. Tobia leggeva i miei foglietti e mano mano me li restituiva, pensieroso. Pareva studiasse sul serio il modo di aiutarmi, senza però farsene merito: infine, siccome qualcuno entrava nella drogheria, mi accennò di andarmene. Quando mi ritrovai nel sole della strada, lo splendore del mare mi parve dentro l'anima mia. La vita si spalancava davanti a me luminosa. L'istinto non m'ingannava, circa Tobia: sentivo ch'egli mi dava i denari a usura, con la sicurezza di riaverli, ma più sicuro ero io, di restituirglieli.

Pagina 111

La temeva ma non la rispettava, perchè sapeva che a sua volta Elisabetta non avrebbe abbandonato la casa, dove faceva il comodo suo, se non per andarsene all'altro mondo. - Perchè mi guardi così? - le disse. - Mi pare che diventi losca, ragazza mia. A che pensi? - Penso, - ella rispose sottovoce, perchè non la sentissero quelli che stavano di Ià, - che ai miei tempi i bambini non si trovavano così in campagna come leprotti. - Ai tuoi tempi non si trovavano ancora nè bambini nè leprotti, nel mondo. Adamo non era ancora nato. La serva non insistè, per non farsi sentire dalla padrona; ma Davide aveva voglia di gridare: s'alzò, senza aver finito il pasto, e ripetè: - Non credere che me lo voglia tenere in casa. Adesso vedrai che ci pensi anche tu. - Gli oggetti ritrovati si portano in chiesa, - disse con accento ironico, tornando a sedersi sulla panca di cucina. - Dunque, a pensarci bene, questa creatura deve essere proprio consegnata al parroco: e questa notte stessa. Bisogna che qualcuno vada giù in parrocchia a portarla. - Adesso? - mormorò la moglie, che teneva sempre il bambino in grembo. - E perchè? Non è una notte di burrasca per non poter uscire. Io, però, no davvero non ci vado, e tu neppure. Albina ha paura degli spiriti: bisogna dunque che ci vai tu, Elisabetta. Elisabetta non aveva paura di uscir sola di notte, ma capì che mandando lei dal parroco col bambino il padrone voleva castigarla per la sua malizia e si mise a sorridere. In fordo faceva sempre quello che le piaceva. - Se vossignoria mi manda ci vado, ma dovrò forse tornarmene col mio carico. Sua reverenza il parroco vorrà parlare con vossignoria, prima di accettare il bambino; non vorrà credere così subito che.... - Elisabetta! - gridò il padrone senza lasciarla finire: - quando io dò un ordine tu devi eseguirlo e non discutere. Tu devi prendere il bambino e portarlo giù dal parroco; s'egli non vorrà accettarlo toccherà poi a me e non a te a provvedere. Visto che la cosa si faceva seria, la serva smise di sorridere. A lei, dopo tutto, non importava nulla di condurre la disgraziata creatura in giro di notte; una serva deve fare sempre quello che ordina il padrone; ma le pareva un'azione vergognosa, da parte del padrone, che era anche sindaco, non bisogna dimenticarlo, e di tutta la sua accreditata famiglia, di scacciare così, come un cane randagio, un povero bambino ferito. E lo disse, dopo qualche esitazione però, perchè aveva paura d'irritare maggiormente il padrone. Del resto, nonostante la furia di lui di liberarsi del bambino, ella persisteva nel credere poco vera la storia del ritrovamento in mezzo alla strada. - Certo, non si tratta di un oggetto, ma di una creatura di Dio, - mormorò la moglie, già impressionata dalle parole di Elisabetta. - E allora tienitelo, - gridò il marito. Bona chinò un po' la testa su quella del bambino, ma sollevò gli occhi grandi e tristi. - È quello che tu vuoi, - disse sottovoce, con un accento misterioso, come volesse non farsi sentire. Ma tutti avevano buone orecchie, tutti sentirono: e Davide scattò con impeto quasi selvaggio, imprecando e facendo atto di strappare alla moglie il bambino che ella strinse a sè, senza più parlare. II dibattito continuò allora fra il padrone e la vecchia serva, finchè questa dichiarò nettamente che non intendeva uscir fuori di notte con un fardello così strano. - Vossignoria mi mandi fuori sola; vado in cima al monte, ma con la creatura no. - Allora andrai tu, Albina Albina si fece il segno della croce, rifugiandosi nell'angolo più lontano della cucina: lo stesso padrone si mise a ridere, vedendo il suo terrore, poi disse che bisognava si movesse pur lui poichè aveva delle serve nutrite, pagate e calzate solo per tener la coda alla padrona e farsi comandare invece che essere obbedito da loro. Non si moveva, però; anzi aveva acceso la pipa e fumava rabbiosamente mandando di qua e di là il fumo, come ad empirne meglio la cucina, tanto che l'uomo sotto il sacco cominciò a tossire, ma d'una tosse più di protesta che veramente causata dal fumo; e il primo istinto di Davide fu di scansarglielo, poi invece lo mandò dispettosamente tutto da quella parte. Ma la consolazione della pipa non calmava la sua collera: inghiottiva amaro e si pentiva di non aver già consegnato il bambino ai preti o al brigadiere, o a qualche donna che il Comune poi non avrebbe mancato di compensare. La sua amarezza era causata dal ricordo che la moglie fino a poco tempo prima aveva sofferto di gelosia: gelosia muta, rodente, non del tutto ingiustificata, - era uomo del mondo anche lui, - che si manifestava solo nelle lunghe tristezze e nei silenzi esacerbati di lei, ma che a volte prendeva una vera forma di malattia e faceva dimagrire e ingiallire la donna di modo che Albina sospettava si trattasse di stregoneria. Il dolore per la morte del figlio aveva assorbito anche questa passione, anche perchè ella sentiva che il marito rispettava la memoria del diletto perduto conservandosi casto e fedele a lei. E infatti era così: Davide in fondo aveva l'impressione che il figlio dall'eternità lo vedesse in ogni sua azione e in ogni suo pensiero, e ne temeva il giudizio. - Tu vedi, queste donne hanno torto, adesso, - gridò fra di sè, scendendo nel profondo della sua coscienza e risalendovi alquanto placato. Si levò la pipa di bocca e sputò: sì, la sua coscienza non gli rimproverava nulla; ma il sospetto continuava a soffiargli egualmente intorno, con l'alito stesso della donna. - Allora nessuno si muove? Aprimi la porta, Elisabetta, poichè dunque devo essere il servo io, in casa mia. - In quanto ad aprire la porta, vossignoria non ha che da comandarmi, - replicò la serva, agitando il mazzo delle chiavi; ma intanto non si moveva. Ed ecco d'un tratto l'uomo che stava sdraiato cominciò ad agitarsi stranamente: dapprima buttò via il sacco, scoprendo le grosse spalle rivestite di una giacca da cacciatore; poi sollevò la testa grossa pur essa e avvolta da una nuvola di capelli neri polverosi, infine puntò i gomiti sulla stuoia, ma tosto si lasciò ricadere come impotente ad alzarsi: dopo qualche attimo, però, si volse e si mise a sedere, d'un colpo, con le gambe lunghe distese, le mani aperte appoggiate a terra, la testa così abbassata sul petto che i capelli gli velavano il viso grigio e duro come scolpito sulla pietra: aveva gli occhi chiusi e tutto un aspetto di Sansone cieco. Davide lo guardava con un po' di derisione. - Adesso sentiremo anche il suo verbo, - pensò; ma intanto si rimise a fumare sospendendo la sua decisione di alzarsi e di uscire. - Davide D'Elia, - cominciò a dire I'uomo, dapprima come parlando fra sè poi a poco a poco alzando la voce e in tono alquanto declamatorio, - la sua serva vecchia ha perfettamente ragione. Manca di rispetto e di obbedienza ai suoi padroni, ma parla secondo la sua coscienza. Non si manda via così una creatura smarrita. Oh, se la famiglia D'Elia non ha un pezzo di pane da dare a un bambino povero a che è ridotto il mondo? - Ma sta un po' zitto! - gli disse Elisabetta, sebbene egli prendesse le parti di lei. L'uomo parve non sentirla, però proseguì con tono più dimesso e più sincero: - La famiglia D'Elia mantiene qui sulla stuoia come un Cristo deposto il suo servo cieco, buono più a niente, e rifiuta ospitalità a una creatura smarrita? Mandatemi via, piuttosto, mandatemi via. Mandatemi via, - ripetè per la terza volta con voce tremante; - io troverò sempre chi mi farà l'elemosina e non correrò pericolo come può correrlo questa creatura innocente, - E basta, - gridò a sua volta Davide masticando il cannello della sua pipa. E il cieco non replicò. Era del resto un uomo taciturno e mite: i D'Elia lo tenevano presso di loro perchè egli s'era accecato spegnendo un incendio nel loro granaio: non parlava quasi mai, non s'immischiava mai nei fatti di casa; ed era con una certa meraviglia che le donne, adesso, l'avevano sentito gridare. Anche Davide si difendeva contro un vago turbamento superstizioso: gli pareva che il cieco parlasse meccanicamente, spinto da una volontà superiore alla sua: come una marionetta che altri fa muovere. Bisognava non prender la cosa in derisione, ma pensarci su. Il cieco non replicava: rimaneva però fermo nella sua posizione, come aspettando che il padrone si alzasse per alzarsi anche lui e continuare nella sua protesta. Ma neppure il padrone si mosse. E così, per quella notte il bambino rimase in casa.

