Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679047
Perodi, Emma 12 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Per buona sorte sua, il punto ove egli cadde venne presto abbandonato, perché fiorentini e aretini accorsero in massa: quelli ad assalire il vescovo Ubertini; questi a difenderlo; in caso diverso, Lapo sarebbe stato schiacciato da' cavalli e dai pedoni, e il suo corpo sarebbe diventato una frittata. Ma se da un lato fu bene per lui di restar solo in quel punto, senz'altra compagnia che i morti, da un altro lato fu male perché nessuno lo udiva gemere e niuno poteva soccorrerlo. Dalla ferita gli usciva il sangue, non a gocce, ma a bocca di barile, e Lapo, che si sentiva mancare il fiato, si raccomandava alla Madonna e a tutti i santi del Paradiso. Intanto annottava, ed egli, vedendo che nessuno veniva a soccorrerlo, cessò di pregare e incominciò a dire: - Ma non c'è neppur un cane che abbia pietà di me! Queste parole furon da lui ripetute tre volte; alla terza giunse di corsa un can da pastori, scodinzolò, e poi, accucciatosi accanto al ferito, si diede a leccargli la ferita. - Saremo amici, e, se campo, ti prometto che non soffrirai mai fame e non annuserai mai bastone, - disse Lapo, che sentiva rallentare il fiotto del sangue sotto quella continua medicatura. Il soldato passò così buona parte della notte, ma si sentiva ardere dalla sete e provava allo stomaco un certo stringimento, che gli rammentava di non aver mangiato da più ore. - Mi hai salvato dalla morte, - disse Lapo, - ma dovrò forse crepar di sete o di fame? Non aveva finito di parlare che il cane si alzò e, scodinzolando, batté la coda sulla mano destra del soldato, il quale, afferratala come se fosse un canapo, si mise l'altra mano sotto la gamba ferita e si lasciò trascinare attraverso il campo pieno di soldati e di cavalli morti, in cui i predoni si aggiravano a frotte per ispogliare i cadaveri. Il cane tirava, e Lapo si strascicava dietro a lui, lasciandosi condurre come fanno i ciechi dalle loro guide. Giunti che furono in prossimità di un fosso, nel quale scorreva acqua chiara e abbondante, il cane si fermò, e il ferito poté chinarsi sulla sponda e attinger acqua per dissetarsi. Il cane bevve pure e poi batté di nuovo la coda nella palma della mano destra di Lapo, e questi, afferratala, riprese la via col suo curioso compagno; ma non andaron molto oltre perché il cane si fermò accanto a un carro che pareva abbandonato e sotto al quale giaceva morta una mula. Lapo non ne poteva più e non avea più forza d'alzare un dito, perciò si lasciò cadere supino e disse: - Corri pure, cane mio, ma io non mi muovo più! Se è destinato che muoia qui, tu mi farai da becchino. Il cane pareva che intendesse non soltanto quel che Lapo diceva, ma anche quello che pensava, perché fatto un lancio entrò nel carro abbandonato e si diede ad annusare, frugando da un lato e dall'altro. Dopo aver armeggiato un pezzo, fece un altro lancio e depose a portata di mano del ferito una fiaschetta, scodinzolando dall'allegria. Quella fiaschetta conteneva del vino generoso, e dopo che Lapo ne ebbe bevuto alquanto si sentì ristorato. Il cane era tornato sul carro, e ogni volta che ne usciva portava accanto al soldato pane, formaggio, salame e ogni grazia di Dio, senza addentare nulla per satollarsi. - Sei una vera provvidenza, - diceva Lapo, - e se guarisco ti voglio fare un collare d'argento. Il sonno chiuse ben presto le palpebre di Lapo di Signa, e il cane, accucciatoglisi accanto, tenne a distanza da lui i predoni, che, vedendolo inetto a difendersi, gli avrebbero tolto anche le calze, che allora era uso portare affibbiate alla cintola. Però Lapo non dormì di un sonno tranquillo. Gli pareva di essere in un bosco foltissimo e di vedersi sulla testa un uccello smisurato e nero come la pece, che faceva larghi giri per carpirlo. Vide in questo mentre un altro uccello, tutto bianco, piombare dal cielo, dare una beccata nel cervello all'altro e farlo cader morto. Lapo si destò spaventato, mentre albeggiava, e disse: - Si vuole che i sogni che si fanno verso la mattina, sien veri. Cerchiamo di spiegare questo. L'uccello nero non può esser altri che il Diavolo, che mi vuol portare all'inferno; e quello bianco che mi salva, qualche santo; ma son tanti i santi che ho pregati di aiutarmi, che non so davvero chi si sia rammentato di me. Sia forse san Rocco che m'abbia mandato il suo cane? Appena egli ebbe nominato quel santo, il cane fece un lancio di gioia e si diede ad abbaiare festosamente come soglion fare i cani quando odono mentovare il padrone. Intanto s'era fatto giorno, e Lapo incominciava a perdersi di animo vedendo intorno a sé tutta quella caterva di morti e sentendo i lamenti di quei feriti che nessuno soccorreva. Prima si mise le mani agli orecchi, poi chiuse gli occhi, ma se per disavvedutezza gli veniva fatto di lasciare entrare il suono nel timpano o di alzar le palpebre, di nuovo lo colpivano quelle voci dolorose o quello spettacolo che gli metteva i brividi addosso. - Bisogna che cerchi di sloggiare di qui; - disse Lapo, - ma con questa gamba così rovinata, come farò mai! Il cane gli leccò le mani, come se volesse dirgli di aspettare un momento e poi corse via. - La morte è brutta quando la viene fra i piedi, - diceva Lapo che aveva l'uso di dire a voce alta tutti i pensieri che gli passavano per la mente. - Finché si vede da lontano, ci si scherza; ma ora gli è un'altra faccenda. Se non c'è qualcuno che mi soccorra, son bell'e fritto, perché di peccatucci non ne ho pochi sulla coscienza, e il Diavolo mi porterà all'inferno dritto dritto! Povero Lapo, ieri tanto arzillo e oggi mogio mogio! Si dice che dopo la burrasca viene il sereno, ma per me non verrà più e non rivedrò neppure la mi' Signa! Così lamentandosi sulla propria sorte egli s'era intenerito, e ora piangeva a calde lacrime. - San Rocco benedetto, - aggiunse col viso nero e polveroso tutto solcato di lacrime, - se siete proprio voi che mi avete mandato quel cane, non mi abbandonate così. Se mi aiutate, non vi posso promettere né una tavola d'altare, né qualche voto di argento o d'oro; ma vi prometto di far, per devozione, un pellegrinaggio alla Verna, magari con una gamba sola, perché quell'altra ormai è ita, e vi prometto anche di mordermi le dita tutte le volte che una di quelle maledette bestemmie mi corra alle labbra. Intanto che si lamentava a quel modo, impetrando l'aiuto di san Rocco, ecco che la gamba gl'incomincia a dolere terribilmente e, riscaldata dal sole ardente di giugno, gli scottava come un tizzo di fuoco. - San Rocco è sordo come tutti gli altri santi, - disse Lapo, - e son bell'e fritto! Frattanto egli stava per coricarsi sulla nuda terra, spossato e scoraggiato, quando vide tornare di corsa il cane e non fece a tempo a difendere la gamba ferita, che già quello aveva addentato la calza che gliela copriva, e la stracciava furiosamente con le zanne. Lapo, anche in quel momento, espresse a voce alta i suoi pensieri: - Morte, come sei brutta; se mi vuoi davvero, pigliami subito, e non mi fare sbrandellare così da un cane da pastore! Ma il cane, appena ebbe strappato la calza, andò a tuffare il muso in un rivo e ne bagnò la ferita. E tante volte tornò all'acqua, finché non ebbe tolto dalla piaga tutto il sangue che v'era rimasto aggrumato; poi raccolse di terra certe erbe che aveva recato in bocca giungendo, e le stese sulla gamba. - Che cane! - esclamò Lapo sentendosi sollevato dal dolore dopo quella medicatura. - Io scommetto, sapiente animale, che tu hai imparato a curar le piaghe stando al servizio di san Rocco? Il ferito s'aspettava una risposta, perché ormai da quella bestia nulla più lo meravigliava; ma il cane non fece altro che scodinzolare, poscia fuggì, e Lapo rimase di nuovo solo, ma per poco, ché di lì a un momento l'animale tornò strascinando un lenzuolo. Rise il soldato a quella vista, e non capì lì per lì per qual ragione glielo recasse; ma quando osservò che il cane, tirandolo con i denti e reggendolo con le zampe, come se volesse spolpare un osso, lo stracciava in tante strisce, fece un lancio di meraviglia e gridò: - Evviva il cane cerusico ed il suo santo protettore! - e buttò all'aria l'elmo in segno di gioia. Raccolse infatti le sottili bende, con quelle si fasciò la ferita, e dopo essersi ristorato con le vivande che il cane avea prese nel carro, disse all'animale: - Vogliamo andarcene da questo campo di morte prima che cali la sera? Se te lo devo dire, la vicinanza di questi ceffi di morti e i lamenti dei feriti non mi vanno a genio. Aiutami, e io ti vorrò più bene che a tutte le creature della terra e dell'aria. Il cane non si fece ripetere due volte l'invito, e, alzatosi sulle gambe di dietro, infilò una delle zampe davanti sotto l'ascella di Lapo, il quale, appoggiandosi sopra un troncone di asta raccolto in terra e camminando a piè zoppo, poté allontanarsi da Campaldino e cercar rifugio in una casa di contadini verso Soci, dove per compassione lo misero in un fienile. Lapo, appena coricato su quel letto di fieno, dormì come un ghiro senza pensare a nulla, e così, ben nutrito dal cane e ben riposato, non stette molto a rimettersi in salute; ma la prima volta che si provò a posare il piede in terra, s'accòrse che la gamba non la poteva più raddrizzare e che doveva camminare a piè zoppo. - Sono un uomo rovinato, sono un uomo perduto! - diceva. - Era meglio, cane mio, che tu mi avessi lasciato morire dove ero, piuttosto che farmi tanta assistenza per poi avere questo bel risultato! Lapo senza una gamba è un uomo morto! Il cane gli leccava le mani e guaiva. - Lo capisci anche tu, - continuava Lapo, - che per me non v'è più salvezza? Che cosa vuoi che faccia a questo mondo con una gamba di meno? E senza rammentarsi la promessa fatta a san Rocco, snocciolò una filastrocca di bestemmie degne di un turco. Il cane corse a rintanare il muso fra il fieno, e Lapo, accorgendosi di aver mancato di parola al suo santo protettore, si morse le dita a sangue. La sera di quel giorno, Lapo, appoggiandosi sul troncone d'asta, scese dal fienile e, ringraziati i contadini, stava per andarsene tutto sconsolato, quando il vecchio capoccia gli disse: - Ma come farai a tornartene a casa tua con una gamba sola? - Non ci penso neppure a tornare a casa! Signa è lontana, e poi così mutilato non avrei faccia di presentarmi a nessuno. - E che vuoi fare allora? - Quel che vorrà san Rocco; è lui che m'ha tenuto in vita e che m'ha mandato questo cane; mi figuro che per qualche cosa egli abbia voluto che non crepassi. - Aspetta, - rispose il capoccia, - ho visto una volta uno storpiato come te che si serviva di un certo armeggio per poter camminare; guardiamo se mi riesce di fartene uno. E preso dalla legnaia un ceppo di lecciolo, lo misurò al ginocchio dello storpio per vedere se era largo abbastanza per potervelo appoggiare; poi, lo assottigliò da un lato con l'accetta, vi fece con lo scalpello una specie di buco dal lato opposto, e, fasciato quell'armeggio con alcune cinghie di cuoio che tolse da una sua bisaccia, lo affibbiò alla gamba inferma. - Cammina, - ordinò il contadino a Lapo. Lo storpiato non se lo fece dir due volte e incominciò a battere in terra, gridando: - Ora il mio passo è accompagnato dalla musica: bim, bum; bim, bum! Nella sua allegria di potersi movere, Lapo aveva dimenticato la promessa fatta a san Rocco, e appena fu sulla strada maestra, invece di domandare al primo che incontrava quale via avrebbe dovuto seguire per giungere al gran sasso della Verna, domandò dove poteva trovare un'osteria, e, saputolo, si diresse a quella volta. Sotto una pergola v'erano alcuni soldati della sua compagnia che bevevano e giuocavano ai tarocchi. Appena lo videro gli corsero incontro dicendogli che lo avevan creduto morto, e domandandogli come aveva fatto a scampar dalla ferita. Lapo si mise a raccontare per filo e per segno quello che gli era occorso, ma quando chiamò il cane per mostrare agli amici il suo salvatore, chiama che ti chiamo, il cane non c'era più. Lo storpio non ci fece caso, perché era assuefatto a vederlo sparire ogni momento, e una volta imbrancato con gli antichi compagni bevve e giuocò tutto quanto aveva in tasca, finché, disperato di trovarsi senza un soldo, bestemmiò tutti i santi del Paradiso, compreso san Rocco, per non far parzialità. L'oste, sapendo che era al verde, non volle dargli da dormire, e Lapo dovette passare la notte allo scoperto. Ma trovandosi così abbandonato, gli venne il pentimento per quello che aveva fatto, e pianse e si raccomandò come un bambino, non solo a san Rocco, ma anche agli altri santi, che non gli levassero la loro protezione. Peraltro il cane non ricomparve, ed egli rimase tutta la notte con le spalle appoggiate ad un albero a pensare alla sua sorte. La mattina dopo, all'albeggiare, appoggiandosi sul troncone dell'asta e zoppicando, si avviò sulla via maestra chiedendo l'elemosina a quanti incontrava; ma tutti gli rispondevano: - Ben ti sta del tuo malanno, can d'un fiorentino! - Ma che si son dati l'intesa, che tutti mi rispondono a un modo? - esclamò Lapo, che sempre parlava a voce alta con se stesso. - Forse mi riconoscono a questo giglio che mi feci rapportare sul giustacore; ma se arrivo alla Verna voglio vestire il saio, e allora il giglio non mi farà più inviso a nessuno. E senza sgomentarsi per l'erta via, passa sotto Bibbiena e si inerpica sull'aspro monte. Quella salita si fa male con due gambe; figuriamoci quel che sia il farla con una gamba sola ed a stomaco vuoto! Lapo doveva fermarsi ogni momento, e quando si sedeva sopra un sasso, si lamentava più della notte dopo la battaglia, quando era in mezzo ai morti e ai feriti. Mentre era colà in preda alla disperazione, vide salire per l'erta un frate cercatore, che guidava un asino carico di bisacce. - Frate benedetto, - gli disse con voce piagnucolosa, - ho promesso al mio santo protettore, a san Rocco, di compiere il pellegrinaggio della Verna; ma con una gamba sola mi è assai disagevole il far la salita; mi faresti portar dal tuo asino? - Non vedi, - rispose il Frate, - che egli già s'inginocchia sotto il peso? - Ma di quello lo libererò io, - replicò Lapo, - e lo caricherò sulle mie spalle. Il Frate, che era un semplicione e al convento non lo impiegavano altro che alla cerca, non s'accòrse che l'asino avrebbe portato lo stesso il carico, ed aiutò Lapo a salire sul ciuco. Ma questi, a forza di frusta mosse due passi e poi fece una genuflessione come se si fosse veduto davanti san Francesco in carne e ossa, che aveva virtù di comandare agli uccelli, ai pesci e persino ai lupi. - Il tuo asino è stanco, - disse Lapo cui era tornato l'umor faceto. - Fa' una cosa: caricati sulle spalle queste bisacce e tu guadagnerai il Paradiso, perché avrai sudato per portare al convento l'elemosina per i poveri. Il Frate, assuefatto all'ubbidienza, si mise le bisacce sul groppone e arrivò al convento, rosso e trafelato, mentre Lapo vi giunse comodamente. Lassù, come avviene a tutti i pellegrini, egli fu refocillato e ospitato. - Ora che ci sono e che ho compiuta la penitenza, - disse Lapo, - è bravo chi mi manda via. Per fare il soldato non son più buono, ma per vestire il saio, sì. Per molti giorni Lapo rimase alla Verna, e gli pareva d'essere in Paradiso in mezzo a quella frescura, fra quella gente che gli diceva buone parole. Dipingeva allora una cappelletta detta degli Angeli, un certo frate Bigio fiorentino, il quale, attaccato discorso con lo zoppo, si fece narrare come era rimasto impedito nella gamba nonché tutte le avventure capitategli dopo, e financo il sogno. Lapo non aveva la lingua punto legata, sicché frate Bigio, dopo esserlo stato a sentire una mezz'ora, sapeva vita, morte e miracoli di lui, ed essendo persuaso che il sogno e l'aiuto miracoloso del cane significassero che lo storpiato aveva in Cielo qualche santo protettore, volle acquistarlo al convento, affinché la protezione si estendesse anche su questo. Così con bei modi prese a dimostrargli come il mestiere del soldato portava gli uomini alla eterna perdizione, perché oltre i vizî che in quella vita randagia s'incontrano e l'uso del mal parlare, avviene sovente che sieno colpiti improvvisamente dalla morte, senza che abbiano tempo di raccomandar neppure l'anima a Dio. - Frate Bigio, lo so anch'io, - rispondeva Lapo, - e anche prima di esser ferito, avrei voluto campare altrimenti; ma non sono atto a far nulla. - Vedremo, vedremo, - replicava il Frate. - Ti contenteresti, per esempio, d'indossar l'abito e andare in giro per la cerca? - Magari mi contenterei; ma come volete che me ne vada per le salite e per le scese con questa gamba unica? - C'è il somaro che ne ha quattro e che ti potrebbe portare. - Allora dico di sì subito, e se mi fate presto toglier da dosso quest'abito e questo elmetto, che mi rivelano per fiorentino in questo paese dove i fiorentini sono discacciati come se fossero diavoli, io vi prometto, frate Bigio, che dirò per voi tutti i giorni la coroncina a san Rocco, mio protettore. - Io te ne sarò grato, e avrò caro che tu resti fra noi, poiché ciò che m'hai narrato è così strano che io voglio raffigurarti, mentre ricevi la visione di san Rocco in qualcuno degli affreschi di cui vado ornando il refettorio. Perciò conserva codesti abiti anche quando avrai vestito il saio, affinché io possa farteli riprendere al momento in cui mi occorrerà di ritrarti. Lapo non tardò ad ascriversi all'Ordine, ma senza aspirar però né a dir messa né a confessare, poiché non conosceva l'a dalla zeta e anche il pater noster lo seminava di una ventina di strambotti. Appena ebbe vestito il saio se ne andò alla cerca, e nessuno degli altri cercatori riportava al convento tanti donativi quanti egli ne recava. - Come fai? - gli domandavano gli altri frati. - San Rocco mi aiuta, - rispondeva egli. Ma non era, davvero, mercé l'aiuto di san Rocco, che Lapo mangiava e beveva a crepapelle e poi riportava tanta roba su alla Verna. Tutta quella grazia di Dio la doveva alle sue ladre fatiche, perché è d'uopo sapere che sebbene egli avesse vestito l'abito di san Francesco, era più ribaldo che mai. Ecco che cosa aveva fatto. Prima di tutto aveva pregato frate Bigio che gli facesse un quadretto da appendersi nella chiesa del convento, nel quale egli fosse raffigurato mentre san Rocco gli mandava il cane a leccargli la ferita; e, non contento di questo, aveva ottenuto dal buon Frate che da un lato della tavola dipingesse il sogno, poi la sua conversione, e che sotto al quadro scrivesse il racconto di quel periodo della sua vita. Poi, dallo stesso Frate si fece fare un buon numero di abitini di tela da portarsi al collo, con l'immagine di san Rocco e il cane. Naturalmente ogni giorno una gran quantità di gente saliva per devozione alla Verna, vedeva il quadro di frate Bigio, era informato del miracolo, e quando quella gente tornava a casa, spargeva in tutto il contado la notizia. Così, quando fra' Lapo si presentava a chieder la carità con la gamba di legno e il saio, tutti lo pregavano d'intercedere per loro san Rocco, e non lesinavano nel dare al Frate ogni ben di Dio. Lapo ringraziava umilmente, e ai donatori più generosi lasciava l'abitino. A pregare per gli oblatori non ci pensava neppure, anzi, se aveva alzato il gomito più del consueto, snocciolava a voce alta per la via una litania di bestemmie da far venir la pelle d'oca. Così durò il Frate alcun tempo, e più grande si faceva nel contado la sua nomea di sant'uomo, e più prendeva baldanza. Né si limitava a regalare soltanto gli abitini, ma se era richiesto da qualche malato per ottenere da san Rocco la guarigione, portava delle erbe che diceva gli erano state additate dal Santo come salutari, e pronunziava parole che non appartenevano a nessuna lingua. E di questi inganni fra' Lapo non provava nessun rimorso. Egli non si dava cura altro che di mangiare e bere. Una sera, mentre tornava sull'imbrunire al convento, egli diceva fra sé: - Con queste erbe e con questi esorcismi ho trovato un tesoro. Oltre il grano, il vino e i polli, mi dànno anche elemosine in denari. Quando ne avrò raggruzzolati abbastanza, butto il saio in un burrone e mi metto la via fra le gambe per tornare a Signa. E allora, Lapo mio, che baldorie! Mentre così diceva, era giunto a un bosco molto folto, e il somaro s'impuntò senza voler fare un passo avanti. Lapo gli dette un paio di frustate, ma l'asino tenne duro. Allora a un tratto uscì dal bosco il solito can da pastori, che un tempo aveva soccorso Lapo, e con un morso gli staccò tre dita della mano destra; poi fuggì di nuovo a rintanarsi fra gli alberi. Fra il dolore e la paura, Lapo credé di morire, e non trovava neppur la forza di spronare il somaro per uscire da quel luogo cupo e solitario. Prima che il somaro si rimettesse in moto, tal quale come nel sogno, Lapo vide scendere dalla vetta altissima di un poggio un'aquila con le ali spiegate, che si mise a fare cerchi sulla testa di lui. - È finita! San Rocco pietoso aiutatemi, mi pento, salvatemi! E si buttò di sotto dal somaro. Alla invocazione di san Rocco il cane era tornato accanto a Lapo e lo aveva afferrato per la gamba sana, mentre l'aquila s'era attaccata con gli artigli a quella di legno e tirava anch'essa. Tira tira, le cinghie cederono, e l'aquila scappò via scorbacchiata con quell'armeggio fra le zampe; anche il cane lasciò la presa, e, come aveva stagnato a Lapo il sangue della gamba sul campo di battaglia, così questa volta gli stagnò quello che gli usciva dalle dita mozzate. Come Dio volle fra' Lapo risalì sul ciuco e si diresse al convento. - Torno in un bello stato, - disse al frate portinaio, - mi mancano tre dita e la gamba. - Foste forse assalito dai predoni? - domandò l'altro. - Così m'hanno ridotto il Cielo e l'Inferno, - rispose fra' Lapo. - Fratello, qui non si scherza, bisogna prepararsi a morire! - Noi ci prepariamo ogni giorno e ad ogni ora al gran passo. Per questo la morte non ci coglie mai alla sprovvista. - Così potessi dir io! - esclamò Lapo tutto afflitto, - ma sono ancora un gran peccatore. - Fate pubblica confessione. - La farò domattina. Infatti la mattina dopo, Lapo si fece portare nella chiesina degli Angeli, perché non poteva più camminare senza l'armeggio di legno; ma quando a voce alta si mise a narrare tutti i suoi inganni, i frati incominciarono a gridare: - È maledetto! È maledetto! E lo fecero portare fuori del recinto della Verna. - Ieri l'Inferno e il Paradiso si disputavano l'anima mia; oggi non mi vuole né Cristo né il Diavolo. Aspettiamo per veder quello che succede, - disse Lapo. E tanto per consolarsi, trasse fuori dalla scarsella i quattrini accumulati con frode e con inganni e si diede a contarli; ma eccoti che mentre contava gli vola in grembo una gazza, piglia i fiorini nel becco e fugge. - Ora son bell'e spacciato! - disse, - mi pigli anche il Diavolo non me ne importa più nulla! E difatti, nel colmo della notte scese il Diavolo, e, afferratolo, se lo portò all'Inferno. I ragazzi capirono che la novella era finita e ringraziarono la vecchia, la quale trattenne i piccoli invitati, dicendo loro: - O che la pattona non la volete? - Orsù, servitevi! - disse la Carola. Nessuno si fece pregare. E ne mangiarono anche i grandi, specialmente Cecco, che al reggimento non l'aveva mai neppur veduta. - Ora andate a casa, - diss'egli agli amici dei nipoti, - e se la novella e la pattona vi son piaciute, tornate la vigilia di Capo d'anno. - Verremo! - risposero i bambini uscendo tutt'allegri.

