Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

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Giovanna la nonna del corsaro nero

204776
Metz, Vittorio 3 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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"In un tempio abbandonato?" obiettò. "E che cosa si può trovare da mangiare in un tempio abbandonato? Soltanto qualche colonna... E io, a dire la verità, le colonne le trovo un po'pesanti..." "Qualche tacchino selvatico potrebbe aver fatto il suo nido qua dentro, quindi ci potrebbero essere delle uova" disse Raul. "Oppure ci potrebbe essere ancora del mais..." "Mais? Mais mangiato mais in vita mia!" "Il mais è il granoturco... E il granoturco si conserva a lungo... Chi ha abbandonato questo tempio potrebbe averne lasciate delle provviste..." gli espose pazientemente Raul."Il granoturco si può macinare e farne della polenta..." "Polenta? Molto bene!" esclamò il capitano Squacqueras."La polenta non mi dispiace, soprattutto se è un po' lenta... Sì, la polenta un po' lenta, mi piace... Vamos!" I due scomparvero oltre la porta interna mentre dall'ingresso entravano l'uno dietro l'altro Giovanna con la spada snudata, il maggiordomo Battista, Nicolino e Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. "Qui non c'è nessuno..." disse Giovanna, parlando a bassa voce. "E allora è meglio che non ci stiamo nemmeno noi..." disse Nicolino, che non aveva meno paura di quel luogo del capitano Squacqueras. "Andiamocene!" "Ma allora" domandò Giovanna a Battista" i nostri guerrieri indiani dove diavolo si sono cacciati?" "Mi sia consentito il dire" disse Battista" che forse, spaventati alla vista delle rovine di questa città morta che molto probabilmente essi credono abitate dagli spiriti maligni, se la siano, mi si permetta la parola, squagliata..." "Pensare che sembravano così contenti di seguirci a Maracaibo per prendere d'assalto la città" esclamò Giovanna. "Comunque è stata una fortuna trovare questo tempio abbandonato sulla nostra strada... Siamo al coperto e potremo riposare in santa pace..." "Eh, giusto in santa pace" balbettò Nicolino. "Qui mi sembra di essere in un ci... ci... ci... ci..." Spaventato dal suono della sua stessa voce, Nicolino sobbalzò, gridando: "Mamma mia, la civetta!" "Ma no" lo rassicurò Jolanda. "Siete voi che balbettate!" "Ah, già è vero" disse Nicolino un po' rassicurato, ma non troppo. "Dicevo che mi sembra di stare in un cimitero qui, con tutte queste statue... Perché non ce ne andiamo?" "Se la nonna ha deciso che dobbiamo rimanere qui, è qui che bisogna fermarci" disse Jolanda. "Del resto" disse il maggiordomo "ti faccio osservare che è per colpa tua che abbiamo sbagliato strada..." "Colpa mia?" "Certamente... Tu che sei o per lo meno dovresti essere un vecchio lupo di mare ci avevi detto che per andare a nord bastava seguire la stella Venere..." "Come, Venere?" disse Nicolino. "Io ho detto la stella po... polare..." "E la stella popolare, quella nota a tutti, non è forse Venere, conosciuta anche come Vespero e Lucifero?" "Ma io" tentò di giustificarsi Nicolino "non volevo dire popolare, volevo dire po... polare..." "Appunto, Venere!" "Forse lui voleva dire la stella polare..." intervenne Jolanda. "È vero, nostromo?" Nicolino annuì vivacemente col capo. "Ecco, sì!" esclamò. "Ci mancava solo questo!" sbuffò il maggiordomo. "Possibile che devi balbettare sempre?" "Non sempre... So... solamente quando pa... parlo..." "E allora parla il meno che sia possibile!" lo ammonì Giovanna."E quando lo fai, cerca di non balbettare..." Quindi il maggiordomo, voltate le spalle al mortificato nostromo, si rivolse a Giovanna indicando il mucchio di legna fatto da Raul e dal capitano. "Signora contessa," disse "vedo che qui c'è della legna... Posso accendere il fuoco? Servirà per tenere lontane le belve..." "Certo, Battista, grazie... Tanto più che ho un po'di freddo..." Mentre Battista batteva l'acciarino per accendere il fuoco, Giovanna continuò: "E anche un po'd'appetito..." Battista smise di soffiare sulla piccola fiamma che cominciava a levarsi, crepitando, dal mucchio di legna e si alzò in piedi. "Provvedo subito, signora contessa... Spero di poter trovare tanto da riuscire ad improvvisare una piccola cena..." Nicolino, ancora mortificato per il rimprovero che gli avevano mosso poco prima i suoi compagni, intervenne timidamente: "Fuori," disse "ho visto delle piante cariche di comeri e poni..." Il maggiordomo, stupito, aggrottò le sopracciglia. "Comeri e poni?" ripeté. "Strano... Non ho mai sentito nominare dei frutti simili..." "Eppure ci sono" insistette Nicolino. "Li ho visti io... Comeri e poni..." "Non so proprio che cosa siano" disse il maggiordomo. 6. Giovanna "A meno che tu non voglia dire cocomeri e poponi..." Nicolino annuì con la testa, felice di essere stato capito. "Eh, sì!" esclamò. "Proprio quelli!" "E perché, allora, hai detto comeri e poni?" "Eh, già!" disse ingenuamente Nicolino. "Se dicevo cocomeri e poponi la contessa mi strillava perché non vuole che balbetti!" "Quosque tandem, Nicolino, abutere patientia nostra?" proferì gravemente Battista, alzando gli occhi al cielo. Quindi, rivolto alla vecchia: "Col suo permesso, vado a vedere, signora contessa..." "Vengo con voi, Battista" disse Giovanna."Vieni anche tu, Jolanda..." "E a me, mi lasciate solo?" balbettò Nicolino spaventato. "Vengo anch'io con voi!" I quattro uscirono all'esterno, mentre dalla porta che conduceva nei sotterranei entravano il giovane Raul e il capitano Squacqueras che trovarono il tempio vuoto. Essi portavano in due una specie di grosso paiolo di rame pieno d'acqua e delle uova di tacchina. "Avete visto, capitano?" disse Raul. "Un po'di uova le abbiamo trovate... Adesso..." Si interruppe vedendo il capitano che fissava il fuoco acceso con espressione spaventata. "Che c'è?" gli domandò. Poi avvedendosene anche lui: "To', il fuoco si è acceso da solo!" Il capitano Squacqueras si riscosse dal suo stupore e si avviò a passo svelto verso l'ingresso del tempio. "Proprio così, mio giovane amico" disse. "Io torno subito..." "Ma no, venite qui, capitano... Forse il fuoco lo avrò acceso io senza avvedermene..." "Me ne sarei accorto io, giovanotto... Quando vedo accendere un fuoco ci sto molto attento perché penso che ci sia qualcosa da mangiare..." "E allora," domandò Raul "come spiegate questa faccenda?" "È chiarissimo, giovanotto, chiarissimo..." E il capitano pronunciò rapidamente uno dei suoi soliti sillogismi: "Il fuoco si è acceso, acceso è il tramonto, il tramonto avviene al calar del sole, il sole illumina il nostro pianeta, il pianeta è della fortuna, la fortuna arride agli audaci, gli audaci non hanno paura di nulla, di nulla sono fatti gli spiriti, ergo: il fuoco è stato acceso dagli spiriti..." "Ma no, si tratterà di un caso di combustione spontanea... Approfittiamo che il fuoco è acceso per far cuocere queste uova..." Raul aiutato dal capitano collocò la pentola sul fuoco e ci mise dentro le uova. "Ecco fatto" disse. "E adesso torniamocene nei sotterranei..." "A che fare?" domandò il capitano. "Non mi piace andare sottoterra..." "Non piace a nessuno, ma dove sono le uova ci potrebbe essere anche la tacchina selvatica che le ha fatte..." "Le tacchine sono un po' piccole per il mio appetito" disse il capitano. "Ma le uova sono di tacchina, cosa sperate di poter trovare di diverso?" "Fra le tacchine ci può essere sempre qualche taccona" osservò il capitano. "Andiamo a vedere..." I due erano appena usciti per la porta che conduceva nei sotterranei, quando da quella che comunicava con la foresta vergine, rientrarono Giovanna con i suoi compagni. Mentre Nicolino aveva le braccia cariche di grossi frutti, Battista teneva una sorta di lucertolone per la coda. "Non sapevo che i cocomeri e i poponi crescessero in America" stava dicendo Jolanda. "Effettivamente" rispose Battista "il cocomero, il cui nome scientifico è Cucurbita citrullus, è una specie originaria dell'Africa meridionale, ma questi, che gli spagnoli chiamano angurie, crescono qui e il loro nome latino è Cucumis anguria... In quanto a questo altro frutto che il nostro Nicolino ha chiamato popone non avendo potuto, nel buio della foresta, vedere altro che le sue dimensioni e il suo colore arancione, si tratta effettivamente dell'ananas che rassomiglia più ad una pigna, come potete costatare, che ad un melone, tanto che gli spagnoli lo chiamano appunto piña." "Ma," domandò Nicolino "si mangia? Si mangia?" "Carlo V a cui fu portato dai primi esploratori del continente americano ne diffidò e non volle nemmeno assaggiarlo, ma Cristoforo Colombo, che ne mangiò, lo trovò squisito..." "Come fate a saperlo?" domandò Giovanna. "Cristoforo Colombo non ne ha fatto alcun cenno nei suoi diari..." "È una cosa di cui si parlava spesso nella nostra famiglia..." rispose Battista. "E come mai se ne parlava?" domandò Jolanda. "Cristoforo Colombo" dichiarò Battista con semplicità "era mio zio!" "Vostro zio!" esclamò Jolanda ammirata."Allora voi sareste..." "Don Battista Cristóbal Colón, duca del Cipango, grande ammiraglio per diritto ereditario dell'Oceano e cavaliere di Speron d'Oro..." "E vi siete ridotto a fare il cameriere!" "Come tutti sanno mio zio morì in miseria a Valladolid" disse Battista. "E poi facendo il cameriere ho scoperto anch'io un nuovo mondo: quello dell'umiltà e della rassegnazione!" "Nobile cuore!" esclamò Jolanda commossa. "Be'" disse Battista riscuotendosi. "Cambiamo discorso... È stata una vera fortuna che la signora contessa abbia potuto uccidere con un colpo di spada quest'iguana..." "Eh, sì," disse Nicolino "poteva morderci..." "Ma no!" esclamò il maggiordomo. "È stata una fortuna perché l'iguana è squisito..." "Co... come?" balbettò Nicolino. "Vorreste mangiare questo lucertolone schifoso?" "La sua carne è molto apprezzata dagli indios bravos" interloquì Giovanna. "Essi dicono che essa, quando sia lessata, ricordi quella del pollo..." "Bisogna vedere di che razza di pollo si tratta" disse Nicolino. "Può darsi che intendano parlare del pollo andato a male... Mangiano spesso la carne marcia quelli lì!" "Comunque, possiamo provare" propose Battista. "Peccato che non ci sia una pentola per farlo lesso... Be', adesso che succede?" domandò vedendo che Nicolino con gli occhi sbarrati stava guardando verso il fuoco. "C'è la pentola, c'è!" esclamò Nicolino. "Eccola lì..." Giovanna si avvicinò e guardò nel paiolo. "È vero," disse"e dentro ci sono delle uova... Chi può averle messe a bollire?" "Io dico che sono gli spiriti..." esclamò Nicolino. "Macché!" rispose Giovanna."Sarà stato qualche viandante. In fondo quello con cui incomincia questo romanzo, non si sa dove sia andato a finire..." "Mi sia consentito il dire" suggerì Battista "che forse quel viandante spintovi dal caso o da vaghezza di solitarie meditazioni potrebbe essere arrivato benissimo fin qui... E che forse si sta aggirando nei pressi in cerca di qualcosa da mangiare anche lui..." "Andiamo a vedere" disse con improvvisa decisione Giovanna. "Sono curiosa di conoscere finalmente uno di questi misteriosi viandanti... Intanto quest'acqua che bolle è proprio quello che ci vuole per cuocere l'iguana... Buttatelo dentro, Battista, e andiamo a fare il giro del tempio..." Il maggiordomo obbedì e Giovanna con Jolanda si avviò verso l'uscita, Anche il maggiordomo, sistemato l'iguana nella pentola, fece per andarsene, ma Nicolino gli si appiccicò alle costole. "Un momento," supplicò "non mi lasciare qui solo..." E uscì insieme a lui sulle piste di Giovanna. Immediatamente, dalla porta che conduceva nei sotterranei entrarono Raul e il capitano. Raul aveva in mano la grossa tacchina che abbiamo già visto maneggiare dal gran sacerdote degli incas. Costui, molto probabilmente, nel sentire avvicinarsi i due, si era nascosto abbandonando la tacchina spennata dove si trovava. "Che cosa vi avevo detto?" stava dicendo Raul. "Che ci doveva essere per forza qualche tacchina da queste parti... Però, non capisco come mai sia già morta e spennata..." "Forse," opinò il capitano, allegramente, "avvilita di essere diventata completamente calva si è suicidata..." Raul lo guardò con sorpresa: "Come?" esclamò. "Non avete più paura come poco fa? Non pensate più che possa essere stato qualche spirito?" "La carne fa quasi sempre dimenticare lo spirito" sentenziò il capitano Squacqueras. "Date qua, che la metto a bollire..." Tolse la tacchina dalle mani di Raul e stava per immergerla nella pentola, quando, nel guardarci dentro, sbarrò gli occhi farfugliando: "Oh, sant'Ambrogio! Aiuto!" "Che c'è?" domandò Raul avvicinandosi... Il capitano indicò a Raul l'iguana la cui testa mostruosa sporgeva dalla pentola e sembrava lo stesse fissando con i suoi occhi bianchi che erano schizzati fuori dalle orbite. "Un drago!" strillò il capitano con tutto il fiato che aveva in corpo."Un mostro che mi guarda!" "Ma no!" esclamò Raul. "È soltanto un innocuo iguana... È inoffensivo da vivo, figuriamoci così, mezzo cotto!" "E che cosa sta facendo là dentro? Il bagnetto?" "Sarà caduto nella pentola dal soffitto del tempio che è tutto rotto... Ce ne potrebbe cadere qualcuno in testa... Facciamo una bella cosa, capitano: andiamo di là, dove c'è il tetto sano..." Il capitano Squacqueras indicò le angurie e gli ananas. "Un drago!" strillò il capitano... "Qui ci sono anche delle frutta che prima non c'erano..." "Forse erano cresciute sul tetto e l'iguana, cadendo, se le è trascinate dietro... Comunque, siano le benvenute anche loro... Prendete su tutto e andiamo di là..." I due raccolsero le frutta e impugnarono la marmitta, il capitano per un manico, Raul per l'altro, ed uscirono dalla porta che conduceva nei sotterranei. Provenienti dall'esterno entrarono gli altri quattro. "Macché!" stava dicendo Giovanna. "Fuori non c'è nessuno..." "Si vede che quel viandante, spintovi dal caso o da vaghezza di solitarie meditazioni, è andato a finire in bocca a qualche giaguaro, signora contessa..." suggerì Battista. "La pepé!" disse Nicolino. "Cosa stai dicendo?" gli domandò Battista, guardandolo malamente. "La mammà!" farfugliò ancora Nicolino. "Il papà..." "Ma che diavolo dici?" gli dette sulla voce