Pagina 14

Dopo quel tentativo di avvicinamento, mi aveva di nuovo abbandonato a me stesso, senza trascurare nulla per il mio benessere materiale. Mi aveva comprato maglie e vestiti nuovi, e caricato il letto di coperte di lana; accendeva il fuoco per me nella tetra stanzetta da pranzo che s'illuminava tutta e diventava quasi allegra. Fuori imperversava il mal tempo: io andavo dalla porta di strada alla porta sul cortiletto, entravo in cucina, entravo nella stanzetta da pranzo, tornavo nell'ingresso: ma non uscivo: la noia e la tristezza mi divoravano. Ed ecco finalmente venne a trovarmi il vecchio marinaio: aveva un enorme ombrello verde che lasciò a sgocciolare sullo scalino esterno della porta. Io non mi sorpresi della sua venuta; l'aspettavo; non mi sorpresi, eppure il cuore mi batteva come quando avevo veduto il padre di Fiora in casa nostra. II vecchio veniva a domandare come stavo: credeva fossi malato. Lo si invitò a sedere accanto al camino, ma egli volle andare di là, in cucina. Non aveva freddo, lui: dalla sua bocca usciva un abbondante vapore; e si passò la mano sulla fronte perchè sudava. Con meraviglia vidi che aveva le scarpe; due scarponi che sembravano barche. Mentre discorreva con la zia, che lo ascoltava un po' diffidente, un gattino gli si arrampicò sulla gamba: egli lo prese e lo tenne dentro il suo pugno, se lo accostò al viso quasi volesse baciarlo, e per tutto il tempo che stette da noi non finì di accarezzarlo: intanto però doveva domandare alla zia qualche cosa di molto grave e serio perchè lei si faceva sempre più scura in viso; finalmente gli rispose accennando me con la testa: e io intesi benissimo il senso delle sue parole: "tocca a lui decidere,,. Subito il vecchio mi invitò ad andare con lui: ma non era solo questo che dovevo decidere: qualche altra cosa ben più grave e profonda dovevo decidere, o era già decisa per me dal destino. Esitavo quindi a muovermi: d'altronde il restare ancora lì dentro mi soffocava. Mi lasciai portare via, sotto l'ombrello che pareva un pino: ma quando si fu davanti alla drogheria afferrai il braccio del vecchio per tirarlo verso il mare; egli mi guardò; io arrossii e ripresi a seguirlo docilmente. Nel mio turbamento immaginavo di trovare ancora la donna sotto il pergolato, e mi sorpresi nel vederla accanto a un alto braciere di ottone, in una stanza le cui pareti erano tutte ricoperte di quadri e di fotografie in cornice. E anche qui, come nella casa colonica, dominava dalla parete il ritratto ad olio del padrone di casa: pareva anzi fatto dallo stesso pittore, perchè aveva le medesime tinte accese: solo che era di profilo, e aveva una curiosa rassomiglianza coi ritratti di Dante quali si vedono nelle illustrazioni dei libri di scuola. La stanza era piuttosto tetra, quasi come la nostra; dalla finestra penetrava l'acqua, che la serva asciugava con uno straccio: e anche la donna era immelanconita, con uno scialletto nero che le nascondeva il bel collo e la invecchiava. Ma d'un tratto ecco che mi ritrovo solo con lei, perchè la serva s'è ritirata chiudendo dietro di sè l'uscio di cucina e il vecchio è anch'esso sparito quasi furtivamente: ella solleva la testa dal lavoro e mi guarda: mi guarda arrossendo e poi reclina di nuovo il viso. Quello sguardo chiaro, vivo, quel rossore, mi penetrano l'anima, ne illuminano gli angoli più neri, come lampi in una notte oscura. Mi sento tutto bruciare, dentro: e la verità mi percuote finalmente il cuore.

Pagina 155

Che, inoltre, il cieco la giudicasse male, in quell'occasione, se ne convinse subito; perchè nel sentire che il bambino insisteva adesso nel suo pianto lamentoso, egli disse come fra sè: - Sembra davvero un agnello abbandonato: ma chi se ne cura? E buttatelo nell'orto, a pascer l'erba; sarà meglio per lui. Lei stava zitta, dura: eppure quel pianto cominciava a darle una strana impressione: le pareva che il bambino la chiamasse, che se lei si muoveva, se, come la sera prima, lo prendeva in grembo, si sarebbe calmato. Ma non voleva muoversi, no: anche perchè sentiva un odio sordo contro il brigadiere, che per lei era uno di quei feroci personaggi che tutti in blocco rappresentavano la Forza mostruosa che le aveva tolto il figlio di casa per buttarlo nei campi della morte. Zitta, dunque, e dura, anche per protestare contro la sorte: perchè doveva muoversi a raccogliere il figlio altrui? Lo buttassero nell'orto, a pascer l'erba: e se il cieco non smetteva di brontolare poteva esser buttato anche lui fra le immondezze. Il cieco non brontolava: s'era alzato, però, e stava fermo contro la parete, con le mani aperte penzoloni e il viso sollevato, coi capelli sulle guancie, come un Cristo schiodato dalla croce e messo lì appoggiato al muro: aspettava con inquietudine che si decidessero le sorti del bambino. Adesso si sentivano Davide e il brigadiere discutere, e quest'ultimo non sembrava molto convinto delle ragioni che il primo si dava. Infine il dottore dichiarò che la ferita del bambino era prodotta semplicemente da una caduta dall'alto, forse da un cavallo, forse da un carretto, come Davide sosteneva: la febbre proveniva da cause interne: ad ogni modo era umano e prudente tenerlo lì finchè non si fosse trovata una donna per bene a cui affidarlo. Davide non replicò: e così fu deciso che momentaneamente il bambino restasse in casa. Allora il cieco si calmò; anzi parve cercar di sparire, per non dar noia alla padrona: andò lungo la parete; uscì nel cortile e per tutta la mattina nessuno più lo vide nè si curò di lui.

Pagina 41

L'indomani

246319
Neera 1 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Colle mani raccolte sul grembo, le palpebre socchiuse, il corpo abbandonato nei guanciali, aveva l'apparenza della più gran calma, ma un brivido la scuoteva internamente, un brivido e una puntura. Vedeva ancora quell'amplesso, quel bacio... come dubitarne, se tutto il suo essere ne era stato scosso, se all'improvvisa rivelazione aveva compreso, lei già donna, il mistero della virginità, quel mistero che è il segreto di Dio e che l'amore solo comunica agli uomini? Lievi lagrime brucianti sfuggivano dalle sue palpebre. - Marta! Marta! - Chiamava la mamma, curva su di lei, divinatrice amorosa della lotta che si combatteva nel di lei cuore. Marta, senza parlare, ripeteva fra sè: Sarà il raggio che sfolgora e muore, sarà l'illusione che passa, sarà il sogno, il delirio di un istante; pure esiste. Raggio che non scalda tutti i cuori, sogno che non rallegra tutte le notti... Ma intanto la piccola mano ripeteva con insistenza: Apri, io sono l'amore e la verità. E Marta rivedeva, in una specie di visione magnetica, la bella campagna estiva, gli alberi frondosi ramificanti sopra lo sfondo azzurro e un meschino insetto che tendeva i suoi fili d'argento. Spezzato un filo gettava l'altro, e un altro ancora e ancora, sempre avanti, la tela prendeva proporzioni gigantesche, i fili abbracciavano tutto il creato, salivano ad altezze vertiginose, toccavano il cielo. Era la vasta tela della vita umana, il lavoro ogni giorno rinnovato di chi soffre e combatte; il lavoro temerario che poggia nel vuoto guardando arditamente la luce; lo sforzo immane di milioni di esseri, intelligenze torturate, cuori spasimanti, schiavi in pena, tutti sorgenti dalle loro catene, tutti lanciando il loro filo d'argento al misterioso Ignoto. E i fili si spezzano, e la tela si strappa e la felicità dondola sempre sospesa all'impalpabile bava di un aracnide. Che importa? Tutto muore, tutto nasce, tutto cambia, tutto si rinnova, le tombe scoperchiate servono di culla, i cuori insanguinati e piangenti danno nuovo sangue e nuove lagrime alla vita. Avanti, coraggio! FINE.

