Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonato

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Se non ora quando

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Levi, Primo 7 occorrenze

Quando lo ebbero raggiunto, videro che era un mulino ad acqua, abbandonato e semidistrutto; la ruota a pale arrugginita pescava in un' acqua melmosa che si faceva strada in meandri attraverso le paludi. Doveva essere lo Ptic: Novoselki non poteva essere lontana. Dall' altra parte del fiume il terreno era più solido: si distingueva in lontananza una modesta altura rivestita di alberi scuri, querce od ontani. Trovarono una vecchia pista di boscaioli, invasa da rovi e foglie morte. Mendel si rimise gli stivali, Leonid rimase scalzo, con le sole pezze da piedi a protezione contro le spine. Dopo mezz' ora di cammino esclamò: _ Toh! vieni a vedere! _ Mendel si volse e gli vide in mano una bambola: una povera bamboletta rosa, nuda, mutilata di una gamba. La accostò al naso, e percepì un odore dell' infanzia, l' odore patetico della canfora, della celluloide; per un attimo, evocate con violenza brutale, le sue sorelle, l' amichetta delle sorelle che sarebbe diventata sua moglie, Strelka, la fossa. Tacque, trangugiò, poi disse a Leonid con voce piana: _ Queste cose non si trovano nei boschi. Sulla destra della pista c' era una radura, e nella radura videro un uomo. Era alto, magro, pallido e stretto di spalle; quando si accorse di loro cercò goffamente di scappare o di nascondersi: gli diedero una voce e lui li lasciò avvicinare. Era vestito di stracci e portava ai piedi un paio di sandali ricavati da copertoni d' auto; teneva in mano un fagotto d' erbe. Non sembrava un contadino. Gli domandarono: _ È qui il paese degli ebrei? _ Qui non c' è nessun paese, _ rispose l' uomo. _ Ma tu non sei ebreo? _ Sono un profugo, _ disse; ma l' accento lo tradiva. Leonid mostrò la bambola: _ E questa, da dove viene? Lo sguardo dell' uomo si spostò di un piccolo angolo: qualcuno stava avvicinandosi, alle spalle di Leonid. Era una bambina, bruna e minuta; gli prese la bambola dalle mani, dicendo tutta seria: _ È mia. Sei stato bravo a trovarla.

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Il tutto doveva essere stato abbandonato da decine di anni, forse fin dal tempo della guerra civile, perché ontani, querce e salici erano cresciuti a ridosso delle pareti, ed alcuni addirittura all' interno, mettendo radici nei cumuli di detriti e cercando la luce attraverso i vuoti del tetto. Era ormai quasi scuro. Adam fece attendere i due all' esterno, nella corte invasa da erbacce scalpicciate; ritornò poco dopo e li introdusse in una camerata dal pavimento coperto di paglia e steli di girasole, dove già aspettava molta gente, seduta e coricata. Arrivarono anche i bambini, e a tutti fu distribuita nella semioscurità una minestra di erbe. Non c' erano luci; due donne prepararono i bambini per la notte; venne ancora Adam, e raccomandò ai due nuovi venuti di non accendere fiammiferi. Mendel e Leonid si sentivano custoditi e protetti. Erano stanchi; solo per qualche minuto furono coscienti del sussurrare dei loro vicini, poi caddero nell' incoscienza del sonno. Mendel si risvegliò al mattino con l' impressione allegra-inquieta di trovarsi in un altro mondo e in un' altra epoca: forse in mezzo al deserto, in marcia per quarant' anni verso il paese promesso, forse entro le mura di Gerusalemme assediata dai Romani, forse invece nell' arca di Noè. Nella camerata, oltre a loro due, non erano rimasti che due uomini e una donna, tutti e tre di mezza età, che sembravano ammalati: non parlavano russo né jiddisch, bensì un dialetto polacco. Bambini, forse