Ubaldo sentì dire che il cadavere abbandonato era quello di un mendicante, spirato la sera prima. - Era forse un miscredente o un assassino? - domandò il ragazzo. - No, era anzi un sant'uomo; - risposero le persone presenti, - e anche se la fame lo avesse straziato, non si sarebbe attentato a rubare un pezzo di pane dal fornaio, né una mela da un albero. - Perché dunque gli negano di esser sepolto in terra santa? - domandò Ubaldo. - Perché il povero Marco non ha da pagare le spese del funerale, - risposero i circostanti. - Santa Vergine, come sono interessati i preti di questo paese, che tengon la chiesa aperta ai vivi e ricusano di aprirla ai morti! Se occorre del denaro, ecco tre scudi; non ho altro, ma li do volentieri per mettere un cristiano sottoterra. Il proposto fu avvertito; prese i tre scudi, recitò alla lesta le preghiere dei defunti, fece calare il povero Marco in una fossa e poi se ne andò a cena. Ubaldo prese due pezzi di legno, ne formò una croce, che mise sulla fossa del mendicante, e dopo aver recitato devotamente il De profundis prese la via d'Ancona. Ma dopo poco fu sopraggiunto dalla notte, e sentendosi lo stomaco vuoto si rammentò che non aveva di che comprarsi un pezzo di pane. Si mise dunque a cogliere le more sulle siepi e, cogliendole, guardava gli uccelli che raggiungevano il nido, e pensava: "Quegli uccellini son più felici dei cristiani; non hanno bisogno né d'alberghi, né di fornai, né di macellari; sono padroni del cielo, e la terra del buon Dio si stende sotto di loro come una tavola sempre apparecchiata; i moscerini sono la loro caccia; i granellini il loro pane; i fiori del biancospino, dei rosai salvatici, le bacche di ginepro, le ulive, sono le loro frutta; hanno diritto di prender tutto senza pagare. Per questo gli uccellini sono allegri e cantano tutto il santo giorno!". Volgendo nella mente questi pensieri, Ubaldo rallentava il passo, e alla fine si sedé appiè di una quercia e si addormentò. Ma mentre dormiva placidamente, gli apparì un santo, vestito di stoffa a ricami d'oro e con l'aureola intorno alla testa. Quel santo gli disse: - Sono Marco, il mendicante cui tu hai spalancato le porte del paradiso comprando per il suo corpo un pezzo di terra benedetta. Nostra Signora, di cui ero tanto devoto in terra, mi ha collocato fra i Santi e mi ha concesso di discendere a te, apportatore di lieta novella. Non credere che gli uccelli del cielo sien più felici de' cristiani, perché il figlio di Dio ha sparso per questi il suo sangue e gli uomini sono i preferiti della SS. Trinità. Ascolta dunque ciò che hanno fatto le Tre Persone per ricompensare la tua pietà. Vi è là su quel colle un castello, che tu riconoscerai facilmente alle quattro torri che lo circondano; ne è padrone un cavaliere, chiamato Federico, il quale sta per morire. Egli ha una nipotina bella come il sole e docile come un agnellino. Va' stamani al castello e fai dire al signore che "tu vai per quella cosa che lui sa". Federico ti riceverà bene e tu capirai il resto. Ricordati però che se hai bisogno d'aiuto, dovrai dire: O morto mendicante, presto accorri; Chi la tomba ti die', tosto soccorri! Dette queste parole, il Santo scomparve e Ubaldo si destò. Prima di tutto, appena ebbe liberati gli occhi dal sonno, ringraziò Iddio della protezione che gli concedeva; poi si diresse verso i colli per cercare con l'occhio il castello. Albeggiava appena e la nebbia gl'impediva di scorgere gli oggetti a venti passi di distanza; ma udì sulla sua testa un volar di piccioni e si figurò che essi tornassero al castello dopo un primo giro mattutino. Seguì la direzione che essi avevano tenuta, e quando il sole ebbe diradato la nebbia, vide dinanzi a sé un superbo castello con quattro potenti torri ai fianchi. Ubaldo varcò il ponte levatoio. - Chi sei? - gli domandò la sentinella. - Avvertite il barone Federico che "io vengo per quella cosa che lui sa", - rispose Ubaldo. Il signore fu subito avvertito dell'arrivo del giovinetto e gli mosse incontro tentennando la testa, perché era vecchio e malato, e appoggiandosi al braccio della nipotina, che era invece bella come il sole e fresca come una rosa, tanto che a vederli parevano, lui, la quaresima, e lei, il carnevale. Tutti e due fecero mille garbatezze a Ubaldo e, introdottolo nella grande sala d'onore, lo fecero sedere sopra uno sgabello riccamente trapunto, a poca distanza dal seggiolone del vecchio, il quale, in attesa del desinare, ordinò gli fossero serviti dei rinfreschi. A dir la verità Ubaldo non capiva il perché lo avevan ricevuto a quel modo, ma era così felice di veder la ragazza andare e venire per la sala, cinguettando come una capinera, che non chiedeva spiegazioni. Ogni volta che la guardava, gli appariva più bella e più gentile, e si sentiva battere il cuore. "L'uomo che se la potrà condurre a casa sua, sarà felice davvero!" pensava Ubaldo. Finalmente fu servito il pranzo, e il vecchio si sedé in capo tavola, mentre aveva Ubaldo a dritta e Imelda a sinistra. Allorché le mense furono tolte e nella sala non vi rimase altri che il barone Federico, la nipote e il giovine viandante, il signore prese a dire: - Ospite mio, io ti ho trattato degnamente, ma l'accoglienza che ti ho fatto non è stata come avrei voluto, perché la mia casa è colpita da lungo tempo da una grave sciagura. Prima che questo flagello piombasse su di me, nelle mie scuderie avresti veduto cento cavalli e un numero quattro volte maggiore di buoi; ma il Diavolo s'è insediato nelle scuderie e nelle stalle, e cavalli e buoi sono spariti a venti e trenta alla volta. Tutti i risparmi, pazientemente ammassati, sono stati inghiottiti dall'acquisto di nuovi cavalli e di nuovi buoi, i quali sono periti come i primi. Ora io sono rovinato, né tutte le preghiere né i pellegrinaggi hanno potuto stornar da me il terribile flagello. Se domani un signore mi facesse offesa, io non potrei spedire un drappello di cavalieri a punirlo. Tutte le mie terre sono incolte per mancanza di bestiame ... Guarda! E lo condusse a una finestra della sala, dalla quale, a perdita d'occhio, si vedevano infatti campi coperti di sterpi, invece che di mèssi biondeggianti al sole di luglio. Il vecchio continuò: - Avevo sperato nell'aiuto di mio nipote Corrado, il quale è andato a Venezia per fare la guerra ai turchi; ma egli non torna, e io ho fatto bandire nel contado e ovunque, che l'uomo il quale mi libererà dal flagello, avrà in moglie la mia Imelda ed erediterà i miei feudi. Molti giovani baldi e prodi son già venuti; ma dopo aver vegliato nella scuderia, sono spariti come i cavalli e i buoi. Io pregherò il Signore affinché tu sia più avventurato degli altri. Ubaldo, il quale aveva l'anima rinfrancata dalla recente visione, rispose che con l'aiuto di Nostra Signora di Loreto, sperava di trionfare sul demonio nascosto. E per ottenere quell'aiuto rimase in preghiera tutto il giorno. Giunta la sera, prese il suo bastone e supplicò Imelda di pregare anche lei per la sua vittoria su lo spirito maligno. Il vecchio signore lo condusse da sé nella stalla, che era immensa e, quasi alla metà, era divisa, per mezzo di un impalancato, dalla scuderia; ma tutto era vuoto e i ragni avevano tessuto le loro tele sulle mangiatoie. Quando Ubaldo fu rimasto solo, accese un fuoco di sterpi sul pavimento di pietra, e, inginocchiatosi, pregò fervidamente. Passò la prima ora e Ubaldo non udì altro che lo schioppettìo della fiamma; passò la seconda e non sentì altro che il mugolìo del vento attraverso la porta sconnessa; passò la terza e non sentì altro che il rumore che facevano i tarli nel legname; ma alla quarta, un rumore sordo si fece udire sotto il pavimento, e all'estremità della stalla, nell'angolo più scuro, Ubaldo vide alzarsi lentamente una pietra e uscir dalla terra la testa di un drago. Quella testa del mostro era più grossa di quella di un bove, schiacciata come il capo delle vipere, e torno torno aveva una corona di occhi luminosi di varî colori. Il drago posò le due zampe, armate di artigli rossi, sull'orlo del pavimento, fissò Ubaldo, e quindi lasciò il suo antro sibilando. A mano a mano che ne usciva, si vedeva svolgersi il corpo enorme, coperto di squame. Benché Ubaldo fosse coraggioso, pure sudò freddo a quella vista, e quando sentì l'alito ardente del mostro, gridò: O morto mendicante, presto accorri; Chi la tomba ti die', tosto soccorri! In quel momento stesso la figura luminosa del mendicante fatto Santo gli apparve a fianco. - Non temere, - gli disse. - I protetti dalla Madre del Signore schiacceranno sempre i mostri della terra. Marco, ciò detto, stese la mano e disse alcune parole note solo agli eletti del Cielo. In quell'istante il mostro cadde su un lato colpito dalla morte. La mattina dopo, quando il sole fu alzato, Ubaldo andò a destare la gente del castello e la condusse nelle stalle. Alla vista del drago morto, i più arditi indietreggiarono. - Non abbiate timore, - disse il giovane. - Nostra Signora di Loreto mi ha assistito; il mostro che divorava il bestiame e i cavalli, è esanime. Cercate delle corde e trascinatelo sul ciglio di qualche burrone dove lo precipiterete. Egli non può più nuocere ad alcuno. Fu fatto ciò che Ubaldo aveva ordinato, e quando s'andò a misurare la lunghezza del drago, si vide che era più di cento braccia. Il vecchio signore esultava di esser liberato da tanto nemico e mantenne la promessa fatta a Ubaldo, dandogli Imelda in isposa. Il giovane, una volta marito della bellissima fanciulla, ricomprò bestiame e cavalli, fece lavorar le terre, armò uomini forti per difenderle; e il barone Federico, prima di morire, ebbe la felicità di sapersi di nuovo possessore di molte ricchezze. I due sposi erano così felici che non sapevano, nelle loro preghiere, che cosa domandare a Dio e non potevano altro che ringraziarlo; ma una sera che stavano per mettersi a tavola, ecco che fu introdotto un cavaliere così alto che con la testa toccava le travi del soffitto. In quel cavaliere Imelda riconobbe il cugino Corrado. Egli giungeva dalla guerra contro i turchi per sposare la cugina, e sapendo ciò che era accaduto nella sua assenza, aveva provato una rabbia sorda, che tuttavia seppe celare ai due sposi, poiché era assuefatto a fingere. Ubaldo, che non aveva alcun sospetto, lo accolse con ogni sorta di cortesie, e gli assegnò la più bella camera del castello. Il giorno dopo condusse Corrado a fare un giro nelle sue terre, che in quel tempo erano coperte di mèssi. Ma Corrado, vedendo tutto quel ben di Dio, s'arrabbiava sempre più e odiava quell'intruso, che non solo era padrone di tante e ricche terre, ma che aveva anche sposato sua cugina Imelda. Un giorno il perfido Corrado invitò Ubaldo ad andare a caccia insieme con lui in prossimità del mare, e lo condusse in un bosco folto sul cui limitare v'era un mulino a vento abbandonato. Il Gigante aveva ammucchiato sotto il mulino molte fascine. Quando furono giunti in quel luogo, Corrado si volse verso il castello e disse a un tratto al cugino: - Corpo di Satanasso! io scorgo di qui il castello e anche il cortile. - Dove? - domandò Ubaldo. - Dietro quel boschetto di lecci. Non vedi le finestre della sala d'onore? Eppure sono visibili a occhio nudo! - Sono troppo basso di statura, - replicò Ubaldo. - Corpo di Satanasso! - esclamò Corrado, - eppure a quelle finestre vedo mia cugina, che parla con alcuni cavalieri ai quali dispensa le rose che portava in petto. Ubaldo si alzò in punta di piedi. - Quanto desidero di vederla! - disse. - Sangue di Satanasso! ci vuol poco. Sali sul mulino e sarai più alto di me. Ubaldo seguì il consiglio e salì la scaletta tarlata. Quando fu giunto in cima, il cugino gli domandò che cosa vedeva. - Non vedo altro che gli alberi, che mi paiono piccini, - rispose, - e delle case che non sono più grandi delle conchiglie che la burrasca getta sulla spiaggia del mare. - Guarda più vicino, - disse Corrado. - Più vicino non vedo altro che la pianura verdeggiante. - Anche più vicino, - replicò il Gigante. - Più vicino ancora non scorgo se non prati fioriti. - Ma guarda sotto a te! - Sotto a me! - gridò Ubaldo spaventato. - Invece della scala per discendere, vedo le fiamme che salgono! Ed era vero, perché Corrado aveva portato via la scala e dato fuoco alle fascine ammucchiate; e il vecchio mulino era circondato da una fornace ardente. Ubaldo si raccomandò al Gigante di non lasciarlo morire di una morte così tremenda. Corrado invece gli voltò le spalle e si allontanò fischiando. Allora il giovane, sentendosi soffocare, ripeté l'invocazione: O morto mendicante, presto accorri; Chi la tomba ti die', tosto soccorri! In quel momento comparve il Santo, tenendo nella destra un arcobaleno di cui l'estremità opposta era immersa in mare e spargeva rugiada fitta fitta; e dall'altra teneva la scala di Giacobbe, che riunisce la terra al cielo. L'arcobaleno spense l'incendio, quindi Ubaldo si servì della scala per discendere e tornò al castello sano e salvo. Corrado, nel vederlo, rimase a bocca aperta, e incominciò a tremare come una canna; quindi, per evitare che il cugino lo punisse della sua ribalderia, corse a prender le armi e fece sellare il cavallo; ma mentre stava per uscire dal cortile e imboccare il ponte levatoio, Ubaldo posò una mano sulla groppa del cavallo e disse: - Non temere, cugino; nessun essere vivente saprà quello che è successo fra noi. Tu sei angosciato perché Iddio mi ha dato prosperità maggiore che a te. Io voglio però guarirti dal male dell'invidia, che ti dilania il cuore. Da oggi fino al giorno della mia morte, tu avrai la metà di tutto quello che mi appartiene, meno mia moglie. Va' dunque, e non ruminare contro di me pensieri malvagi. L'atto di questa cessione fu rogato da un notaro in tutte le regole, e Corrado ebbe ogni anno la metà del prodotto dei campi e del bestiame. Ma questa generosità di Ubaldo non aveva fatto altro che invelenire maggiormente il cugino, perché i benefizî immeritati non procurano né soddisfazione né vantaggio. Egli non voleva più assassinare Ubaldo, perché morto lui perdeva la metà delle rendite de' feudi; ma lo odiava, come lo schiavo oppresso e bastonato odia la mano che lo schiaccia e percuote. Un'altra cosa poi aumentava la rabbia dell'invidioso, ed era il vedere che tutto prosperava intorno ad Ubaldo. Non gli mancava altro che un figlio per essere perfettamente felice, e Imelda mise al mondo un maschietto, bello e forte, che nacque senza piangere. Ubaldo mandò inviti a tutti i signori dei castelli vicini pregandoli di assistere al banchetto del battesimo, e i convitati giunsero da Ancona, da Loreto, da Fermo, da Camerino e da Recanati, tutti accompagnati da nobili dame e con seguito numeroso. Il battesimo del figlio dell'Imperatore non avrebbe richiamato maggior numero di cavalieri né di dame. Tutti erano già riuniti nella sala d'onore, e Ubaldo, insieme con la comare e il compare, era andato in camera d'Imelda per prendere il neonato e portarlo nella cappella, quando sulla porta della stanza comparve pure Corrado, con un sogghigno sul viso di traditore. Imelda, nel vederlo, gettò un grido, poiché sul volto del cugino ella aveva letto delle sinistre intenzioni, e il suo cuore di madre non l'ingannava. Corrado entrò in camera curvandosi e facendo inchini, e, dopo averle fatto i mirallegri, la ringraziò del dono. - Di qual dono intendi parlare, cugino Corrado? - domandò la povera donna mostrandosi oltre ogni dire meravigliata. - Me lo domandi? Non hai forse unito un figlio alle ricchezze di Ubaldo? - disse il Gigante. - È vero, - rispose Imelda. - Ebbene, sappi che un atto legalmente rogato mi dà diritto alla metà di tutto ciò che appartiene ad Ubaldo, meno la tua gentil persona. Mi scuserai dunque se vengo a richiedere la metà del bambino nato da poco. Tutti coloro che erano in camera mandarono un grido; ma Corrado rispose che voleva la sua parte del bambino, aggiungendo che, se gliela ricusavano, la prenderebbe da sé; e fece vedere un coltello da caccia che teneva infilato alla cintura. Vi fu un momento di terrore, e il Gigante ne approfittò per stendere le braccia fino alla culla, afferrare il piccino e darsela a gambe. Prima che Ubaldo pensasse a inseguirlo, egli era già fuori del castello, e col piccino in collo montava un cavallo già sellato, che pareva attenderlo, e via di carriera. Figuriamoci come rimanesse Imelda a vedersi portare via il bambino, e qual dolore ne risentisse Ubaldo! Egli però non si smarrì d'animo e disse: O morto mendicante, presto accorri; Chi la tomba ti die', tosto soccorri! Apparì infatti il Santo, con la ricca veste e l'aureola intorno al capo, e disse: - Ubaldo, Nostra Signora di Loreto ti salverà. Guarda nella direzione in cui è fuggito Corrado; vedrai che tu non scorgi più il fuggiasco, ma vedi una casa nuova. Ebbene, in quella casa senza uscite, che la Madre di Dio ha fatto sorgere a un tratto per custodire il ribaldo, è imprigionato il tuo bambino. Corri a liberarlo da Corrado, che lo vuole uccidere. Ubaldo corse fuori, seguìto da gran parte d'invitati e di servi, e giunto alla casa vide, dalle solide inferriate, che il cugino affilava sopra una pietra la lama del coltellaccio che prima portava alla cintola, dicendo: - Se Ubaldo non mi dona l'altra metà della rendita de' suoi beni in cambio della vita del figliuol suo, è un padre snaturato. Non vedo il momento che egli torni a ramingare, e che io possa insediarmi nel castello. E arrotava sempre il coltellaccio. - Rendimi mio figlio! - urlò Ubaldo attraverso le inferriate. - Non son così pazzo; cedimi tutto quello che possiedi e lo avrai. Ubaldo esitò. Non poteva ridurre la moglie e il bambino alla miseria. Invece di