Pagina 185

Il drago. Novelle, raccontini ed altri scritti per fanciulli

246540
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1895
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

E quando aveva inteso il rumore della porta chiusa dalle bambine, s'era sentito solo solo, abbandonato; e tutti i terrori della notte precedente gli erano piombati addosso. — Questa volta è finita! — ripeteva. — Questa volta non c'è più rimedio ! Invece del medico, perchè non mando a chiamare il notaio ? No, no : gli pareva quasi impossibile che Gesù Bambino volesse ripagarlo in quel modo della messa andata a sentire a mezzanotte, ripagarlo facendolo morire. No, Gesù Bambino misericordioso si sarebbe ricordato delle orfanelle che rimanevano senza aiuto e senza guida, se il loro tutore era portato via dalla febbre e dalla tosse che gli toglieva il respiro. Il dottor Cipolla, lungo, lungo, lungo, magro e stecchito, col bastone sotto braccio, aggiustandosi o ogni po' le punte del colletto della camicia, era entrato sorridendo, senza togliersi il cappello a staio perchè aveva paura d'infreddarsi, e s'era fermato in piedi davanti al letto. Lo chiamavano San Pantaleone, chi sa perchè? forse per la statura, quasi quel San Pantaleone indicasse qualcosa di spropositatamente alto col semplice suono delle sillabe. — Sedete, dottore ! sedete ! — disse don Paolo, con voce lamentosa, interrotta da colpi di tosse. Non poteva vederselo davanti, ritto in piedi, con quella tuba in testa che toccava la volta della camera, e il collo incastrato nell'alto colletto che non gli permetteva di abbassare il capo. — Sedete, dottore ! Temeva che la sua voce di malato non riuscisse ad arrivare fino a lassù, sotto la tuba, e penetrargli dentro gli orecchi sempre turati con la bambagia. — Voialtre, andate di là, — soggiunse per allontanare le bambine. E appena esse furono uscite di camera, si mise a singhiozzare. — Dottore, ditemi la verità! Per quelle creature, che non voglio lasciare in mezzo a una via, ditemi la verità ! — Certe cose, caro don Paolo, — rispose il dottore, tirandosi le punte del colletto, — non bisogna mai rimandarle proprio agli estremi momenti, quando la testa non ci regge più! Così anche per le cose della santa Chiesa. — Dunque sono spacciato ? — Non esageriamo caro don Paolo !... Ecco qui un calmante per la tosse; una cucchiaiata all'ora; poi penseremo alla febbre... Niente di grave. — La mia sentenza di morte! — pensava don Paolo, seguendo con gli occhi la mano che scriveva la ricetta sul ginocchio della gamba accavalcata all'altra. E prima che il dottore andasse via, egli lo pregò di mandargli il notaio Miani, pel testamento; erano a uscio e bottega, non sarebbe stato troppo incomodo per lui. Il dottor Cipolla, che s'interessava molto anche della salute dell'anima dei suoi clienti, dopo il notaio, s'affrettò a mandargli pure suo compare, il canonico. Ma don Paolo, che aveva dovuto fare un bello sforzo per vincere l'idea di malaugurio del testamento, quando vide entrare il canonico, non potè frenarsi : — Venite a portarmi la jettatura anche voi ? Lasciatemi in pace! — Sono venuto per una visita, si scusava il canonico. Don Paolo però seguitava a strillare: — No, compare; se mi confesso muoio ! — Siete cristiano, si o no ? — Cristianissimo; ma se mi confesso e prendo il viatico, muoio! — Le cose sante sono la miglior medicina, compare. — Ma se non debbo morire... E non voleva morire, almeno questa volta. E ragionava, a modo suo, parlando a stento, fra un colpo di tosse e l'altro, per convincere il canonico, che si frenava a stento per non ridere. Come? Sono andato alla messa di Natale per devozione, ci ho condotto anche le bambine, e il Signore, in ricompensa, mi farebbe morire? Non è possibile. Dio è giusto. Non può mandarmi all'inferno; non ho rubato, non ha ammazzato, non ho calunniato; ho fatto anzi un' opera di carità da meritarmi il paradiso... — Questo non dovreste dirlo voi, — lo interruppe il canonico. — Se il Signore si avvede che mi son confessato e comunicato, dice: — Quel povero don Paolo portiamolo in paradiso, è meglio, giacchè ora si trova in grazia nostra !... — No, Signore benedetto ! lasciatemi star qui... Non vedete che queste orfanelle hanno soltanto me, e che se muoio io, le spogliano, le riducono alla miseria con tutto il bel testamento che ho fatto? Lasciatemi quaggiù un altro pochino! — Il signore sa bene quel che deve fare, non ha bisogno dei vostri consigli !... — Non lo consiglio, lo prego! E dovreste pregarlo anche voi nella santa messa ! Io dico : Il Signore, non vuol farmi dannare. Ebbene, se muoio non confessato, mi danno... Dunque mi dia la salute del corpo, non per me, per le orfanelle... E per ciò non mi confesso, no, no, no ! Potete andarvene, compare canonico ! Il canonico, dalle risa, era passato alla commozione per tanta ingenuità, che infine significava profondissima fede in Dio ; e non insistette, anche per non turbare il malato, che non gli sembrava così grave come il dottor Cipolla gli aveva detto. — Riposatevi; avete chiacchierato troppo ! Infatti, calmatasi l'eccitazione, Don Paolo era ricaduto, ansimante, con la testa sui guanciali, la bocca aperta e gli occhi chiusi. Le orfanelle lo guardavano atterrite, senza osare di accostarsi al letto, interrogandosi con cenni: — Che dobbiamo fare? Non dovettero far altro che preparare qualche scottatura di tiglio, di cammomilla, e poi ottimi brodi di pollo durante la convalescenza. La quale, contro ogni previsione del dottore, fu così rapida, che una mattina in cui egli credeva di trovare il malato ancora a letto in attesa del permesso di alzarsi per qualche ora, lo trovò invece in cucina davanti a un fornello, mentre Giovanna grattava il cado, e Lisa sbatteva in un piatto le uova per una magnifica frittata, e lui minuzzava un po' di prezzemolo e di cipolla da servire pel condimento. Il dottore, che appunto tornava dalla casa di un cliente morto pochi minuti prima senza permesso di lui, ed era rimasto male davanti ai parenti in lagrime e che quasi l'accusavano di aver ammazzato il malato, visto don Paolo in atto di fare il cuoco, s'era messo a ridere e s'era sentito venire l'acquolina in bocca all'odore. — Ah, voi fate venir in casa il medico per invitarlo a colazione ! — Se volete favorire, — aveva risposto don Paolo, sorridendo. Ma per levarselo di torno subito, gli aveva messo in mano una carta da dieci lire, pagamento delle visite. Non voleva conti in sospeso con nessuno, col medico soprattutti : certa gente è meglio tenerla lontana quanto più si può. — Staremo un bel pezzo prima di rivederci, caro dottore ! — gli disse su l'uscio, allegro, quasi avesse in tasca il contratto con Domineddio, di dover campare un secolo o poco meno. E fu proprio così. ***