gli stessi della sera avanti, si affacciavano all' uscio, incuriositi ma silenziosi; entrò una ragazza, piccola e smilza, con un mitragliatore a tracolla, vide i due estranei ed uscì subito senza fare domande. Si sentiva intorno un tramestio sommesso, come di topi in un solaio: brevi richiami, un battere di martello, il cigolio di una catena di pozzo, il canto rauco di un galletto. L' aria che entrava dalle finestre aperte, insieme con il fiato umido delle paludi e del bosco, trascinava altri sentori aspri ed inconsueti, di drogheria, di bruciaticcio, di retrobottega e di miseria. Venne Adam poco dopo e li invitò a seguirlo: Dov, il capo, li aspettava. Li aspettava al Comando, precisò con orgoglio, ossia in una cameretta dalle pareti rivestite di tavole d' abete, occupata per metà dalla stufa in muratura, al cuore della grossa capanna che era stata il rustico del monastero. Sulla stufa ed accanto ad essa erano tre giacigli, e presso la porta era un tavolo di assi inchiodate e non piallate: non c' era altro. Anche la sedia su cui Dov sedeva appariva solida ma rozza, opera di mani esperte ma poco aiutate dagli attrezzi. Dov era di mezza età, basso di statura ma di ossa robuste e di spalle larghe: senza essere propriamente gobbo, aveva la schiena curva e portava il capo chino come se reggesse un carico; perciò guardava i suoi interlocutori dal basso verso l' alto, come al di sopra del bordo di occhiali inesistenti. I suoi capelli, che dovevano essere stati biondi, erano quasi bianchi ma ancora folti: li portava accuratamente pettinati, con una scriminatura diritta. Aveva mani grosse e forti; quando parlava le teneva immobili, pendenti dagli avambracci, e le guardava ogni tanto come se non fossero sue. Aveva viso quadrato, occhi fermi, tratti onesti, logori ed energici, parola lenta. Fece sedere i due sul giaciglio che stava accanto alla stufa e disse così: _ Vi avrei accolti in ogni caso, ma è fortuna che siate soldati: gente che viene qui per trovare protezione ne abbiamo già troppa. Vengono anche da lontano, a cercare la sicurezza. Non hanno torto, è il posto più sicuro che un ebreo possa trovare nel raggio di mille chilometri, ma questo non vuol dire che sia un posto sicuro. Non lo è affatto: siamo deboli, male armati, non siamo in condizioni di difenderci da un attacco serio. Siamo anche troppi: anzi, non sappiamo neppure quanti siamo, momento per momento. Ogni giorno c' è gente che arriva e parte. Oggi siamo una cinquantina; non tutti ebrei, ci sono anche due o tre famiglie di contadini polacchi: i nazionalisti ucraini gli hanno rubato le scorte e il bestiame e gli hanno incendiato le case, erano terrorizzati e sono venuti qui. Gli ebrei vengono dai ghetti, o sono scappati dai campi di lavoro forzato dei tedeschi. Ognuno di loro ha una storia spaventosa alle spalle; ci sono vecchi, donne, bambini ed ammalati. Solo una dozzina di giovani sa usare le armi. _ Che armi avete? _ chiese Mendel. _ Poche. Una dozzina di granate a mano, poche pistole e fucili mitragliatori. Una mitragliatrice pesante con munizioni per cinque minuti di fuoco. Per nostra fortuna, finora i tedeschi qui si sono visti di rado; le loro truppe migliori sono risucchiate dal fronte, che è lontano centinaia di chilometri: da queste parti c' è solo qualche presidio disseminato qua e là, a requisire gli approvvigionamenti e la mano d' opera e a sorvegliare le strade e le ferrovie. Sono più pericolosi gli ucraini; i tedeschi li hanno inquadrati e armati, e li indottrinano: come se ce ne fosse bisogno! Hanno sempre considerato i polacchi e gli ebrei come i loro nemici naturali. _ La miglior protezione che il campo abbia sono le paludi. Ce