Battista. "La pe... pentola!" riuscì finalmente a spiccicare Nicolino."La ma... marmitta... Il pa... paiolo! Non c'è più... È sparito!" "E allora" concluse Giovanna "non c'è niente da fare, vuol dire che nel tempio c'è gente..." "Potrebbero essere il Corsaro Blu e il Doppio Barbanera Illustrato" esclamò Jolanda con la voce piena di speranza. "Sono scomparsi così misteriosamente dal villaggio indiano, quella sera!" "La pepé!" disse Nicolino. "Macché!" esclamò Giovanna. "Debbono essere morti, divorati dalle fiere..." "Spero di no, nonna!" disse Jolanda. "Se sono mo... morti è peggio" balbettò Nicolino "perché potrebbero essere i loro fantasmi..." "La cosa migliore da fare" decise Giovanna "è di cercarli dappertutto... Facciamo una cosa: dividiamoci... Io e Jolanda andiamo di qua," e così dicendo indicava una specie di cunicolo che scendeva a mezzo di una scala di pietra verso il basso, "Battista va ancora a vedere fuori..." "E io?" domandò Nicolino. "Voi restate qua" ordinò Giovanna. "E ci resto di sicuro se mi lasciate qui solo... Ci resto secco..." "Non fate lo sciocco, nostromo... Dovete restare qui per bloccare l'uscita del tempio..." E Giovanna, senza più curarsi del nostromo Nicolino, cominciò a scendere la scala, mentre Battista usciva all'esterno del tempio. Nicolino cadde a sedere su una pietra asciugandosi il sudore. "Oh, mamma mia!" gemeva piano piano. "Oh, mamma mia bella... Povero me!" Era così intento a compiangersi da non avvedersi che alle sue spalle una grossa pietra stava girando su dei cardini invisibili scoprendo un passaggio segreto nel cui vano apparve una figura gigantesca alta per lo meno due metri e mezzo, ricoperta da un lungo mantello intessuto di piume e con la testa di serpente. Accanto all'orripilante figura era la sacerdotessa che sussurrò: "È solo..." "Vado" disse l'orripilante figura che parlava con la voce del gran sacerdote avanzando verso Nicolino. Con un lungo stelo che aveva in mano prese a vellicare l'orecchio di Nicolino che, credendo si trattasse di un insetto, lo scostò con un gesto della mano borbottando: "È pure pieno di zanzare, qui... Però, almeno le zanzare sono vive... Volano, ronzano, ti succhiano il sangue..." Ci ripensò... "Ti succhiano il san..." ripeté "e se si trattasse di un vampiro?" Nicolino, terrorizzato, si voltò piano piano e si trovò davanti, improvvisamente, quella specie di spettro. Aprì la bocca per gridare ma nessun suono usciva dalla sua strozza. "A... a... a..." riuscì soltanto a dire dopo un enorme sforzo. "Maledetti sacrileghi!" tuonò invece la strana figura con voce sepolcrale. «Abbandonate subito questo tempio che avete profanato e lasciate dormire in pace le anime dei nostri morti!" Così detto si voltò e se ne andò maestosamente per dove era venuto. Nicolino avrebbe voluto gridare, ma se riuscì finalmente a dire "Aiuto" lo disse così sottovoce che non si sentiva affatto. "A... a... aiuto!" sussurrò. Finalmente, non riuscendo proprio a gridare, afferrò il suo fischietto da nostromo che gli pendeva dal collo e portatolo alle labbra ne trasse due o tre sibili tremolanti. Il maggiordomo Battista arrivò di corsa. "Ma che succede?" gli domandò. "Cosa credi di essere a bordo della Tonante?" "Un fa... fa... fa..." mugolò Nicolino. "Un fagiano?" "No, un fa... fa... fa..." "Un falco?" Nicolino fece disperati cenni di diniego. "Un fa... fa... fantasma!" esplose finalmente. «Ma fammi il piacere!" scattò Battista. "Avrai avuto un'allucinazione..." "Non ho avuto un'allucinazione, ho avuto una paura tre... tre... tre..." Poiché non riusciva a vincere l'impuntatura, Nicolino muoveva vivacemente la mano in su e in giù come se stesse giocando alla morra. Il maggiordomo, lì per lì, distratto, lo assecondò: "Quattro!" gridò alzando ed abbassando la mano a sua volta ed aprendo ora uno, ora due, ora tre dita. "Due, due, tutta!" Si riprese e si guardò intorno. "Che cosa mi fai fare, imbecille!" scattò. "Se mi avesse visto la signora contessa! Perché vuoi giocare alla morra?" "Non volevo giocare alla morra" si giustificò Nicolino. "Volevo dire che non ho avuto un'allucinazione, ho avuto una paura tremenda!" "Appunto, un'allucinazione causata dalla paura! Comunque, se hai tanta paura di stare solo, vieni con me ad esplorare l'esterno del tempio..." "Ecco, è meglio... Tutto quello che vuoi, basta che non mi lasci qui solo..." "Andiamo... E smettila di battere i denti!" "Non sono io che batto i denti, sono loro che non vogliono stare fermi... Andiamo..." I due uscirono. Quasi immediatamente entrarono Raul e il capitano Squacqueras. "E ora che abbiamo mangiato," disse Raul "direi che ci potremmo mettere a dormire..." "Ottima idea, giovanotto... Chi dorme non piglia pesci e a me il pesce non piace... Dove ci mettiamo?" Raul si avvicinò all'ara dei sacrifici che indicò al capitano. "Io direi di metterci qui" consigliò. Il capitano si avvicinò all'ara e ne saggiò la pietra con la punta delle dita come se si trattasse di un letto. "Qui? Molto bene... Per quanto il materasso sia piuttosto duretto, eh?" "Sono stanco morto" disse Raul sbadigliando. "Credo proprio che dormirò come un sasso..." "Appunto... Niente di più adatto, allora, di un letto di pietra..." Il capitano così dicendo si distese sull'ara e Raul fece altrettanto, accomodandosi accanto a lui. "Buonanotte" disse. "Speriamo bene" disse il capitano. "E voi cercate di non sognare Jolanda, la figlia del Corsaro Nero... Buonanotte..." Pochi istanti dopo dormivano saporitamente tutti e due. Ma, nonostante la raccomandazione fattagli dal capitano Squacqueras, molto probabilmente Raul dovette vedere in sogno la dolce figura di Jolanda, perché, ad un certo punto, cominciò ad agitarsi sul suo letto di pietra, chiamando nel sonno: "Jolanda! Jolanda!" Jolanda stava risalendo dai sotterranei, mentre dalla porta del tempio rientravano Nicolino e Battista. "Mi è sembrato di aver sentito chiamare il mio nome" disse "da una voce d'uomo..." "Mi sia consentito il dire che la cosa è impossibile, contessina" le fece rispettosamente osservare il maggiordomo. "Io e Nicolino eravamo fuori e non vi abbiamo chiamato... In quanto alla voce della signora contessa, nonostante i suoi toni baritonali, non si può dire che sia una voce d'uomo..." "Eppure," disse Jolanda, pensosamente "mi sembrava la voce di quel giovane... Sì, del Corsaro Blu..." "E allora," piagnucolò Nicolino "avevo ragione io... Quello è morto e adesso il suo fantasma vaga per la foresta in cerca di pace..." "Dio non voglia!" esclamò Jolanda, turbata. "Piuttosto, dov'è la nonna? I sotterranei di questo tempio costituiscono una specie di labirinto e l'ho perduta... Sentite, prendete un ramo acceso da quel fuoco e andiamo a vedere..." "Sì, signorina, è meglio" approvò il nostromo Nicolino. "Non so com'è ma con la signora mi sento più sicuro... Lei non ha paura di niente, beata lei!" Nicolino si avvicinò al fuoco e ne tolse un ramo che sollevò in aria servendosene come di una torcia. I bagliori della fiamma illuminarono Raul che disteso sull'ara con le braccia incrociate sul petto sembrava un morto. Non ci volle di più per paralizzare completamente Nicolino. "Il fantasma del Corsaro Blu!" farfugliò. Vide il capitano Squacqueras disteso accanto a Raul. "C'è anche il Doppio Barbanera Illustrato!" gridò. Risvegliati dagli urli di Nicolino, il capitano Squacqueras e Raul balzarono a terra, pensando all'attacco di qualche nemico. Raul rimase di stucco nel trovarsi davanti Nicolino. «Ma voi... Che cosa fate qua?" "Pietà, signor fantasma!" gridò Nicolino cadendo in ginocchio e tendendo le mani supplici verso il giovanotto... "Macché fantasma d'Egitto!" esclamò Raul. "Io sono vivo!" Jolanda non riuscì a trattenere la propria gioia. "Vivo!" esclamò. Raul si voltò dalla parte di Jolanda e nel vederla lanciò un grido di contentezza. "Jolanda!" esclamò. "Anche voi siete qua!" Poiché il giovanotto le si era avvicinato quasi per abbracciarla, Jolanda si trasse indietro e abbassando pudica gli occhi: "Sì, e c'è anche la nonna..." "Ci ritroviamo tutti!" esclamò il capitano Squacqueras, facendo buon viso a cattivo giuoco. "Come luogo di ritrovo, però, lo abbiamo scelto piuttosto maluccio!" Il maggiordomo Battista si rivolse a Nicolino. "Lo vedi, pezzo di cretino, che non c'era nessun fantasma?" Nicolino fissò con gli occhi sbarrati la scala da cui era salita Jolanda e rispose balbettando: "Lo dici tu!" "Che c'è ancora?" domandò Battista. "Il serpente piumato!" "Ma fammi il piacere!" Battista si voltò dalla parte verso la quale stava guardando Nicolino e annichilì vedendo la spaventosa figura che tanto aveva impressionato il nostromo avanzare verso di lui. Perdendo la sua naturale compostezza, gridò: "Mi sia consentito il dire: Aiuto!" Il sedicente Corsaro Blu sguainò la spada mentre il capitano Squacqueras correva ad acquattarsi dietro l'ara. "Capitano!" lo rimproverò Raul."Perché vi nascondete?" "Nascondermi io? Niente affatto! Mi accoscio per poter saltare meglio addosso a quella creatura infernale!" Da dietro la spaventevole figura sbucò Giovanna. Teneva in mano la spada sguainata che aveva tenuto puntata fino a quel momento dietro la schiena del mostro. "Niente paura," disse. "To', ci siete anche voi!" esclamò vedendo Raul e Squacqueras. Quindi, agli altri due: "L'ho acchiappato. E non è affatto un fantasma o un dio incas, o un gigante..." Si rivolse alla fantasmagorica figura che quatta quatta tentava di riguadagnare la porta. "Fermo là, non ti muovere, se non vuoi fare conoscenza con la punta della mia spada..." "Non è un gigante?" domandò Raul. "E come fa ad essere così alto?" Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato, mostrando che si trattava di un erculeo incas sulle cui spalle si era posto a cavalcioni il gran sacerdote il quale, visto che oramai il suo trucco era scoperto, si tolse la maschera di serpente. L'uno sull'altro i due formavano la fantastica figura che per poco non aveva provocato un infarto al povero Nicolino. "Semplicissimo, guardate" spiegò Giovanna. "Volevano spaventarci per allontanarci dal favoloso tesoro degli incas che è nascosto in questo tempio..." 7. Giovanna Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato... "Il tesoro degli incas?" esclamò Raul. "E dov'è?" "Eccolo" disse Giovanna. Si rivolse verso il sotterraneo da cui era sbucata chiamando: "Ehi, venite avanti voialtri, se non volete che del vostro gran sacerdote faccia un fodero per la mia spada!" Gli incas e le incas che abbiamo visto presenziare al sacrificio del tacchino, sbucarono dai sotterranei portando delle barelle cariche di vasi d'oro, braccialetti e collane di smeraldi, armille, corone d'oro, tiare, armi tempestate di pietre preziose, statuette e persino padelle tutte d'oro massiccio. Mentre i sei si affollavano intorno al tesoro, il maggiordomo Battista che era andato a guardar fuori del tempio, attratto da un rumore, si trasse di lato appoggiandosi con le spalle al muro: "Un drappello di soldati spagnoli!" annunciò con voce ufficiale. "Spagnoli!" esclamò Giovanna. "E noi siamo quasi inermi! Ma niente paura! Li conceremo per le feste ugualmente... E voi" seguitò, rivolto a Raul e al capitano Squacqueras "ci darete una mano, signori..." Raul esitò un istante, poi sospirando dichiarò: "Io non posso stare con voi, signora..." "Perché?" domandò Jolanda, sorpresa. "Perché fino ad ora vi abbiamo mentito... Io non sono il Corsaro Blu... Sono Raul di Trencabar, figlio del governatore di Maracaibo..." "Il figlio di Trencabar!" esclamò Jolanda, annichilita. "Sì, Jolanda, perdonatemi!" esclamò Raul. "Vado a raggiungere i vostri nemici, che altri non sono che i miei soldati... Andiamo, capitano Squacqueras..." "Non è il Doppio Barbanera Illustrato?" domandò Nicolino. "No, ma mi raccomando," scongiurò l'ex almanacco "non ci sparate alle spalle! Non è corretto! Non sta bene!" Uscì in fretta dietro Raul mentre Giovanna gli gridava dietro: "Non spariamo alle spalle, noi... Non siamo spagnoli!" "Non avrei mai creduto!" sospirò Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, con lo sguardo fisso nel vuoto. "Non ci pensare, Jolanda, e aiutami... Li sistemeremo noi questi spagnoli... Fate tutti come me!" Si avvicinò al tesoro degli incas, afferrò dei gioielli a casaccio e corse verso la porta. Fuori del tempio il sergente Manuel che comandava il drappello di soldati spagnoli sollevò una mano. "Alt!" comandò. Quindi, rivolto ai suoi uomini: "Attenzione," disse"qualcuno sta venendo verso di noi procedendo fra le rovine..." Quindi, a voce altissima: "Chi va là?" domandò. "Spagna!" rispose Raul. "E Milano!" aggiunse il capitano Squacqueras. "Ah, siete voi!" esclamò il sottufficiale. "Siete salvi, grazie alla Beata Vergine del Pilar... E ditemi! Non c'è nessuno nel tempio?" Raul esitò un momento. "No" dichiarò poi. "Non ci sembra, almeno..." "Sarà meglio assicurarsene... Avanti, soldati..." Sulla soglia del tempio apparvero Giovanna con i suoi compagni, le mani cariche di gioielli. "Pronti?" comandò Giovanna. "Fuoco!" Tutti lasciarono i gioielli contro gli spagnoli. I gioielli caddero intorno agli spagnoli che si fermarono interdetti. Il sergente Manuel ricevette in un occhio un enorme smeraldo che gli cadde in mano. "Caramba!" esclamò. "Uno smeraldo..." "Qui piove oro!" gridarono i soldati gettandosi a pesce sui gioielli provenienti dal tesoro degli incas e facendo a spintoni fra loro. "A me!" "A me!" "Lascia stare!" "Questo l'ho visto prima io!" "E togliti di mezzo, tu!" "Lascia quel vaso o ti ammazzo!" "Fermatevi!" gridò Raul gettandosi sulla mischia. "Capitano, aiutatemi a fermare questi energumeni!" "Magnifico!" esclamava intanto Giovanna, soddisfatta. "I soldati combattono fra loro per arraffare quanti più gioielli possono! Il sergente afferra una tiara di smeraldi, la passa a un soldato che la passa ad un altro, questo la lancia sulla testa del sottufficiale, goal! Lo ha preso in pieno! I soldati spagnoli si azzuffano, magnifici per continuità e resistenza! Il figlio di Trencabar tenta invano di opporsi alla loro furia, ma è travolto. I soldati si pestano fra loro. Siamo appena al primo minuto e già non c'è più un uomo valido in campo. Presto, approfittiamone per barricarci nel tempio!"