Pagina 40

La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247483
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Dicevano che Terzi avesse abbandonato dall'ottobre Emilia Tromba e che costei gli avesse già dato un successore nel marchese di Rivadedro, un vecchio viveur a cui la ricchezza, una terza ricchezza, dopo due altre che ne aveva divorate, era giunta troppo tardi. Uno dei due, certo, doveva essere Ferdinando Terzi che andava sempre con Sanframondi e con Althan; forse discutevano fra loro di quel suicidio che colpiva tutta la loro classe e forse uno dei loro amici. Non osò, Carmela Minino, aspettando quell'ultimo atto dell'Aida che non veniva più, cercare di Concetta Giura per farle, anche indirettamente, quella domanda, nè costei si vide più. Aveva promesso di venire a dare notizie, ma non doveva aver saputo altro, poichè col suo gusto dei pettegolezzi, sarebbe corsa subito. Malgrado l'inquietezza sorda che le dava un tremolio interno, Carmela Minino non si mosse; quell'agitazione veniva, certo, dal suo mal di capo che ora si trasformava in trafitture nervose, nel cervello. Soffriva. Taceva, non dicendo mai ad alcuno le sue sofferenze fisiche e morali, timida anche fra le persone del suo sesso, fra le compagne di lavoro. Finalmente, questo tanto atteso ultimo atto della Aida venne. Le ballerine macchinalmente, ricominciarono a muoversi, a riaggiustarsi un nastro al collo, a sollevare le loro gonnelle di velo, a stirare sulla persona i loro bustini di stoffa d'oro. La scena, nell'ultimo atto dell'Aida, per chi non lo rammenta, è divisa in due piani: nel primo, basso, è la cripta, è il sotterraneo ieratico dove è seppellito, vivo, il traditore della patria Radames: nel secondo piano, è il tempio di Ftha, coi sacerdoti, coi ieroduli che finiscono di murare la pietra sepolcrale, con le danzatrici sacre che intessono intorno all'idolo, fra le colonne basse e tozze dell'architettura egiziana, le loro danze leggiere. Poi mentre Radames e Aida, che si sono ritrovati nell'oscura cripta, cantano il loro addio alla vita, alla terra, vedendo nel loro delirio di amore e di morte schiudersi il cielo, mentre ancora le ballerine scivolano lievi nei veli violetti, fra le arcate del tempio, Amneris appare velata di nero, piangente, si inginocchia sulla pietra sacra, la bacia, vi depone un fiore e vi resta ginocchioni a pregare. Le ballerine per fare quest'ultima piccola danza, sulla mistica musica che inneggia a Ftha, erano uscite metà da una quinta, metà dall'altra parte e poi si dovevano riunire, disciogliere novellamente, per poi formare quattro gruppi immobili. Concetta Giura, con le altre nove, uscì dalla quinta a sinistra dello spettatore: Carmela Minino dalla quinta a destra, danzando i due gruppi con pose molli orientali. Nell'ultimo, in cui Concetta e Carmela furono vicine, Concetta le disse con voce alterata: - Non lo crederesti, non lo crederesti chi è che si è ucciso! - Chi? - balbettò Carmela. L'altra non giunse a rispondere, perchè il ritorno del ballo le divise, per cinque o sei minuti: poi, come la musica diventava più incalzante e il ballo meglio le mescolava, Concetta Giura disse a Carmela Minino: - Si è ucciso Ferdinando Terzi, con un colpo di rivoltella al cuore. Carmela Minino, di botto, si fermò dal ballare. Vacillando, si arretrò verso il fondo, appoggiandosi a una di quelle colonne tinte di legno e cartone; era confusa fra le comparse, vestite da sacerdoti di L'ha, in abiti talari di dubbia bianchezza, con certe lunghe barbe bianche, abbastanza ingiallite. Non vedendola ballare, addossata alla colonna, con una mano che si reggeva la fronte, una di quelle comparse le chiese: - Che avete? Vi sentite male, signorina? Ella guardò in faccia quell' uomo, senza rispondergli. Non lo aveva compreso, come non comprendeva più dove si trovasse, con quei gridi dei cantanti, con quel rumorio sordo dell'orchestra, con quella sala zeppa di spettatori estatici e che ella vedeva avvolti in una nebbia, con quegli uomini fermi, travestiti bizzarramente, fra cui ella era, con quelle donne vestite similmente a lei e che continuavano a ballare, voltandosi, ogni tanto, a darle un'occhiata indagatrice e, in fondo, indifferente. Le parve che qualche cosa la tenesse inchiodata, lì, contro quella colonna, qualche ritorta di ferro che ella non potesse giungere a spezzare: si sentì avvinghiata coi piedi calzati di seta a quel palcoscenico di legno, con la persona stretta a quel legno e a quella carta-pesta che fingeva il granito del tempio egiziano: e le pareva di fare sforzi enormi per di vincolarsi, per infrangere quelle catene, per fuggir via, senza riuscirvi, spasimando di dolore muto. Poi, la silenziosa angoscia divenne più intensa, più profonda: la sua volontà si tese come se ella volesse fare in due una sbarra di ferro, e si sentì libera, ad un tratto. Uscì da quel palcoscenico, mentre le ultime battute della musica risonavano, mentre le ballerine davano gli ultimi passetti danzanti intorno alle colonne, mentre il canto degli amanti moribondi languiva nel sotterraneo e Amneris, inginocchiata sotto le gramaglie, levava le braccia disperate al cielo. Carmela Minino fuggì verso il camerone, dove si dovevano spogliare e rivestire lei e le sue compagne, furiosamente cominciò a strapparsi dai capelli l'ibis di metallo che fingeva oro, a sciugersi il corsaletto di seta a fili d'oro, con le mani tremanti che strappavano tutto, che rompevano tutto. In tumulto le ballerine rientravano, parlando di quel suicidio, gridando, dandosi sulla voce, contraddicendosi, ripetendo quello che già circolava in tutto il teatro, in tutto il palcoscenico, disputando, quasi venendo alle mani. - Si è ucciso alle otto! - Nossignora, alle dieci... - Si è ucciso a casa sua... - Ma che casa e casa! Non era rientrato a casa da ventiquattr'ore... - Lo credevano partito. - Aveva detto che andava a Roma. - Si è ucciso in un albergo. - Al Grand Hôtel, al Grand Hôtel! - Niente affatto, all'Hôtel Royal. - Che state dicendo? Quanto siete bestie! Si è ucciso all'albergo Suisse, a via Molo. - Un signore come lui, in quell'albergaccio! - Se vi dico che è al Royal! - Al Suisse, al Suisse! Non aveva che cinque lire, pare, addosso. - Ma non si è mica ucciso per debiti, Ferdinando Terzi. - Per amori, per amore! - Che peccato! un così bel giovane! - Bellissimo giovane, mi piaceva molto. Ci avrei fatto all'amore volentieri. - Ora è morto, è morto. - Non mi piaceva, a me: era troppo superbo. - Ed Emilia Tromba, che dirà Emilia Tromba - Che glie ne importa? Quella ha già un altro. Quella non ha mai amato nessuno, nel mondo. - Salvo quel cocchiere, con cui fece la prima sciocchezza. - Un cocchiere? Un cocchiere? Ed era arrivata a Ferdinando Terzi? - Sì: e glie ne ha mangiati denari! Anche lei sarà stata causa della sua morte. - Si è ucciso per quella signora, lo sapete... - Chi, signora? Chi, signora? - La contessa di Miradois... - La contessa di Miradois, sì, sì... Carmela Minino, senza neppure voltarsi contro la porta, come faceva, ogni volta, per pudore, quando si tirava via la maglia di seta e restava ignuda, un momento, ora si era spogliata, e si rivestiva, gittando via tutto da sè, afferrando alla rinfusa i suoi abiti di città, adattandoseli addosso alla meglio, con le mani così tremanti che non potevano annodare i nastri, agganciare i ganci, passare i bottoni negli occhielli. Ella ascoltava tutto, a occhi bassi, a bocca stretta, con una espressione feroce di collera nel viso. E vedendola vestirsi da città, ella che, come loro, doveva ballare fra mezz'ora nella Coppelia, due o tre di esse si meravigliarono. - Che fai? Ti sei scordata che devi ballare nella Coppelia? - le chiese sogghignando Filomena Scoppa. Carmela Minino la guardò, senza rispondere, e s' infilò la giacchetta. - Te ne vai? Te ne vai? - disse Rosina Musto. - Non ti senti bene? Carmela Minino si metteva il cappello, pungendosi con gli spilloni che lo dovevan tener fermo sulla testa. Non rispose neppure a Rosina Musto, prese il suo paio di guanti, la sua borsetta, si guardò attorno, con occhio bieco e senza salutare, senza rispondere una sola parola, uscì dal camerone. - Ma che ha? Che è successo? - Chi sa? - Sembra una pazza, da qualche tempo. Carmela Minino si urtò con varie persone, mentre con passo rapido e deciso attraversava il corridoio umido e lubrico, che conduce alla porticina del teatro: ma non vide e non sentì. nulla. Solo innanzi alla porticina vi erano due o tre gentiluomini che, malgrado il freddo, stavano lì, chiacchierando, coi