n' è per decine di chilometri, in tutte le direzioni, e per attraversarle bisogna conoscerle bene: in alcune l' acqua arriva al ginocchio, ma in altre è più alta di un uomo, e i guadi sono pochi e difficili da trovare. Ai tedeschi non piacciono, perché nelle paludi la guerra lampo non si fa: ci si impantanano perfino i carri armati, tanto peggio quanto più sono pesanti. _ ... ma d' inverno geleranno! _ D' inverno è il terrore. D' inverno il bosco e la palude diventano nostri nemici, i peggiori nemici della gente nascosta. Gli alberi perdono le foglie, ed è come rimanere nudi: gli aerei di ricognizione possono vedere tutto quello che accade. Le paludi gelano e non sono più una barriera. Sulla neve si possono leggere le orme. E dal freddo ci si può difendere solo col fuoco, ma ogni fuoco fa fumo, e il fumo si vede di lontano. _ E non vi ho ancora parlato del cibo. Anche per il cibo non abbiamo certezza. Qualcosa viene dai contadini, ottenuto con le maniere buone o altrimenti; ma i villaggi sono poveri e sono lontani, e ci pensano a spogliarli i tedeschi e i banditi. Qualcosa viene dai partigiani, che però d' inverno hanno gli stessi nostri problemi: ma qualche volta ricevono rifornimenti coi paracadute, e allora qualche cosa arriva fino a noi. Qualcosa, infine, viene dal bosco, erbe, rane, carpe, funghi, bacche, ma solo d' estate; d' inverno niente. D' inverno è il terrore e la fame. _ Non c' è modo di avere contatti migliori con i partigiani? _ Finora abbiamo solo avuto contatti irregolari. Del resto, che cosa c' è di più irregolare della partisanka? Sono stato con loro, fino all' altro inverno: poi mi hanno riformato, perché per loro ero vecchio, e poi ero stato ferito e non potevo più correre. Le bande della zona sono come gocce di mercurio: si fondono, si scindono, si riuniscono; vengono distrutte e se ne formano di nuove. Le più grosse e stabili hanno la radio e tengono i contatti con la Grande Terra .... _ Che cosa è la Grande Terra? _ La chiamiamo così anche noi: è il territorio sovietico di là dal fronte, quello non occupato dai nazisti. La radio è come il sangue, grazie alla radio ricevono ordini, rinforzi, istruttori, armi, viveri. Non solo con i paracadute; quando è possibile, gli aerei della Grande Terra atterrano in zona partigiana, scaricano uomini e merci, caricano ammalati e feriti e ripartono. Qui invece le cose vanno meglio d' inverno, perché per gli aerei ci vuole un aeroporto, o almeno un tratto di terreno piano e sgombro; ma un terreno così si vede bene dall' alto, e i tedeschi, appena lo hanno visto, si affrettano a buttarci le bombe e a renderlo impraticabile. Invece, d' inverno qualunque lago o palude o fiume può servire, purché il ghiaccio sia abbastanza spesso. _ Ma non dovete pensare a un servizio regolare. Non tutti i lanci e gli atterraggi vanno a buon fine, e non tutte le bande sono disposte a dividere le loro cose con noi. Molti capibanda ci considerano bocche inutili perché non combattiamo. Proprio per questo dobbiamo dimostrarci utili, e questo si può fare in diversi modi. In primo luogo, qui chiunque è in grado di camminare e di sparare deve considerarsi un partigiano, contribuire alla difesa, e se i partigiani lo richiedono deve unirsi a loro. In effetti, fra le bande e il monastero c' è uno scambio continuo, e il monastero stesso, finché i tedeschi non lo scopriranno, è un discreto rifugio anche per i partigiani feriti o stanchi. Ma si può anche fare altro, e noi lo facciamo. Rattoppiamo i loro vestiti, laviamo la biancheria, conciamo pelli con la corteccia di quercia, e con le pelli facciamo stivali: sì, è l' odore dei bagni di concia questo che sentite. E con la corteccia di betulla