Per condurre a termine questa impresa ho abbandonato il mio castello in Liguria, i miei possedimenti in Savoia e mia figlia Jolanda che ho affidato a mia nonna Giovanna. Chissà se potrò tornare a rivederle, un giorno..." "Tornerete, signor conte, tornerete!" esclamò il nostromo Nicolino, commosso dal mesto accento del Corsaro Nero."Sono certo che tornerete!" "Come fate ad affermarlo con tanta sicurezza?" gli domandò il Corsaro Nero. "Perché siete conte e i conti, si sa, finiscono sempre col tornare..." "Del resto," disse il Corsaro Nero" anche se non dovessi tornare, non importa... Mia nonna Giovanna è abbastanza energica per seguitare a governare una contea, anche da sola..." "Per le trippe del diavolo!" risuonò in quel punto una voce baritonale proveniente dall'esterno. "Come vi permettete di sbarrarmi il passo, marrano?" "Non si può passare!" rispose la voce del pirata Catenaccio. "Il Corsaro Nero sta parlando ai suoi uomini... Vieni a darmi una mano, Pirata Col Coperchio!" gridò quindi il filibustiere cacciando la testa nella taverna e chiamando in aiuto il suo matelot che corse subito fuori. "Lasciatemi passare se non volete che vi faccia assaggiare la punta della mia spada!" tuonò ancora la voce baritonale. "Veramente" schernì la voce ironica del Pirata Col Coperchio" a quest'ora non abbiamo più appetito, quindi non vogliamo assaggiare niente..." "E allora, largo... E toglietevi il cappello, quando parlate con una signora!" "Ma questa è la voce di mia nonna!" esclamò il Corsaro Nero, stupito. Intanto, nella strada il Pirata Col Coperchio stava discutendo con una vecchia signora dall'aspetto volitivo, vestita alla moschettiera, con la spada al fianco, accanto alla quale era un tipo in livrea che portava due valigie. Era con lei anche una graziosa fanciulla dal viso dolcissimo. "Ma questo non è un cappello!" stava protestando furioso il Pirata Col Coperchio. Interloquì il tipo dall'aspetto di cameriere. "Mi sia consentito il dire, signora contessa," disse "che effettivamente quello non è un cappello... È una calotta d'argento..." "E perché ve ne andate in giro con una calotta d'argento in testa?" esclamò la vecchia irritata. "Siete un pazzo, forse?" "Durante un combattimento ho avuto il capo scoperchiato da un colpo di sciabola" rispose fieramente il Pirata Col Coperchio. "E allora mettetevi il cappello perché la vostra calotta è sporca! Non sapete che l'argenteria va lucidata tutti i giorni? Vieni, Jolanda... Andiamo, Battista..." E senza più curarsi dei due pirati abbrutiti, l'energica vecchietta seguita dai suol compagni entrò nella taverna sulla cui soglia si incontrò con il Corsaro Nero che esclamò nel vederla: "È proprio lei! Mia nonna Giovanna!" E corse incontro alla nonna, abbracciandola affettuosamente. "Nipote mio!" esclamò Giovanna, commossa. Il Corsaro Nero alzò gli occhi e vide la fanciulla che era entrata con la nonna. "C'è anche Jolanda!" esclamò. La fanciulla corse ad abbracciare a sua volta il Corsaro Nero. "Papà!" mormorò con affetto. "Sono molto lieto di vedervi," disse il Corsaro Nero con una espressione cupa che non lasciava scorgere affatto la sua allegria "ma..." Si staccò dalla figlia, rivolgendosi alla vecchia: "Come diavolo vi è saltato in mente di venire qui, alla Tortue?" "Abbiamo approfittato di uno sciabecco genovese che veniva da queste parti," rispose la nonna "ed eccoci qui..." "Ma perché siete venute?" "E volevi che ti lasciassi solo?" proruppe la vecchia. "Tu, il mio unico nipote? E senza una persona accanto che abbia cura di te..." "Veramente" disse il Corsaro Nero "questo non è un posto per donne." Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, si rivolse alle quattro creole che avevano smesso di ballare e si erano affollate con gli altri intorno al gruppo composto dal Corsaro Nero e dai suoi familiari: "Avete capito voi?" disse in tono perentorio. "Questo non è un posto per donne... Perciò, fuori di qui!" "Ma," tentò di obiettare ancora il Corsaro Nero "anche voi e Jolanda siete donne..." "Io sono tua nonna" protestò Giovanna. "E io sono tua figlia!" esclamò Jolanda, fieramente. "Quindi abbiamo il dovere di starti accanto anche nei pericoli..." "Che non debbono essere pochi a voler giudicare dalle facce patibolari che ti circondano!" concluse la nonna, girando lo sguardo sui volti dei pirati. I filibustieri, lusingati di essere stati chiamati "facce patibolari" scoppiarono in una grande risata. "C'è poco da ridere!" esclamò la nonna impermalita. "Avete tutti delle facce che fanno spavento..." "Ma sono i migliori pirati del Mar delle Antille!" esclamò il Corsaro Nero. "Migliori, in che senso?" domandò la nonna con diffidenza. "Nel senso che sono tutti Fratelli della Costa..." "Tutti fratelli? Che brutta famiglia!" esclamò Giovanna, facendo una smorfia. "Questi signori" continuò il Corsaro Nero indicando quattro brutti ceffi dalla cui espressione si capiva che, se avessero incontrato per la strada quel viandante di cui si parlava poco fa, lo avrebbero lasciato in mutande "da soli hanno conquistato il Panama..." "Bella prodezza rubare un cappello di paglia!" esclamò la nonna, con una smorfia di disprezzo. "Peuh!" "E questo signore qui," proseguì il Corsaro Nero indicando il Pirata Col Coperchio" aiutato solo dal suo matelot, si è avvicinato di nottetempo ad una caravella spagnola e, a colpi d'ascia, le ha praticato un buco nella fiancata facendola affondare..." "Peuh!" esclamò Giovanna, con disprezzo. "In fondo cosa ha fatto? Ha inventato la caravella col buco..." "E che dire del signor Mendoza," disse il Corsaro Nero senza lasciarsi smontare, indicando il Pirata Meno Un Quarto" che ha lasciato un occhio su un galeone spagnolo, una mano a Trinidad e una gamba a Portobello?" "Dico che non mi piace la gente che lascia la sua roba in giro dappertutto!" rispose la nonna con espressione disgustata. "E lui," così dicendo il Corsaro Nero indicava il nostromo Nicolino "che in una sola giornata nel "E che dire del signor Mendoza, che ha lasciato un occhio su un galeone spagnolo, una mano a Trinidad e una gamba a Portobello?" "Dico che non mi piace la gente che lascia la sua roba in giro dappertutto!" rispose la nonna con espressione disgustata. suo paese ha tagliato mille teste con il suo coltello, tanto che lo hanno soprannominato il Terrore di Pozzuoli?" "Bella roba!" esclamò Giovanna."No, mi dispiace tanto, ma tu questa gente non puoi assolutamente assumerla..." La dichiarazione di Giovanna, che in fondo era la nonna del loro comandante, destò una grande sensazione fra i filibustieri che si guardarono fra loro interdetti. Il Corsaro Nero intervenne: «Come?" domandò."E perché?" «Perché da quello che ho potuto capire," dichiarò la vecchia "questi pirati sono una massa di bricconi... Non sono pirati per bene..." "E noi non ti lasceremo davvero imbarcare con una simile compagnia!" aggiunse Jolanda, con forza. "Ma, signora..." balbettò il nostromo Nicolino "se lei ci caccia via, noi che facciamo?" "Mi dispiace," rispose la nonna crollando il capo "ma siete tutti gente troppo poco raccomandabile..." "Ma io" protestò Nicolino "non ho mai fatto male ad una mosca!" "E le mille teste?" rimbeccò Giovanna. "Le mille teste che avete tagliato in una giornata?" "E... erano teste di pe... pesce, signora..." rispose Nicolino che quando era emozionato balbettava più che mai. "Al mio paese facevo il pescivendolo e non c'era nessuno nella mia città sve... svelto come me a pulire i merluzzi e le sardine..." "E perché allora vi chiamavano il Terrore di Pozzuoli?" inquisì Giovanna guardandolo con diffidenza. "Il Terrone di Pozzuoli, non il Terrore" corresse Nicolino. "Sapete, io sono di vicino Napoli e loro" e così dicendo indicò i pirati "sono tutti settentrionali... E così mi chiamano il Terrone... Il Corsaro Nero ha capito il Terrore e mi ha nominato nostromo... Se gli dicevo la verità perdevo il posto..." "Va bene..." sentenziò Giovanna "questo può restare... Ma gli altri?" Nicolino, visto che a lui era andata bene, volle intervenire a favore degli altri pirati. E con la voce querula che fanno i meridionali in genere quando vogliono ottenere qualche cosa: "Signora," disse "gli altri sono pirati vecchi, fra poco vanno in pensione! Li volete mandar via all'ultimo momento?" Giovanna rifletté un istante. "E va bene," disse "li posso anche tenere, ma ad un patto..." "Che patto?" domandò il Corsaro Nero. "Che assuma io il comando della nave..." Persino Jolanda che, si vedeva benissimo, aveva per la sua bisnonna una vera adorazione, questa non riuscì a mandarla giù. "Ma, nonnina" non poté fare a meno di esclamare. "Avete ottant'anni!" "Ti sbagli, mia cara nipotina" ribatté Giovanna, prontamente. "Ne ho appena venti." "Venti?" trasecolò il Corsaro Nero. "Certo" rispose Giovanna. "Sono nata il 29 febbraio 1587... Siamo nel 1667..." "Quindi avete ottant'anni" calcolò il Corsaro Nero. "No, perché essendo nata il 29 febbraio, cioè 2. Giovanna in anno bisestile, compio un anno ogni quattro" rispose Giovanna con logica strettamente femminile. "Già, ma non so se..." volle ancora obiettare il Corsaro Nero. Ma intervenne Jolanda. "Su, paparino, fai contenta la nonna" pregò, giungendo le piccole mani. "Quando tu non c'eri, al castello, se l'è sempre cavata, sai..." "Sì, questo è vero," annuì il Corsaro Nero, esitando "ma non so se ai miei uomini faccia piacere essere sottoposti a una donna che comanda..." Il Pirata Meno Un Quarto sogghignò. "Perché, mia moglie non comanda forse?" disse. "E la mia?" disse il Pirata Col Coperchio. "Comanda poco quella?" "Io ho sempre sognato di avere una nonna" sospirò il pirata Catenaccio, mentre una lagrima gli solcava il volto patibolare seguendo il percorso tracciato dalla cicatrice. "E voialtri, ragazzi?" "Anche noi!" esclamarono i pirati all'unisono. "Viva la nostra comandante?" gridò il Pirata Meno Un Quarto. "Viva Giovanna, la nonna del Corsaro Nero!" gli fecero eco gli altri pirati in coro, sventolando tutti in aria i loro cappelli, meno il Pirata Col Coperchio che non poteva, com'è facile immaginare, mettere a nudo il proprio cervello sventolando la calotta d'argento. "Viva!" "Allora, siamo tutti d'accordo" concluse il Corsaro Nero. E avvicinatosi alla infernale vecchietta: "Nonna," le annunciò con voce sonora "vi cedo il comando della mia nave..." Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, respirò con forza. Quindi, sguainata la lunga spada che le pendeva al fianco e levandone la punta verso il cielo, gridò minacciosamente: "Ed ora a noi due, conte di Trencabar, governatore di Maracaibo! A noi due, assassino dei miei nipoti! A noi due!" Dall'alto del ballatoio che attraverso una scala di legno conduceva al piano superiore si affacciò un bambino, il figlio del bettoliere: "Dice così mamma" disse "che per favore quando dice: 'A noi due!' lo dica un po' più piano... Su, c'è un malato!"