baveri delle pelliccie alzati. Qualche lembo di frase le giunse: - Morto da tre ore... - La famiglia non è stata avvertita... - Non vi può essere funzione religiosa... Carmela Minino fu colpita in volto dal soffio rigidissimo della tramontana, ma non lo senti. Si era strofinata ruvidamente il volto con l'asciugamano, per togliersi il rossetto e il bianchetto, volendo riprendere il suo viso di ogni giorno: e le guance le bruciavano. Uscita sotto il porticato di San Carlo, guardò a destra e a sinistra, se vedeva una carrozza. E in quel punto le si presentò avanti Don Gabriele Scognamiglio, tutto chiuso nella sua ricca pelliccia di lontra, con la sua, bella barba bianca profumata, col suo bastone d'ebano col pomo di argento cesellato, la sua faccia di vecchio gaudente, egoista e sorridente. Ella ebbe un movimento palese di ribrezzo, arretrandosi. - Dove vai, bella mia? - le chiese il vecchio, non accorgendosi di nulla. Ella aveva fatto cenno a una vettura da nolo, aperta, che si accostava: e si accingeva a salire. - Ma si può sapere dove vai, così? - domandò imperiosamente, col tono del padrone, Don Gabriele. Ella, già salita in carrozza, a denti stretti, a voce bassa, gli rispose: - Dove mi pare. - Ah! - esclamò ironicamente Don Gabriele. - Di già, E quando ci vediamo? - Mai più - ella disse, con voce sorda, piena di sdegno invincibile, mentre la carrozza voltava, avviandosi verso la strada di Chiaia. Don Gabriele crollò le spalle e rientrò in teatro. Quando giunse al Grand Hôtel, quasi alla fine di via Caracciolo, la carrozza da nolo che conduceva Carmela Minino, erano le dodici meno un quarto. Ci aveva messo meno di dieci minuti, da San Carlo, mentre la via lunga; ma il cocchiere, intirizzito dal, vento gelato di tramontana, aveva bastonato a morte il suo cavallo, giacchè la signora, da dentro, gli diceva di far presto, di correre, di correre, perchè gli avrebbe dato quel che voleva. Ella non sembrava aver freddo, la signora, poichè non aveva neppure rialzato il bavero della sua giacchetta e guardava continuamente di qua e di là, la Villa Nazionale tutta bruna nella notte nera, e il mare nero che batteva sinistramente contro la banchina. La carrozzella girò attorno al giardinetto, che è davanti al grande portone del Grand Hôtel e Carmela Minino discese precipitosamente. Il portone del magnifico albergo era ancora aperto, poichè si aspettavano dei forestieri che dovevano arrivare col treno di mezzanotte da Roma e altri che erano in teatro; il maestoso guardaportone andava e veniva, col berretto gallonato d'oro sugli occhi; Carmela andò a lui, direttamente. - Scusate - disse, guardandolo negli occhi - è qui che si è ucciso un gentiluomo - Che dite? Che volete dire, signora? - borbottò il portiere, stupito dalla domanda. - Vorrei sapere se è qui che si è ucciso il conte Ferdinando Terzi di Torregrande - ripetette ella, chiaramente. Colui la guardò un minuto, come avesse da far con una matta; poi soggiunse, gentilmente: - Nossiguora. Qui non si è ucciso nessuno. Ella restò, indecisa, guardandolo ancora fissamente, come se volesse strappargli una parola più sicura. - Ditemi la verità... - mormorò con voce tremula. - Ditemelo, vorrei saperlo... Se è qui, ditemelo... Era così smarrita, adesso, che il portinaio comprese qualche cosa e le disse, con una certa dolcezza: - Persuadetevi, signora, che questo gentiluomo non si è ucciso qui. - Allora, scusate. Buona notte, grazie, buona notte. Il portiere la vide allontanarsi con passo risoluto, nell'ombra, risalire in carrozza, dopo aver detto due parole al cocchiere. E la carrozzella riprese a correre, sgangheratamente, per via Caracciolo, perfettamente deserta, fra il tetro mare che rotolava le sue onde, rotte al soffio della tramontana, o gli alberi bruni e brulli della Villa Nazionale. - Corri, corri, per amor di Dio - pregava la donna di dentro, al cocchiere. Costui si era convinto, oramai, che si trattava di una cosa grave, di una disgrazia, forse, e, ogni tanto, dava un'occhiata di curiosità e di compassione alla donna, che fremeva d'impazienza, in quella notte freddissima d'inverno, e che girava di albergo in albergo, in cerca di qualcuno. Fermarono in via Chiatamone, innanzi all'Hôtel Royal, di cui allora allora si andavano chiudendo le porte: non vi era neppure più il portiere, vi era il facchino che veglia la notte, dormendo sovra uno stramazzo nel peristilio dell'albergo. Carmela Minino fece a lui, per la seconda volta, la singolare tragica domanda. Quel facchino era un napoletano. La guardò con un sorriso ironico, e le disse: - Figliuola mia, vi hanno burlata. - No, questo signore si è ucciso veramente - ella disse, guardandosi intorno, con un viso così pallido, con certi occhi scrutatori, che il facchino smise subito di scherzare. - Ma qui no, qui no, per grazia di Dio. - Ne siete certo, buon uomo? Ne siete certo? - Come è certa la morte, figliuola mia. - E buona notte, buona notte, andrò altrove. Quando fu sul marciapiede della via del Chiatamone, Carmela Minino fu presa da uno scoraggiamento immenso. Nell'ombra il cocchiere aspettava, guardandola. - Qui neanche vi è... - mormorò lei, come se parlasse a se stessa, con una espressione infantile di dolore. - Ma chi andate cercando, signorina? Chi andate cercando? - domandò il cocchiere, felice di poter appagare la sua curiosità. - Uno... - balbettò lei. - Uno.... che si è ucciso... - Madonna del Carmine! E vi era qualche cosa questo signore? Ella guardò il cocchiere senza rispondere. Costui dovette capire che quell'ucciso le era qualche cosa. - E non sapete dove? - Mi hanno detto due o tre alberghi; ma non vi è, non vi è, non l'ho trovato. - Qualche altro ve ne hanno nominato? - Sì, sì, l'albergo Suisse. Dove sta? Al Molo, mi hanno detto! - Chi lo sa, signorina mia! Questo è un albergo che non conosco. Andiamo al Molo. Chi ha lingua, va in Sardegna. Ella ripassò dinanzi a San Carlo, mentre la gente cominciava ad uscire dal teatro, poichò il piccolo ballo Coppelia era finito; ma Carmela non si voltò neppure. La mezzanotte era suonata, adesso ella pensava che a questo albergo Suisse avrebbero, forse, già chiuso il portone. Traversarono piazza San Carlo, piazza Municipio tutta la via Molo, mentre lei e il cocchiere guardavano su tutti i balconi, a cercare l'insegna di questo albergo. Finalmente, all'angolo fra via Porto e via Molo, in un avvallamento dove già cominciavano i lavori dello sventramento di Napoli, sopra un balcone videro una scritta su cui batteva a tratti la luce di un lampione, che il vento notturno, sempre più freddo, agitava: Pension Suisse. - Eccoci - diss'ella, con voce profonda, guardando quel balcone, di cui i cristalli erano chiusi, velati dalle tendine di merletto, ma, interiormente illuminati. Il portone della Pension Suisse aveva un battente chiuso e l'altro socchiuso; Carmela Minino si ficcò per quella mezza apertura, e si trovò in un androne oscuro e umido, illuminato appena da una lampada a petrolio, fumosa, dalla luce rossiccia; un uomo mal vestito, che portava in capo un berretto sdrucito e unto, con le mani in tasca, passeggiava, fischiettando l'aria della Ciccuzza. Carmela gli si avvicinò; e quell'individuo dal viso scialbo, dallo sguardo sfuggente ed equivoco, la squadrò. sospettosamente. - È qui...