fabbrichiamo la pece perché il cuoio degli stivali resti morbido e resista all' acqua. Tu hai un mestiere? _ chiese rivolto a Mendel. _ Di mestiere sono orologiaio, ma facevo il meccanico in un kolchoz. _ Bene, un lavoro te lo troviamo subito. E tu, moscovita? _ Ho studiato da contabile. _ Questo ci serve un po' meno, _ rise Dov. _ Tenere la contabilità mi piacerebbe, ma non si può. Non si riesce neppure a contare la gente che va e che viene. Qui arrivano ebrei scampati per miracolo ai massacri delle SS; arrivano contadini in cerca di protezione; arriva gente dubbia con cui dobbiamo stare attenti. Potrebbero anche essere spie, che possiamo farci? Non c' è da fidarsi delle loro facce, come io adesso mi fido delle vostre: un servizio segreto non ce l' abbiamo. Molti arrivano qui, altri partono o muoiono. Partono i giovani, col mio permesso o senza: preferiscono aggregarsi stabilmente ai partigiani, piuttosto che vegetare in questa repubblica nella fame e nella paura. Muoiono i vecchi e i malati; ma muore anche gente giovane e sana, di disperazione. La disperazione è peggio della malattia: ti viene addosso nei giorni di attesa, quando mancano le notizie e i contatti, quando si annunciano movimenti di truppe tedesche o di mercenari ucraini e ungheresi: aspettare è mortale come la dissenteria. Contro la disperazione ci sono solo due difese, lavorare e combattere, ma non sempre bastano. Ce n' è anche una terza, che è di raccontarci delle bugie uno con l' altro: ci caschiamo tutti. Bene, il discorso è finito; è una bella cosa che siate arrivati armati, ma se aveste portato una ricetrasmittente sarebbe stato meglio. Pazienza, non si può avere tutto, neppure a Novoselki. Entrarono subito nei turni di guardia; era il servizio più importante della comunità, ed allo scopo servivano bene le due vecchie torrette del monastero. Di regola, ogni rifugiato valido doveva fare dodici ore di lavoro, otto di riposo e quattro di guardia, divise in due turni di due ore; questo comportava complicazioni, ma Dov teneva un orario preciso ed esigeva che fosse rispettato. La notte stessa Mendel montò di guardia con la ragazza smilza che aveva intravista nel dormitorio, ognuno nella sua torretta; seppe da lei che si chiamava Line, ma poco di più. Smontando, le chiese: _ Ho uno strappo nei pantaloni. Per favore, me lo potresti rammendare? _ Line rispose asciutta: _ Ti darò ago e filo, poi ti arrangi: io non ho tempo _. Alzò la lanterna e guardò Mendel in viso, con un' attenzione quasi insolente: _ Dove ti sei fatta quella cicatrice? _ Mendel rispose: _ Al fronte, _ e Line non insistette e se ne andò a dormire. Leonid, invece, si era trovato in coppia con Ber, occhialuto ed ancora quasi bambino, anche lui avaro di parole. Il lavoro nella conceria, a cui entrambi furono avviati, si svolgeva in mezzo a fumi disgustosi, in un silenzio interrotto solo dallo sciacquio dei tini e da brevi sussurri. Con visi chiusi, uomini e donne raschiavano le pelli per eliminare il carniccio e il pelo: erano pelli di coniglio, di cane, di gatto, di capra. Niente andava sprecato, i residui carnosi delle pelli più recenti venivano messi accuratamente da parte per servire come ingrasso. Altri facevano bollire cortecce d' alberi o tendevano le pelli su telai di legno. Si adattarono presto a quel genere di vita ed a quell' ordine ossessivo e paradossale, che sembrava mantenuto da ciascuno con lo sforzo e l' ostinazione di ogni minuto. Non c' erano pasti comunitari: a metà giornata ed alla sera ci si metteva in fila davanti alle marmitte della cucina, poi ognuno si rincantucciava a consumare in silenzio quanto aveva ricevuto: per lo più una magra zuppa d' erbe con