rispondere, egli invocò il vecchio Santo: O morto mendicante, presto accorri; Chi la tomba ti die', tosto soccorri! In quel momento cento mani invisibili legarono strettamente il Gigante, la casa sparì come per incanto, e il ribaldo fu sollevato di peso e ricondotto in camera di Imelda, dove lo seguì Ubaldo col bambino fra le braccia. Appena tutti vi furono penetrati, quella stanza venne illuminata da un chiarore celeste, e il Santo comparve sopra una nube a fianco della Vergine Maria. - Eccomi fra voi, o miei fedeli, - disse la Madre di Dio. - Marco, il mio buon servo, mi ha fatto abbandonare il Paradiso per venire fra voi a risolvere una controversia. - Se siete la Madre del Signore, non permettete che mi si tolga il figlio che mi avete dato. - Se siete la Regina del Cielo, fatemi rendere ciò che mi è legalmente dovuto, - aggiunse Corrado sfrontatamente. - Ascoltatemi, - ordinò Maria. - Tu, Ubaldo, e tu, Imelda, avvicinatevi a me; fin qui io non vi diedi altro che le gioie della vita; ora voglio far di più per voi due: voglio darvi le gioie della morte. Voi mi seguirete nel Paradiso del Figlio mio, ove non penetrano altro che gli eletti, ove i dolori, i tradimenti, le malattie sono ignoti; in quanto a te, Corrado, sei nel pieno diritto, se vuoi, di dividere la nuova proprietà che è stata concessa ai tuoi cugini, e morrai come loro; ma per discendere bensì nelle profondità dell'Inferno, dove sei atteso per i gravi peccati commessi. Il Demonio ti farà lieta accoglienza nel suo regno dei dannati. Nel terminare queste parole, la Vergine stese la mano, e il Gigante scomparve in una voragine, mentre i due sposi e il bambino s'inchinavano uno sull'altro come una famiglia addormentata e sparivano nell'azzurro del cielo, trasportati da una nuvoletta vaporosa. Nel luogo ove avvenne il miracolo, la gente del paese costruì un santuario, e gli afflitti e i devoti vi recarono copiose offerte di monili d'oro e di gemme. Una notte i saraceni sbarcarono, non visti, sulla spiaggia vicina, e dopo aver saccheggiato il castello, che era guardato da pochi monaci, ritornarono ai loro bastimenti, portando seco tutti i voti ricchissimi e dando fuoco al castello. Però la memoria del miracolo è viva ancora negli abitanti del contado, e nessuno passa dinanzi al luogo dove sorgeva il castello del barone Federico, senza dire: - Vergine benedetta, fatemi morire come Ubaldo, Imelda e il loro bambino! La vecchia aveva appena cessato di parlare, quando Beppe tornò col mulo sull'aia. - Se sapeste, babbo, quante domande mi hanno fatto quei due signori che ho accompagnati! Volevano sapere quanti si era, che cosa si faceva tutti radunati sull'aia, e chi era quella bella sposina che li aveva invitati a rinfrescarsi. Hai capito, zia Vezzosa? - Spero che tu avrai risposto garbatamente, - disse la Carola, mentre la cognatina arrossiva. - Lasciate fare a me, che a parlare non mi vergogno. E volete un po' sapere chi è quel signore? - Sicuro che lo vogliamo sapere. - Ebbene, è il nuovo ispettore forestale. Il sor Paolo, che è stato a Camaldoli fino a ora, va in Piemonte, e questo è venuto a far vedere alla moglie se le piace il posto prima di condurla lassù. Lui c'era già stato, perché ha fatto gli studî a Vallombrosa, ma la moglie no. A proposito, il sor Paolo, che era venuto incontro ai forestieri, quando li ha visti ed ha sentito che volevan ripartire domani, s'è subito opposto. Vuole che restino da lui qualche giorno. Perciò la signora mi ha detto di avvertire la garbata sposina che domani non ripasseranno, e fino a domenica non scenderanno a Camaldoli. - Proprio il giorno di Pentecoste! - esclamò Vezzosa. - Tanto meglio, così ci troveranno tutti in casa e non interromperemo le nostre faccende per riceverli. - Sapete che cosa diceva il nuovo ispettore? - disse Beppe rivolto al babbo suo. - Che quassù vi è bisogno di rimboscare, e che egli vuole in pochi anni coprire le nostre piagge di abeti, come c'erano al tempo antico. - Tanto meglio, - disse il capoccia, - il legname è la ricchezza di questi posti. Mi contenterei che ci distribuissero degli alberi giovani da piantare. - E li distribuiranno! - rispose Beppe con tono sicuro. - Con quel signore non mi perito a parlare, e glielo dirò. - Via, ciarlone, va' a letto! - ordinò la Carola, - domattina bisogna esser desti all'alba, che il da fare non manca. Beppe si alzò a malincuore, perché aveva voglia di raccontare dell'altro; ma prima di andare a letto consegnò a Maso le due lire che aveva avuto dai signori, e mormorò nell'orecchio alla Regina: - Dite, nonna, la novella che non ho udito, me la raccontate domani? - Sì, - rispose la vecchia sorridendo a quel suo nipotino, nel quale le pareva di riveder Maso, - domani avrai la novella e parleremo dei signori. - Se volete ve ne parlo subito, - rispose Beppe. - Lei è una donnina garbatissima, ma che parla poco; il marito è un uomo gioviale e vuol bene alla moglie quanto ... indovinate un po', nonna, quanto? - Ci vuol poco: quanto Cecco a Vezzosa. - Per l'appunto! - Senti che confronti fa quel monello! - esclamò Cecco. - E che ne sai tu del bene che voglio alla mi' moglie? - Dovrei esser cieco per non accorgermi che gliene vuoi tanto, tanto; ma anche la Vezzosa te ne vuole, e di molto. - Via, a letto! - ordinò la Carola. E il ragazzo non se lo fece ripetere, perché con la mamma non si scherzava.

Il velo rimaneva in terra abbandonato. Il Conte e la Contessa, dopo avere atteso per un certo tempo Lisa, mandarono in cerca di lei, ma i valletti non riportarono altro che il velo lacerato e la notizia che l'infermo e i due uomini erano spariti. La Contessa scoppiò in lacrime, il Conte ordinò che fossero sellati i cavalli, e, partendo con una numerosa comitiva, la sparpagliò per tutte le vie, con ordine ai suoi uomini di cercare ovunque la carissima nipote. Questa, invece, traversava lo spazio, stretta fra le granfie di un Demone alato, il quale la depose in una grotta presso l'Alpe di Catenaia. Appena però l'ebbe posata in terra, Lisa si accòrse che, attaccato ai capelli, le restava un pezzetto del velo miracoloso, e, rinfrancatasi, si diede a pregare con fervore la Madonna. Intanto il velo si allungò per modo da coprirla tutta. Appena ella si sentì riparata da quel miracoloso vestito tessuto dagli angioli, non ebbe più paura del Diavolo, che la guardava a vista, e camminò arditamente fino all'imboccatura della caverna, chiusa da un macigno. Toccato che ebbe il sasso col velo, quello rotolò lontano ed ella poté uscire libera, mentre il Diavolo rimaneva inchiodato al suolo. Lisa non conosceva quei luoghi, ed errò tutta la notte per il monte, fermandosi ogni tanto per rivolgere una fervida preghiera alla sua Protettrice. Ella pregava fervorosamente non solo per ottenere la grazia di essere ricondotta all'ospitale castello di Poppi, ma ancora per implorare dal Cielo la liberazione di suo padre dalla schiavitù del Demonio. A giorno ella scòrse la grande torre di Poppi, illuminata dal sole nascente, e camminò con più lena. Finalmente, giungendo al piano, incontrò alcuni uomini del Conte, che l'avevan cercata tutta la notte, e mandarono grida di gioia vedendola sana e salva. Ella salì in groppa a un cavallo, e non si può dire quali accoglienze le facessero il Conte e la Contessa e con quanta devozione assistessero al Te Deum cantato come rendimento di grazia per la liberazione della giovinetta. Essi non vollero più che ella si esponesse fuori delle mura del castello, e le chiesero di fissare la data delle nozze con l'unico figlio loro, affinché il marito potesse proteggerla giorno e notte dalle insidie del Demonio. Lisa, confusa da tanto onore e da tanta bontà, stabilì che il matrimonio si conchiudesse fra quattro settimane, ma aggiunse che prima di accettare la mano del giovane Conte, aveva una missione da compiere: quella di adoprarsi per la salvezza del padre, che voleva assistesse alle nozze. Il Conte mandò subito alcuni uomini a Firenze per invitare messer Buonaccorso alle nozze della figlia, ma quando giunsero lo trovarono morto. Lisa, a quella notizia, pianse amaramente, ma non cessava di pregare per lui. Una notte però le apparve la Madonna e le disse: - Figlia diletta, le tue preghiere sono inutili; il padre tuo è fra i dannati. Non potendo liberarsi dai tormenti che gl'imponeva il Demonio per averti in corpo ed anima, s'è tolto la vita, e ora è all'Inferno con i reprobi. Lisa, accorgendosi che non poteva più nulla per lui, pregò per la famiglia che l'aveva raccolta, e su di essa attrasse le benedizioni del Cielo. Le nozze furono celebrate di lì a poco, e per lunghi anni la contessa di Poppi fu l'angiolo della casa. - Nonna, - disse Carlo appena la vecchia ebbe terminato, - so che questa è l'ultima novella che raccontate quest'anno; ma io mi auguro che possiate divertire anche i miei figliuoli e quelli di Vezzosa. La vecchia sorrise di compiacenza a quell'augurio, e dopo fu stabilito il giorno delle nozze, con molta gioia dei bambini, ai quali Carlo promise un sacchettino di confetti per ciascuno.

La bella Contessa camminava alla testa dei porcianesi, i quali, vedendo una donna dar loro l'esempio del coraggio, si vergognavano di aver abbandonato il loro signore e fremevano di vendicarlo. Essi incolpavano quei fili miracolosi di averli resi così vili. - Prima si combatteva anche senza quelli e si moriva, - dicevano. - Dopo che non li abbiamo più avuti, c'è mancato il coraggio; ma ora ... I nemici, sicuri che i porcianesi, privati del loro capo, si terrebbero più che mai sulla difesa senza pensare all'attacco, non avevano lasciata nessuna retroguardia. Sicché essi si videro assaliti all'improvviso, e non avevano ancora dato mano alle armi, che la contessa Luisa piombava nelle loro file, brandendo la rôcca e gridando: - Per sant'Anna, alla riscossa! Dietro a lei, volendo lavar l'onta subìta, si slanciarono i porcianesi e, ferendo a destra e a sinistra, passavano come un turbine in mezzo a quelli di Bibbiena e di Fronzola. La Contessa si avanzava sempre fra i nemici sgomenti, che non osavano colpirla, e così giunse a un gruppo di guerrieri in mezzo ai quali riconobbe il marito con i polsi carichi di catene. - Per sant'Anna, alla riscossa! - gridò di nuovo in quel momento. E maneggiando la rôcca, come se fosse stata un'arma, giunse fino a messer Gherardo, intanto che i suoi continuavano a far strage dei nemici. In pochi istanti, di tutti i guerrieri che circondavano il prigioniero, non ne era rimasto uno solo salvo. Allora ella sciolse dai ceppi il marito e, raccolta la spada di un caduto, gli disse: - Ora combatti! Il Conte non aveva bisogno di quell'incitamento. Egli si mise alla testa dei suoi, ritornati prodi come per il passato, e continuò la pugna. Il conte di Fronzola giaceva ferito in terra, il signor di Bibbiena era in un lago di sangue, e le schiere dei due signori si davano a fuga precipitosa. Ben presto sul campo del combattimento non rimase un solo nemico capace di reggere un'arma. Il conte Gherardo fece trasportare al castello i due capi degli assedianti, e subito ordinò che si procacciassero vettovaglie per Porciano. Quindi risalì al suo palazzo con l'amata sposa, che l'aveva salvato con la prontezza e il coraggio. - Ti sono debitore della vita; - le diceva commosso, - senza di te sarei morto, oppure sarei rimasto per sempre prigioniero dei miei nemici. Oramai egli non temeva più nessun attacco, ma non restituì così presto il ferito signore di Fronzola né quello di Bibbiena, per avere in mano ostaggi tali che gli permettessero di dettare patti vantaggiosi di pace. Le trattative furono assai lunghe; i fronzolesi e i bibbienesi consumarono la strada che metteva a Porciano per riavere i loro signori. Prima offrirono forti somme di denaro, che al conte Gherardo non parvero sufficienti; poi unirono a quelle somme l'offerta di molti capi di bestiame, e neppur allora il signor di Porciano l'accettò. Finalmente aggiunsero al denaro e al bestiame armi bellissime e tesori incalcolabili in argenterie, vasellami d'oro, che erano l'orgoglio delle famiglie Saccone di Bibbiena e Tarlati di Fronzola, e il conte Gherardo accettò l'offerta, tanto più che da due anni teneva prigionieri i suoi nemici e che la prigionia aveva ridotto i due fieri signori, due innocui invalidi. Allorché la pace fu conchiusa, egli ordinò grandi feste al suo castello, alle quali volle assistesse anche il suocero, per dimostrargli la gratitudine che gli serbava per avergli dato una moglie modello come la contessa Luisa, e un talismano che nessun altro possedeva. E volle che dell'esistenza del talismano fossero informati amici e nemici, affinché i primi ricercassero la sua alleanza, e i secondi fossero persuasi che era inutile molestarlo. E così da un dotto cappellano, che teneva al suo servigio, fece scrivere e copiare in molti e molti esemplari la storia della rôcca e dell'assedio di Porciano, e inviò questi esemplari per tutto il Casentino e anche più lontano. Poi fece costruire, nel circuito stesso del castello, un oratorio a sant'Anna, e sotto l'altar maggiore depose la cassa d'oro contenente la rôcca miracolosa, la quale si ricoprì di lana e servì a proteggere i porcianesi in ogni guerra. Ma venuto a morte il conte Gherardo e la contessa Luisa, i loro discendenti non ebbero più per sant'Anna la stessa venerazione; anzi, fecero struggere la cassa d'oro per batterne moneta, e la rôcca fu rinchiusa in una cassa di legno. Ma un bel giorno il filo della rôcca perdé la sua miracolosa virtù, e i porcianesi furono vinti e soggiogati. - E qui ha termine la novella, - disse il professor Luigi sorridendo, - la quale insegna molte cose, e fra queste una di speciale importanza. - E quale? - domandarono i bambini. - Che la fede è quella che opera veramente i miracoli. La contessa Luisa, che si slancia nelle file nemiche armata della sola rôcca, non ne è una prova? E questa fede ella non la comunicava soltanto ai suoi, ma anche ai nemici, che fuggivano sgomenti. Di questi fatti se ne hanno mille esempî nella storia; e ora che la fede è quasi morta, i miracoli non si vedono più. Ma allorché quella fede era viva, gli uomini, sicuri di esser protetti dall'alto, operavano sforzi così possenti, da far credere che le loro forze fossero centuplicate. E questa credenza in un intervento soprannaturale, la troviamo nei più antichi popoli. I greci, all'assedio di Troia, quando si credevano protetti da Minerva e da Giunone, operavano miracoli; appena i troiani supponevano da qualche indizio che Venere, la dea con gli occhi glauchi, combattesse nelle loro file o intercedesse presso Giove, baldi tornavano all'assalto. Enea stesso, nel suo periglioso viaggio dall'Asia alle sponde del Tevere, fu sostenuto, in mezzo a mille pericoli, dalla convinzione che il Cielo lo guidasse; i Cristiani poi, animati da questa fede, più volte hanno pugnato contro gl'Infedeli e li hanno vinti. Ora, alla fede nel soprannaturale si è sostituita la fede in un'idea o in un uomo, e si sono visti, anche recentemente, dei popoli insorgere e battere nemici molto più forti di loro, sostenuti soltanto dal pensiero della redenzione di una patria sminuzzata e avvilita. A Garibaldi, all'eroe maraviglioso, non attribuivano i siciliani, che lo avevano veduto sbarcare con i suoi Mille a Marsala, un potere soprannaturale? E quando ebbe corso, trionfante, tutta la Sicilia, dal Lilibeo a Messina, non dissero che era figlio di una Santa, di santa Rosalia, o del Demonio? E questa convinzione che egli fosse aiutato da un'occulta potenza, non dette ai siciliani l'ardire d'insorgere contro i Borbonici, di accorrere a migliaia fra le schiere garibaldine, e di pugnare con coraggio indomito? - Ha ragione: - disse Cecco, - la fede nell'aiuto soprannaturale, la fede in un'idea, la fede in un uomo, la fede in noi stessi, ecco la spiegazione di tanti fatti che ci sembrano miracolosi e che la fantasia popolare ha giudicato tali. - Vedo che mi avete capito; - disse il professor Luigi, - il miracolo io l'ammetto, ma lo spiego diversamente da molti altri. Figuratevi che una volta una mia parente fu morsa da un cane, che dopo cinque giorni morì arrabbiato. Ella non si era fatta bruciare, e, appena morto il cane, ella ebbe tutti i sintomi del terribile male: avversione al cibo e soprattutto alle bevande; desiderio di mordere, spasimi, dolori acutissimi alle ferite prodotte dai denti del cane. - Il padre di lei era uomo molto pio e aveva poca fede nei medici. Sapendo che nelle montagne, che sovrastavano al villaggio ove abitava la famiglia, v'era un santuario dedicato alla Madonna, vicino al quale scaturiva un'acqua miracolosa, fece porre la figlia in una lettiga, solidamente imbavagliata, perché non potesse recar offesa ad altri, e salmodiando la seguì a piedi nudi insieme con la famiglia, la servitù e i contadini. - Appena giunta al santuario e aspersa con l'acqua miracolosa, la ragazza guarì. Ora, non credete che fosse la fede potente che animava la malata, che le rendesse la salute? Io ne sono convinto. La Regina non era persuasa da quella spiegazione, e neppure le altre donne; ma Cecco disse: - La fede è ciò che salva l'uomo! Poi il bell'artigliere tacque, ma non cessò di pensare, e quando il professore Luigi e la moglie si furono allontanati, disse: - Cerchiamo di acquistarla, questa fede, in noi stessi, e vedrete che ci aiuterà a combattere lo scoraggiamento, che è il primo passo verso la rovina. Siamo giovani, siamo uniti, e perché non si dovrebbe trionfare di questa sventura, che pare voglia trascinarci? - Sì, abbiamo fede in noi, - ripeterono in coro i fratelli. La Regina non aveva detto una parola e piangeva in silenzio, commossa. Ella aveva fede e sperava.