Comunque, se qui c'è un idolo, nelle vicinanze ci deve essere qualche tempio abbandonato... Infatti, mi sembra di vederne la sagoma nel buio... Sì, sì, è proprio un tempio incas... Cosa ne dite, capitano? Potremmo rifugiarci lì, per questa notte..." "Dico," rispose il capitano Squacqueras "che sarebbe bene andare subito specialmente se, come dite voi, il tempio è abbandonato... Non sarà facile trovarne un altro da queste parti e poi, come dice il proverbio? Chi ha tempio, non aspetti tempio..."

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I ragazzi della via Pal

208324
Molnar, Ferencz 1 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
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E avrebbe abbandonato tutto volentieri, su questa terra; soltanto il campo, il dolce campo gli doleva troppo abbandonare per sempre! E, cosa che non gli era mai accaduta durante tutta la malattia, a questo pensiero le lagrime gli sgorgarono dagli occhi: ma non era la tristezza che lo faceva piangere, ma il furore impotente di non poter vincere l'avversità che gli impediva di andar ancora in via Pal, sotto le fortezze, accanto alla capanna. Ricordava la segheria, la rimessa, i due gelsi dai quali coglieva le foglie per portarle a Ciele che aveva uno stabilimento di bachi-coltura ed ai bachi occorrevano le foglie dei gelsi, ma Ciele era tutto accurato ed aveva paura di sciuparsi il suo bel vestito arrampicandosi sull'albero ed allora Ciele ordinava a lui di arrampicarsi perchè egli era l'unico soldato semplice. Pensava allo snello comignolo che sbuffava vispo emettendo sull'azzurro del cielo nuvolette di fumo bianchissimo, che si scioglievano subito nel nulla. E gli pareva di sentire ancora lo stridere della sega quando intacca i legni per ridurli a tavole sottili. Il viso gli si accese; gli occhi brillarono. Esclamò: — Voglio andare sul campo! E poichè nessuno rispondeva a questa sua richiesta, si ostinò e con voce risoluta chiese: — Voglio andare sul campo! Boka gli prese la mano: — Verrai la settimana ventura, quando sarai guarito... — No, no! — ribattè — Voglio andarci ora! Adesso! Subito! Datemi il mio vestito! Metterò il berretto di via Pal! Mise la mano sotto il cuscino e ne cavò fuori, trionfante, il berretto rosso e verde dal quale non aveva voluto staccarsi neppure un minuto. Se lo mise in testa. — Il vestito! Triste il padre gli disse: — Quando sarai guarito! Ma non era possibile persuaderlo. Gridò con quanto fiato potevano i suoi polmoni malati: — Non guarirò! E poichè parlava con tono decisamente imperativo, nessuno lo contraddisse. — Non guarirò! — diceva — Voi mentite! Io so che morirò e voglio morire dove voglio! Voglio andare sul campo! Discutere non si poteva. Tutti accorsero per persuaderlo, per chetarlo, per spiegargli. — Ora non si può... — Il tempo è cattivo... — La settimana ventura... E continuavano a dirgli le parole che quasi non osavano ripetere di fronte ai suoi occhi intelligenti: — Quando sarai guarito... Tutto li smentiva. Quando accennavano al tempo cattivo, ecco il sole inondare col suo raggio il piccolo cortile, il sole di primavera forte e rigeneratore, il sole che infonde vita a tutti, meno che ad Ernesto Nemeciech. La febbre invase il ragazzo con tutto il proprio furore. Annaspava come pazzo; le narici gli si allargavano. — Il campo — disse — è tutto un regno! Voi non potete saperlo perchè non avete mai combattuto per la patria. Bussarono. La donnina uscì. — Cienechi — disse rientrando al marito — cerca te! Il sarto andò in cucina. Questo Cienechi era un impiegato municipale che si faceva fare i vestiti da Nemeciech; e gli chiese: — E il mio vestito marrone a doppio petto? Di dentro giungeva la voce che affermava: 17 — Squilla la tromba... II campo è pieno di polvere... Avanti! Avanti! — Scusi tanto — diceva il sarto —; se il signore vuole provare, ma bisogna provare qui in cucina perchè di là c'è mio figlio molto malato... — Avanti! Avanti! — ripeteva la voce rauca del bambino. Seguitemi tutti all'assalto! Ecco le Camicie Rosse con alla testa Franco Ats con la lancia inargentata... Ora mi butteranno in acqua... Il signor Cienechi porse l'orecchio. — Che c'è? — E' lui che grida! — Ma se è malato, perchè grida? Il sarto scrollò le spalle. — Non grida. Delira. E' fuori di sè... E andò a prendere la giacca marrone a doppio petto, che era cucita con un'imbastitura bianca. Quando la porta s'aperse, si udì: — Silenzio in trincea! Attenti! Ora vengono! Ci sono! Trombettiere, la tromba! Fece portavoce della mano: — Taratatà! Taratatà! E ordinò a Boka: — Suona anche tu! E Boka fu costretto a fare anch'egli delle sue mani portavoce ed ora imitavano la tromba in due: una vocina stanca, rauca, debole, ed un'altra sana ma che sonava triste anch'essa. A Boka la commozione strozzava la gola, ma resistette; sopportò da uomo e fingeva d'essere felice di potere imitare il suono della tromba. — Mi spiace — disse il signor Cienechi — ma questo vestito mi occorre subito! — Taratatà! Taratatà! — si sentiva venire dalla stanza. Il sarto lo aiutò ad infilare la giacca. E si misero a parlare sottovoce. — Mi stringe sotto le ascelle! — Sissignore! — Taratatà! Taratatà! — Questo bottone è troppo in alto. E la stiratura, mi raccomando... — Sissignore! — Assalto generale! Avanti! — Mi pare che la manica sia un po' corta! — Non credo, signore! — Ma guardi bene! Il guaio è che voi mi fate sempre le maniche un po' corte! — Non è questo il guaio, creda a me! — pensava il sarto; e segnava con il gesso le maniche della giacca. Di dentro lo schiamazzo cresceva sempre. — Ah! Ah! — gridava la voce del bambino — Sei qui? Sei di fronte a me! Finalmente ti posso afferrare. Ora vedremo chi è il più forte! — Ci metta dell'ovatta — diceva Cienechi —. Un po' sotto le spalle, un po' sul petto, a destra ed a sinistra... — Bum! Sei per terra! Il signor Cienechi si tolse la giacca marrone ed il sarto l'aiutò ad infilarsi quella di prima. — Quando sarà pronta? — Dopodomani. — Mi raccomando. Non vorrei che tardasse! Ha altro da fare? — Eh! Se non fosse malato il bambino... Il signor Cienechi scosse il capo: — E' spiacevole, ma ho proprio bisogno del vestito, d'urgenza. Si metta subito al lavoro. Il sarto sospirò: — Mi ci metto. — Buongiorno! — esclamò Cienechi; e si allontanò allegro. Ma di sulla porta si voltò un'ultima volta per ripetere: — Subito al lavoro, mi raccomando! Il sarto prese il vestito marrone e pensò a quel che gli aveva detto il dottore: che bisognava provvedere a quello che occorre in simili casi. Dunque bisognava lavorare! A che avrebbe servito il danaro che gli avrebbero dato per il vestito marrone? Forse sarebbe andato al falegname... Ed il signor Cienechi sarebbe andato a passeggiare vanitoso col suo abito nuovo sul Corso! Tornò in stanza e si mise a cucire. Non osservava nemmeno il letto, ma aveva preso ago e filo per terminare al più presto il lavoro, che in ogni modo era urgente. Cienechi ne aveva bisogno; ed il falegname anche ne aveva bisogno. Il piccolo non si calmava più. Sembrava che le forze gli fossero ritornate. Si era alzato in piedi sul letto: la camicia da notte gli giungeva fino alle calcagna. Aveva il berretto rosso e verde di traverso. Fece il saluto militare. E parlava rantolando con lo sguardo perduto nel nulla: — Signor capitano, debbo riferire che ho buttato a terra il capo delle Camicie Rosse e chiedo d'essere promosso! Guardatemi! Sono capitano! Ho combattuto per la patria e sono morto per la patria! Tromba, Ciele! Taratatà! Con una mano s'aggrappò alla spalliera del letto. — Bombardate, fortezze! Ecco Giovanni! Sarai capitano anche tu, Giovanni! E il nome con lettere minuscole, no! Siete cattivi! Vi fa rabbia che il generale voglia bene a me! La Società dello Stucco è una stupidità! Do le dimissioni! Do le dimissioni! Poi aggiunse sottovoce: — Scrivete sul registro. E il povero sarto, accanto alla tavola bassa, non vedeva, non sentiva più nulla. Le sue dita magre agucchiavano sulla stoffa: il ditale ogni tanto dava un bagliore. Egli non avrebbe guardato il letto a nessun costo. Aveva paura che, se avesse guardato, gli sarebbe mancata la voglia di lavorare, avrebbe gettato per terra il vestito di Cienechi e si sarebbe messo in ginocchio vicino al letto del suo figliuolo. Il capitano sedette sul letto e si mise a fissare taciturno la coperta. Boka gli chiese piano: — Sei stanco? Non rispose. Boka lo ricoperse. La madre gli aggiustò il guanciale sotto la testa. — Sta tranquillo! Riposa! Fissava Boka ma si capiva che il suo sguardo non vedeva. Disse: — Papà... — No, no — disse con voce strozzata il generale —. Io non sono il papà. Sono Giovanni Boka... E il malato con voce stanca e confusa ripetè: — Io sono... Giovanni Boka... Cadde un lungo silenzio. Il ragazzo chiuse gli occhi e sospirò a lungo e profondamente come se tutti i dolori degli uomini infelici si fossero dati convegno dentro la sua piccola anima. Silenzio. — Forse s'addormenta — sussurrò la donna bionda che appena si reggeva in piedi a forza di vegliare. — Lasciamolo! — rispose con un soffio Boka. Sedettero in disparte sopra uno sdrucito divano verde. Anche il sarto aveva smesso di lavorare: aveva posato sulle ginocchia la giacca marrone ed aveva chinato il capo sopra la tavola. Nel silenzio profondo si sarebbe potuto sentir volare un moscerino. Dalla finestra filtrarono voci di ragazzi, come se fossero in molti nel cortile e parlassero tranquillamente fra di loro. Ed ecco una voce conosciuta giunse all'orecchio di Boka; ed un nome sussurrato da un'altra: — Barabas... S'alzò. Uscì dalla stanza in punta di piedi. Quando aperse la vetrata della cucina e fu in cortile, vide visi amici: uno sciame di ragazzi di via Pal se ne stava lì, accanto alla porta. — Siete voi? — Sì — sussurrò Vais —. Tutta la Società dello Stucco è qui. — Che volete? — Gli abbiamo portato un diploma d'onore sul quale abbiamo scritto in inchiostro rosso che la Società dello Stucco chiede perdono e gli annuncia che sul registro il suo nome è stato scritto tutto a lettere maiuscole. Abbiamo anche il registro. Siamo in deputazione. Boka scrollò il capo. — E non potevate venir prima? — Perchè? — Perchè ora sta dormendo. I membri della deputazione si guardarono. — Non abbiamo potuto venir prima perchè c'è stata una grande discussione per stabilire chi dovesse essere il presidente della deputazione, ed è durata mezz'ora. E poi è stato eletto Vais. La donnina comparve sulla soglia. — Non dorme — disse —. Vaneggia. I ragazzi s'irrigidirono. Erano atterriti. — Entrate, figliuoli — disse la madre —. Chissà che non torni in sè al vedervi. Ed aperse la porta. Entrarono uno alla volta, impacciati, reverenti come se passassero la porta d'una chiesa. Si tolsero i cappelli prima di varcare la soglia. E, quando, dietro l'ultimo, la porta si rinchiuse, rimasero tutti nello strombo della porta, silenziosi, rispettosi, con gli occhi sbarrati. Fissavano il sarto e il letto. Il sarto non sollevò la testa nemmeno a questo: la teneva reclinata contro il gomito, ma non piangeva. Era molto stanco. Il capitano giaceva con gli occhi spalancati nel suo letto, respirava raucamente ed a fatica: aveva la bocca spalancata. Non riconobbe nessuno. Forse i suoi occhi vedevano già cose che i nostri occhi terreni non possono vedere. La donna spinse avanti i ragazzi: — Andate da lui! S'avviarono adagio adagio verso il letto. Ma camminavano esitanti. Uno incoraggiava l'altro: — Va avanti tu! — No, tu! Barabas disse: — II presidente della deputazione sei tu! Vais s'accostò al letto: e gli altri gli eran dietro. Ma il ragazzo non li guardava nemmeno. — Parla — suggeri Barabas. E