qualche pezzo di patata, raramente un po' di carne o di formaggio, una cucchiaiata di mirtilli, un bicchiere di latte. Adam, forse appunto perché era il più anziano, era l' unico che non avesse dimenticato il piacere di raccontare: _ Dov? È uno che non si tira indietro. Guai se non ci fosse lui a comporre i litigi. Ha visto le sue, Dov, e viene di lontano. Viene da un villaggio sperduto sull' altipiano della Siberia Centrale, non ne ricordo mai il nome: ci avevano deportato il suo nonno nichilista, ancora al tempo degli zar, laggiù è nato suo padre, e laggiù è nato anche lui. Quando è scoppiata la guerra lo hanno mobilitato nei servizi dell' aviazione. È caduto prigioniero subito, nel luglio del '41; i tedeschi li hanno rinchiusi in un Lager che era soltanto un ettaro di terreno circondato da filo spinato, e dentro niente, né baracche né tettoie, solo diecimila soldati stremati, feriti, pazzi di sete e di fame. Nella confusione non lo hanno riconosciuto come ebreo, così non lo hanno ucciso. Dopo qualche giorno lo hanno caricato con un migliaio di altri su una tradotta; lui si è accorto che le tavole del pavimento del suo vagone erano fradice, le ha sfondate a calci e si è lasciato cadere dal treno in corsa: lui solo, gli altri ottanta del vagone non ne hanno avuto il coraggio. Si è rotta una gamba, ma è riuscito ugualmente ad allontanarsi dalla ferrovia e a raggiungere una casa di contadini che lo hanno ospitato per diversi mesi senza denunciarlo, e gli hanno perfino rimesso in sesto la gamba. Appena ha potuto camminare è andato coi partigiani, ma nell' inverno scorso è stato ferito a un ginocchio, e da allora zoppica. I partigiani lo hanno aiutato, e si è sistemato qui con un pugno di altri ebrei. È un siberiano dalla testa dura, in pochi mesi lui e gli altri hanno trasformato questo monastero, che era un mucchio di macerie, in un luogo dove si può vivere. Per tutto agosto, nella repubblica delle paludi non avvenne alcun fatto notevole. Giunsero da Ozarici nove dispersi dell' Armata Rossa che di loro iniziativa avevano incendiato e saccheggiato un deposito tedesco. Portavano due muli carichi di sacchi di patate, quattro moschetti italiani, venti granate a mano e una notizia che valeva quanto tutto il resto insieme: i russi avevano ripreso Kharkov. Fra i cittadini di Novoselki si accese subito una discussione appassionata, quanto lontana fosse Kharkov: chi diceva cinquecento, chi seicento, chi ottocento chilometri. Questi ultimi accusavano i primi di essere degli illusi; i primi trattavano gli ultimi da disfattisti, anzi, da traditori. Gli uomini di Ozarici si erano trascinato dietro anche un medico, e un medico, per Novoselki, sarebbe stato prezioso; ma questo, un capitano ebreo sulla quarantina, era molto malato. Aveva la febbre, nelle ultime tappe si era trascinato a stento, e a tratti aveva dovuto farsi caricare sul mulo. Appena arrivato al monastero, dovette coricarsi perché non si reggeva più in piedi; sul viso gli erano comparse chiazze violacee, e parlava a stento, solo con le labbra, come se avesse la lingua paralizzata. Si fece la diagnosi da sé: disse che aveva il tifo petecchiale, che stava per morire e che desiderava solo non contagiare nessuno e morire in pace. Dov gli chiese come poteva essere curato, e lui rispose che cure non ce n' erano; chiese un po' d' acqua, poi non parlò più. Lo fecero sdraiare a terra, fuori dell' edificio, e lo coprirono con una coperta: il mattino dopo era morto. Fu sepolto con precauzione per evitare il contatto; Ber, il giovane dagli occhiali, che era studente di un' accademia rabbinica, venne a dire il Kaddìsch sulla sua tomba. Che fare per evitare il contagio? O forse il