La Teresona, disperata nel vederlo così abbandonato, pensò che non poteva lasciarlo in quel luogo, e, curvatasi su di lui, se lo caricò sulle spalle fortissime e pian piano lo portò a casa. Però, sapendo che suo padre era molto avaro e che le avrebbe ordinato di riportare quell'infelice dove lo aveva trovato, invece di metterlo sul letto del sensale o sul suo, lo nascose in soffitta, facendogli alla meglio un letto con foglie di granturco, fieno e coperte. "Se si riavrà, - pensava, - gli darò di che proseguire il viaggio; se morirà, gli scaverò una fossa; ma abbandonare così quest'infelice, non posso." Intanto lo sconosciuto non riprendeva conoscenza, per quanto Teresona gli stropicciasse le tempie e il naso con l'aceto, e cercasse di fargli trangugiare certo vino, che avrebbe rianimato un morto. L'ora del ritorno del padre si avvicinava, perciò Teresona chiuse a chiave la soffitta e, nonostante le rincrescesse di abbandonare l'infelice, scese in cucina a preparare la cena. Il sensale tornò a casa di cattivo umore; in quel giorno non aveva guadagnato un picciolo e, quando gli accadeva un fatto simile, se la prendeva per solito con la figliuola, che accusava di essere sprecona e di non sapere che cosa gli costasse a guadagnare tanto da tirare avanti la vita. Teresona non rispose, perché era una buona figliuola e lo lasciò sfogare quanto volle. Quando lo vide andare a letto e sentì che russava, si levò le scarpe, per non far rumore, e corse in soffitta a veder come stava lo sconosciuto; ma appena ebbe aperta la porta e, al lume della lucerna, ebbe veduto lo sconosciuto in piedi, mandò un grido e tremò da capo a piedi. - Chi m'ha portato qui? - domandò egli. - Io; - rispose umilmente la ragazza, - vi ho trovato svenuto nella selva e non ho voluto abbandonarvi. L'uomo, che aveva gettato uno sguardo di repulsione su quel mostro femmina, sentendo che ella lo aveva soccorso, vinse la ripugnanza che gl'ispirava e, avvicinandosi a lei, disse con voce dolcissima: - Vi sono grato di ciò che avete fatto per me; ma, per carità, non mi abbandonate. In seguito a gravi dolori ho dovuto fuggir da Firenze, e da molti giorni mi aggiro come una belva nei boschi. Sono stato còlto anche da questi lunghi, lunghissimi svenimenti; sono un infelice, soccorretemi! Teresona si sentì intenerire a quelle suppliche e, nonostante temesse l'ira del padre, pure promise allo sconosciuto che, se si contentava di stare in quella soffitta, lo avrebbe ricoverato e nutrito per alcuni giorni; e dopo esser riscesa a prendergli un po' di minestra avanzata dalla cena e un tozzo di pane, lo rinchiuse di nuovo e se ne andò a letto. La mattina dopo il padre uscì al solito per i suoi traffichi, e Teresona, rimasta sola e sicura ormai che per tutto il giorno il padre non sarebbe tornato, invitò lo sconosciuto a scendere per respirare una boccata d'aria. Ma egli ricusò dicendo che si sentiva tanto spossato che non aveva neppure la forza di alzarsi dal giaciglio di foglie e di fieno. Allora Teresona, che era assuefatta a vedersi respinta da ognuno per la sua bruttezza, gli domandò molto umilmente se gli faceva dispiacere che rimanesse a fargli compagnia. - Mi fate un piacere, anzi, - le rispose lo sconosciuto. - Non potete credere come la simpatia di una creatura buona scenda dolce nel cuore dell'esule. Era la prima volta che qualcuno le parlava così affettuosamente, e Teresona fu tutta commossa. Ella prese la rôcca e si mise a filare in un cantuccio della soffitta, senza parlare, accostandosi soltanto allo sconosciuto per domandargli se voleva prendere ristoro. Per quel giorno il forestiero parlò poco, ma il giorno seguente incominciò a narrare a Teresona la sua triste storia e le disse che era un signore fiorentino della famiglia Spini, preso di mira dal partito che governava la città, per la opposizione fatta a certe leggi ingiuste che quel partito voleva imporre. Avvertito in tempo da un contadino che lo cercavano per arrestarlo, era fuggito a cavallo, ma senza nulla. Vagando però nel contado aveva saputo che avevano messo una taglia sulla sua persona, e che i suoi beni erano stati confiscati. Mentre parlava, il ricordo forse delle angustie patite lo fece cadere in un nuovo svenimento. Teresona, vedendo che il giorno incominciava a declinare e temendo che il padre tornasse, dovette lasciare messer Spini svenuto e correr giù a preparare la cena. La povera ragazza era più morta che viva, e mentre attizzava il fuoco, pregava la Madonna che rendesse almeno la salute a quell'infelice, così misero, così solo! Quella sera ella mise una quantità d'olio nella minestra di fagioli, si scordò di salare il castrato, e quando suo padre giunse, nulla era ancor pronto. Il sensale la rimproverò acerbamente e non volle mangiare altro che un pezzo di pecorino dicendo che da allora in poi voleva cenare all'osteria, e a lei non avrebbe lasciato altro che pane e pattona, perché non voleva andare in rovina per quella sprecona di figliuola. Difatti mise ad effetto la minaccia, e fattosi dar la chiave della dispensa, dove teneva la carne salata, il vino e l'olio, la ripose in un canterano dove teneva i quattrini. Teresona andò a letto piangendo. - Madonna Santa, - diceva la ragazza, - come farò a sostenere quell'infelice che è più morto che vivo? E con la testa sul guanciale pensava e ripensava, senza trovare un mezzo per uscire da quel bertabello. Intanto si struggeva di non potere andare in soffitta dal fiorentino a vedere se si era riavuto, perché suo padre, che era rimasto in cucina col fiasco davanti, continuava a brontolare e pareva non avesse nessuna voglia di andare a letto. Teresona era al buio, in preda alla desolazione, quando a un tratto vide dinanzi agli occhi un gran chiarore come se il sole penetrasse sfolgorante dalla finestra, e, in mezzo a quella luce vivissima, scòrse una vecchia dall'aspetto venerando, che si avvicinava a lei, senza che i piedi toccassero il pavimento. - Ragazza mia, - disse la vecchia con voce dolcissima, - la diletta Figlia mia, la Santissima Vergine, che ha pietà degli afflitti e ne raccoglie le preghiere, mi manda a te. Se tu vuoi salvare messer Spini, questa notte stessa devi portarlo via da questa casa. Domani tuo padre andrà a rovistare in soffitta, e se lo trova lo consegnerà alla giustizia come ladro. Rammentati che io sono sant'Anna ... rammentalo! Dopo che la vecchia ebbe detto queste parole, la camera ritornò nelle tenebre e l'apparizione scomparve. Teresona lì per lì fu consolata, ma quando udì che il padre si mise a cantare in cucina con voce avvinazzata, disse fra sé: - Come farò a portare messer Spini fuori di casa, se il babbo non va a letto? Vergine Santa, aiutatemi voi! L'aiuto non le mancò, poiché poco dopo sentì un gran tonfo per terra e udì russare forte il vecchio sensale. Allora si vestì in fretta, senza mettersi le scarpe, e salita nella soffitta l'aprì. Messer Spini era sempre svenuto sul giaciglio. Ella cercò di destarlo, ma era fatica sprecata. Allora se lo caricò sulle spalle, e via, via, finché non lo ebbe deposto sopra un letto di musco a qualche distanza da casa. Però Teresona capì che, vestita da donna, sarebbe stata subito riconosciuta dalla gente, beffeggiata e vilipesa; perciò ella tornò a casa, si tagliò i capelli, si tolse le sue vesti, indossò i panni del babbo e via. Quando fu sulla soglia di casa ebbe un momento d'esitazione. Le dispiaceva di lasciar quell'uomo che, in fin de' conti, era suo padre; quella casa dove aveva vissuto ... e le pareva di far male ad andarsene; ma mentre stava così esitante, credé di udire una voce che le dicesse: - Tuo padre sarà contento di essersi liberato di te; non ti accorgi che non ti può soffrire? mentre l'altro ti vuol bene e ha bisogno del tuo aiuto. La voce era quella di sant'Anna, apparsale poco prima. Teresona non esitò più, e corse in cerca di messer Spini. Questi non era più immobile come Teresona lo aveva lasciato. Ma si dibatteva per terra e mandava gridi che somigliavano a urli di lupo affamato. - Madonna santa, ha il lupo mannaro! - esclamò la ragazza. E fece atto di fuggire; ma, vinta dalla compassione, si fermò, e, curvatasi sull'infelice, gli cinse la testa con le braccia poderose per impedirgli di ferirsi. Così rimase lungamente nel folto del bosco, sgomenta da quegli urli che potevano richiamar gente, sgomenta di non aver nessun mezzo per far cessare il male. A giorno, il malato si calmò; non urlava più, non si batteva più, e finalmente aprì gli occhi inebetiti. - Bisogna fuggire, - disse Teresona, - mio padre si desterà e si metterà a cercarmi; non bisogna che ci trovi qui. Messer Spini capiva poco quello che ella gli diceva, ma Teresona lo alzò da terra e, sorreggendolo, lo fece camminare in direzione del Pian di Campaldino. In mezzo alla vasta pianura sorgeva una casetta disabitata, dove la ragazza fece entrare l'infelice, e anche li trovò il modo di preparargli un letto di foglie e di fieno; ma come avrebbe fatto mai a nutrirlo? Peraltro Teresona era una ragazza coraggiosa, e le pareva che quegli abiti maschili che aveva indossati dovessero renderla irriconoscibile. Così, dopo aver raccomandato all'esule di non muoversi, andò fuori, sperando che le capitasse di guadagnar qualche cosa. Ma prima di uscire passò alcuni minuti in orazione e supplicò la Vergine Maria e sant'Anna di vegliare sul disgraziato fiorentino. La ragazza camminava alla ventura sulla via maestra in direzione di Poppi, quando le accadde di imbattersi in un grosso frate camaldolese, montato sopra un somaro. L'animale s'era impuntato e non voleva andare né avanti né addietro, e il monaco tirava la briglia, menava frustate; ma sì! era come dire al muro. Teresona, che era forte quanto un toro, prese il ciuco per la briglia e lo costrinse a camminare; ma appena lo lasciava, il ciuco impuntavasi di nuovo. - Giovinotto, - disse il monaco, - come vedi io son troppo pingue per far la strada a piedi e debbo trovarmi a Bibbiena prima di mezzogiorno: accompagnami fin là e ne avrai da me larga ricompensa. Teresona non se lo fece dir due volte, e seppe così bene costringer l'asino a camminare, che il monaco alle undici era già sulla piazza della Pieve. Egli scese di sella, e dopo aver messa una moneta d'argento in mano al suo accompagnatore, lo pregò di andarlo a riprendere il giorno dopo per accompagnarlo a Camaldoli, e gli avrebbe dato il triplo. La ragazza si sentì allargare il cuore, e dopo aver comprato a Bibbiena quello che occorreva per nutrire il malato e un pan tondo per sé, mangiando con grande appetito, tornò alla casetta del Pian di Campaldino. Il forestiero non era più così abbattuto come ella lo aveva lasciato, e le domandò come mai non si trovava più nella soffitta ed ella aveva preso abiti maschili. Teresona gli raccontò le sue angustie della notte, e il giovane s'intenerì sapendo di quale abnegazione essa era stata capace pur di non abbandonarlo. - Se un giorno io riacquisterò i miei beni, - le disse, - tu, eccellente ragazza, sarai signora e padrona in casa mia; te lo giuro da cavaliere. Teresona s'intenerì e sempre più prese affetto per quell'infelice. Il giorno passò senza che messer Spini ricadesse nel letargo; ma appena la luna inondò con la sua luce argentea la vasta pianura, egli si addormentò, e dal sonno passò alle convulsioni; si dibatteva, mandava bava dalla bocca, e urlava come un lupo affamato. Ora bisogna sapere che la casetta, nella quale Teresona si era rifugiata insieme con l'ammalato, apparteneva a certi contadini i quali non l'abitavano altro che nei due mesi che precedevano la vendemmia. Essi solevano passarvi la notte per abbadare che non rubassero loro l'uva; il resto dell'anno non ci capitavano mai. Ma quella era appunto la stagione in cui l'uva aveva bisogno della sorveglianza notturna dei contadini, e due di essi si avviarono alla casupola, quando sentirono uscirne urli di lupo. I contadini stettero in ascolto un momento; poi, udendo che gli urli continuavano, non pensarono più all'uva e via di corsa. Quegli urli erano stati uditi anche da altri contadini, così che la mattina nel vicinato non si parlava d'altro che della presenza del lupo mannaro nel Pian di Campaldino. Come avviene sempre in certe circostanze, vi era pure chi asseriva di aver visto la bestia spaventosa correre di notte, mentre la luna era alta, per i campi e per i boschi, così nessuno si attentava più a uscir di casa la notte, e i contadini avrebbero lasciato piuttosto marcir l'uva sulle viti, che attentarsi a incontrare il lupo mannaro. Intanto Teresona, sostenuta dal desiderio di rendersi utile all'infelice cui affezionavasi ogni giorno più, non rifuggiva da nessun lavoro, per faticoso che fosse, pur di guadagnare qualche cosa. Aveva riaccompagnato il monaco a Camaldoli e da lui aveva ottenuto una larga ricompensa; poi s'ingegnava a far legna, che andava a vendere a Poppi e a Bibbiena, e se incontrava nei boschi qualche squadra di taglialegna, offriva l'opera sua per ottenerne qualche soldo. Una notte, vedendo messer Spini dibattersi furiosamente in preda alle convulsioni, Teresona aveva detto: - Sant'Anna benedetta, non vi pare che quest'infelice abbia patito assai? guaritelo, per carità di lui e di me! La luminosa visione le era di nuovo comparsa, e sant'Anna le aveva risposto: - Se la diletta Figlia mia non avesse esaudito le tue preghiere, tu e l'esule non avreste più neppure questo ricovero. Non capisci che sono gli urli di lui che tengono lontana la gente da questo luogo? - Chino il capo alle savie disposizioni della Provvidenza, - rispose Teresona umilmente. - Così va bene; - disse sant'Anna, - quando la persecuzione contro messer Spini cesserà, egli sarà guarito. La visione scomparve, ma gli urli continuarono e il terrore era sparso nei dintorni. Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall'abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell'uva. L'abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l'acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l'ammirazione che ella gl'ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s'inginocchiò e pregò fervidamente sant'Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l'aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L'animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l'abate che sperava tanto nell'acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v'era qualche spirito forte che si accostava con l'intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l'esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d'industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all'esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d'impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l'abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all'uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo. - E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c'era anche l'Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

Quella sera se l'attirò nel canto del fuoco, che non aveva ancora abbandonato, benché l'aprile fosse vicino, e le disse commossa: - Tu sei la mia ultima consolazione! Vezzosa, per interrompere quel discorso, la pregò di raccontare la novella, e la Regina, dopo essersi asciugate le lacrime, prese a dire: - C'era una volta un oste di Poppi, che era l'uomo più temuto di tutti questi dintorni. Egli non conosceva scrupoli, e, pur di ammassare quattrini, avrebbe rinnegato Cristo. Non c'era affare losco in cui non fosse mescolato, ma nessuno osava accusarlo pubblicamente, perché avea nomèa di feroce, vendicativo e sanguinario. Messer Cione ogni momento perdeva un parente, e il popolo di Poppi diceva che questo avveniva in punizione dei suoi peccati. In pochi anni gli era morto il padre, poi la madre, i fratelli, due figli e per ultimo la moglie, una creatura buona e paziente, che sopportava tutte le prepotenze del marito senza lagnarsi. Credete che per questo messer Cione si mostrasse abbattuto? Neppur per idea. Non s'era vestito a lutto, non aveva fatto dir messe per il riposo dei suoi morti, e a chi gli porgeva consolazioni, rispondeva: - Chi muore giace, e chi resta si dà pace! Il giorno dei Morti era sempre un giorno di lutto per gli abitanti di Poppi, com'è anche ora, e per tutti. La gente pensava ai proprî defunti, pregava per loro, assisteva alla messa e all'ufizio e portava ceri sulle tombe. Chi poteva, faceva elemosine e ordinava messe, e sarebbe parso un sacrilegio, in quel giorno funebre, di divertirsi. Messer Cione non solo non pregava né si mostrava afflitto, ma canzonava ben bene, di sulla porta dell'osteria, vuota di avventori, quelli che andavano in chiesa a pregare. - Chi muore giace, e chi resta si dà pace! - ripeteva egli. Le donne, nell'udirlo dir così, si facevano il segno della croce; gli uomini abbassavano il capo senza rispondergli: ma sì gli uni che le altre lo riputavano empio, e avrebbero scommesso chi sa che cosa che era già dannato avanti di morire. Un anno, il dì dei Morti, durante la messa, s'era fatto vedere a tavola davanti all'osteria a mangiare e bere con due o tre soggettacci di Romena, gente che lo aiutava nelle faccende losche; quando ebbe mangiato a strippapelle, si fece portare i dadi e si mise a giocare e giuocò tutto il santo giorno, dando scandalo a quanti passavano. La sera, mezzo brillo, accompagnò i tre soggettacci fino a Romena, e dopo di aver fatto baldoria anche là, se ne tornò a Poppi cantando una canzonaccia. Quando passava davanti alle immagini della Madonna, murate nella cappellina o sulle facciate delle case de' contadini, batteva col bastone l'erba delle prode, senza aver paura di ferire le anime che in quella notte popolano la campagna. Così cantando e agitando il bastone, giunse a un punto dove facevano capo due vie scendenti da Poppi. La più lunga era posta sotto la custodia del Signore, mentre la più corta era frequentata dai morti. Molta gente, nel passarvi di notte, aveva veduto cose da raccapricciare; ma nessuno osava raccontarle, altro che in mezzo a una brigata numerosa. Messer Cione, per altro, non aveva paura neppur del Diavolo, e prese la via più breve fischiettando allegramente. Era una notte senza luna e senza stelle e il vento impetuoso faceva turbinare le foglie; i cespugli tremavano come persone che avessero paura, e in mezzo a quel silenzio i passi di messer Cione echeggiavano sinistramente; ma egli non aveva paura. Passando accanto a una casa abbandonata, sentì la banderuola che diceva: - Torna addietro! Torna addietro! Torna addietro! Messer Cione non badò a quell'avvertimento, e giunse a un rigagnolo, ingrossato dalla pioggia caduta poco prima, che diceva: - Non passare! Non passare! Egli non badò neppure a questo secondo avvertimento, e, posato il piede sui sassi che erano attraverso il rigagnolo, passò dal lato opposto. Giunto che fu a una vecchia quercia, col tronco vuoto e coi rami scossi dal vento, sentì dire: - Resta qui! Resta qui! Resta qui! Ma ser Cione percosse l'albero col bastone che aveva in mano e affrettò il passo. Alla fine penetrò nel luogo dove bazzicavano le anime. In quel momento, all'orologio di Poppi e a quelli dei castelli vicini, scoccò la mezzanotte. Un altro sarebbe scappato; ser Cione invece, per dar prova di coraggio, si mise a cantare una canzonaccia. Ma nel tempo che cantava la quarta strofa sentì il rumore di una carretta tirata da cavalli senza ferrare, e la vide, infatti, nel buio, che si avvicinava a lui, coperta di una coltre da defunto. Allorché la carretta fu a breve distanza, la riconobbe per