Vais con voce tremante cominciò: — Tu... Nemeciech... Ma Nemeciech non udiva. Ansava e guardava fisso la parete. — Nemeciech... — ripetè Vais; e il pianto gli serrava la gola. Barabas gli sussurrò: — Non strillare. — Non strillo — rispose Vais; ed era soddisfatto di poter dire quache parola senza piangere. Poi si riprese: — Signor capitano illustrissimo! — cominciò cavando di tasca una pagina scritta — Quando noi siamo comparsi qui... io come presidente... in rappresentanza della Società... noi... ecco ci siamo sbagliati... e tutti ti chiediamo perdono... con questo diploma d'onore... vi è scritto tutto... Si voltò. Due lagrime spuntavano nei suoi occhi. — Signor cancelliere... — sussurrò — Mi dia il registro sociale! Lesik glie lo porse premuroso. Vais lo depose timido sul canto del letto e sfogliando trovò la pagina dell'annotazione. — Guarda qui... — disse al malato — c'è questo! Ma gli occhi del malato adagio adagio si richiusero. Aspettarono. Poi Vais disse: — Guarda! Non rispose. Tutti s'avvicinarono al letto. La madre si fece strada in mezzo ai ragazzi, tremando. Si chinò sul figliuolo. — Tu! — disse poi al marito con una voce strana, nuova —. Non respira. Gli posò la testa suI petto. — Tu! — ripetè forte, gridando — Non respira più! I ragazzi si ritirarono. Si misero in un angolo della stanza, uno vicino all'altro. Il registro della Società cadde per terra aperto come l'aveva lasciato Vais. E la donna gridava: — Ha la mano gelata! E nel grande silenzio che seguì si intesero i singhiozzi del sarto che fino allora era rimasto immobile sullo sgabello, con la testa sul braccio; ma erano singhiozzi soffocati, contenuti. E le spalle gli si scotevano tutte. Ma ancora faceva attenzione alla giacca di Cienechi, la faceva scivolare di sul ginocchio perchè le lagrime non la bagnassero. La donna baciava, stringeva a sè il bambino, poi s'inginocchiò accanto al letto, affondò il viso nella coperta e si mise a piangere anche lei. Ernesto Nemeciech, segretario della Società dello Stucco, capitano per merito sul campo di via Pal, giaceva muto per sempre, pallido, gli occhi chiusi; ed era certo che oramai non vedeva nè sentiva più niente di quel che gli succedeva attorno, perchè vista e udito del capitano Nemeciech erano stati presi dagli angeli e portati là dove non si sentono che musiche soavi e non vi sono che luci divine; là dove non esistono altri esseri se non simili al capitano Nemeciech. — Sono venuti troppo tardi! — sussurrò il sarto. Boka era nel centro della stanza, ed abbassò il capo. Poco prima era riuscito a stento a trattenere il pianto; ed ora era meravigliato che le lagrime non gli sgorgassero dagli occhi, meravigliato di non poter piangere. Si guardò attorno: i ragazzi erano ammassati nell'angolo. Davanti a tutti, Vais col suo diploma d'onore in mano, il diploma che Nemeciech non aveva potuto vedere. S'accostò ad essi: — Andate a casa. E i disgraziati quasi si rallegrarono di poter lasciare quella stanza sconosciuta dove il loro compagno giaceva sul letto, morto. Strisciarono uno alla volta in cucina, e dalla cucina sulla strada piena di sole. Ultimo era rimasto Lesik. Era rimasto ultimo volontariamente. Quando tutti furono usciti, in punta di piedi s'avvicinò al letto e raccattò il registro della Società; guardò il letto e il capitano silenzioso, poi uscì anche lui, dietro gli altri; nel cortile pieno di sole, gli uccelli cinguettavano sugli alberi striminziti. I ragazzi fissavano gli uccelli e non capivano. Il loro camerata era morto, ma non ne capivano il significato. Si guardavano l'un l'altro, stupiti, come chi rimane incerto davanti a una cosa incomprensibile, strana, incontrata per la prima volta nella vita. Verso sera Boka uscì di casa: bisognava che studiasse perchè l'indomani sarebbe stata una giornata grave: esame di latino. Ed era certo che il professor Raz l'avrebbe interrogato. Ma non aveva voglia di studiare. Mise da parte libro e dizionario ed uscì. Girò per le strade senza meta; evitava le vicinanze della via Pal. Non voleva rivedere il campo in quella giornata triste. Ma dovunque andasse qualcosa gli ricordava Nemeciech. Viale Ulloi: c'erano passati in tre, con Cionacos, quando s'erano recati per la prima volta all'Orto Botanico... Via Costelech: una volta, a mezzogiorno, dopo scuola, s'erano fermati proprio lì, in mezzo alla strada, e Nemeciech aveva raccontato con gravità come i due Pastor gli avessero prese le biglie di vetro nel giardino del Museo... I dintorni del Museo... Sentiva che più egli schivava il campo e più se ne allontanava, tanto più lo attirava lì un sentimento doloroso. E quando si decise a recarcisi, senza raggiri, direttamente, coraggiosamente, allora un senso di leggerezza sollevò la sua anima. S'affrettò per arrivarci il più presto possibile. E quanto più s'avvicinava al suo «regno» tanto più nel suo cuore entrava la pacatezza. Quando, nel tramonto che scendeva, vide il grigio steccato ben noto, il suo cuore palpitò forte. Dovette fermarsi. Non c'era più da aver fretta; era arrivato. S'avvicinò con passi lenti al campo, la porticina del quale era aperta. Davanti alla porticina, con la schiena appoggiata allo steccato, Giovanni stava fumando la pipa. Appena vide Boka gli disse, festoso: — Glie le abbiamo date! — Sì — disse piano il generale. E Giovanni s'entusiasmò: — Le hanno prese. Li abbiamo spazzati via! Pulizia! Giovanni indugiò davanti allo slovacco, tacque un istante, poi disse: — Sapete, Giovanni, che cosa è accaduto? — Che cosa? — Nemeciech è morto! Lo slovacco si tolse la pipa di bocca. — Qual'era Nemeciech? — Il biondino... — Ah! — disse lo slovacco. E rimise la pipa in bocca — Poveraccio! Boka entrò dalla porticina. Si stendeva silenzioso ai suoi piedi quel gran pezzo di terra cittadina che era stato testimone di tante ore gaie. Lo attraversò adagio e giunse alla trincea. Qui si vedevano ancora i segni della battaglia. La sabbia portava ancora le orme dei combattenti. I baluardi della trincea erano un po' demoliti: erano stati i ragazzi a disfarli quando s'erano arrampicati per l'assalto. E cupe, una accanto all'altra, nereggiavano le cataste di legna. Il generalissimo si appoggiò al terrapieno, il mento contro il gomito. II campo era silenzioso. Il fumaiolo taceva ed aspettava il mattino quando mani laboriose gli avrebbero acceso sotto il fuoco. Anche la segheria riposava e la casupola tra la fiorente vigna selvatica dormiva. Di lontano, come attraverso un sogno, giungeva il fracasso della via. Le carrozze risuonano sull'asfalto, la gente vocia, e dalla finestra d'un cortile, forse dalla finestra d'una cucina dove il lume già acceso, giunge una gaia canzone. Forse una serva. Boka si alzò. Si diresse verso la casupola. Si fermò sul posto dove Nemeciech aveva atterrato Franco Ats come una volta Davide Golia. Si curvò per cercare le orme: ma la terra era smossa e non si vedevano orme. Eppure avrebbe riconosciuto l'orma del piede di Nemeciech che era tanto piccolo che anche le Camicie Rosse se n'erano stupite quando avevano trovato l'impronta delle sue scarpe sulla sabbia dell'Orto Botanico, quel giorno memorabile... Continuò sospirando. Giunse alla fortezza numero 3. II generale era stanco: l'anima ed il corpo erano estenuati dalla giornata passata. Barcollava come se avesse bevuto un vino forte. S'arrampicò a stento sulla fortezza numero 2 e vi si accoccolò. Almeno qui nessuno lo vedeva, nessuno lo disturbava, poteva riflettere, pensare ai propri ricordi, si sarebbe anche sfogato a piangere, se gli fosse riuscito. La brezza gli portò delle voci. Guardò giù dalla fortezza e vide due piccole ombre davanti alla capanna. Non poteva riconoscerli, ma prestò orecchio alle voci. I due ragazzi parlavano piano: — Eccoci, Barabas... — diceva uno — eccoci dove il povero Nemeciech ha salvato la patria. Silenzio. Poi la voce riprese: — Facciamo la pace, qui, ma sul serio e per sempre. E' stupido litigare fra di noi. — Va bene — diceva commosso Barabas —. Sono venuto per questo. Facciamo la pace. Nuovo silenzio. Stavano muti uno di fronte all'altro. Poi Colnai disse: — Allora, ciao! E Barabas rispose: — Ciao! Si strinsero le mani; e rimasero a lungo, mano in mano. E non si dissero altro, ma si abbracciarono. E' accaduto anche questo. E' accaduto anche questo miracolo. Boka li guardò dall'alto, dalla fortezza, ma non si fece vedere: egli voleva restar solo. E poi, a che scopo disturbarli? I due ragazzi s'avviarono quindi verso via Pal conversando piano. — Per domani c'è molto latino — diceva Barabas. — Sì — rispondeva Colnai. — Per te è facile — sospirò Barabas —. Sei stato interrogato ieri, ma io non sono stato chiamato da molto tempo e mi toccherà certo uno di questi giorni. — Fa attenzione. Dal verso 1al 23 del secondo capitolo c'è un taglio. L'hai segnato? — No. — Quello è inutile studiarlo! Vengo io da te e ti segno il taglio sul libro. — Grazie. Ecco: quei due già pensano alla lezione. Dimenticano presto. Se Nemeciech è morto, il professor Raz è vivo e con lui la lezione di latino. Se n'andarono, scomparvero nell'oscurità. Ed ora Boka era solo. Ma non rimase nella fortezza. E poi era tardi. Dalla chiesa veniva uno scampanio mesto... Scese e si fermò davanti alla capanna. Giovanni stava tornando: Ettore, il cane, gli scodinzolava accanto. — Ebbene... — disse lo slovacco — II signorino non rincasa? — Sì, me ne vado — rispose Boka. Lo slovacco sorrideva. — A casa, cena calda... — Cena calda... — ripeteva macchinalmente Boka e pensava che in via Racos due infelici sedevano a cena, il sarto e la moglie. E nella stanza erano accese le candele. Per caso guardò dentro la capanna; s'accorse di strani strumenti appoggiati contro la parete. Un disco tondo di latta dipinto di rosso e bianco come le targhe dei passaggi a livello quando passa il direttissimo. Pali dipinti di bianco, un cavalletto a tre piedi con un tubo d'ottone in cima. — Che c'è? — domandò. — Roba dell'ingegnere. — Di quale ingegnere? — Dell'architetto. Il cuore di Boka palpitò selvaggio. — Architetto? E che viene a fare qui? Giovanni soffiò una boccata dalla pipa, poi disse: — Costruiscono una casa. — Qui? — Sì. Lunedì vengono gli operai, scaveranno il campo, costruiranno le fondamenta... — Come? — gridò Boka — Costruiscono una casa qui? — Una casa... — disse indifferentemente lo slovacco — A tre piani. Il padrone del campo fa costruire. Ed entrò nella capanna. A Boka pareva che la terra gli mancasse sotto i piedi. Le lagrime gli spuntavano. S'incamminò verso la porticina in fretta. Fuggiva. Fuggiva dalla terra infedele ch'essi avevano difeso con tanto dolore, con tanto eroismo e che ora li abbandonava per prendersi sulle spalle una gran casa d'affitto, per sempre. Si rivolse ancora, dalla porticina, come chi lascia la patria per sempre. E nel grande dolore che gli serrava il cuore si mescolò una goccia, una goccia sola di conforto. Se il povero Nemeciech non ha potuto vivere fino ad ascoltare la deputazione della Società dello Stucco che gli domandava perdono, almeno non aveva saputo neanche che la patria per la quale egli era morto gli sarebbe stata tolta. E il giorno dopo, quando tutta la classe era seduta in silenzio, il professor Raz salì a passi lenti e gravi sulla cattedra e parlò con parole semplici e commosse, di Ernesto Nemeciech e invitò tutta la classe a volersi trovare l'indomani alle 15 in via Racos, vestiti tutti di nero o almeno di scuro. Giovanni Boka guardò cupo davanti a sè e per la prima volta cominciò ad albeggiare nella sua semplice anima di fanciullo un vago sentore di quel che possa veramente essere la vita, della quale tutti noi siamo schiavi ora tristi ora gai.