tifo era trasmesso solo dai pidocchi? Nessuno lo sapeva; a buon conto, Dov fece bruciare tutti gli oggetti che erano venuti a contatto col malato, compresa la preziosa coperta. Venne settembre, caddero le prime piogge, le prime foglie cominciarono a ingiallire. Mendel si accorse che qualcosa stava cambiando in Leonid. Agli inizi del loro soggiorno a Novoselki non si era scostato dalla sua condotta abituale, fatta di lunghi silenzi corrucciati e di scoppi di collera rivolti esclusivamente contro di lui: come se fosse stato Mendel a fare il patto coi tedeschi, a scatenare la guerra, a spargere il terrore nel paese. Come se proprio Mendel lo avesse messo nei paracadutisti e lo avesse sbalestrato in mezzo ai pantani. Ma adesso Leonid cercava Mendel sempre più di rado, anzi, sembrava che evitasse di incontrarsi con lui, e quando ad evitarlo non riusciva, si studiava di non guardarlo negli occhi. Venne un giorno in cui Mendel non lo vide più intorno ai tini di concia: gli fu detto che non sopportava più l' odore, e che aveva pregato Dov di trasferirlo al locale dove Line e altre due ragazze distillavano il legno di betulla per farne catrame. Venne un altro giorno in cui Dov si lagnò con Mendel perché il suo amico non si era presentato al lavoro, e questa era una mancanza grave, che Dov non si spiegava. Mendel gli rispose che lui non era responsabile di quanto Leonid faceva o non faceva, ma mentre diceva così percepiva come un prurito intorno al cuore, perché si era accorto che le parole che gli erano uscite di bocca erano quelle che aveva dette Caino quando il Signore gli aveva chiesto conto di Abele. Che sciocchezza! Forse che Leonid era suo fratello? Nessun fratello: era uno sventurato come lui e come tutti, un trovatello raccattato per strada. Certo che no, Mendel non era il suo custode, e tanto meno aveva sparso il suo sangue. Non lo aveva ucciso in mezzo al suo campo. Eppure il prurito persisteva: forse è proprio così, forse ognuno di noi è il Caino di qualche Abele, lo abbatte in mezzo al suo campo senza saperlo, per mezzo delle cose che gli fa, delle cose che gli dice, e delle cose che gli dovrebbe dire e non gli dice. Mendel disse a Dov che Leonid aveva avuto una vita difficile, ma Dov gli rispose con una sola sillaba, guardandolo fisso negli occhi: _ Nu? _ A Novoselki quella non era una giustificazione. Chi non aveva alle spalle una vita difficile? Non c' erano scuse per la partisanscina, disse Dov con durezza. Che cos' era la partisanscina? L' anarchia partigiana, gli spiegò Dov: la mancanza di disciplina. Un pericolo grave. Essere fuori legge non vuol dire non avere legge. Per salvarsi dalla morte fascista bisogna accettare una disciplina più rigida ancora di quella imposta dai fascisti: più rigida ma più giusta, perché volontaria. Chi non si sente di accettarla è libero di andarsene. Che Mendel e Leonid ci pensassero. Anzi, ci avrebbero dovuto pensare subito, perché c' era un lavoro da fare per loro: un lavoro urgente, importante, e neanche tanto pericoloso. Era arrivato l' ordine di sabotare una ferrovia. Bene, era proprio il lavoro giusto per loro, per acquistare la cittadinanza della repubblica; del resto, era quella l' usanza partigiana, ai nuovi arrivati si chiedeva di fare il lavoro di prova, come quando si entra in fabbrica. Il giorno dopo Dov convocò anche Leonid ed entrò nei particolari: _ È saltata la linea Brest-Rovno-Kiev, quella che alimentava il fronte tedesco dell' Ucraina meridionale. D' ora in avanti, tutto il traffico di guerra passerà per Brest-Gomel: ecco, questa linea corre a sud di Novoselki, a una trentina di chilometri; è a un solo binario. Bisogna interromperla al più presto. È