la carretta della Morte. Era tirata da quattro cavalli neri, con le code così lunghe che spazzavano il terreno. Seduta sopra una stanga stava la Morte in persona, con una frusta di ferro in mano e ripeteva sempre: - Tirati da parte o ti metto sotto! Tirati da parte o ti metto sotto! Ser Cione si scansò, ma senza turbarsi. - Che fai qui, madonna Morte? - le domandò sfacciatamente. - Prendo, sorprendo e porto via, - rispose il brutto fantasma col viso di scheletro. - Sei dunque una ladra e una traditrice? - continuò ser Cione. - Sono quella che colpisce senza sguardo e senza riguardo. - Cioè una sciocca ed un'assassina. Allora non mi stupirebbe che in codesta carretta tu ci avessi dei compari per darti manforte a commettere le tue infamie. Ma, dimmi un po', perché hai tanta fretta e martorizzi i poveri cavalli con codesta frusta di ferro, che non ho mai veduto usare da nessuno? - Sappi, - rispose il fantasma, - che debbo andare a prendere messer Cione, l'oste di Poppi. Addio! Ciò detto frustò i cavalli, e via. Ser Cione si mise a ridere e non si turbò per questo. Nel giungere a una siepe di pruni, che metteva al lavatoio, vide due donne bianche e belle, che sciorinavano i panni di bucato. - Perbacco! - disse, - ecco due ragazze che non hanno paura del sereno! Perché, belle fanciulle, state fuori a quest'ora? Il coprifuoco è sonato da un bel pezzo, e a Poppi non potrete entrare fino a domattina. Siccome io pure ho fatto tardi, non sarebbe male d'ingannare il tempo ciarlando; che cosa fate? - Noi laviamo! - risposero le due donne. - Me ne rallegro tanto, ma ora non lavate. - Ora rasciughiamo, - soggiunsero le due donne. - Con questa nottata non rasciugherete neppure un moccichino. - Non dubitare, rasciugheremo, e intanto ci metteremo a cucire. - Che cosa? - domandò l'oste. - Il lenzuolo del morto che cammina e parla ancora. - Ditemi un po', come si chiama questo morto? - Messer Cione, l'oste di Poppi, - risposero le donne. Ser Cione rise più forte della prima volta quando aveva inteso pronunziare il suo nome dal fantasma della carretta, e salì per la viottola che menava al paese. Ma più andava avanti e più gli giungevano distinti all'orecchio i colpi che facevano altre lavandaie di notte, sbattendo i panni sulle pietre del rigagnolo. A un tratto le scòrse e vide che battevano un lenzuolo funereo, cantando il triste ritornello: Se cristian non ci viene a salvare, Sempre sempre bisogna lavare; Prepariamo il lenzuolo pel morto, Che dev'esser qui dentro ravvolto. Appena le lavandaie di notte videro giunger l'oste, cessarono il canto, si misero a gridare, e, correndogli incontro, gli presentarono il lenzuolo imponendogli di aiutarle a torcerlo per farne uscir l'acqua. - Non si rifiuta mai un piccolo servigio ... - rispose ser Cione. - Ma aspettate un momento, perché non ho altro che due mani. Allora posò in terra il bastone, e preso uno dei due capi del lenzuolo che gli presentava la morta, si diede a voltolarlo nello stesso senso in cui ella lo torceva, perché aveva sentito dire dai vecchi che quello era il solo mezzo per non essere torto come il lenzuolo e spremuto. Ma appena ebbe strizzato l'acqua dal lenzuolo della prima morta che gli s'era avvicinata, ne giunse una seconda, poi una terza e molte altre ancora, e tutte circondarono ser Cione pregandolo di aiutarle. Fra tutte quelle donne riconobbe sua madre, sua moglie, le sorelle e le figlie, e quando s'era affaticato a torcere il lenzuolo che gli presentavano, per ringraziamento glielo sbattevano in faccia e gridavano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! E tutte quelle morte scotevano i capelli, alzavano i lenzuoli bianchi, e lungo tutti i fossi del monte e della valle, lungo tutte le siepi, da tutte le vette, migliaia e migliaia di voci ripetevano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! Ser Cione si sentì rizzare tutti i capelli sulla testa, ma seguitava a voltare il lenzuolo nel senso che torceva la morta per non essere torto e spremuto anche lui. Così lavorò fino all'alba sudando freddo, circondato da uno stuolo di morte, che urlavano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! E dalla valle, dalle balze dei monti, dalle vette, partiva lo stesso grido di maledizione, che l'eco ripeteva migliaia e migliaia di volte. Ma appena l'alba incominciò a imbiancare il cielo, le morte sparirono a una a una, e ser Cione, spossato da tanto terrore, cadde in terra e dormì come un ciocco. Credete che ser Cione nel destarsi fosse pentito? Neppur per idea! Si stropicciò gli occhi e disse fra sé: - Guarda un po' che brutti sogni si fanno quando s'è bevuto un bicchiere di vino di più! Pare impossibile! E cantando tornò a casa sua, aprì l'osteria come al solito, senza serbare sul faccione di luna piena nessuna traccia della paura della notte. E per tutto quell'anno seguitò, come se non fosse stato nulla, a canzonar quelli che andavano in chiesa, che si levavano il boccon dalla bocca per fare elemosine, e ascoltavano messe per i loro defunti. E anche quell'anno ser Cione commise un sacco di ribalderie insieme con altri furfanti del vicinato, e andò lì lì per esser preso sul fatto e impiccato. Ritornò il giorno dei Morti, la triste giornata autunnale in cui tutti avevano la mente rivolta ai loro defunti e pregavano, affinché fossero sollevati dalle pene del Purgatorio. Ser Cione, fin dalla mattina, si mise sulla porta dell'osteria a canzonare quelli che andavano in chiesa, e vedendo passare un lungo stuolo di donne, che dicevano devotamente il De profundis si mise a urlare: - Sgolatevi pure, tanto i ragli degli asini non giungono in Paradiso! Tutto il paese era scandalizzato dalle parole di ser Cione, il quale, avendo invitato come di solito a far baldoria tutti i malanni di Poppi e dei paesi vicini, bevve per dieci, e dopo si diede a percorrere la campagna cantando a squarciagola. A uno a uno i suoi compagni lo lasciarono per tornar alle loro case, ed egli, vedendo che aveva fatto tardi e che al paese non poteva tornare, perché a quell'ora le porte eran chiuse, si rassegnò a passar la notte al sereno, tanto la serata era calma e la pioggia né la neve minacciavano di cadere. Tagliò dunque col coltello, che portava sempre seco, alcuni rami secchi dalle siepi e dagli alberi, e accese una bella fiammata in un punto riparato, a ridosso di un vecchio muro. Appena la fiamma divampò, ser Cione vide un fantasma bianco, rinvoltato in un sudicio lenzuolo a brandelli, accostarsi a lui. - Vattene! - disse ser Cione, - non permetto che altri si scaldi alla mia fiamma. - Lo so che sei un uomo senza cuore, che non hai pietà né dei vivi né dei morti, ma per questa notte io non mi muoverò di qui, - rispose il fantasma, e si sedé davanti alla fiamma. Poco dopo giunse un secondo fantasma avvolto in un lenzuolo anche più sudicio e più sbrandellato di quello dell'altro. - Vattene! - gli disse ser Cione, - non voglio tanta marmaglia d'intorno a me. - So bene che hai una pietra nel posto del cuore, - rispose il secondo fantasma, - che non hai pietà né dei vivi né dei morti; ma per questa notte non mi moverò di qui. Si sedé accanto al fuoco, e quindi soggiunse, rivolgendosi all'altro fantasma: - Ti rammenti come eravamo felici quando ci nacque quel figlio, moglie mia? - Se me ne rammento! Ogni lacrima che mi è costato, mi ha fatto ripensare a quel momento di gioia, marito caro. Io ti ho sopravvissuto, e non puoi credere quello che egli mi abbia fatto patire. Mi sottoponeva alle più dure fatiche, mi maltrattava, mi contava i bocconi, e lui stava tutto il giorno a bere, a bestemmiare e a far di peggio. Tuttavia gli avrei perdonato tutto, se una volta avesse ascoltato una messa, o avesse fatto un'elemosina per sollevare l'anima mia dalle pene del Purgatorio; ma invece quel birbante gozzoviglia in questo giorno sacro a noi, e non ha un pensiero per i suoi morti. Ser Cione, seccato da quei discorsi, si era già alzato per andarsene, maledicendo gl'importuni, ma sentì due mani gelate prenderlo per il viso e trattenerlo dov'era. - Questo è troppo! - esclamò egli. - Io voglio stare dove mi pare e andarmene dove mi accomoda. - Per questa notte, - disse il terzo fantasma, che lo aveva trattenuto, - tu devi ascoltare i nostri lamenti, poiché avrai capito che quei due che parlavano di te furon tuo padre e tua madre, come io fui tua moglie. Ora verranno gli altri morti della nostra famiglia, e spero che t'impediranno di andartene. Ser Cione, di riffa o di raffa, dovette star dov'era, e i due vecchi continuarono i loro lamenti, intanto che la moglie guardava di qua e di là come se aspettasse qualcuno. Finalmente si alzò e corse incontro a due angioletti bianchi, che volarono a lei con le faccine sorridenti, soffuse di luce. La donna li baciò piangendo di gioia: - Ecco i nostri figli, - diss'ella a ser Cione. - Come vedi non hanno bisogno delle tue preghiere, perché sono in Cielo; ma se tu avessi fatto dire qualche messa per me, non sarei più divisa da loro. Di questo solo mi dolgo con te, perché ti era così facile far cessare la nostra separazione. Ser Cione non parlava e neppure osava avvicinarsi ai due angioletti, che s'erano accostati alla mamma e le facevano mille carezze, mentre per lui non avevano nessuno sguardo, nessuna parola. I due vecchi intanto continuavano a imprecare a quello snaturato figliuolo, e alla loro voce si univa quella delle sorelle di ser Cione, sopraggiunte allora e anch'esse avvolte in lenzuoli funerei. Il solo vivo, in mezzo a tutti que' morti, non era più calmo e sprezzante come l'anno prima quando capitò in mezzo alle lavandaie di notte, che gli fecero torcere i lenzuoli funerei, né come poco avanti quando sentiva parlare il padre, la madre e la moglie. Dacché aveva veduto i suoi due bimbi, si sentiva una smania, una irrequietezza che non aveva mai provate. Avrebbe voluto baciare quei due angioletti, ma temeva di vedersi respinto da loro e stava a guardarli intenerito, ripensando a come era triste, ora, nel mondo, senza nessuno. Intanto il vecchio, la vecchia e le sorelle di ser Cione gridavano: - Maledetto colui che non ha pietà dei suoi morti! Maledetto in eterno! - Maledetto in eterno! - rispondevano le anime sparse nella campagna e alle quali è concesso, una volta l'anno, di tornare in terra. A un tratto ser Cione scoppiò in singhiozzi. - Son dannato, - diceva, - chi mi salverà? Tutti, tutti mi maledicono! La moglie del ribaldo strinse a sé i due bambini e alternava i baci con le parole che sussurrava loro nell'orecchio. I due piccini risposero alle suppliche di lei: - Non dubitare, mamma, addio! - E per me non c'è neppure un saluto? - domandò ser Cione ai figli. - Per ora no; ma torneremo presto, prestissimo. E volarono su, agili come due colombi. In breve, il chiarore che mandavano si confuse con quello delle stelle che erano sparse nel firmamento. I fantasmi, adunati intorno a ser Cione, non cessavano di lagnarsi di lui, ma egli non li udiva. Aveva nascosta la testa fra le mani e continuava a piangere dalla vergogna dei suoi peccati. La moglie sola non univa la sua voce a quella degli altri, non imprecava contro di lui, ma sibbene pregava per il suo ravvedimento e teneva l'occhio rivolto al cielo, da cui sperava di veder discendere i suoi due angioletti, che erano andati messaggieri a Dio. Ser Cione accostò la bocca all'orecchio della moglie, e le disse: - Credi tu che un uomo macchiato di peccati possa salvarsi? - Lo credo fermamente, - rispose ella. - E con qual mezzo? - Col vero e sincero pentimento, col pentimento che nasce più dal dolore di avere offeso Iddio e di aver recato danno al prossimo, che dal desiderio di sfuggire una punizione eterna, meritata dai peccati. - Io lo provo, questo pentimento, perché ho vergogna di quel che ho fatto, perché soffrirei mille pene, pure di cancellare la mia vita. - Ma senti tu, insieme a questo pentimento, la forza di incominciare un'altra vita, onesta, tutta diversa da quella passata? - La sento, anima santa, e il miracolo non l'hanno operato i miei vecchi con le loro aspre parole, non l'hanno operato le altre anime di morti con le loro maledizioni, ma l'hai operato tu, con la tua dolcezza. Nel vedermi guardare a quel modo dai nostri angioletti ho conosciuto la mia abiezione, ho avuto vergogna e ho sentito che cos'è rimorso e pentimento. In quell'istante ser Cione vide una striscia luminosa solcare lo spazio, e pochi secondi dopo udì due vocine dolci, due vocine care che cantavano: - Osanna! Iddio è grande e misericordioso verso i peccatori pentiti! - Senti, - disse il fantasma della moglie di ser Cione, - sono i nostri figli che tornano dal Cielo e ti portano la grazia; cerca di meritarla. Il solo vivente in quel consesso di morti, cadde in ginocchio, e le sue labbra mormorarono le preghiere imparate da bambino, mentre il suo cuore si dischiuse alla speranza. I due angioletti gli posarono le manine sulla testa, accarezzarono il volto paterno e volarono su nell'etere cantando: - Osanna! Osanna! L'alba incominciava a imbiancare il cielo, e i defunti di ser Cione sparirono a uno a uno, gridandogli: - Maledetto colui che non ha pietà dei suoi morti! Maledetto in eterno! La moglie lo lasciò, invece, dicendogli: - Persevera nel pentimento, lavora per meritarti il Cielo, e allora saremo uniti, uniti per sempre. Il sole, nel levarsi, trovò ser Cione allo stesso posto nel quale lo avevano lasciato i suoi morti, con le mani congiunte e l'occhio rivolto al cielo, dove aveva veduto salire i suoi angioletti. - Che sia stato un sogno? - esclamò egli; ma subito dopo aggiunse: - Anche se così fosse, che bel sogno! Salì a Poppi, e invece di andare a casa sua e mettersi a schernire i devoti dalla porta dell'osteria, entrò nella chiesa di San Fedele, s'inginocchiò in un angolo e si mise a pregare come ogni buon cristiano. Dopo aver lungamente pregato, specialmente per i suoi morti, andò in sagrestia e pose nella mano di un frate tutti i soldi che aveva in tasca, dicendo: - Dite tante messe per le anime dei miei poveri defunti! Il frate, che lo conosceva per un malandrino, sgranò tanto d'occhi, e tutti quelli che lo videro in chiesa, andarono a sparger la voce che ser Cione s'era ravveduto, che ser Cione voleva diventar santo. Quel giorno egli non aprì l'osteria e non l'aprì mai più. Dava ai poveri larghe elemosine, pregava, faceva dir messe per i suoi morti ed evitava d'incontrare i suoi antichi compagni di vita peccaminosa. Se però li vedeva, diceva loro: - Fratelli, ravvedetevi! Le soddisfazioni terrene sono fugaci, le punizioni sono eterne! A Poppi tutti erano edificati di quel cambiamento repentino, e le persone buone e pie, che prima egli aveva offese, ora si avvicinavano a lui e lo esortavano a perseverare nella via del pentimento, nella via che conduce alla salvezza. Ma tutte queste esortazioni non sarebbero bastate, se, durante la notte, non fossero scesi al capezzale dell'uomo solo, privo di famiglia, i suoi due angioletti bianchi, e non gli avessero fatto sulla fronte una lieve e dolce carezza. Così pregando, facendo elemosine e lavorando faticosamente per alleviare le fatiche di quelli che erano deboli o vecchi, ser Cione visse un anno ancora, e la notte dei Morti spirò dolcemente, sentendosi accarezzare la fronte dai suoi due angioletti; spirò da buon cristiano, e le benedizioni di quelli che aveva beneficati lo accompagnarono fin alla tomba e financo al di là, perché molti cuori sono riconoscenti anche dopo che il beneficio è cessato. Si dice che l'anima di ser Cione, che sconta ancora in Purgatorio una parte dei peccati che non ha potuto scontare in vita, torni, nella notte dei Morti, a esortare i peccatori di Poppi a ravvedersi e li attenda per le vie. Almeno così dicono molti che si sono pentiti e che da quell'anima hanno saputo la storia della vita di ser Cione e della sua morte, che altrimenti sarebbe da lunghi e lunghi anni dimenticata. - E qui, figliuoli, la novella è finita, - disse la Regina. - Quest'altra domenica ve ne racconterò una più lieta, più gaia, che vi farà ridere e non vi farà sognare i morti e le anime del Purgatorio. - Come la intitolerete, nonna? - domandò l'Annina. - Non te lo voglio dire; lo saprai domenica. - E domenica sapremo anche quando si faranno le nozze, perché fra otto giorni la tua matrigna sarà guarita, - aggiunse la bambinetta rivolgendosi a Vezzosa. - E domenica, - disse la Carola, - faremo anche i regali alla nostra cara sposina. Non son doni ricchi, ma glieli faremo col cuore. Noi donne specialmente non abbiamo altro che quei pochi soldi che si ricavano vendendo le uova, i polli e i piccioni, e possiamo spender poco; ma quei regalucci le mostreranno che le si vuol bene e che si accetta volentieri in casa nostra. La massaia, come al solito, aveva parlato a nome di tutte le cognate. Cecco era così commosso da quelle buone parole, che uscì e si mise a fischiare per non far vedere i lucciconi; la Vezzosa si era stretta un bambino al petto e lo baciava, tanto per isfogare il suo bisogno d'espansione, e la Regina piangeva. - E che son cotesti lacrimoni! - esclamò Maso. - Mamma, bisogna ridere e non far codesta faccia da funerale. - Quando siam vecchi, - rispose la Regina, - ci si commuove e si piange facilmente. Ma vedrete che saprò ridere il giorno delle nozze, e voglio fare anch'io due sgambetti quando gli altri balleranno. - Così va bene! - esclamò Maso. - Gente allegra, Iddio l'aiuta! Uscirono tutti, meno che le donne, per riaccompagnare le ragazze che erano state a veglia, e s'imbatterono nel padre di Vezzosa, che veniva di corsa a chiamarla. - Che è stato? - gli domandò la figlia. - Vieni presto, devo correre dal medico, la Maria delira, si vuol levare dal letto e le tre ragazze non son buone a trattenerla. Vezzosa disse appena buona notte a tutti e corse via. Cecco la seguì a distanza insieme con gli altri. E quando tutte le ragazze che erano state a veglia furono riaccompagnate a casa, egli, invece di tornare insieme con i fratelli al podere di Farneta, se ne andò mogio mogio a casa di Vezzosa. Ma per non disturbarla bussando, poiché la porta era chiusa, si sedé sopra un muricciuolo aspettando che qualcuno comparisse alla finestra o sull'uscio; e con l'occhio fisso sulla casetta bianca, che pareva un masso di neve illuminata in pieno dalla luna, si mise a pensare all'avvenire. Egli si struggeva non potendo aiutare Vezzosa nelle sue faccende, e non vedeva il momento di essere unito a lei per sempre e di dividerne le gioie e i dolori. A un tratto, senza riflettere, si mise a cantare una canzone del paese. Sentiva il bisogno di dire a Vezzosa che le era vicino e che vegliava anche lui. Dopo poco che aveva incominciato a cantare, sentì aprir l'uscio della cucina, e nel vano vide comparire la bella ragazza. Cecco corse a lei con uno slancio, come se non l'avesse veduta da un anno. - Grazie, - gli diss'ella, - di esser rimasto vicino a me. Cecco mio, la mia matrigna lotta davvero con la morte. In questo momento svaniscono in me tutti i risentimenti, e mi pento e mi dolgo di non essere stata più buona con lei in passato. Cecco strinse le mani della sua fidanzata, quasi volesse ringraziarla di esser così buona. In quel momento si udì un rumore di sonagli sulla via maestra, e di lì a poco comparve il calesse del dottore. Momo era stato a chiamarlo sull'imbrunire, e il dottore, scendendo, si scusava di non esser potuto venir prima. Cecco entrò in casa dietro al medico, e fu lieto di perder la nottata per potere ammirare la diligenza e l'affetto di cui dava prova la sua Vezzosa nell'assistere la matrigna.