Lo stralisco

208488
Piumini, Roberto 3 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
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Lucrezia, a volto alto, non fissava ormai piú l'angolo della tela che già il giorno prima, in certi affannati versetti delle lodi di san Macario, aveva abbandonato, ma gli occhi del pittore, che con i suoi pienamente le rispondeva, solo interrompendosi per silenziosi tocchi di pennello. Se avesse guardato quel che della tela poteva vedere, Lucrezia si sarebbe accorta che non era la stessa dei giorni passati: anzi era una tavola scura, piuttosto massiccia, come se Filippo avesse preferito dipingere ora su legno. Lo stesso modo della pittura non era quello dei giorni andati: fatto adesso di tocchi leggeri, vaganti, rapidi, lievemente concitati. Ma suor Marta a quello non badava: solo guardava, con lo sguardo fisso, gli occhi devoti del suo pittore. Nel maturo silenzio del mattino, ornato solo da strilli di rondini affaccendate nel piccolo cielo del chiostro, Filippo non stava dipingendo un volto, ma un busto di sposa: una veste di stoffa leggera, rosata, scollata a quadro su un collo bianchissimo, nel giro doppio di una collana di pietre rosse e azzurre. Attorno allo spazio del volto, si stendeva una chioma libera e mossa, gonfia di luce e trapunta di fiori nuziali. Era un ritratto di sposa senza volto, in cui mancava anche il più piccolo tocco di nero. Nonostante i lunghi sguardi a Lucrezia, Filippo niente dipingeva di ciò che vedeva, ma soltanto ciò che immaginava, e voleva. Lungo e silenzioso mattino: barbagli bianchi di cavolaie alla porta, come fiori incuriositi dell'opera muta; canti di uccelli nuovi fra lo strillo fervoroso di rondini; sotto a tutto, dallo spazio che splendeva oltre le mura del monastero, sterminato frinío di cicale. Nessun suono usciva, invece, dal tremito solerte delle labbra di suor Caterina, che a tratti chiudeva gli occhi, e gonfiava l'invisibile petto, sotto la stoffa bruna, di penitenziali cospirazioni. Immobile negli occhi di Filippo, Lucrezia si stordiva al canto degli uccelli, al profumo delle rose che veniva dal chiostro, al ronzìo solare degli insetti che, capitati alla finestrella, fuggivano presto da quello spazio freddo e inerte, verso pollini e colori. Era affascinata dal fervore dell'opera, dalla propria emozione: respirava in silenzio, calma di una gioia paziente. Le campane del duomo di Prato, un po' lontane, suonarono il culmine del giorno. Filippo alzò la faccia verso suor Caterina, immobile statuetta di legno presso il muro, intenta al suo muginìo. Riaprendo gli occhi da una di quelle brevi abluzioni nel buio, lo vide farle un cenno di richiamo, discreto come ogni cosa della mattina, e spostarsi davanti al cavalletto. Con un piccolo balzo la monaca scese dal trespolo, e gli andò vicina. — Suor Caterina, — bisbigliò a voce calda il pittore, — per l'ultimo tocco mi occorre un po' d'olio, di quello puro... Mentre esco a respirare nel chiostro, potresti tu, che sai a chi e dove chiedere, portarmene una boccettina? Ma senza spreco: due soli cucchiai. Senza aspettare assensi, Filippo arretrò fino alla soglia e uscí nel chiostro sempre tenendosi a vista, per togliere alla monaca ogni possibilità di guardare il dipinto. E suor Caterina lo seguí, come trascinata, ancor prima di considerare che avrebbe agevolmente potuto tenerlo d'occhio dalla cucina non distante: e mosse le corte gambe lungo il porticato, abbagliandosi a tratti per il sole. Ora Lucrezia era sola. Una vampata le corse il volto, il collo, il corpo intero: un caldo capogiro la stordí. Chiuse gli occhi, per togliersi la tavola dall'anima, lí a tre passi soltanto: ma li riapri subito, come le palpebre avessero sfiorato spine. Sperò che suor Caterina tornasse; sperò persino che il pittore, venendo a far qualche ribalderia, la obbligasse al rifiuto, allo sdegno... Ma suor Caterina, adocchiando dalla cucina Filippo che fiutava languido rose, non si affrettava, e scambiava qualche parola con la suora pentoliera, che era tra le sue confidenti e curiosa quanto bastava della faccenda di pittura: tanto che quell'olio avrebbe potuto gocciar piú presto dalle olive, che a esser tirato, come lo si tirava, dall'orciolo. E Filippo, compiaciuto del tempo, si crogiolava nello sguardo della monaca: sedendo persino a braccia conserte su una panchinetta di pietra, e chiudendo gli occhi al sole, come per riposarli un poco. Là dentro, Lucrezia si sentiva tirare anima e capelli verso il ritratto, abisso quadrato nella luce della soglia. E nessuno tornava. Suonò la campana a Duomo, come dire che l'attimo passa, e non è eterno il tempo delle creature. Tremando si alzò. Barcollò passi, aggirò il cavalletto, guardò, vide: una figura splendente, nuziale, un canto gioioso di colori e bellezza: e al centro della festosa immagine il suo volto, ma non dipinto, giacché Filippo non aveva lavorato su tela, né su legno, ma su finissima lastra di specchio. Fra veste e capelli, fra collana e fiori di serto, Lucrezia vide il proprio volto malconosciuto: mobile, splendente, arrossato, sorpreso e ridente volto di sposa. Quando suor Caterina tornò, svegliando al passaggio il finto sopito con uno stropiccio di gola, ed entrò abbassando la testa per non vedere nemmeno di sfuggita il ritratto, e posò l'ampollina d'olio sul tavolo di Filippo, Lucrezia sedeva al suo posto, quietamente. E allora rientrò il pittore dal chiostro, con un petalo di rosa fra le dita macchiate di vernice bruna. Guardò Lucrezia, vide uno sguardo di pianto felice. Guardò il dipinto, e notò sullo specchio, nella parte vuota del volto, l'impronta fresca e ancora vaporante di un bacio. Un bacio a sé, al ritratto incantato, a lui stesso? Non importava: era dato.

Pagina 188

Si perse a guardare una luna dorata che a destra, sulle colline della sponda opposta, si spingeva lentamente nel cielo appena abbandonato dagli echi rossastri del sole. Sentì un rumore nella stanza dietro di sé. Pensò che i servi fossero tornati ad accendere le lampade. Anche nella città sotto di lui e nei piccoli villaggi lontani al di là dello stretto, luci di fiamma si accendevano, come frammenti di sole che solo ora, nell'ombra crescente, si facessero notare. Senti alle spalle due leggeri colpi di mano: un frammento d'applauso. Si voltò, incuriosito: e vide a tre passi Maometto, in una liscia veste dorata; al posto del turbante aveva una piccola calotta di seta nera. Due passi dietro all'Imperatore, un po' di lato, stava un personaggio sconosciuto, alto e magro, completamente vestito di scuro, con braghe a fascia aderenti, spada e pugnale appese ad una cinghia di pelle nera che gli attraversava il petto. Gentile, col fiato sospeso, non disse parola. L'Imperatore sorrise, e senza muovere le mani unite davanti al ventre, piegò appena la testa di lato. Poi disse con voce profonda: — Ospite, non spaventarti per la mia visita inattesa: nulla ti minaccia. Considera questo, dopo la parata di oggi, il mio vero e fraterno benvenuto. Gentile goffamente apri le braccia, in un vago gesto di ringraziamento e accoglienza. — Mi cogli impreparato, Signore, — disse. — Qui ogni cosa è tua, né io conosco questa casa abbastanza da saperti offrire qualcosa, come ad un ospite conviene... — Godiamoci dunque senza altre preoccupazioni la stupenda luna, che non appartiene a nessuno, eppure si mostra a tutti con la meravigliosa intimità di una sposa, — disse Maometto, avvicinandosi al pittore, e voltandosi accanto a lui verso il quieto e vasto luccichío dei Dardanelli. L'uomo vestito di nero, ombra silenziosa, rimase alle loro spalle, immoto. — Il mio accompagnatore non è muto, — disse l'Imperatore, — ma è come se lo fosse. Non è sordo, ma è come se lo fosse. È piú fedele a me di quanto sia la mia stessa mano: e della mia mano è anche piú saggio e preciso. Non inquietarti per la sua presenza: egli è solo in certo modo presente. Gentile tornò a guardare la luna. Anche Maometto, accanto a lui, la guardò per un lungo momento: come se lassú ci fosse, svelabile allo sguardo, il modo giusto per dire le parole.

Pagina 94

Potrebbe forse il piú eloquente degli uomini descrivere a un cieco l'immensità del mare, la luminosità dell'alba, lo struggimento di un tramonto, o la gioia di un piccolo che torna a vedere la madre dopo essersi creduto abbandonato? Come potrei io, seppure con parole innamorate, descrivere qualcosa di ancora piú grande e forte: un mistero che, per quanto guardi e scruti, io non capisco e in cui continuamente mi perdo? Dunque, tu vedrai gli occhi di Amilah: il modo e il luogo, li saprai al momento opportuno.

Pagina 97

Il libro della terza classe elementare

210634
Deledda, Grazia 1 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
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Carlo Alberto era, così, abbandonato dagli altri principi, mentre aveva l'esercito decimato e stanco per i combattimenti e per le malattie. Al maresciallo Radetzky invece giungevano continuamente dall'Austria nuovi rinforzi. A Custoza, dal 22 al 26 luglio, infuriò la battaglia. Soldati, ufficiali, i principi, il Re rinnovarono prodigi di valore. Ma di fronte al numero fu dura necessità cedere. Carlo Alberto dovette ricondurre in Piemonte il suo esercito, glorioso sempre, anche nell'avversa fortuna, e piegarsi ad un armistizio.

Pagina 234

La freccia d'argento

212147
Reding, Josef 2 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
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Naturalmente senza di me, che, dopo aver distribuito imparzialmente qualche energico ceffone a destra e a manca, avevo già abbandonato quell'antro così accogliente. Però caddi dalla padella nella brace, perché i tafferugli non erano soltanto nella taverna: anche per le strade di Barcellona si era scatenato l'inferno. A stento riuscii ad aprirmi un varco fino a una nave da carico germanica, e là venni a La Freccia d'argento sapere che tutta la Spagna era in fermento. Era scoppiata la sanguinosa guerra civile! Nel locale si è rifatto il silenzio. Qualche ragazzo, malgrado la chiusa emozionante del racconto del Segantino, si è addormentato: il duro corpo a corpo con gli avversari li ha svuotati delle ultime forze. Gli altri ripensano alle parole del Segantino: la guerra civile, la guerra! Per loro non era già una parola vuota di senso; sapevano quel che significava la guerra: bombardamenti notturni, fame, fuga, morte! Che debbano esistere sempre le guerre? Che ci siano sempre attacchi a tradimento come quello di stanotte, e odio e lotta sleale? Su queste domande, a cui non san trovare risposta, i ragazzi si addormentano di un sonno agitato.

Il locale abbandonato dorme, e dorme tutto ciò che vi sta dentro: le casse da sapone coperte dai teli, le latte di benzina, gli arnesi, il trattore e i possenti autocarri. Ma riposa davvero il garage con tutto il suo armamentario?... Guarda, guarda! Là nell'autocarro, dietro il vetro della cabina di guida, adagio adagio fa capolino un viso: è Ed-mastica-gomma! I cardini dello sportello cigolano lievi, ed Ede esce fuori, evitando anche il più piccolo rumore. - Coraggio, Ede! - si rincuora sottovoce lo spilungone. - È questa l'ultima occasione propizia per eliminare gli altri! Stavolta la maledetta Freccia d'argento non ti sfuggirà! Egli sta in ascolto con tale tensione, che le sue orecchie a ventola fremono e tremano: ma non si sente alcun rumore. Ancora una volta la faccia di Ede si contrae in un ghigno perverso... Quatto quatto egli striscia verso la Freccia d'argento.

Pagina 67

Tutti per una

214921
Lavatelli, Anna 2 occorrenze
  • 1997
  • Piemme Junior
  • Casale Monferrato (AL)
  • paraletteratura-ragazzi
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O era stato addirittura cacciato via, abbandonato per strada? - Ah, è tuo - fece Melchiorre, dopo un lungo silenzio. - Argo... è il nome di un cane fedele. - Tornerà? - disse il professore. Ma non era propriamente una domanda. Era un pensiero detto ad alta voce. - Tornerà. Gli animali mi conoscono bene, professore, e io conosco bene loro. Il tuo cane aveva lo sguardo di quelli che tornano. Il professore guardò davanti a sé, oltre il muro di cinta del parco, e fece un sospiro profondo. - Pensi che sono un po' matto? Pensalo pure, non m'importa. A Villa Felice è un vantaggio: i matti hanno molta più libertà.