questo il lavoro che dovete fare: avete qualche idea? _ Avete dell' esplosivo? _ chiese Mendel. _ Ne abbiamo, ma poco e poco adatto: lo abbiamo ricavato da qualche obice che si è piantato nella palude e non è esploso. Leonid lo interruppe, lanciando un' occhiata insolente a Mendel: _ Permetti, capo: per questi lavori l' esplosivo fa più male che bene. Sabotare le ferrovie è un mestiere che io conosco: al corso dei paracadutisti ci hanno spiegato tutti i sistemi. È molto meglio una chiave inglese, è più sicura, non fa fracasso e non lascia traccia. _ Al vostro corso, _ chiese Mendel stizzito, _ vi hanno insegnato anche la pratica, o solo la teoria? _ Di questa faccenda, la responsabilità me la prendo io. Tu, per una volta, pensa ai fatti tuoi. _ Va bene, _ rispose Mendel scandendo le parole; non ho niente in contrario. Io sono più bravo a riparare le cose che a farle saltare in aria. Dov stava a sentire, con l' aria di divertirsi al battibecco: _ Un momento, _ disse; _ sarebbe bene accoppiare il sabotaggio dei binari con il deragliamento di un treno; un guasto alle rotaie si ripara in poche ore, invece un treno rovesciato, oltre ad essere una perdita secca, ingombra la linea per diversi giorni. Questo però lo sanno anche i tedeschi: da un po' di tempo, se il convoglio è importante, gli fanno viaggiare davanti un carrello staffetta. Ci fu una breve discussione tecnica fra Dov e Leonid, da cui scaturì il piano definitivo. Sarebbe stato imprudente sabotare la ferrovia nel tratto vicino a Koptsevici, cioè quello direttamente a sud di Novoselki: sarebbe stato come mettere la Gestapo sulle tracce del rifugio. Meglio andare più lontano; nei pressi di Zitkovici, a cinquanta chilometri verso ovest, la ferrovia attraversa un canale su un ponte: ecco, il luogo più vantaggioso è quello. _ Preparatevi, _ disse Dov, _ partirete fra due ore. Avrete una guida pratica dei luoghi. Non portate armi. Sul modo di interrompere i binari, mettetevi voi d' accordo; se tu Leonid hai imparato qualche malizia, tanto meglio. Mi raccomando, niente litigi durante la missione. Le chiavi inglesi le stanno preparando alla forgia; due, della misura giusta. Di una guida come quella, Mendel ne avrebbe fatto a meno volentieri, ma che realmente fosse pratico della zona, e in specie dei guadi, era fuori discussione. Si chiamava Karlis, era léttone, aveva ventidue anni, era alto, magro, biondo, e si muoveva con agilità silenziosa. Come mai, essendo nato così lontano, conosceva tanto bene le paludi della Polessia? Aveva imparato a conoscerle sotto i tedeschi, rispose Karlis, che parlava il russo piuttosto male. Nel suo paese preferivano i tedeschi ai russi, anche lui li preferiva, almeno all' inizio. Era passato dalla loro parte, e loro gli avevano insegnato come si fa la caccia ai partigiani. Sì, proprio in quelle terre: ci era stato quasi un anno, le conosceva palmo a palmo. Ma lui non era stupido, dopo Stalingrado aveva capito che i tedeschi la guerra l' avrebbero perduta ed aveva disertato un' altra volta: fece un mezzo sorriso, in cerca di consenso. Meglio stare sempre dalla parte di chi vince, non è vero? Però adesso doveva stare attento a non cadere nelle mani né di Hitler né di Stalin. Per questo si era rifugiato a Novoselki? gli chiese Leonid. Per questo, sicuro: lui, personalmente, non aveva nulla contro gli ebrei. _ Dobbiamo stare attenti anche noi, _ sussurrò Mendel a Leonid, _ questo ha sulle mani il Dàm Israél, il sangue di Israele. Karlis rifece il suo sorriso storto: _ È inutile che parliate jiddisch: io lo capisco, e capisco anche il tedesco. _ Così tu pensi che gli ebrei di Novoselki saranno i vincitori? _ chiese Mendel. _ Non ho detto