. - Quale ragione ti riconduce sotto questo tetto, che hai abbandonato come un malfattore? - gli domandò severamente. - Nessun'altra che l'ardente desiderio di sapere che cosa sia avvenuto della mia sposa, - rispose il giovine. - Come supponi che io possa dirtelo? Corso allora chinò la testa e tacque; ma invece di rimanere in quel luogo, si mise in viaggio per cercare la sua Selvaggia. Dopo un anno d'inutili ricerche, il giovane signore intraprese il pellegrinaggio di Terra Santa, per ottenere dal Cielo la grazia di esser riunito all'adorata consorte. Ma la nave fu assalita dai pirati ed egli, come i suoi compagni, vennero fatti prigionieri da un capo barbaresco e condotti sulle coste africane a lavorare la terra. Però, la sorte di Corso non era tanto dura quanto quella di Selvaggia. Egli almeno respirava l'aria libera, mentre l'infelice donna era rinchiusa in una prigione e s'era veduta strappare la sua creaturina. Selvaggia, in quel carcere, non faceva altro che piangere e pregare; ella piangeva Corso, che supponeva morto in seguito alle ferite, e pregava per la sua bambina, che una voce interna le diceva che era viva. E le sue preghiere, rivolte specialmente alla Madonna, erano così fervide che giungevano fino al trono della Madre di Dio e la commovevano. Passarono molti anni dal giorno che la fanciulla fu raccolta da fra' Buono, ed ella s'era fatta bellissima di viso e di corpo, e tale appariva agli occhi della gente che la scorgeva andando in pellegrinaggio a Fonte-Buona. Tutti le tributavano un gran rispetto, vedendola vestita dell'abito dato da san Romualdo ai suoi monaci, e intenta sempre a leggere nei grossi volumi che le recava fra' Buono, o a guardare le pecore al pascolo, o coltivare i fiori, che crescevano intorno alla sua capanna come se fosse stato primavera. Inoltre il padre forestale raccontava a tutti il miracolo del lupo e faceva vedere a quanti si recavano al monastero la bella Buona, seguìta dalla fiera. In poco tempo la venerazione per Buona era tanto cresciuta nella gente del Casentino, che gl'infermi, gli storpi, i malati d'ogni genere, si facevano portare alla capanna di lei, e la pregavano supplichevolmente di suggerir loro un rimedio o soltanto di toccarli, sperando da quel semplice contatto la guarigione. Buona rispondeva a tutti quegli infelici: - Pregherò la Madonna per voi! E siccome talvolta essi risanavano, così nessuno più dubitava che ella fosse già santa in vita. Ora avvenne che il conte di Poppiano ammalasse gravemente, di una malattia che aveva sede nell'anima. Egli era torturato dal dolore di non vedere più l'unico figlio suo, e invece di mostrarsi più umano verso Selvaggia, la rendeva responsabile della gran sciagura che lo faceva morir disperato. Per curarlo, erano stati chiamati tutti i dottori del Casentino, ma la sua malattia resisteva a ogni rimedio. Allora, siccome egli non poteva più muoversi, gli fu suggerito di chiamare al suo letto la pastorella del Pian del Prete. E Buona, pregata da un frate che bazzicava al castello, se ne andò, scalza e vestita della bianca tunica, presso il vecchio signore, che teneva rinchiusa sua madre in un sotterraneo e che aveva fatto abbandonar lei alla voracità dei lupi. - Signore, - disse Buona quando fu alla presenza dell'infermo, - io non so altro che pregare, e pregherò per voi. Quella voce dolce scese come un balsamo al cuore del vecchio, il quale incominciò subito a migliorare. - Chi sei? - le domandò il vecchio, - e dove stanno i tuoi genitori? - Non lo so. Quindici anni fa, frate Buono mi raccolse fra la neve nel Pian del Prete. Io non ho altra famiglia che i frati camaldolensi, altra madre che la Madonna. - Quindici anni fa, tu dici! - Sì, avevo allora pochi mesi. Tacque il vecchio, e il suo volto rivelava la lotta che si combatteva dentro di lui. - Dimmi, sapresti tu perdonare a chi ti avesse privato della madre? - Io ho imparato da fra' Buono, che non sta a noi giudicare le azioni altrui. - Avvicinati! - ordinò il Conte. Il vecchio le prese le mani e la esaminò attentamente. Non poteva ingannarsi: erano proprio quelli gli occhi grandi e dolci del suo Corso, eran quelli i lineamenti del figlio perduto. Allora, preso dalla tenerezza, il vecchio attirò a sé Buona e disse: - Figlia del figlio mio, ti benedico! Buona non capiva nulla. Soltanto quando il Conte le narrò la storia truce, ella comprese e disse: - Liberate l'infelice madre mia! Questo desiderio fu subito appagato; ma quando Buona fu in presenza della madre, credé di vedere uno spettro. - E tu, Selvaggia, puoi perdonarmi? - domandò il vecchio. - Mi rendete la mia creatura e io dimentico tutto per non rammentare altro che questo momento felice. Il Conte in breve si rimise in salute e appena ebbe riacquistate le forze, cavalcò fino a Camaldoli per fare una ricca offerta al monastero che aveva tenuto Buona come figlia e visitare il santuario eretto in onore di lei. Ma, nonostante che egli fosse circondato dalle cure amorevoli delle due donne, il suo pensiero era sempre rivolto a Corso. Una sera gli fu annunziato che un cavaliere chiedeva l'ospitalità. Il signore ordinò che fosse subito introdotto, e quando il viaggiatore entrò nella sala, gli occhi affievoliti del vecchio Conte non lo ravvisarono; ma dalla bocca di Selvaggia uscì un grido, riconoscendo in quel cavaliere il proprio marito. Corso raccontò che era riuscito a fuggire, e, raccolto da alcuni marinari sulle coste d'Africa, era passato in Sicilia, e di là era tornato in patria. Buona fu per molti anni la consolazione dei genitori, com'era stata la consolazione del vecchio Conte; ma nonostante le ricche offerte di maritaggio, ella volle rimanere libera e non dismise mai l'abito bianco dei Camaldolensi. Rimasta orfana, ella cedé ai parenti il castello di Poppiano e i feudi annessi, e costruitasi una piccola casa all'Abetiolo, accanto al santuario eretto in memoria della sua miracolosa salvazione dal lupo, vi morì in odore di santità. La novella terminò senza che Cecco fosse tornato. Regina, per distrarre Vezzosa, che vedeva malinconica, avrebbe incominciato volentieri a raccontarne un'altra; ma gli uomini si erano già alzati per andare a letto, meno Maso, il quale disse: - Cecco si meriterebbe di dormire sull'aia; stasera lo aspetto io e gli dico il fatto mio! Vezzosa si sentì gelare. Le dispiaceva l'assenza del marito, ma più ancora l'affliggeva che il capoccia lo biasimasse. Per questo disse al cognato che Cecco lo avrebbe aspettato lei. - Tu puoi rimproverarlo quanto vuoi in camera tua, come moglie, ma io voglio rimproverarlo come capo di casa, - rispose Maso. - Nella nostra famiglia nessuno ha mai bazzicato le osterie con gli amici, e non deve essere il primo lui. Vezzosa dovette ubbidire e andare in camera sua, ma non si spogliò finché non udì il passo di Cecco, e rimase inchiodata alla finestra per udire il colloquio fra i due fratelli. I rimproveri che rivolse Maso a Cecco furono così aspri, che Vezzosa non ebbe coraggio di fargliene altri. Ma piangeva la povera donna, come una vite tagliata, e quelle lacrime inasprirono il colpevole, invece di rabbonirlo.

Appena ebbe abbandonato le redini del cavallo a un servo e fu salito in camera sua, una nuova umiliazione gli fece bollire il sangue nelle vene. Durante la sua assenza erano giunti al castello ospiti di riguardo, e il conte Alessandro aveva dato ordine che si allestissero loro tutte le camere attigue a quella di ser Alamanno, compresa quella di lui. Così, giungendo, il giovane vide che i servi avevano aperto tutti i cassetti per votarli, e portavan via carte, abiti, armi, tutto alla rinfusa. - Che fate? - domandò ser Alamanno turbato. - Eseguiamo gli ordini del Conte, - risposero quelli. - Mi caccia forse dal suo palazzo? - chiese il giovane digrignando i denti. - No, - rispose uno dei servi. - Vi manda soltanto all'aria fine, in soffitta. - Sospendete il trasporto di codesta roba, se no me la pagherete, - ordinò ser Alamanno. E corse a chieder spiegazione del fatto al suo potente cugino. - Sarebbe bella che non fossi padrone di disporre delle stanze di casa mia! - rispose il Conte senza scomporsi. - Se non ti piace di star in alto, va' al piano, e vai lontano! Il volto pallido di ser Alamanno si fece livido a quell'ingiuria, ma egli non rispose. Raccolse però tutte le forze di cui disponeva, e disse fra sé: - Mi calpestano, e io mi vendicherò; ma la vendetta sarà tremenda. E ripensando all'incontro fatto poco prima, il suo cuore esultò di una gioia selvaggia. Quella sera, a causa degli ospiti di riguardo giunti al castello, ser Alamanno si trovò, a cena, relegato in fondo alla tavola, fra un buffone e un suonatore di viola, giunti appunto al seguito dei visitatori. Nessuno gli rivolse la parola, né il Conte, né la Contessa, né i figli. La madre del signore di Poppi, la persona più affabile con lui, era trattenuta da un'infermità nella propria camera. Durante la cena, ser Alamanno, fremente, ruminava pensieri di vendetta, e, dimenticando i benefizî ricevuti per molti anni dalla famiglia del suo lontano parente, non rammentava altro che le umiliazioni sofferte, e, rivangando il passato, mangiava pane e veleno. Dopo tolte le mense e allorché la nobile compagnia prendeva diletto alle buffonate del giullare, ser Alamanno si allontanò come un'ombra e, ridottosi nella soffitta assegnatagli, si gettò sul letto. Egli era ancora in dormiveglia quando gli parve di rivedere la grande sala del castello, come l'aveva lasciata poco prima, con la tavola apparecchiata e gli ospiti seduti dai due lati. Però, dal posto d'onore, sotto il baldacchino, era sparito il conte Alessandro e vi era lui, non più miseramente vestito, ma con un ricco giustacuore coperto di ricami, ed una cintura tempestata di gemme. Sul velluto del baldacchino gli pareva che stesse scritto a lettere d'oro: "Premio della vendetta!". Ser Alamanno aprì gli occhi, sbalordito da quella visione, e si alzò dal letto. Era una bella serata primaverile, e le case aggruppate sotto il castello erano illuminate da una chiara luce lunare, che le faceva apparire così bianche, come se la neve le avesse ricoperte. Ser Alamanno s'era affacciato alla finestra, e in quel chiarore vide passare e ripassare un corvo, che andò a posarsi sul davanzale a portata della sua mano. Egli fece per acchiapparlo, e il corvo si lasciò prendere, portare in casa e posare sulla spalliera di un vecchio seggiolone. L'uccello piantò i suoi occhietti gialli in faccia a ser Alamanno, e, battendo le ali, disse con voce distinta: - Vendetta! Vendetta! Vendetta! Poi sbatté di nuovo le ali, e fuggì di dov'era venuto. - Non era dunque un sogno, il mio, ma bensì un avvertimento diabolico; e io voglio seguirlo, - disse ser Alamanno, che rivedevasi ancora al posto d'onore nella sala del castello. - Corvo, se mai io sarò davvero signore di questo luogo, giuro sull'anima mia che metterò un corvo nel mio stemma, col motto: "Vendetta! Vendetta! Vendetta!". Questa parola suona dolcissima al mio cuore. Mentre il castello, nel dì seguente, era tutto in festa per onorare gli ospiti, ser Alamanno stava chiuso nella sua soffitta, e nessuno si curava di lui. In quella solitudine, dimenticato da tutti, egli sentiva viepiù crescere l'odio che gl'ispiravano i suoi parenti e il desiderio di vederli un giorno umili dinanzi a sé, implorando misericordia. Mentr'egli ruminava nella mente questi pensieri, che gli si rispecchiavano sul volto truce e accigliato, ser Alamanno udì bussare lievemente all'uscio di camera sua. Andò ad aprire e vide un vecchio in umili vesti. - Chi sei? - domandò con voce aspra. - Se anche vi dicessi il mio nome, non mi conoscereste, messere. Vi basti sapere che fui scudiero del padre vostro ed ebbi dalle sue mani un dono che debbo restituirvi, ora che mi sento vicino a morte. Mentre parlava, il vecchio aveva tratto di seno un pugnale. Ser Alamanno vi gettò un'occhiata e vide che sulla lama scintillante era incisa una parola che molto spesso, in quegli ultimi tempi, gli era corsa alle labbra. - Vendetta! - esclamò quasi parlando a se stesso. - La voglio tremenda. Me la consigliano i vivi, me la consigliano i morti, e il mio cuore la vuole e la chiede; e vendetta sia! Il vecchio, senza aggiungere parola, era chetamente uscito dalla stanza, e ser Alamanno non pensò a richiamarlo, tutto assorto com'era nei suoi truci pensieri; ma baciò con reverenza il pugnale, che credeva avesse appartenuto a suo padre, e se lo infilò nella cintura. Quella sera egli non comparve neppure alla mensa del conte Alessandro. Scese bensì nella dispensa e, fattosi dare un pezzo di pane, lo mangiò rabbiosamente in camera sua, bevendo acqua della brocca; ma col desiderio affrettava l'ora dell'incontro col fiorentino nel bosco di Fronzola. Quando chiuse gli occhi, a notte avanzata, ebbe un'altra visione, ma una visione dolce. Egli vide una donna, che aveva le sembianze della madre sua, che lo guardava piangendo. La donna gli si accostò, prese il pugnale che egli teneva anche di notte a portata di mano, e, gettatolo in terra, lo calpestò gridando: - Amore! Amore! Amore! Ser Alamanno si destò di soprassalto; l'immagine cara era sparita, ed erano pure spariti dalla sua mente i truci pensieri. Ma a un tratto, come se qualcuno che volesse rievocarli gli si fosse messo accanto, sentì una voce aspra che gli rammentava tutti gli sgarbi, tutte le umiliazioni sofferte, da quando, bambino, era entrato al castello, fino a quel giorno in cui si trovava relegato lassù nella soffitta, senza prender parte a nessuna delle feste che si davano per gli ospiti, senza che nessuno domandasse neppure se era morto o vivo. E allora ser Alamanno balzò dal letto ed esaminò alla luce incerta del giorno nascente la lama del pugnale che portava incisa la tremenda parola. - Vendetta! - esclamò. E, vestitosi in un baleno, uscì senza alcun rimpianto dal castello per recarsi al convegno nel bosco di Fronzola. Questa volta non s'era fatto sellare alcun cavallo. Camminava solo, evitando la gente, rimpiattandosi fra gli alberi appena udiva un rumore di ruote od uno schioccar di frusta sulla via. Non voleva essere veduto, perché sapeva che il suo volto tradiva i pensieri che lo agitavano. Quando giunse al luogo del convegno, guardò da ogni parte, ma non vide il fiorentino, e, sedutosi per terra, con le spalle appoggiate al tronco di un poderoso castagno, attese. Passati pochi minuti dacché era in quel luogo, udì gracchiare un corvo, e subito dopo quell'uccello gli volava accanto e, guardandolo con gli occhietti gialli, diceva distintamente: - Vendetta! Vendetta! Vendetta! E quindi spariva. - Sì, vendetta, a costo della eterna dannazione! - esclamò ser Alamanno. In quello stesso momento gli comparve il fiorentino, mal vestito, ma col solito piglio altero. - Mi fa piacere che tu sia venuto; - gli disse, - questo mi prova che hai riflettuto. - Ho riflettuto: - rispose ser Alamanno, - sono stanco di questa vita di servo; voglio esser ricco e potente. - Adagio col voglio! - esclamò lo sconosciuto. - Prima di parlare così imperiosamente, dobbiamo fare i patti. Sei pronto a cedermi il tuo braccio per compiere la mia missione? - Non solo il braccio, ma anche l'anima mia, di cui non so che farne. - Ebbene, - disse lo sconosciuto, - io farò di te il signore di Poppi. Tutte le terre che dipendono dal feudo saranno sottoposte ai tuoi voleri, e sui terrazzani avrai diritto di vita e di morte; ma ... - Spiègati, - ordinò ser Alamanno. - Ma col pugnale che porti infilato alla cintola e su cui sta inciso: "Vendetta!" devi freddare quel superbo conte Alessandro e i figli di lui. - E chi sei tu per chiedermi questo e per promettermi così larga ricompensa? - Sono colui al quale il mondo si sottomette volontariamente: io sono il Diavolo! - rispose lo sconosciuto. E per provare la verità della sua asserzione, con un movimento rapido della gamba gettò via una scarpa e mostrò a ser Alamanno il piede biforcuto di capra. - Riconosco la tua potenza, re dell'Inferno e dominatore del mondo! - esclamò il cavaliere, - e sono pronto ad ubbidirti. - Ebbene, fa' uso del pugnale, ed allorquando tutti e tre i baldanzosi Conti saranno periti, chiamami, e io ti darò la signoria che ambisci. Dette queste parole, il Diavolo sparì nel bosco e ser Alamanno riprese la via del castello. Quando fu giunto nel severo cortile del palazzo e stava per salire il primo gradino dello scalone di pietra, vide scendere il Conte, seguìto dai figli, tutt'e tre riccamente adorni di vesti trapunte d'oro e di gemme scintillanti. Il Conte, appena vide il cugino, gli gridò: - Lascia libero il passo a me e ai figli miei, villano! A queste parole il sangue ribollì nelle vene dell'insultato, il quale non continuò a salire, ma si fece da una parte, mettendo le spalle al muro in umile atteggiamento. Però la sua destra era corsa all'impugnatura del pugnale, e quando il conte Alessandro gli passò d'accanto senza degnarlo di uno sguardo, la lama dell'arma luccicò un momento, e poi sparì nel petto del conte di Poppi. Un grido disperato gli uscì dalle labbra; ma prima che altri si occupasse di ciò che era accaduto, il pugnale scintillava di nuovo al sole e s'immergeva nella gola del figlio primogenito del Conte, e poi nel cuore del figlio minore. I tre cadaveri rotolarono sulle lastre di pietra del severo cortile, e ser Alamanno, brandendo il pugnale, senza temere i servi che, sgomenti, fuggivano, esclamò: - A me, Satana! In quel momento comparve dinanzi all'uccisore lo sconosciuto del bosco di Fronzola, non più vestito di povere vesti, ma adorno di abiti ricchi, e inchinandosi dinanzi a ser Alamanno, disse: - Vi saluto, o conte di Poppi! I miei uomini custodiscono le uscite del castello, e impediranno che la novella di questa triplice uccisione venga comunicata agli altri Guidi di Casentino ... Su, venite nella sala, e siate sicuro che tutti i servi vi presteranno omaggio. Il Diavolo spinse con un piede i tre cadaveri per lasciar libero il varco al nuovo signore, che guardò impavido le sue vittime, e quindi seguì ser Alamanno nella grande sala del castello. Nell'oltrepassare la soglia, i suoi occhi si posarono sul baldacchino del trono, e sul pendone di velluto a frange d'oro vide scritte, come l'aveva vedute in sogno, le parole: "Premio della vendetta". Ma invece di pentirsi, rammentando per quale seguito di circostanze era giunto fino a toglier la vita a chi lo aveva raccolto in casa sua, sorrise di compiacenza e, con piè fermo, giunse al seggiolone posto sotto il baldacchino e vi si sedé. Il Diavolo gli si pose dal lato destro e, secondo la promessa fattagli, suggerì ai valletti, agli scudieri, ai paggi e ai famigli di andare a far atto di sottomissione al nuovo signore. La vasta sala fu piena ad un tratto, e in tutto il castello non v'era rimasto nessuno ad attendere alle faccende. Mentre tutti prestavano giuramento al nuovo signore, dimentichi già di quello ucciso poco prima, e il cuore di ser Alamanno era gonfio dalla gioia vedendosi riverire da tutti coloro che lo avevano disprezzato, la porta della sala si aprì e nel vano di quella comparve la madre del conte Alessandro, pallida e sconvolta. L'usurpatore, nel vederla, fece atto di alzarsi e di voler fuggire; ma il Diavolo gli pose la mano sul braccio per trattenerlo. La desolata donna rimase nel vano della porta, e, alzando il braccio, disse: - Assassino! Sono io che ti ho raccolto, nutrito, difeso, e così tu mi paghi? Che tu sia maledetto! - Arrestatela! - gridò ser Alamanno alle guardie. E quelle, vedendo il piglio torvo del nuovo padrone, afferrarono per i polsi colei che li aveva curati dalle ferite riportate nelle guerre contro i Tarlati di Fronzola e contro gli altri nemici di Poppi, e osarono trascinarla in una prigione, praticata in fondo alla torre. Il nuovo signore graziò i suoi sottoposti di tutte le pene, e la sera vi fu un banchetto che durò fino a giorno. I tre cadaveri erano stati in fretta e in furia trasportati in una stanza sotterranea e rinchiusi in una sola cassa. Mercè la guardia che i seguaci del Diavolo facevano alle porte del castello, nessuno seppe per qualche tempo dell'eccidio commesso dentro le mura di Poppi, e l'usurpatore aveva cura di tenere la gente in continua allegria per impedire che qualcuno cercasse di eludere la vigilanza e recasse la notizia dell'accaduto ai Guidi di Romena, di Porciano, di Popiano, di Montemignaio e di Stia. Ma intanto che ser Alamanno affogava nelle orgie e nel vino il ricordo del suo misfatto, la povera madre dell'ucciso pensava anche lei alla vendetta, e con le mani palpava la porta e le pareti della prigione per vedere se trovava un'uscita. Dopo alcuni giorni che ella era rinchiusa in quell'antro buio, sentì, in quel silenzio sepolcrale, un lieve rumore all'uscio della prigione, come di chiavi che girassero pian pianino e di chiavistelli tirati con cura. Quando il rumore fu cessato, ella si trascinò fino alla porta e, scossala, sentì che cedeva. In quel momento, dal suo petto affranto uscì un grido di trionfo, e fuori che fu dalla prigione, si accòrse che le chiavi erano nella toppa. Richiuse, tolse le chiavi, e poi, quatta quatta, s'internò per un corridoio oscuro in discesa, che metteva a una uscita segreta, nota soltanto ai signori del castello. Quando la vecchia si trovò in aperta campagna, esclamò: - Ora, se non vendico il figlio mio e i miei infelici nipoti, sono indegna di vivere! E, fattasi forza, prese la via di Romena. Ella vi giunse dopo lunghe, lunghissime ore di travagliato cammino, e quando ebbe posto il piede nel cortile del castello, cadde tramortita. Per fortuna fu riconosciuta da un valletto, il quale corse ad avvertire il Conte che la madre del signore di Poppi era giunta a piedi; lacera e affranta. Il signor di Romena la fece subito trasportare nella camera nobile del castello, e ordinò che le fosse dato un cordiale. Intanto aveva fatto chiamare le donne della moglie per vegliarla, ed egli stava per ritirarsi, allorché l'afflitta madre aprì gli occhi e, riconosciutolo, esclamò: - Non mi abbandonate, signore, io ho bisogno di tutto il vostro aiuto e di quello degli altri parenti nostri, poiché vi sono tre morti da vendicare. - E dove sono