- diss'ella, ripetendo per la terza volta la funebre domanda. - È qui che si è ucciso il conte Ferdinando Terzi di Torregrande? - Sì, per nostra disgrazia - borbottò l'altro. - Ah! - diss'ella, diventando anche più bianca. Di botto, uscì dal portone socchiuso, aprì la sua borsetta per pagare il cocchiere. Costui la rimirava con occhi compassionevoli. - L'avete trovato, eh? - le chiese con tono di rimpianto. - Sì, l'ho trovato - rispose Carmela, brevemente, con quel suo tono profondo o sordo, aggiungendo una lira di mancia al prezzo. - Debbo aspettarvi, signorina? - replicò il cocchiere, commosso da quell'avventura e da quella lira. - No, non mi aspettare. Rientrò nel portone. Il losco portinaio le sbarrò la via. - Dove andate? - A vedere il morto. - Siete persona di famiglia? - soggiunse l'altro, guardandola di nuovo. - ... No. - E allora, perciò salire? - Sono la sua cameriera - ella soggiunse, facendo scivolare due lire nella mano di quel portinaio. Per fortuna, teneva nella borsetta la quindicina, presa quel giorno stesso. A tentoni, ansando, ella salì per una scaletta in capo alla quale brillava un lumicino. E dal posto, dal portone, dalla scala, da quell'anticamera nuda, attraversata solo da una lurida striscia di cocco, dove un lercio cameriere sonnecchiava, presso la tavola, si vedeva non solo l'alberguccio di terz'ordine ma la locanda mal famata, le cui orribili stanze si affittano a giornate ed a mezze giornate, per due ore e per un'ora, da persone che arrivavano senza bagaglio, che pagano in fretta e anticipatamente, sempre in coppia, coll'uomo che arriva cinque minuti prima, la donna subito dopo, con cautela a occhi bassi. Due o tre porte davano su quell'anticamera: due erano chiuse, la terza a dritta, dirimpetto alla scaletta, dove andava a finire la striscia di cocco, era socchiusa; un filo di luce ne usciva. - Voglio vedere il morto! - disse subito, accennando cogli occhi a quella porta, Carmela Minino. Il cameriere si stropicciò gli occhi e le chiese anche lui: - Siete parente? - Sono una sua beneficata - replicò ella, reprimendo un singhiozzo che le schiantava il petto. - Parenti non ve ne sono venuti. Qualche amico... ma se ne è andato subito. Si aspetta il pretore. Entrate. Entrò Carmela Minino, sola. La stanza era quella più grande della trista locanda: aveva un balcone su via Molo e uno su via Porto, occupando l'angolo del casamento. Delle tendine, un tempo bianche, adesso giallicce di polvere e di fumo, coprivano i vetri, per nascondere la stanza ai vicini e ai viandanti; altre cortine, egualmente affumicate e sporche, erano state disciolte dai loro grossi cordoni di cotone bianco. Un tappeto di cui non si vedeva più il disegno, ridotto a un'esile trama, copriva il pavimento; una toilette d'antico modello, dallo specchio verdastro, un cassettone dal piano di marmo bianco, un secrétaire e quattro ..sedie di Vienna , completavano il mobilio di quella povera, sporca e pretenziosa stanza dove tante persone erano passate in un'ora di amore perseguitato, di capriccio volgare, di follia. Il letto grande maritale occupava tutto il fondo della stanza, sotto un baldacchino di sargia verde, da cui non pendevano cortine. Sul letto, ove si era ucciso, donde non era stato rimosso aspettando il pretore, giaceva il conte Ferdinando Terzi di Torregrande. Il letto non era stato disfatto: tutto ricoperto di sargia verde a macchie. giallastre, dimostrava che sulle materasse non vi erano lenzuola. I cuscini avevano, però, la loro foderetta, guarnita da un merletto all'uncinetto fatto in casa. La sargia verde aveva anche delle macchie fresche di sangue: delle macchie di sangue insozzavano il tappeto nella viottola del letto, dalla parte ove il conte si era ucciso; tutto lo sparato della camicia da frac era. macchiato, sul petto, di sangue. Ferdinando si era ucciso in marsina, e in cravatta bianca. Aveva, anche una gardenia candidissima all'occhiello. La sua pelliccia era deposta sopra una sedia, poco distante. La mano destra con cui si era tirato il securo colpo al cuore era ricaduta lungo la persona e si allungava sul letto, tenendo fra le dita, mollemente, una piccola rivoltella a Calcio di argento brunito, lavorato finemente di cesello; la mano sinistra, in un moto di spasimo, si era raggricciata sul petto verso il cuore: e le dita, il dorso della mano rosseggiavano di sangue. Del resto il corpo non offriva altre espressioni di dolore: era posato decentemente sul letto, supino, come chi aspetta il sonno, fantasticando. La testa si appoggiava sui due cuscini bianchi, senza linea di contorcimento: anzi, con una quiete composta che doveva essere anteriore alla morte. I bei capelli biondo-castani, divisi in mezzo, pettinati alla russa, non si erano disordinati: la bella bocca sottile e rossa appariva sotto l'arco de' bei baffi biondi sotto la linea purissima e tagliente del profilo aquilino: solo il mento si rialzava, come in vita, dalla linea dura di volontà. Le palpebre erano abbassate sui begli occhi azzurri, il cui sguardo dai riflessi metallici, dalla espressione ora indifferente, ora superba, ora addirittura sprezzante, si era estinto. E malgrado l'aspetto infame di quella Pension Suisse, malgrado l'ignobilità nauseante di quella camera, malgrado tutto quel sangue sparso sul petto, sulle mani, sul letto, sul tappeto, malgrado quella morte così orrenda, quel morto conservava la sua nobile bellezza venutagli da Dio, dalla razza, dalla educazione, dai gusti, e che nè i vizi della vita, nè la laidezza di quella fine gli potevano togliere. Chi sa perchè Ferdinando Terzi aveva voluto morire in quella locandaccia, in quella cameraccia puzzolente? Forse, per un supremo insulto a sè stesso e agli uomini? Ma non era giunto a cancellare i tratti che la bellezza, aveva messo sul suo viso e sulla sua persona. Anzi, la morte vi aveva messo qualche cosa di più semplice, oramai, qualche cosa come il ritorno alla verità originale, una purezza nuova, una nuova giovanilità al bellissimo che si era colà ucciso. Ai piedi del letto, con le mani incrociate sulla spalliera di ferro vuoto, Carmela Minino non si saziava di guardare questo morto. Lo aveva cercato, di notte, per tutta Napoli, andando a bussare alle porte dei più ricchi e più eleganti alberghi, come una pazza, e lo aveva finalmente trovato, in quella stamberga, solo, non pianto da nessuno, non vegliato da nessuno, salvo quel sonnacchioso cameriere; ed ella lo poteva adesso guardare a. suo bell'agio, con gli occhi secchi e lucidi, dove non appariva una lagrima comprimendosi il petto con le mani, quasi a calmarne l'ansia. Lo aveva raggiunto. Non vi erano, costì, ne la madre di Ferdinando Terzi che viveva in Puglia nelle sue terre, dal giorno in cui era rimasta vedova non vi era la sua sorella maritata, la marchesa di Vallicella, a cui nessuno aveva osato dirlo ancora: non vi era la bruna e fine marchesa di Miradois, la spagnuola dagli occhi brucianti, dal marito così tremendamente geloso. Vi era solo lei: ed ella contemplava Ferdinando Terzi come non aveva mai avuto il coraggio di farlo in vita, lo contemplava, divorandone cogli occhi il volto reso più fine, più eletto, più spirituale, dalla morte. I begli occhi erano chiusi, per sempre: ella ne sapeva lo sguardo, tanto da vederli aperti e fissi in un punto lontano e la figura le si completava innanzi come quando era viva, ma più bella e più nobile. La porta si schiuse e lasciò passare cinque o sei persone: prima che la vedessero, Carmela Minino si arretrò nel varco del balcone, fra le cortine prosciolte, forse prosciolte dalla mano stessa del morto, per garantirsi dalla curiosità dei vicini di via Porto e dai viandanti di via Molo. Coloro che erano entrati erano il pretore col suo cancelliere, il padrone e il cameriere dell'alberguccio, il duca di Sanframondi e il conte Althan. Dal suo nascondiglio, ove ella ratteneva il respiro, Carmela Minino vide ed intese tutto quel lugubre formulario che accompagna la constatazione di un decesso per suicidio. Il pretore, molto annoiato d'essere dovuto uscire a quell'ora, con quel freddo cane, venendo a piedi dal vicino giardinetto ove abitava, un grosso uomo, già obeso a trent'anni, si era gittato, soffiando e sbuffando, nella sola poltrona, tutta sgangherata, che vi era e di cui le molle stridevano ad ogni movimento di quel corpo pesante. Il cancelliere, un piccino, magrolino, con gli occhi rossi dal sonno interrotto e dal vento gelido che soffiava, col bavero del soprabitino gramo sollevato alle orecchie, si era allogato presso la toilette, per scrivere il verbale. E vi fu scritto questo: «I due gentiluomini, duca Leopoldo Caracciolo Rosso di Sanframondi e conte Francesco Federici di Althan, amici personali dell'estinto, dichiarano che il suicida è propriamente il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, figliuolo primogenito del fu conte Giovanni e di donna Maria Angela de La Puiserage. Riconoscono anche i suoi vestiti, i suoi gioielli, la sua pelliccia e la rivoltella con cui si è ucciso». «Il conduttore dell' albergo Pension Suisse dichiara che si è presentato, alle sette di sera, il prenominato conte Ferdinando Terzi di Torregrande e gli ha chiesto una stanza per passarvi la notte. Visto l'aspetto di gentiluomo, Raffaele Scarano, conduttore di detto albergo, non gli ha chiesto donde venisse, il suo nome e perchè non avesse bagaglio. Egli non ha saputo il suo nome che più tardi, dopo il suicidio. Il conte Ferdinando Terzi ha pagato il prezzo della Camera - la migliore della Pension Suisse - in lire quattro e cinquanta, non ha preso il resto di cinquanta centesimi delle cinque lire, e ha detto che sarebbe tornato più tardi. Il prelodato gentiluomo, almeno dal tempo in cui lo Scarano è conduttore della Pension Suisse, non è mai venuto in quell'albergo». «Il