Pagina 40

La Pinuccia lo ascoltava rapita, il lavoro a maglia abbandonato sulle ginocchia. Poi accadde un fatto strano. Attratti da quella voce, stupiti dalla novità, arrivarono anche gli altri: l'Enrichetta, la Jolanda, la Clotilde, la Celestina, il Carlo, l'Attilio, il Melchiorre e perfino quell'orso dell'Ernesto. E tutti rimasero lì ad ascoltare la tremenda sfida tra Ulisse e Polifemo, tra l'intelligenza dell'uomo e la forza del ciclope, finché non venne la Maria Pia a rompere l'incanto. - Su, avanti... È ora di rientrare, signori miei. Comincia a far frescolino, non sentite? E poi questa è l'ora del vostro programma preferito. C'è la Ruota della Fortuna che sta per cominciare! Su, su, andiamo, o ve lo perderete. Prese per il braccio il primo che le venne a tiro e lo condusse via. Gli altri, con il pensiero ancora là, nella spaventosa caverna di Polifemo, si avviarono lemme lemme verso l'ingresso. - Sai qual è il nostro guaio, Virgilio? - disse la Pinuccia rimanendo indietro con il professore. - Che nessuno ci dà mai niente da fare. Se solo trovassimo un buon motivo per attaccarci alla vita, per darle ancora un senso, non ce ne staremmo zitti e muti a sopportare tutto. Non credi? - Si, hai ragione. Io, per esempio, avevo un cane. E per lui, grazie a lui, valeva ancora la pena di vivere. Adesso non lo so più. - Ah, sì - commentò la Pinuccia. Neanch'io lo so più. E mi capita anche di avere pensieri terribili. A volte, svegliandomi al mattino, mi guardo nello specchio e lo specchio mi dice: «Pinuccia, nessuno ha più bisogno di te, nessuno ti vuole più. Cosa aspetti a crepare?». E io rispondo: «Che ci posso fare, se sono viva? Non lo faccio mica apposta, a vivere». E allora penso che tutto questo mi succede perché devo avere fatto molti sbagli. Dove ho sbagliato, professore, che i miei figli non mi amano più? - I figli volano via come gli uccelli. Non abbiamo diritti sui figli - provò a dire Virgilio Zambelli, prendendola a braccetto. - E poi, loro devono pensare al futuro... - Anche noi dovremmo pensarci, ogni tanto - fece la Pinuccia, scontenta. - Siamo vivi, no? Perché ci siamo lasciati il futuro dietro le spalle? Perché? Neanche il professore lo sapeva. Ma sentiva che la Pinuccia, con la sua logica elementare e impietosa, aveva toccato il cuore del problema.

Pagina 62

Il Plutarco femminile

217994
Pietro Fanfano 1 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
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Anche la direttrice per tanto la incoraggiò molto, e le disse brava, soggiungendo: "Mi ha dato una vera consolazione, tra le altre cose, il sentire che ella ha abbandonato il brutto vizio di dire pappà e mammà invece dei dolci nomi di babbo e mamma. "Seppi, rispose la Beppina, le giuste censure che mi furono fatte qui, or fa sei mesi, quando Gaetana Agnesi Parte II - XI. tali parole scrissi in quella sciagurata letterina; e d' allora in qua non mi sono più uscite di bocca. "Ciò mostra che ella è docile, buona, e facilissima a rimettersi nella retta via: della qual cosa fa prova anche la vita da lei ora letta, la quale, da poche parole non troppo eleganti in fuori, è scritta con assai garbo. "Ella è così buona che lo dice per incoraggiarmi, e la ringrazio: vorrei per altro che, o lei o il signor maestro, mi additassero quelle parole, per potermene guardare altre volte." "Questo è ufficio del signor maestro." "Ed io, soggiunse il maestro, farò il mio ufficio; e prima di tutto farò notare alla signorina che di una gentil donzella, il dire che sgobbava per studiava assiduamente, è un mancare al decoro. Sgobbare lo dicono gli scolari di Pisa parlando de' loro condiscepoli, che il pigro ingegno compensano collo studio continuo, fuggendo ogni lieto ritrovo; e que' loro condiscepoli gli chiamano sgobboni. Ella vede dunque, oltre all'esser tal voce trivialissima, che mal si addice alla Amoretti, fanciulla gentile e di pronto ingegno. Ella ha detto che Maria Pellegrina, sostenendo quella tesi, fanatizzò gli uditori. Queste voci Fanatizzare per Empiere di meraviglia, Rapire altrui coll' eccellenza dell' arte; e Fare fanatismo per essere ammirato ed applaudito, sono, è vero, comuni, massimamente nel linguaggio teatrale ma non resta per questo che non siero stranissimi modi, e da fuggirsi a tutto potere, chi considera il vero significato della voce Fanatico, dalla quale nascono. Parlando della cerimonia della laurea, ella ci ha detto che fu fatta nel modo il più brillante; e ci ha detto per conseguenza una piccia di improprietà: la prima è quella di aver messo l'articolo il dinanzi al più brillante, che è costrutto alla francese, nè la lingua italiana lo comporta, dovendosi dire nel modo più: la seconda è la voce brillante per ricco e splendido, che è pur essa tutta francese. Anche la solennità rimarcabilissima per segnalatissima o notevolissima, è un brutto barbarismo; come pure è barbarismo il dire che la Amoretti quando morì era tuttora benportante; non mancando nella lingua nostra voci acconcissime a significar tale idea, come gagliardo, robusto ed altre secondo la occasione: e nè anche quell' aggiustatezza sorprendente nel sostenere le tesi non è farina schietta italiana, potendosi, e dovendosi dire aggiustatezza o mirabile, o stupenda, o altrimenti secondo l' occasione. Io non ho altro da dire: solo aggiungo che questi sono nèi, i quali non deturpano troppo il bello scritto della signora Beppina. La Beppina ringraziò caramente il maestro e avendo la direttrice dato il segno, le signorine si alzarono per andarsene, quando la Eglina: "Signor maestro, disse, la Beppina ci ha recitate certe parole latine che erano scritte sulla ciarpa regalata alla Amoretti il giorno della sua laurea, le quali parole ci ha detto di non avere inteso neppur ella. Scusi, ve', siamo donne, e per conseguenza curiose: si potrebbe sapere che cosa voglion dire quelle parole?" "Perchè no? Le parole latino erano queste: Ob juris scientiam Acadernia Ticinensis dat libenter merito, che, spiegate, alla lettera, suonano: "Per la scienza del Diritto la Università di Pavia offre di buon grado al merito. La Eglina, a nome anche delle altre alunne ringraziò il maestro; e qui finì per quella mattina la conversazione.

Pagina 222

Il ponte della felicità

219086
Neppi Fanello 3 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
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Già si sapeva che nella notte del 5 ottobre i Turchi, spiegando i trinchetti, avevano abbandonato Lepanto e, attraverso il golfo di Corinto, si apprestavano a incontrare i nemici. L'armata cristiana aveva raccolto le forze maggiori al centro, intorno alle capitane dei tre generali: don Giovanni d'Austria, con la reale nel mezzo; Marc'Antonio Colonna e la capitana di Savoia, a destra; a sinistra il Veniero, con a lato la capitana di Genova. Ultime venivano quelle di Malta e della Lomellina. Sessantuna galee che inalberavano bandiera azzurra circondavano le navi ammiraglie. Alla destra di questo schieramento si raggruppavano cinquantatrè galee, con insegna verde attaccata alla punta dell'antenna, ed erano comandate da Giovanni Andrea Doria; a sinistra, altre cinquantatrè galee, che spiegavano bandiera gialla al calcese, erano agli ordini di Agostino Barbarigo. Precedevano le galeazze veneziane, munite ognuna di quattrocento archibugieri, sessanta cannoni, fuochi artificiali, e governate da Francesco Duodo, Andrea Pesaro, Pietro Pisani, Antonio e Agostino Bragadino, Giacomo Guoro. Alla retroguardia, pronte al soccorso, il marchese di Santa Cruz comandava trenta galee che inalberavano bandiera bianca al calcese. Su quelle navi che si apprestavano alla lotta sotto l'insegna di Cristo erano presenti i più bei nomi d'Italia e di Spagna. Principi illustri avevano abbandonato la reggia, con il cuore infiammato di fede; membri di nobilissime famiglie avevano lasciato senza un rimpianto gli agi dei loro castelli per militare nell'armata cristiana. Alessandro Farnese, principe di Parma, ubbidiva a Ettore Spinola, sulle galee di Genova; Francesco Maria della Rovere, figlio di Guidobaldo duca di Urbino, si era imbarcato sulla capitana di Savoia, agli ordini dell'ammiraglio Legni. Don Giovanni d'Austria, dopo aver disposto lo schieramento in maniera che tra galea e galea rimanesse tanto poco spazio che un'altra nave non potesse passare, diede ordine di alzare sulla reale lo stendardo della Lega, innanzi al quale si ammainarono tutti gli altri stendardi. Indi scese in un'agile fregata e si diede a percorrere l'intera linea della battaglia, incitando i suoi uomini a combattere gagliardamente. Passata in rassegna la flotta, l'ammiraglio supremo, prima di tornare alla sua nave, si fermò presso la capitana del Veniero per salutare il prode e bollente alleato. Ritto sulla poppa, a capo scoperto ma armato di tutto punto, il condottiero veneto rispose cordialmente al saluto. Un'ombra di titubanza si leggeva in quell'istante sul viso di don Giovanni d'Austria. Tremava forse al pensiero della grande responsabilità che prendeva sopra di sè? O qualche dubbio all'ultimo momento era sorto nella sua mente? D'improvviso la sua voce risonò alta, dominando il canto solenne del mare. - Che si combatta? - chiese al Veniero. È necessario, nè si può evitare, - gli rispose il vecchio guerriero. L'ombra scomparve dal viso dell'ammiraglio supremo. Un ultimo saluto, e l'agile fregata raggiunse la nave reale. Il dado era tratto. L'armata turca, intanto, ammainati i trinchetti, a voga arrancata e in formazione di mezzaluna, si spingeva innanzi contro i cristiani per aggirarli. Ma le galeazze veneziane dell'avanguardia, con le loro terribili artiglierie, tempestarono e sgominarono le galee turchesche, sventandone il piano e obbligandole a disserrare le file. Qualche attimo di sosta. Nel silenzio sopraggiunto, il vento, che fino allora aveva soffiato in favore dei Turchi, cessò di agitare le vele, il mare divenne tranquillo come un lago e il cielo sorrise, radiosamente azzurro. In mezzo a tanta serena dolcezza le due potenti armate si affrontarono. Il silenzio dell'atmosfera .... il vecchio.... passava, guidando e incitando. venne infranto dallo strepito delle armi, dagli urli degli assalitori, dal gemito dei morenti. Pareva che un'ebbrezza di morte si fosse impadronita di quelle ciurme assiepate; la terribile furia del fuoco e del ferro distruggeva ogni cosa. Prora contro prora, la galea di don Giovanni d'Austria e la capitana di Alì, generale supremo dell'armata turca, si batterono accanitamente.... Vuoti paurosi si aprivano nelle file degli archibugieri sardi e in quelle dei fanti turchi. La vittoria era incerta, allorchè Sebastiano Veniero, non ancora assalito dai nemici, spinse la sua galea in avanti per accorrere in difesa della reale. Fiero sopra tutti i suoi uomini, i candidi capelli al vento, corruscante l'armatura, il vecchio guerriero, con una balestra in mano, passava, guidando e incitando. I suoi sguardi erano terribili, la sua voce, imperiosa. Ma, quando si curvava sul ferito o sul moribondo, era l'immagine vivente di un padre che calma e conforta. La lotta asprissima sembrava centuplicargli le forze. Una freccia gli attraversò un piede. Per un attimo vacillò, e le braccia del nipote, che gli stava sempre al fianco, furono pronte a sostenerlo. - Non è nulla, Lorenzo, - mormorò, soffocando lo spasimo. - Presto, presto, all'arrembaggio! - soggiunse immediatamente, scorgendo una galea nemica che correva in aiuto di Alì. Ma prima che quella potesse raggiungere la mèta, un'altra nave, vogando disperatamente, le tagliò l'assalì passo e assalì con furia. - È la Santa Cattarina, - mormorò il vecchio condottiero, sorridendo, compiaciuto. - Buon sangue non mente! - La lotta prosegui sanguinosissima. Alla fine i veneziani e i pontifici, facendo impeto sul centro nemico, riuscirono a rompere il grosso della flotta turca e a uccidere Alì pascià. Quando le superstiti galee della mezzaluna seppero la fine del loro capo, con mossa improvvisa si gettarono sulla linea destra alleata, affondarono le navi dei cavalieri di Malta, e attraverso il varco così aperto si diedero alla fuga. La gigantesca battaglia promossa da Pio V, come una nuova crociata, era finita. Dopo quattr'ore di accaniti combattimenti si era conclusa con la vittoria delle armi alleate. Questo trionfo era stato pagato a duro prezzo giacchè, se pari era stata l'ira da una parte e dall'altra, pari ne era stato anche il valore. Si poteva ben dire che Lepanto rappresentava la sfolgorante luce che rompeva le tenebre onde era avvolta l'Europa cristiana. Sulle onde insanguinate rottami di ogni genere andavano alla deriva. Il cielo aveva perduto la sua azzurra trasparenza e una cavalcata di grige nuvole si affacciava a ponente. A poppa della reale un frate pregava per gli eroi che il Mediterraneo aveva trascinati nelle sue profondità misteriose. Quanti erano? Molti. Ogni regione d'Italia poteva vantare l'onore di aver dato la vita di qualche suo figlio; ma l'Europa era stata salvata dalla barbarie maomettana.