questi morti? - domandò il Conte, credendola ammattita. - Essi riposano in una stanza sotterranea e ancora non hanno avuto sepoltura. - Ma voi vaneggiate, madonna; siete forse ammattita? - No, - rispose la vecchia solennemente, - non vaneggio. Ho visto i cadaveri sanguinosi dei miei tre cari, e io stessa fui rinchiusa in una prigione dalla quale sono uscita per miracolo. A voi, conte di Romena, a voi spetta vendicare il sangue dei vostri congiunti. L'assassino, l'usurpatore, è quell'Alamanno, quel serpe che mi sono cresciuta in seno! - Ser Alamanno morrà! - esclamò il conte di Romena. - Ma conoscete voi qualche entrata segreta che metta nel castello? - La conosco, - disse la dama, - e troverò la forza di condurvi voi e i vostri guerrieri, purché vendichiate il figlio mio. - Ebbene, tenetevi pronta, e stanotte compiremo l'impresa. Da Romena partirono subito messi per Porciano, Popiano, Montemignaio e Stia, chiamando alle armi tutto il parentado. Le schiere di essi dovevano mover subito e cinger d'assedio il castello, affinché nessuno ne uscisse; a penetrarvi non visto, pensava il conte di Romena. Quando la notte fu alta, egli uscì da Romena con un drappello di armati, scelti fra i più intrepidi dei suoi. In una lettiga era portata la vecchia contessa di Poppi. La schiera si avanzava lentamente nelle tenebre, e fece sosta appiè del monte ove riusciva la strada sotterranea, già percorsa dalla contessa. Ella fece smovere un ciuffo di pruni e, presa una lanterna, guidò il conte di Romena nei corridoi scavati nei fianchi del monte. Quando fu arrivata nel cortile si fermò. - Udite: - ella disse, - giungono fino a noi le grida e i canti avvinazzati di ser Alamanno e dei suoi. Salite, penetrate nella sala, e fate strage di lui e di tutti! Che Iddio vi protegga! Il Conte si slanciò con la spada in pugno su per la scala; i suoi lo seguirono. Egli penetrò nella sala come un lampo, e mentre i suoi uomini si gettavano sui banchettanti, il Conte andò diritto all'assassino, che era seduto sul trono, e con un colpo di punta lo passò da parte a parte. All'apparire del conte di Romena, il Diavolo, che in tutto quel tempo era rimasto a fianco del traditore, sparì non si sa come. Nella sala avvenne una carneficina. I soldati di Romena, incitati dall'esempio del signore, trucidarono tutti i banchettanti, e siccome il castello non era più custodito dai Demonî, così gli altri Guidi vi penetrarono. Pallida, con lo sguardo truce, la vecchia Contessa entrò nella sala, e vedendo il corpo di ser Alamanno disteso sui gradini del trono, gli tolse il pugnale che portava alla cintura e glielo immerse più volte nel cuore, gridando: - Vendetta è fatta! Dopo l'uccisione dell'usurpatore fu creato conte di Poppi il figlio minore del conte di Romena. La vecchia Contessa però volle che prima fosse gettato in Arno il corpo del traditore, e che il pugnale, lordo del sangue di lui, fosse collocato nella sala, in un cofanetto di cristallo, a perpetua memoria di quel fatto. Si dice che ogni anno, nella notte in cui ricorre l'anniversario della uccisione di ser Alamanno, il sangue accagliato sulla lama del pugnale si sciolga, e un'ombra si aggiri nelle sale del castello. Però nessuno l'ha vista, e forse ora che a Poppi non c'è più il pugnale e che da tanti secoli non vi abitano più i Guidi, quell'ombra avrà cessato le passeggiate notturne. - Brava Regina! - esclamò il professor Luigi accorgendosi che la novella era terminata. - Io mi congratulo con voi: siete inesauribile nel narrare. - Lei, signor professore, ha sentito soltanto tre novelle dalla mamma; - disse Vezzosa, - ma non sa che con questa ce ne ha raccontate trentasette, una più bella dell'altra! - E ne so dell'altre! - esclamò la vecchietta. - Fino all'autunno vi terrò allegri; poi non più, e chi sa che, col terminar delle novelle, non finisca anch'io. - Mamma! - esclamarono tutti i Marcucci in coro. - Forse vi sentite male? - No, ma ho un presentimento; mi pare che al ritorno dell'inverno ... - Zitta, mamma! - gridò Vezzosa che vedeva Cecco soffrire per quei discorsi. - Ai presentimenti non bisogna crederci, e noi vi sapremo difendere dalla cruda stagione e vi terremo nell'ovatta. - Ma non mi saprete difender dagli anni; essi passano per tutti, e alla mia età ogni anno conta per dieci. - Mamma, - osservò Cecco per distrarla, - non avete sempre detto che volevate tenere in collo i miei figliuoli come avete tenuto quelli degli altri miei fratelli? Dunque dovete cercar di star sana, perché i marmocchi miei non sono ancora nati. - Ma nasceranno! - disse la vecchia guardando di sottecchi Vezzosa, - e scommetto che poco dopo il Natale, avremo anche noi la nostra natività in famiglia. Hai ragione, bisogna scacciare i pensieri tristi e cercar di mantenersi in gamba, per accoglier degnamente il nostro bimbo. - Ora sì che siete ragionevole, - rispose Cecco. - Voi, mamma, sarete la comare, e al compare ci penseremo. - Il compare, se non vi dispiace, sarò io! - esclamò il professor Luigi. - Avrò così il diritto di chiedervi ogni tanto l'ospitalità, perché, lasciate che ve lo dica, siete una famiglia esemplare, e vivendo con voi ci si sente allargare il cuore. Cecco gongolava e Vezzosa balbettò: - Si figuri, è un onore per noi! Così fu ufficialmente annunziato alla famiglia ed agli ospiti, che la Vezzosa avrebbe avuto un bambino; ed i piccini, da quel momento, non la lasciarono più in pace. Ogni tanto volevan sapere quando ella avrebbe dato loro un cugino, e chi lo voleva maschio e chi femmina. - Aspettate! - rispondeva Vezzosa ridendo, - sarà quel che Iddio vorrà e voi gli vorrete bene. - Oh! questo è sicuro, - dicevano i bimbi. E attendevano impazienti la nascita del figlio di Vezzosa.

Espiazione avrebbe volentieri abbandonato la via maestra per rifugiarsi nei boschi ove sarebbe sfuggito agli insulti; ma una voce che gli parlava continuamente al cuore, gli diceva: - Rammentati che per meritare il perdono devi molto, molto soffrire. Ed egli, ubbidendo a quella voce, cercava gl'incontri e si presentava alla porta dei castelli chiedendo l'ospitalità. Naturalmente nessuno voleva ricoverarlo, e le guardie lo respingevano con insulti e con percosse. - Dio ve ne renda merito! - rispondeva per solito Espiazione. Un giorno giunse a Bibbiena. Il popolo, che non sapeva leggere, lo guardava con una specie di meraviglia e di terrore, ma non capiva quello che portava scritto in petto, Espiazione, che voleva far palese il suo delitto, andò a bussare in casa Dovizi, che era la più sontuosa e magnifica della città, e chiese di parlare al signore. I servi cercavano di respingerlo, ma egli si sedé su un muricciolo accanto al portone, aspettando che il padrone uscisse, e allorché lo vide, gli disse: - Signore, io ti chiedo l'ospitalità; sono sfinito, estenuato; dammi un letto dove riposare e gettami un tozzo di pane. Il signore lo fissò e gli rispose: - Non ospito traditori, ma sono cristiano e non nego un tozzo di pane a chi me lo chiede. E, rientrato in casa, fece gettare dai suoi servi una pagnotta all'infelice. A questa scena avevano assistito molte persone, perché la casa dei Dovizi era situata nella via più popolata della piccola città. Queste, udendo che il forestiero dallo strano ceffo stravolto era un traditore, lo circondarono insultandolo e tirandogli in faccia le immondizie. - Iddio ve ne renda merito! - rispondeva Espiazione. - Di tutto il male che mi farete, io vi renderò sempre grazie, poiché mi spiana la via del Cielo. Il popolo si divertiva a sentirsi ringraziare, e siccome ha istinti feroci, rincarava la dose. Ora non tirava più soltanto all'infelice torzoli, bucce e sterco di cavallo, ma correva in piazza a far provvista di sassi, che scagliava nella testa e nel petto al disgraziato, il quale rimaneva un momento sbalordito, ma appena riavutosi, senza neppur pensare a tergere il sangue che gli correva lungo il volto, ripeteva: - Iddio ve ne renda merito! Egli sorrideva in mezzo ai suoi carnefici, perché udiva la dolce voce, che gli parlava al cuore, ripetere: - Hai molto, molto sofferto; coraggio, il momento del perdono è vicino. Quel baccano chiamò alla finestra la signora del palazzo, la bella e pietosa madonna Chiara Dovizi. Vedendo un uomo disteso in terra e grondante sangue, preso a bersaglio dal popolo, ella ordinò ai servi di raccoglierlo e di portarlo in una camera, sopra un letto, e con le sue stesse mani lavò il sangue delle ferite. Ma Espiazione era giunto all'ultimo istante della sua vita e sorrideva nonostante gli atroci spasimi. Egli chiese un prete, e, confessatosi, morì santamente dopo poche ore. Madonna Chiara, che per volere del morente aveva udito la sua ultima confessione, fece dare al cavaliere della Gherardesca onorata sepoltura nella chiesa di San Francesco, e sopra un mausoleo di marmo fece scolpire lo stemma gentilizio della potente famiglia pisana e il nome che il cavaliere aveva scelto: Espiazione. La badessa Costanza, informata della morte del pentito, scrisse alla famiglia di lui e rimandò a Bolgheri la spada e il pugnale dell'estinto, assicurando che il pentimento sincero aveva lavato la macchia della colpa. - E qui è finita la novella dello stemma sanguinoso, - disse Regina rivolta ai suoi. I ragazzi non erano contenti della fine, e soprattutto volevano sapere se la bella Olimpia era proprio morta in seguito alla ferita, perché dalla novella non si ricavava. - Sì, - rispose la vecchia, - ecco una cosa che avevo dimenticato. I barbareschi, quando la videro esanime, caricarono sopra una barca tutti i tesori tolti alla sposa e quelli che avevano accumulati nella grotta, e andarono a raggiungere una nave che era in alto mare. Intanto il conte Valdifredo si era dato a cercare ovunque la sua bella sposa, e trovatala alfine morta nella grotta, le aveva dato sepoltura nel suo castello. Poi, desolato di tanta perdita, aveva costruito navi per dar la caccia ai barbareschi, e in una di quelle spedizioni aveva perduto la vita. Il castello di Bolgheri era così passato a un cugino, il quale aveva avuto dalla badessa Costanza la restituzione della spada e del pugnale. E dopo una breve pausa, la Regina domandò ai nipoti: - Ed ora siete contenti? - Sì, sì, nonna, contentissimi, e vi promettiamo che domenica saremo meno curiosi. - Peccato che Tonio e l'Annina non sentano le novelle! - disse Gigino. - Ma io le voglio tener a mente, e quando verranno le racconterò. - Che bel pasticcio ne farai! - risposero gli altri. - Pretenderesti forse di saper raccontar come la nonna? Il bimbo, umiliato da quella risposta, arrossì e stava per fare i lucciconi; ma la Vezzosa seppe consolarlo promettendogli che presto sarebbe venuto un bel bimbo, col quale egli si sarebbe potuto divertire; e di quel bimbo disse tante cose carine, che Gigino badava a ripeterle: - Zia, digli che si sbrighi a venire; io mi annoio solo; gli altri sono tutti grandi.

Per non udire questi rimproveri, che in altre condizioni sarebbero costati la vita alla imprudente donna, ser Bindo faceva a meno di farsi assistere da lei, e preferiva essere abbandonato giorno e notte come un cane. Il dottore l'aveva bell'e spacciato; le donne del paese che conoscevano la virtù delle piante, non lo volevano curare; e ser Bindo, in mezzo ad atroci spasimi, si vedeva davanti la morte, che gli metteva un grande spavento perché sapeva che, una volta nel mondo di là, avrebbe dovuto render conto delle sue azioni, e specialmente delle barbarie commesse verso il sangue suo. Un giorno, mentre spasimava e gridava come un cane arrabbiato, si presentò sull'uscio della sua camera un servo, annunziandogli che un frate francescano si offriva di curarlo. - Fatelo entrar subito, - ordinò ser Bindo. Il frate fu introdotto. Era un vecchio con la lunga barba bianca, curvo, cadente. - Fratello, - disse al malato, - io ti reco la salute, affinché tu abbia tempo di pentirti della vita che hai menato. Anche infermo, ser Bindo conservava la violenza dell'animo. Perciò divenne rosso in volto a quel rimprovero, e, drizzatosi sul letto, rispose con voce minacciosa: - Frate, è inutile che tu rimanga presso il mio letto; io non tollero accanto a me chi osa giudicare le mie azioni; vattene! - e con l'indice teso gli accennava la porta. - Non sono le tue ingiurie che mi faranno partire. Vecchio e cagionevole come sono, ho fatto il disagioso cammino dalla Verna a qui, per ordine del beato san Francesco, il quale mi ha ingiunto di disputare la tua vita alla malattia e la tua anima al suo eterno nemico, il demonio. Tu potresti anche minacciarmi di morte, ma io rimarrei! Ser Bindo, non potendosi muovere, urlò, sbraitò, senza che nessuno accorresse alle sue grida; e il frate pregava senza prestar orecchio alle villanìe che il vicario si lasciava uscir di bocca, come se non fossero dirette a lui. Così rimase il frate tutto il giorno accanto al letto dell'infermo, e questi, stanco alfine d'inveire contro di lui, e sentendo aumentare gli spasimi, disse con la sua solita manieraccia: - Se hai un rimedio, usalo, perché io mi sento morir dal dolore. Il frate era sicuro che si sarebbe venuti a questi ferri. Egli cavò da una bisaccia un vasetto di balsamo, e, sfasciate le gambe dell'infermo, le unse tutte con quello, recitando a bassa voce una preghiera. Dopo poco lo spasimo cessò, e ser Bindo, il quale non sapeva più che cosa fosse sonno, dormì profondamente per più ore. Al suo destarsi vide il frate inginocchiato che pregava, benché la notte fosse nel colmo. - Che cosa fai costì? - gli domandò il vicario. - Prego per te e attendo che tu mi chieda di assisterti, - rispose fra' Celestino. - Quale interesse ti spinge a questo? - Nessuno, fratello, altro che quello di redimere un'anima. - Non lo credo. Fra' Celestino non rispose e continuò a pregare. Ser Bindo, invece, si addormentò, ma poco dopo si destò, gridando come un dannato. - Che hai, fratello? - gli domandò fra' Celestino alzandosi e curvandosi su di lui. - Soffri forse nuovi spasimi? Il vicario accennava di no col capo, e quando si fu riavuto un poco rispose: - Frate, io ho veduto in faccia la morte, che mi voleva acchiappare, e dietro a lei v'era una voragine ardente, che ella mi accennava. Dimmi, sull'anima tua, credi tu che quella sia la pena che mi aspetta? - Se non ti penti, lo credo fermamente. L'infermo non aggiunse altro, e poco dopo si riaddormentò. Il frate continuò a pregare con maggior fervore di prima, implorando da san Francesco che intenerisse con un raggio della sua fede quell'anima indurita nel peccato. E san Francesco apparve in sogno al vicario e gli parlò con quella voce dolce che ammansiva le fiere, dimostrandogli la sua perfidia, non solo verso la gente affidata al suo governo, ma principalmente verso la moglie e i figli suoi; e gli fece vedere madonna Bice ramminga per i boschi, portandosi faticosamente in collo i tre bimbi, i tre poveri bimbi storpi, che ella guardava con beatitudine, come se fossero tre angioli di bellezza. - Quella madre è felice, - disse il Santo, - e tu pure potresti esser consolato, poiché la felicità le viene dal sentimento di aver fatto il suo dovere, dalla consolazione di dedicarsi a quelle tre creature. Il cuore indurito del vicario si commosse a quelle parole di san Francesco. - Se potessi ritrovare madonna Bice e ricondurla presso di me! - esclamò. - Se il tuo pentimento è sincero, la ritroverai, e io ti darò una guida sicura per rintracciarla, - disse il Santo, e sparì. Quella volta ser Bindo si destò senza gridare, senza spasimare, e vedendo fra' Celestino inginocchiato e pregante, gli disse: - Frate, metti un poco del tuo balsamo sulle mie ferite: io ho bisogno di guarire, perché debbo rintracciare mia moglie e i miei figli. Il frate non si meravigliò udendolo parlare in quel modo, perché sapeva che san Francesco aveva la virtù di operare grandissimi miracoli; e col balsamo unse le piaghe del vicario. Quelle piaghe si rimarginavano a vista d'occhio, e l'infermo non cessava di domandare quando sarebbe stato guarito, perché era punto dal desiderio di partire presto. Allorché in capo a tre giorni le gambe ritornarono sane come prima, ser Bindo disse al frate: - Ora che il corpo è guarito, curiamoci l'anima, venerando fratello. E inginocchiandosi dinanzi a lui, fece ampia confessione de' suoi peccati, accompagnando la narrazione con lacrime di sincero pentimento. Il frate pure piangeva commosso, vedendosi dinanzi quel grande peccatore ammansito dalla parola di san Francesco, e ringraziava umilmente il venerato capo del suo ordine di averlo scelto per istrumento della conversione di ser Bindo. Appena il vicario si fu alleggerito la coscienza da quel peso, ed ebbe pronunziato l'atto di contrizione, promettendo di scontare con tante opere di carità le sue azioni malvage, ordinò che gli fosse sellato un cavallo, e, vestitosi in fretta, partì alla ricerca di madonna Bice e dei suoi figli. Fra' Celestino lo accompagnò con le sue preghiere, e quando ser Bindo ebbe sceso il monte di Poppi, vide avverarsi la promessa del Santo, poiché da una siepe sbucò fuori un cane da pastori, che prima abbaiò per salutarlo e quindi si pose avanti al cavallo, servendo di guida al cavaliere. Così camminarono lungamente, finché il cane non si fermò sul limitare di un bosco. Il vicario vi spinse il cavallo e avrebbe voluto andar oltre, ma il cane si diede a saltargli alle gambe, quasi lo volesse trattenere. Era già notte, e ser Bindo capì che doveva pernottare in quel luogo, forse per non turbare il riposo della madre e dei bambini. Egli scese dunque da cavallo, e dopo aver mangiato le poche provviste che aveva seco, legò il cavallo a un albero sotto il quale si distese e dormì placidamente come non aveva dormito dopo che la sua anima s'era macchiata da tanti peccati. Gli uccelli, che salutavano il nuovo sole, lo destarono al far del giorno. Allora ser Bindo rimontò a cavallo, e questa volta il cane non si oppose alla sua andata; anzi, abbaiando festosamente, lo guidò fra i castagni, fino a una siepe di foltissimi pruni, che si diede a strappare con le zanne. Il cavaliere capì, e, balzando di sella, trasse la spada e cercò di aprirsi un varco nel prunaio. Ma in questo lavoro si forava le mani, lasciava la pelle attaccata agli spini e sanguinava da tutte le parti. Nonostante non cessava di tagliare per giungere alla moglie; ma ogni tanto il pensiero di vedersi davanti i tre storpiati gli toglieva il coraggio di proseguire, e allora gli veniva la voglia di scappar lontano, di lasciare madonna Bice e i tre bimbi al loro destino. In quei momenti di scoraggiamento sentiva o gli pareva di sentire la dolce voce del Santo che gli diceva: - Prosegui nella via del pentimento; non ti saranno rimessi i peccati altro che se tu ricondurrai a casa la infelice madre e i tre bimbi. E allora ser Bindo riprendeva coraggio e tagliava con più energia i pruni. Finalmente egli forò quella folta parete, e l'occhio suo si portò nel centro della spianata dove sorgeva la fontana. E quale non fu la sua gioia quando, invece di tre bimbi macilenti e deformi, vide saltare tre creature sane, belle e allegre, che si baloccavano con un caprettino di latte e ridevano delle capriole della bestiolina. Ser Bindo, senza pensare ai pruni, fece uno strappo alla pungente barriera, e in pochi salti fu accanto ai bambini e se li strinse al cuore coprendoli di sangue. Essi gettarono un grido, e madonna Bice, che era nella capanna, accorse spaventata. Ma quando ella vide il marito che accarezzava le sue creature, non poté più camminare, non poté più parlare, e cadde in ginocchio alzando le mani al cielo, in atto di profondo ringraziamento. Ella non disse al marito una sola parola di rimprovero per le sue barbarie, e appena poté moversi, corse ad attingere acqua alla fontana e con quella gli lavò le ferite. Il sangue si stagnò improvvisamente, e ser Bindo, commosso da tanta dolcezza, s'inginocchiò dinanzi alla moglie e le disse umilmente : - Mi perdoni? Ella non poté rispondere, ma gli prese la mano e la bagnò di lacrime. Poche ore dopo ser Bindo faceva salire a cavallo madonna Bice, le poneva fra le braccia i due figli maggiori, ed egli, tolto Landino in collo, conduceva il cavallo per la briglia fino al castello di Poppi. In quel momento il cane che lo aveva guidato fece un lancio e, abbaiando, sparì. La gente accorreva meravigliata sulle porte delle case per vedere passare il prepotente signore, ora così umile, e bisbigliava che soltanto un grande miracolo poteva averlo cambiato a quel modo. - Salute, fratelli! Salute, sorelle! - diceva ser Bindo passando accanto alla gente. - Pregate per l'anima mia! Da quel giorno il vicario non commise più nessuna prepotenza a danno del popolo a lui affidato, e fu eccellente marito e padre esemplare. Egli spese tutte le sue ricchezze in elemosine e nella costruzione di una chiesa, che fece erigere nel luogo dove la moglie e i figli suoi avevano passato un anno, e che dedicò a san Francesco. L'acqua della fontana, che aveva servito a togliere la deformità ai tre storpi di madonna Bice, sgorga ancora; ma ha perduto la sua virtù; forse perché nessuno l'ha usata con la stessa fede dell'infelice madre, la quale morì in tarda età, venerata da tutti e invidiata dalle altre donne per il valore, la saggezza e la generosità dei suoi figli. Qui la Regina tacque e la Vezzosa prese a dire: - Anche voi, mamma, siete invidiata per aver d'intorno una nidiata di figliuoli sani, buoni e operosi; ma a voi sono state risparmiate le prove dolorose che ebbe a sopportare madonna Bice prima di conseguire quella felicità, non è vero? La vecchia guardò la giovine sposa, poi chinò il capo, e il suo volto, di consueto così sereno, si rannuvolò. Cecco, che aveva seguìto quella scena muta, si accostò alla moglie e la tirò per la manica, affinché non ripetesse l'intempestiva domanda; poi andò verso la mamma, e, per toglierla dall'abbattimento nel quale l'avevano piombata le parole di Vezzosa, la invitò ad andare a letto. Nessuno osò più parlare quella sera, e la veglia incominciata gaiamente, terminò molto triste. - Ma che mistero c'è sotto? - domandava Vezzosa al marito. - Lo saprai, ma ora taci; non vedi come tutti si sono fatti silenziosi?