cameriere della Pension Suisse, Domenico Quagliolo, dichiara di aver visto, alla sfuggita, il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, quando ha contrattato la camera col suo padrone Scarano, ma di non averlo guardato bene, avendo l'abitudine di osservare il meno possibile i passeggieri, per non dar loro fastidio. Più tardi, verso le nove, il conte è ritornato, solo. Il padrone Scarano era dall'altra parte dell'albergo e il conte si è diretto al cameriere perchè gl'indicasse la camera sua. Entrando in essa, si era fermato un poco sulla soglia. Il cameriere gli aveva 'subito fatto osservare che il letto non aveva le lenzuola, perchè non lo si aspettava così presto, ma che del resto, si accomodava in un momento. Il conte gli aveva soggiunto che era inutile, per allora poichè, forse, egli sarebbe uscito di bel nuovo; era molto tranquillo e aveva anche acceso una sigaretta. Poi, aveva licenziato il cameriere, dicendogli che lo avrebbe richiamato. La porta era, stata chiusa con la sola maniglia, non con la chiave. Il cameriere aveva udito il conte che andava e veniva, due o tre volte, nella camera, ma con passo tranquillo: poteva esser passata, così, mezz'ora, quando il Quagliuolo aveva sentito il colpo di rivoltella e si era precipitato nella stanza. Il conte Ferdinando Terzi boccheggiava, sul letto dove si era disteso; non aveva detto una sola parola, aveva soltanto aperto e chiuso gli occhi, due o tre volte, si era guardato intorno, come se cercasse qualche cosa. Il Quagliulo insisteva su questo particolare. Il suicida era morto immediatamente, nelle braccia del Quagliuolo, che aveva una manica della sua marsina, sporca di sangue. Erano corsi il padrone Scarano, due commessi viaggiatori che alloggiavano in casa, il portinaio: dalla farmacia del Cervo, in via Porto, era corso, chiamato, il dottor Gaetano Marotta, che aveva constatato la morte e disteso il verbale mortuario. Sul tavolino da notte era stata trovata una carta da visita col nome del conte Ferdinando Terzi di Torregrande e con le parole, scritte a lapis: mi uccido, perchè così mi piace, con la firma. L'avviso della morte era subito stato dato a San Carlo, al palco del Nazionale, ove si supponeva che qualche amico o qualche parente del suicida vi fosse». Questa scrittura del verbale duro più di un'ora: il pretore, dopo raccolte le dichiarazioni, le aveva dettato parola per parola al cancelliere. I due gentiluomini assistevano, in piedi, muti, evidentemente turbati e commossi per quella morte, ma anche seccati di esservi frammischiati: interrogati dal pretore, così, fuggevolmente, su le cause che avevano potuto determinare questo suicidio, si erano schermiti dal rispondere, con un cenno evasivo. Egli, colpito da un certo rispetto, non insistette. Del resto il suicidio era chiaro; la constatazione di morte del dottor Marotta era precisa e legale; il pretore sapeva bene che Raffaele Scarano, conduttore della Pension Suisse, e Domenico Quagliuolo, cameriere, avevano troppo paura della giustizia, per ragioni loro particolari, per non aver detto la verità in questo fatto, di cui erano innocenti. Egli si sbrigò. Cascava dal sonno, moriva di freddo: il suo povero cancelliere batteva i denti: i due gentiluomini avevano l'aria impaziente: il padrone dello albergo e il cameriere erano inquieti, afflitti da quel caso che gittava una luce anche più sinistra, malgrado la réclame, sul brutto lino che era la Pension Suisse. Solo il morto, su quel letto sporco del suo sangue, nulla sentiva più di tutte queste impressioni e sensazioni umane che egli suscitava, entrato oramai nella grande pace, cui, aveva anelato, per una ignota e profonda ragione: solo, dietro le cortine abbandonate e ondeggianti, un essere fremeva, in silenzio, d'impaziente disperazione. Uscirono via, prima, il pretore e il cancelliere, chiusa la funebre bisogna del verbale, riaccompagnati dal conduttore dell'albergo e dal cameriere: essi rientrarono poco stante, dopo essersi raccomandati, chi sa mai, al signor pretore. Il duca di Sanframondi e Francesco Althan si consultavano, a bassa voce, fra loro, sogguardando di tanto in tanto il morto: il più prudente era di lasciarlo colà, sino alla mattina, per non fare un tumulto a casa Terzi, alle due della notte: alla mattina, Sanframondi si sarebbe incaricato di questo funebre trasporto, mentre Althan avrebbe avvertito la marchesa di Vallicella. Ad assistenza di preti, non si poteva pensare, a quell'ora, in quel posto: si sarebbe veduto l'indomani. Parlavano piano, con parole monche, alludendo ognuno, con frasi velate, ad una causa possente e ineluttabile che aveva determinato il suicidio: non vi era altro da fare, per il povero amico loro, che uccidersi. E se ne andarono anch'essi, dando cinquanta lire nelle mani di Raffaele Scarano per quanto occorresse, a prima mattina, e cinque lire di mancia al cameriere, perchè vegliasse il morto. Dopo un'altra occhiata al suicida, essi andarono via, in punta di piedi. Il padrone affidò il cadavere al cameriere e se ne uscì, borbottando contro il suo avverso destino, malgrado le cinquanta lire. Quale coppia mai avrebbe presa quella stanza, dove un uomo si era ucciso? I giornali avrebbero parlato, egli era rovinato. Con un gran sospiro di sollievo, Carmela Minino uscì dal suo nascondiglio. Il cameriere, che si era dimenticato di lei, la guardò con sorpresa. - Andate a dormire, lo veglio io - ella gl'impose, indicandogli la porta. - Ma... ma... - Eccovi cinque lire. Restate nella camera accanto, ma non entrate. - Voi, certo, non potevate essere una sua innamorata... - disse lui, dopo averla squadrata, paragonandola, lei, così brutta, così poveramente vestita, con quel morto così elegante e così bello. - No, io non poteva essere la sua innamorata - disse lei, con voce strana. - Andatevene, dunque. Egli se ne andò, a malincuore. Ella chiuse la porta, con la maniglia. Finalmente, finalmente, ella restava sola, con quel morto. Nessuno sarebbe venuto, sino alla mattina: quel morto era suo. Di dietro le cortine, ella aveva tutto udito, mentre moriva d'impazienza: nè Sanframondi, nè Althan, nè nessuno di quel ceto sarebbe venuto, sino all'indomani, mentre l'opera del medico e del pretore era compiuta, mentre il padrone dell'albergo e il cameriere si erano allontanati. Quel morto era suo, per una notte intiera, in una camera ignota, solinga. Ella lo guardò con una tenerezza e una pietà intensa: si mosse pianamente, per la stanza: trovò, sul piano di velluto del falso caminetto, due steariche: le accese e le trasportò verso il morto, sul tavolino da notte, che era dal lato del cadavere. Per far questo, si era avvicinata molto a lui: lo guardò dappresso, come affascinata da quello spettacolo di funebre beltà, giacente nel suo sangue. Si cercò macchinalmente nella tasca: vi trovò il suo rosario e cavandolo fuori, ne baciò la medaglina della Vergine che vi era sospesa e il piccolo crocifisso di metallo. Cautamente, con una gentile delicatezza, intorno alla mano che si raggricciava sul cuore. morto di Ferdinando Terzi, ella avvolse il suo rosario, lasciando cadere la medaglina della Madonna e il crocifisso sul petto insanguinato. Per fare questo, ella non solo aveva dovuto avvicinarsi molto al cadavere, ma piegarsi sovra esso, toccarne la mano gelida: due volte si era gettata indietro, come se le mancassero le forze. Ma quel volto l'affascinava: si guardò attorno. Era sola. Alta era la notte: alto il silenzio. E, lentamente, ella si curvò su quel morto, appoggiò lievissimamente, in un bacio tenue, le sue labbra su quella superba fronte, altiera anche nella morte. Quel tocco freddo sciolse l'orribile nodo che serrava la gola e il petto di Carmela: ella piombò a terra ginocchioni, presso il letto, sulla macchia di sangue che deturpava il tappeto, piangendo, singhiozzando, parlando al morto. - Oh amore mio, oh amore mio unico, amore mio bello, voi siete morto, voi siete morto e io vivo! Oh bellezza mia, oh cuore mio, solo morto io vi poteva baciare! Chi me lo avesse detto, chi, chi, che vi doveva vedere morto! Oh amore mio, perchè campo io, io, perchè ci campo su questa terra, dove voi siete morto! Così cominciava, nella notte d'inverno, la veglia funebre di Ferdinando Terzi conte di Torregrande, nella lurida stanza della Pension Suisse, fra il sangue del suicidio, assistito dal pianto, dai singulti, dalle interrotte parole di amore e di dolore di Carmela Minino, ballerina di terza riga, al teatro San Carlo. FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME

Pagina 98

Una peccatrice

249586
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Venti ancor più belle di lei non farebbero un angioletto così bello e perfetto qual è la piccina, come mi piace chiamarla; che pure hai abbandonato senza un pensiero. Pietro fissò uno sguardo sull'amico, poi un altro sulla signora ch'era già molto lontana, e rispose semplicemente, abbassando il capo: - Maddalena non sa neanche annodarsi il nastro del cappellino come colei. - È graziosa! - esclamò Raimondo. - Dunque ameresti dippiù una donna che avesse bisogno, per essere amata, d'impiegare prima due ore allo specchio? - Sì, lo confesso... Chiamala anche civetteria, o ciò che vuoi; nella donna che dovrei amare io vorrei tutte queste cure minute, tutte queste precauzioni delicate, tutte le perfezioni dello spirito e le squisitezze dell'educazione, tutti questi dettagli dell'assieme, insomma, che servirebbero a formarmi l'aureola della donna che dovrei avvicinare colla riverenza e il delirio dei sensi, che tal prestigio dovrebbe recarmi, poichè a riverenza del cuore io non l'ho più. Io amo nella donna i velluti, i veli, i diamanti, il profumo, la mezza luce, il lusso... tutto ciò che brilla ed affascina, tutto ciò che seduce e addormenta.. tutto ciò che può farmi credere, per mezzo dei sensi, che questo fiore delicato, del cui odore m'inebbrio, che mi trastullo fra le mani, non nasconde un verme; che quest'essere non è come il mio, debole e creta... E allora io l'amerei... un giorno, un'ora, ma l'amerei... Quanto alle altre donne, le amerò allorchè scoprirò un cuore nella donna. Pietro, dopo questa scappata, rimase muto alcuni altri secondi, aspirando voluttuosamente, colle narici dilatate, il fumo del sigaro, come se attraverso quella nube cenerognola volesse discernere le forme indecise del tipo che avea ornato di tale incanto nella sua imaginazione. Poscia, come arrossendo del suo trasporto, si mise a ridere fragorosamente, esclamando: - Che ne dici della mia tirata, Pilade? - Non è cosa nuova in te. Dimentichi troppo spesso che sei scritto sul ruolo degli studenti di terzo anno in legge, per trasportarti ai tempi in cui impiastricciavi carta. - Hai ragione; bisogna dimenticare quei tempi... - disse il giovane con una forzata allegria, che pure avea una leggiera tinta d'amarezza. - Destino! ecco la gran parola che gli uomini non sanno proferire più spesso, ma nella quale io son credente come un maomettano... Io, povero sciocco, che m'ero fitto in capo di salire le scale del Campidoglio, e raccogliervi una corona qualunque... eccomi destinato probabilmente a logorare quelle dei tribunali, e di corone non si parla più... fossero anche di cavoli. Se gli uomini sapessero far valere questa parola quanto essa lo merita, l'incolpabilità delle azioni umane rimarebbe sugli scritti dei penalisti: ecco che, almeno una volta, parlo da saggio... - Ed anche il merito delle azioni umane, in tal caso... E tu sei superstizioso in quest'idea? - Al fanatismo! - Ma se tu fossi destinato ad amare quella donna, che non hai veduto che due volte, in passando?... Pietro cominciò dallo scrollare le spalle, al solito; indi rimase alcuni minuti in silenzio, e disse tristamente, come se quell'idea gli facesse pena o paura: - Chi lo sa!?...

Pagina 13

Voci della notte

250842
Neera 1 occorrenze
  • 1893
  • Luigi Pierro Editore
  • Napoli
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Un muratore, un falegname prendono i loro arnesi e vanno per il mondo a crearsi la fortuna; un povero tende la mano; un ammalato cerca il medico; un cane abbandonato sulla via trova qualcuno che lo porta con sè. L'amore solo non si crea dal nulla, non lo si dà per elemosina, non ha medicina, non ha ricovero — chi non ha amore è il vero mendico, è il vero ammalato... Oh gente che amate ecco la gran miseria! Si era fermata nel mezzo della camera, colle braccia penzoloni, l'occhio fisso e vitreo. Dalla camera attigua veniva il cinguettare delle bambine che si erano svegliate nel primo sonno : parlavano confusamente di bambole e di dolci. La voce della madre, umida e molle di sotto le coperte, mormorava: Zitte, dormite. Si sentivano i lettini scricchiolare sotto i piccoli corpi, e sotto il corpo placido della madre, che si voltava dall'altra parte, cedere docilmente il talamo. Severina si voltò verso il suo letto sconsolato; trasse di sotto al guanciale, una reticella di cotone bianco e se la strinse intorno ai capelli: È finita! In questo letto entrerà ora una vecchia. Ripetè vecchia, guardandosi attorno, meravigliata che nessuno protestasse. Che squilibrio però, che ingiustizia! Ella non si sentiva vecchia. Se sapessero i giovani come è difficile uccidere i desideri.... Balzac diceva trent'anni — evidentemente per non scoraggiare troppo quelle di venti. Tornò a guardare in giro per la camera, così fredda, così nuda, dove i mobili non avevano una voce, dove la tristezza delle cose rifletteva la continua tristezza della sua vita; il letto rigido, lo specchio trascurato, sul canterano un pettine inforcato nella spazzola; due ciabatte di pelle color cioccolata; un cencino di velo nero a cavalcioni di una sedia; nessun nastro, nessun flore; una regolarità monastica, quell'ambiente grigio delle celle dove non si è mai in due. Sciolse le sottane, fece saltare le molle del busto, restò in camicia. Ancora una volta girò lo sguardo sulle pareti, più in là delle pareti, fuori, nel mondo che dormiva, nel mondo che tripudiava, nel mondo che soffriva — vedeva una catena che allacciava tutti, lieti e dolenti — vedeva la pietà china sui giacigli, e invidiò gli ammalati, invidiò quelli che possono piangere, quelli che possono gridare — quelli che hanno una gamba cancrenosa e se la fanno portar via — tutti i dolori che si vedono, che si toccano, i soli a cui il mondo crede! Alzò le braccia, stirandole con una contorsione penosa di tutto il suo essere, lasciando cadere un'occhiata obbliqua; poi, rapidamente come per fuggire a un estremo supplizio, si chinò a strappare le calze, buttandole in un canto, spense il lume, brancicò il letto e vi si gettò, anima persa, nel grande oblio delle tenebre.

Pagina 56