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L'immaginazione di Loredana correva allora a quelle contrade straniere dovè suo padre viveva, ormai abbandonato da tutti, senza più speranza di ritorno, e dove Alvise e Zuambattista Benedetti dormivano il loro ultimo sonno. Ella si era fatta coraggio per sua madre, che ignorava sempre la grande sciagura, e per nonna Bettina il cui viso diveniva ogni giorno più pallido e affilato. Ma che cosa ne sarebbe stato di lei se nel mesto cammino della vita non si fosse incontrata con Teodora? Eccola lì, davanti al clavicembalo l'amica delle ore tristi, intenta a suscitare, con il tocco delle agili mani immagini fluttuanti nello sconfinato mondo dei sogni! In un momento particolarmente doloroso Teodora l'aveva presa per mano e l'aveva sollevata dal baratro di disperazione nel quale minacciava di perdersi. Era stata l'angiolo mandatole in aiuto dal buon Dio. Le note del clavicembalo sfarfallavano soavemente .... Teodora eseguiva qualche pezzo di musica.... nel tepore del salone patrizio, ma Loredana era lungi di lì con la mente. Si rivedeva, accompagnata da Teodora, varcare la soglia dello studio di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, che doveva diventare la sua guida e il suo maestro lungo il difficile cammino dell'arte. Quanta trepidazione nel suo cuore, in quei primi istanti! Poi la casa del pittore, a San Marcilian, presso il campo di Santa Fosca, era diventata il centro di attrazione per Loredana. E non soltanto per l'affetto che le dimostrava il Tintoretto, arrivato allora alla piena maturità della vita e dell'arte, ma anche per la presenza della figlia di lui, una fanciulla undicenne, bionda e rosea, vivace e birichina, dal cuore d'oro e dall'intelligenza sveglia. Marietta Robusti era la prediletta del grandissimo pittore che, instancabile, andava arricchendo di capolavori immortali la sua città nativa. Fino a qualche mese prima egli aveva fatto indossare alla figliuola abiti maschili, per essere accompagnato da lei nelle sue peregrinazioni attraverso la città, dovunque lo chiamavano incessanti impegni professionali, persino sulle impalcature e sugli assiti, nei palazzi pubblici e nelle chiese. E codesto travestimento, dal quale erano derivati talvolta degli equivoci spassosi, aveva contribuito a sviluppare in Marietta un certo spirito di iniziativa e molta disinvoltura nei modi; fin che il suo precoce orientamento verso l'arte stessa del padre e verso la seduzione del canto e del clavicembalo ne aveva ingentilito il carattere e il contegno. Allora il buon Jacopo, in pieno accordo con la moglie Faustina, aveva lasciato libero corso ai diritti della femminilità sul guardaroba e sulle acconciature della sua cara figliuola. A interrompere la quiete delle due artiste entrarono improvvisamente Mariolina Corner Contarini e Ludovica Vendramin Calergi, amiche di Teodora. - Che cosa state facendo, rinchiuse come due bruchi nel bozzolo, mentre fuori splende il sole e il carnevale invita alla gioia? - chiese con voce squillante Mariolina, una fanciulla quindicenne, biondissima e vivacissima. Ludovica Vendramin Calergi si era fermata davanti al ritratto di Teodora. - Come ti somiglia! - esclamò con la sua voce un po' strascicata. (Al contrario di Mariolina, essa aveva un carattere pacato e riflessivo, forse un tantino indolente.) - Voglio dire al babbo che desidero anch'io un ritratto eseguito da Loredana Sagredo, - prosegui, continuando ad ammirare l'opera d'arte che le stava di fronte. - Anch'io, anch'io! Loredana, domani verrai a casa mia e cominceremo subito le sedute, - squillò Mariolina con il suo facile entusiasmo e sicura di essere contentata dai genitori. In virtù del suo temperamento allegro, pieno di comunicativa, e anche perchè era la maggiore di una turbolenta schiera di maschietti, otteneva invariabilmente tutto quello che voleva. - Ma tu mi rubi sempre le idee! - esclamò la Vendramin Calergi, alquanto risentita. - Via, non t'inquietare, cara Ludovica! Non ho certo l'intenzione di accaparrarmi la nostra brava Loredana per tutta la vita. - Capisco! Ma intanto io debbo venire sempre dopo di te! - Non ti ammalerai per questo, stanne sicura! - Calma, calma, amiche mie! - disse a questo punto Teodora. Doveva intervenire spesso nelle dispute delle due fanciulle così diverse nel fisico e nel morale. - Mi pare che sia già l'ora della regata. Vogliamo uscire sul balcone per assistere allo spettacolo? - soggiunse poi, per allontanare definitivamente le nubi che minacciavano di addensarsi. La proposta venne accolta con entusiasmo e le quattro fanciulle, incappucciate ben bene per preservarsi dai rigori del gelo, aprirono la porta ogivale e uscirono sul balcone da dove lo sguardo spaziava sul Canal Grande. Le regate, promosse e incoraggiate dal Governo affinchè la gioventù si rafforzasse con l'esercizio fisico e potesse fornire buoni vogatori alle sue flotte, erano antiche quanto Venezia. Costretto a vivere sulle acque, il popolo veneto comprese fin da principio che saper remare era per lui una necessità di vita, e vi prese parte con grande entusiasmo. Questa gara atletica, chiamata la regata, posta in onore da Venezia e diffusa poi in tutto il mondo, costituiva uno spettacolo grandioso, molto ammirato anche dagli illustri ospiti di passaggio nella Repubblica di San Marco. Le barche che dovevano parteciparvi erano raccolte e allineate alla Motta di Sant'Antonio; di lì partivano, e dopo aver percorso il bacino di San Marco e tutto il Canal Grande, giungevano a Santa Chiara. A questo punto, giravano intorno a un palo confitto nel mezzo del canale, rifacevano il percorso fino a San Donà, dove trovavano il traguardo; una tribuna galleggiante lussuosamente addobbata. Lì avveniva la premiazione. I premi consistevano sempre in somme di denaro che venivano date ai vincitori, chiuse in borse di cuoio. Il primo arrivato riceveva inoltre una bandiera rossa; il secondo, verde; il terzo, azzurra, e il quarto, gialla. Su quest'ultima era dipinto nel mezzo un bel porcellino: effigie dell'animale vivo offerto a colui che l'aveva meritato. Allorchè le quattro giovinette posero piede sul balcone di casa Pisani Moretta, nei palazzi sul Canal Grande, sulle rive e sulle innumerevoli imbarcazioni addossate ad esse, si era ammassata una folla enorme per assistere allo spettacolo. Già le bissone, le margarote e le balotine, come venivano chiamate le barche della polizia. che aveva il compito di tenere sgombro lo specchio d'acqua necessario alla gara, si cominciavano ad addob bare per rendere più bello lo spettacolo. Poi, riunite in corteo, prima che la gara tradizionale avesse inizio, si avviarono per scortare il Doge e la Signoria verso la tribuna galleggiante dove le Autorità si sarebbero accomodate per assistere allo spettacolo. Il freddo era intenso, ma il sole splendeva luminoso, e sotto la sua carezzai i ghiaccioli si scioglievano in tante minute goccioline che cadendo nelle acque dei canali producevano un sussurro orchestrale. Teodora Pisani Moretta lo ascoltava, rapita, mentre Loredana Sagredo s'inebriava dei colori smaglianti sventagliati sotto il cielo d'opale.

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In quei tragici istanti il padre non aveva abbandonato la sua creatura. La stretta del suo valido braccio si era fatta più forte e aveva sostenuto Alvise, lo aveva riportato a galla; poi i suoi muscoli cominciarono a stancarsi. Al vivido tremolare di un lampo egli scòrse il rottame di un'alberatura. Verso quel legno, che poteva essere l'unica salvezza di Alvise, il padre nuotò con il braccio che aveva libero. Ma la lotta per impossessarsene fu lunga, estenuante. Quando egli credeva di averlo raggiunto e stava per afferrarlo, un'onda glielo ricacciava lontano. Allora ricominciava, sempre trascinandosi dietro il dolce peso del figlio. L'amore paterno gli centuplicava le forze. Per riprendere coraggio, egli guardava di tanto in tanto gli occhi di Alvise, quei cari occhi che rispondevano fiduciosi al suo sguardo. Fili d'alghe si erano impigliati tra i riccioli bruni del giovane, e il padre delicatamente glieli tolse. Tanti e tanti anni sembravano annullati. Zuambattista. Benedetti stringeva tra le braccia il suo piccino, ritratto vivente della sposa scomparsa. E andavano insieme, così. Finalmente un'onda spinse verso di lui l'alberatura spezzata. Con uno sforzo disperato l'afferrò e la tenne stretta al proprio cuore palpitante. Ma a un tratto • sentì che la sua resistenza era agli estremi. Stringendo i denti, nello spasimo di tutte le membra irrigidite, il capitano riuscì a far aggrappare Alvise al rottame della Santa Cattarina; poi si tolse la cintola dalla casacca, e con quella legò strettamente il giovane all'albero spezzato. - Addio, Alvise, e Dio ti accompagni! - mormorò Zuambattista Benedetti, mentre tracciava un gran segno di croce con la mano stanca. Il vento rubò e disperse le parole paterne. Alvise non le udì. Ma la benedizione rimase sul capo del figlio e l'accompagnò in quella tragica avventura, come un viatico, come una speranza, come una preghiera accolta dall'Altissimo.

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Al tempo dei tempi

219472
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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- Così il piccino crebbe, ed appena potè zampettare dovette lavorare dalla mattina alla sera a coltivar la terra, ed ebbe appena da sfamarsi: sempre e poi sempre marito e moglie gli ripetevano: - Ti teniamo per carità; meritavi che ti si fosse abbandonato in un bosco. - Una sera il Principino, poteva avere un dieci anni, chiedeva al figlio del mugnaio un'arancia. - Dammela, fratuzzu, dammela! - Ma tu non sei fratello mio! - rispose l'altro. - Se tu fossi mio fratello te la darei, a te non te la do. Tu sei figlio di un'altra madre. Va' e cercala tua madre in Palermo. La conosci tu? L'hai mai veduta? Che bella madre! Come si cura del figliuolo! - Queste stesse parole il Principino se l'era sentite dire tante volte, ma non ci s'era potuto assuefare e gli facevano sempre una gran pena. Zitto zitto se ne andò a piangere nello stanzino buio e fra le lacrime diceva: - È mai possibile che il mio babbo e la mia mamma non si rammentino di me? Che mi abbiano abbandonato in questo modo per farmi patire tanto? Ma non ha cuore di madre la mia? - Aveva appena terminato di proferire questa domanda, che lo stanzino fu illuminato da un debole chiarore e in mezzo a quel chiarore comparve una donna pallida pallida, scarna scarna e avvolta in un gran lenzuolo bianco. - Che possono fare i morti per i vivi? - disse la donna con un fil di voce. - Io morii quando tu nascesti, figlio mio, e su te non ho potuto vegliare. Tuo padre, il principe di Cattolica, ti affidò a un abate nel quale riponeva piena fiducia. Quel perfido, invece, s'è impossessato del tuo. Va' a Palermò, istruisciti e quando sarai in età, chiedi che giustizia sia fatta. Io pregherò per te! - Mentre il Principino sbalordito dall'apparizione e tutto tremante stava per rivolgerle una domanda, i contorni della figura si dileguarono, il chiarore svanì, ed egli si trovò di nuovo al buio, sulla paglia, ma meno afflitto, meno desolato di prima perchè sapeva che sua madre vegliava su di lui. Glielo aveva detto dove doveva andare, ed egli subito le obbedì. Del resto glielo aveva detto anche il figlio della mugnaia che se ne andasse perché in quella casa era un intruso. Non appena fece giorno il Principino s'alzò dal suo giaciglio di paglia, uscì, e invece d'andare nel campo a lavorare, prese la via che conduceva a Palermo. Era digiuno, non aveva scarpe in piedi, eppure camminava senza sentir la fame nè i sassi della via: camminava pieno di speranza e di letizia. Giunse così a Porta Nuova, sotto il palazzo del Viceré, ma era sfinito e si lasciò cadere in terra. Venne una ronda di guardie e il capo gli dette un calcio, dicendogli: - Alzati, mendicante; qui non sono tollerati gli accattoni! - Si alzò e andò oltre, giù per il Cassaro, fino a Piazza Vigliena. Ma qui era l'ora della passeggiata e le dame passavano nei magnifici cocchi a quattro e sei cavalli, i cavalieri cavalcavano su focosi destrieri con ricche gualdrappe, ed altre guardie scacciarono il Principino, dicendogli: - Va' oltre, pezzente! - E andò oltre, finchè non giunse all'angolo di Via dei Chiavettieri, dove allora non c'erano altro che botteghe di fabbro, e appunto in una di quelle botteghe entrò il Principino, che aveva fame, a disse al padrone: - Mi prenda come garzone; ho voglia di lavorare e sono forte. Domani e nei giorni seguenti mi guadagnerò il pezzo di pane che ora le chiedo per non morir di fame. - Questa domanda d'imprestito e non d'elemosina, il tono con cui era fatta e l'aspetto dignitoso del fanciullo, coperto di pochi stracci, commossero il capo mastro, che subito lo fece ristorare, se lo prese in casa e lo mise a tirare il mantice. Il ragazzo lavorò sempre con zelo; non c'era caso che s'imbrancasse con i monelli di strada; se lo mandava a riportare il lavoro o a comprar qualcosa, tornava subito, non parlava, non chiedeva nulla e si contentava del cibo che era abbondante e buono in confronto di quello che gli dava con tanto mal garbo il mugnaio; e se la moglie del fabbro gli dava qualche oggetto di vestiario, ringraziava con effusione e aggiungeva: - Mia madre, che è in Paradiso, pregherà per lei e per la sua famiglia! - Così di giorno in giorno il garzone si faceva voler più bene e ormai era come uno di casa. Appunto per la confidenza che aveva con lui, il fabbro una volta gli domandò: - Ma insomma, si può saper di chi sei figlio e come si chiamano i tuoi genitori? - Non li ho mai conosciuti. Fui messo a balia da una mugnaia, un abate mi portò al mulino quando avevo pochi mesi, pagò per un po' di tempo il baliatico e poi non si fece più vivo, e allora il mugnaio e la moglie presero a maltrattarmi e a rinfacciarmi il pane che mi davano. Non rammento che maltrattamenti, rimproveri e fatiche, - aggiunse il ragazzo con un sospiro. - Ma non hai proprio nessun indizio de' tuoi genitori? - Il poverino non voleva narrare l'apparizione della madre perchè quel segreto era la sua sola gioia e la