Il conte Selvatico riposava col capo abbandonato sui guanciali, e nessuna visione incresciosa ne turbava il sonno. Allorché egli aperse gli occhi, la mattina seguente, domandò alla moglie: - Come mai, madonna, l'ombra del Sire francese mi ha dato tregua? - Gli è, signor mio, - replicò Manentessa, - che il suo corpo riposa in pace, ed io per amor tuo feci atto di cui non mi credevo capace. E costì ella raccontò al conte Selvatico come aveva fatto a rinvenire le ossa del Sire di Narbona. Peraltro ella non palesò al marito l'incontro con le altre ombre, e la promessa che le avevano strappata ma che non poteva mantenere, perché non c'erano più ceri pasquali nella cappella del castello. Furono fatte grandi feste per la guarigione del signore di Pratovecchio, ma intanto che Selvatico riacquistava la forza e la baldanza, la Contessa si faceva bianca come un giglio e si struggeva ogni giorno più. Questo dipendeva dalle angosce che pativa ogni notte, quant'era lunga, poiché appena ella si riduceva nella sua camera, lo stuolo delle ombre incontrate sul limitare del pian di Campaldino, le si faceva d'attorno, e con minacce e con preghiere le rammentava la promessa. - Non vi sono più ceri pasquali e non posso tentare la prova, - rispondeva. - Non importa, sotterraci, sotterraci! - gridavano le ombre. E la trascinavano a forza fuori della sua camera e del suo castello fino al pian di Campaldino, dove la costringevano a prender la terra e a coprirne i monti d'ossami. Quel lavoro durava più ore di seguito, e all'alba la povera perseguitata si riduceva mezza morta nel suo palazzo, dove celava a tutti le angosce della notte. Una febbre continua la limava, ma le ombre implacabili ogni notte la costringevano al duro lavoro, e in breve i mucchi d'ossami non furono più esposti al sole e al sereno, ed ella ebbe un po' di tregua. Ma allora ricominciarono le tribolazioni del signore di Pratovecchio. Una notte, mentre egli dormiva placidamente, sentì la voce del Sire di Narbona, la voce tremenda che lo aveva così a lungo turbato, che diceva: - Le mie ossa sono di nuovo sopra la terra; io non ti lascerò requie finché non le avrai riunite tutte in un sepolcreto. I predoni scavarono la fossa e rubarono il cerchio d'argento che portavo al polso destro; ricuperalo. Il conte Selvatico aprì gli occhi e vide a fianco del letto la solita ombra. Allora, rivoltosi a lei, così disse: - All'alba monterò a cavallo con i miei uomini e batterò i boschi per iscoprire i predoni e ricuperare il tuo anello. Ma facciamo un patto; lasciami otto giorni di tregua. - Accetto, - disse l'ombra, - fra otto giorni soltanto mi rivedrai, - e sparì. Il Conte si armò di tutto punto e partì infatti all'alba per i boschi di Prataglia, dove sapeva si annidavano i predoni, che facevano scorrerìe nel contado. Era seguìto da un forte drappello di gente, parte a piedi parte a cavallo. La Contessa lo accompagnava con le sue preghiere, ma era afflitta, molto afflitta di vederlo partire per una spedizione così pericolosa. Dopo lungo cavalcare per monti e per boschi, giunse il signor di Pratovecchio a un casolare basso e affumicato. In sulla porta vi erano alcuni uomini che, al vederlo, si barricarono nella capanna, e dalle finestrine incominciarono a scoccar dardi contro di lui e contro i suoi. - Arrendetevi! - gridò il Conte, che intanto aveva fatto circondar la capanna da ogni lato. Gli altri risposero con una pioggia di sassi. - Appiccate il fuoco! - ordinò il Conte. In un momento furono radunate molte fascine ai quattro angoli del casolare, e le fiamme in breve ne lambivano le mura. I predoni, vedendo che non restava loro più scampo, salirono dal camino sul tetto, e continuarono a lanciare dardi e tegole. Il conte di Pratovecchio abbatté la porta con l'asta, e quindi, precipitatosi in mezzo alle fiamme, si diede a cercare. Vi erano ammassate in quella stamberga spade, misericordie, elmetti, contesti d'oro, cinture di prezioso metallo, ma il Conte non si curava di tutti quei tesori. Cercava il cerchio d'argento del Sire di Narbona, che trovò ancora infilato all'osso attorno al quale era stato ribadito, e appena l'ebbe intascato uscì da quella voragine. Di lì a poco il tetto crollò con gran rumore, e i predoni caddero nelle fiamme trovandovi la morte. Allorché l'incendio fu spento, gli uomini del conte Selvatico rinvennero fra le ceneri gran copia di argento e di oro fusi, e molte pietre preziose. Essi caricarono tutto sopra una mula e cavalcarono verso Pratovecchio. Due giorni dopo il Conte e la Contessa si recarono in processione al pian di Campaldino, e quivi riuniti in una cassa di quercia i resti mortali del Sire di Narbona li deposero nella cappella della chiesa di San Giovanni Evangelista. Con l'oro e l'argento tolto ai predoni essi fecero scolpire a Firenze, da Giotto istesso, un mausoleo di marmo con l'effigie del Sire di Narbona, vestito della armatura e posto a giacere sulla cassa. Da quel tempo l'ombra del cavaliere non funestò più i sonni del conte di Pratovecchio, ma è certo che la pia Manentessa non riuscì con le sue mani a coprir di terra le ossa di tutti i morti di Campaldino, perché ancora si dice che chi viene a passar di notte in prossimità del campo, vede delle ombre avvolte in lenzuoli bianchi. Per anni e anni l'aratro non è mai passato su quei campi, che bevvero il sangue de' guelfi di Firenze e de' ghibellini di Casentino, ma ora che il piano è di nuovo coltivato, ogni tanto si trovano mucchi d'ossa bianche, sulle quali la contessa di Pratovecchio aveva sparso la terra. E qui la novella è finita. - Voi, babbo, - domandò l'Annina, rivolta a Maso, - voi che passate dal pian di Campaldino anche di notte, per andare alla fiera di Pratovecchio o di Stia, l'avete viste le ombre? - Io no; ho visto bensì qualche volta delle ombre nere sul terreno, ma eran le ombre dei pioppi. L'Annina tempestò di domande tutti gli zii a uno a uno, ma da tutti ebbe la medesima risposta. Ombre non ne avevan vedute. Cecco poi l'assicurò che i morti non tornano. - Ma io non ci passerei davvero, di notte, da Campaldino, - disse l'Annina, dopo che Cecco si fu sgolato a dimostrarle che le ombre non si vedevano. - Domani sera, - disse la Regina, - vi racconterò una novella più allegra. - Come si chiama? - domandarono i bimbi. - La Novella del frate zoppo; - rispose ella, - ora andate a letto e dormite in pace, come in pace riposa il Sire di Narbona.

Di questo mi affliggevo molto, ma non ne facevo parola con nostra madre, la quale, abbandonato il governo dei feudi a Roberto, passava la vita ritirata nelle sue stanze, in mezzo alle donne, occupata in lavori d'ago e in preghiere. - Giunse il giorno malaugurato della giostra, e quei malvagi che mi avevano sempre incitato contro il fratel mio, presero a dirmi che non dovevo lasciarmi sfuggire quella occasione e dimostrargli che lo vincevo in prodezza, in valore, e che più di lui ero degno di portare il titolo di duca. - Mi guardi il Cielo di accusare loro soli del mio peccato; se non avessero trovato in me un uditore compiacente, se la perfidia dell'anima mia non fosse stata loro palese, non avrebbero osato parlarmi in cotal maniera. Stava a me a non prestare ascolto a quelle parole malvage, e purtroppo non seppi né volli farlo! - Da tutte le parti della Sicilia i baroni avevan risposto all'invito del duca Roberto, e il prato dinanzi al nostro fortissimo castello, che cinge tutta la cima di un alto e aspro monte, era pieno di cavalieri pronti a scendere nella lizza, coperti di ricche armature, e montati sopra corsieri impazienti. - In un palco, eretto sul fondo del prato, stava mia madre, e aveva a fianco la fidanzata di Roberto, la contessina Costanza, bella e riccamente adorna di monili gemmati, poiché le nozze si dovevano celebrare il giorno successivo al torneo. - Roberto scese in campo, e io, nel vederlo, mi sentii ribollire il sangue, perché le trombe lo salutarono e i baroni abbassarono la spada in segno d'omaggio. - Corse egli contro un barone e lo scavalcò, e mentre si formava di nuovo il campo, mi presento io con la visiera calata, vestito di un'armatura senza stemma, e cavalcando un cavallo preso a prestito da un signorotto, che era fra i più acerbi nemici del duca Roberto. Mi si domanda il mio nome; io altero la voce e rispondo che non voglio rivelarlo, ma desidero misurarmi col Duca. Questi accetta l'inusitato invito; corriamo, io lo incalzo, lo assalgo come un forsennato per aver la soddisfazione di vederlo dinanzi a me per terra, e ci riesco. Ma che vanto doloroso! - Roberto, nel cadere, era rimasto con un piede nella staffa, e il cavallo, spaventato, s'era dato a correre trascinando seco il cavaliere. - Accorsero i valletti a fermarlo; i baroni circondarono il duca, ma quando gli ebbero sciolto il cimiero e slacciata la maglia, il suo cuore non batteva più. Vidi mia madre cadere svenuta, la bella contessina Costanza piangere, ed io, preso dal rimorso, approfittando di quel momento di confusione, mi diedi a fuggire giù per il monte spronando il cavallo a corsa precipitosa, e non mi sarei mai fermato se l'animale, a un certo punto, non avesse rifiutato di andar oltre. Ormai il rimorso mi perseguitava e non avevo più pace. - Entrai in una casa di contadini e domandai ricovero per la notte. Mi fu concesso in una capanna; ma appena mi fui addormentato, così vestito e armato come ero, sopra un mucchio di fieno accanto al mio cavallo, cui non avevo tolta la sella, venni destato da un rumore di voci. Aprii gli occhi e vidi intorno a me molta gente in atto minaccioso, che mi gridava: - "Ecco l'uccisore di Roberto! Ecco il fratricida!" - Balzai in sella, mi feci largo con la spada e corsi a precipizio nella campagna, inseguìto da quelle grida che mi giungevano al cuore come una maledizione. - Giunto a Messina, volli imbarcarmi sopra una nave che andava a Reggio, per fuggire l'isola, sperando di fuggire il rimorso del mio delitto. - A Messina incontrai quei malvagi che mi avevano incitato nell'odio contro il fratel mio, i quali ad ogni costo mi volevano ricondurre al nostro castello dicendomi che io non dovevo soverchiamente affliggermi, poiché non avevo ucciso mio fratello. Se era morto, lo doveva alla sua imperizia nel maneggiar l'armi e nello stare in sella, e che non era giusto che, per una fisima, io rinunziassi a ereditare i titoli e le baronie che mi spettavano. - Chiusi gli orecchi a quei suggerimenti e volli andarmene ramingo per il mondo a espiare il mio peccato. M'imbarcai infatti, e, giunto in Calabria, mi diedi a difendere i deboli contro i forti, gli oppressi contro gli oppressori. Ma non ero stato un giorno in paese, che, per mia punizione, non venisse scoperto l'essere mio, e non fossi additato come l'uccisore di mio fratello. - Così pellegrinai fino a Roma, cibandomi scarsamente, pregando, combattendo per i miseri. Quivi, in San Giovanni Laterano, feci la confessione generale dei miei peccati, e il buon vescovo che mi assolse, mi disse di sperare nella misericordia divina e di far vita da eremita. - Ripresi quindi il pellegrinaggio cercando un luogo alpestre e solitario, vicino a un paese dove potessi giovare in qualche modo al prossimo mio, e mi stabilii su questo prato. Or sono quarant'anni che vi dimoro, ed è quassù che ho avuto la suprema consolazione di sapere che il mio peccato era perdonato. Me ne sono accorto vedendo che il Signore si è servito di me per beneficarvi, ed ha esaudito le mie preghiere. - Ora sono presso alla morte, e questa confessione spero vi sarà d'esempio a non cedere alle passioni, e a non dare ascolto ai cattivi suggerimenti. Il vecchio ricadde estenuato su quel tappeto di erbe aromatiche e di fiori, e il popolo si affollò intorno a lui, piangente, per baciargli la mano e il saio. La contessa Sofia fece cenno che l'agonia del Romito non fosse turbata, e ordinò alla folla di pregare. E mentre tutti rivolgevano a Dio preci per il morente, l'anima di lui si sprigionava dal corpo e, accompagnata da quel coro unanime, saliva lentamente al cielo. Allora avvenne un fatto non mai accaduto. Si alzò una brezza dolcissima e in un momento si videro turbinare nell'aria migliaia e migliaia di fiori, che andarono a coprire il corpo del santo Romito, mentre su nel cielo tante e tante voci dolcissime cantavano: Osanna! Quando la contessa Sofia, a capo della processione, tornò piangendo in paese, vide che non era più la sola fonte detta Buca del Tesoro che gettava l'acqua salutare, ma che dal terreno sgorgavano in molti punti delle fonti della stessa acqua. Da quel tempo in poi Chitignano salì in rinomanza per le sue sorgenti, e quell'acqua ha sanato più malati che non ci sono stelle in cielo e pesci in mare. La Regina tacque e Maso disse: - Mamma, avete fatto bene a raccontar questa novella. Non si sa mai se nell'anima di qualcuno dei bambini che vi ha ascoltata non vi sia la pianta velenosa dell'invidia. Quest'esempio basterà loro ad estirparla, perché quel Romito, prima di giungere al prato di Casella, deve aver patito quanto Caino. Noi, se Dio vuole, - aggiunse guardando sorridente i fratelli, - l'invidia non abbiamo mai saputo che faccia avesse, e ci siam voluti bene davvero. - E spero che ve ne vorrete anche quando io sarò sottoterra, - disse la Regina. - Fratelli, non è un miracolo che vi vogliate bene, - saltò su a dire la Carola. - Ma che non è una cosa rara di veder quattro cognate che van d'accordo più che sorelle? Scommetto che se giraste mezzo mondo, non ne trovereste altre quattro come noi! E ora tocca a te, Cecco, a mettere in casa una donna buona, e che sia del nostro medesimo sentimento. Moglie la devi pigliare, e di gusto tuo; ma prima di prenderla guarda che sia davvero una donna come si deve. Cecco sorrise e non disse né si né no; ma siccome quel discorso lo noiava, rispose alla Carola che ne lasciava a lei la scelta. Durante questo discorso, Vezzosa s'era tirata da parte e adagio adagio aveva preso a leggere Le mie prigioni Cecco le si avvicinò e le disse: - Pigliate pure codesto libro, poiché non è di quelli che mettono i grilli in testa; anzi, è uno di quei libri che tutti dovrebbero leggere. - Grazie, Cecco, - rispose la ragazza, e lo nascose sotto il grembiale. Quella sera, nel percorrere il breve tragitto che separava il podere dei Marcucci da quello del Vezzosi, padre della bella ragazza, i due giovani parlarono soltanto della bontà d'animo che traspariva dal libro del Pellico fin dalle prime pagine. Peraltro, Cecco, nel lasciare la Vezzosa, le disse: - A domenica, non è vero? - A domenica, - rispos'ella.

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