questo, _ rispose il léttone. _ Attenti, qui l' acqua si fa profonda. Teniamoci più sulla destra. Uscirono dagli acquitrini all' alba, e proseguirono ancora per qualche ora su pascoli e terreni incolti. Riposarono fino al primo pomeriggio, e raggiunsero la ferrovia a notte alta. Secondo Karlis avrebbero dovuto seguirla verso ponente per otto o dieci chilometri prima di incrociare il canale; era prudente non camminare sulla massicciata, bensì tenersi paralleli ai binari a qualche centinaio di metri, senza perderli di vista. C' era la luna: facilitava la marcia, ma se non ci fosse stata i tre sarebbero stati più tranquilli. Erano ormai stanchi; tuttavia, Leonid forzava il passo e tendeva a portarsi in testa. Invece, il léttone manovrava in modo da rimanere ultimo; questo irritava Mendel, che a un certo punto gli disse seccamente: _ Tu cammina. Ultimo resto io. Leonid avvistò il ponte al levar del sole. Non era l' ora più opportuna per cominciare il lavoro, ma non si vedeva anima viva, e il ponte, che del resto era lungo solo pochi metri, non era sorvegliato. Si vedeva bene che Leonid ambiva ad avere la direzione della faccenda: dava ordini con voce sommessa ma concitata e nervosa. Aiutato da Mendel, sbullonò le ganasce al punto di giunzione dei due binari, quasi all' imbocco del ponte, e poi tutte le viti che collegavano le piastre alle traversine: il legno era fradicio e le viti uscivano facilmente. Karlis aveva offerto blandamente di collaborare, ma poi si accontentò di sorvegliare che nessuno si avvicinasse. Quando le due rotaie furono libere, Leonid non le spostò, ma le legò con una corda disposta trasversalmente e lunga una trentina di metri: purtroppo a Novoselki non ce n' era una più lunga. Il tratto libero della corda fu sepolto con terriccio e sterpi. Finito, disse Leonid con fierezza; ora non c' era che aspettare il treno. Lasciar passare la staffetta, e poi, proprio davanti alla locomotiva, tirare la corda per spostare le rotaie. Non troppo presto, se no il conducente si sarebbe potuto accorgere del guasto. Trascorsero tutta la giornata dormendo a turno: verso sera, nel silenzio della campagna, si sentì il rumore del treno. Si aggrapparono tutti e tre all' estremità della corda e si sdraiarono fra gli arbusti per non essere visti. Non c' era alcuna staffetta; il convoglio era composto di una trentina di carri merci chiusi, ed avanzava rapidamente, ma in vista del ponte cominciò a rallentare. Mendel provò improvvisamente un intenso desiderio di pregare, ma lo represse, poiché nessuna delle preghiere della sua infanzia si adattava alla situazione, e neppure era sicuro che l' Eterno, benedetto Egli sia, avesse giurisdizione sulle ferrovie. Il treno procedeva ormai lentamente quando si trovò davanti alla tratta sconnessa. _ Adesso _ ordinò Leonid: i tre balzarono in piedi e tirarono a strattoni sulla corda. Incontrarono una resistenza non prevista, poi qualcosa cedette e la corda obbedì ai loro sforzi convulsi: ma non di molto, non più di una spanna. La locomotiva stridette in una brusca frenata, e dalle ruote scaturirono scintille: il conducente doveva aver visto qualcosa e dato il controvapore, ma troppo tardi. Il carrello anteriore cadde dalle rotaie sul ghiaione della massicciata, motrice e vagoni avanzarono ancora di una decina di metri per lo slancio, in un fracasso assordante ed in una nuvola di polvere, poi tutto si fermò. La locomotiva era impegnata sul ponte solo con l' avantreno ed era leggermente inclinata; doveva aver toccato la spalletta, e da qualche tubo spaccato usciva un getto di vapore, con un sibilo da forare le orecchie, tanto che i tre uomini non riuscivano a scambiare parola. Leonid, pallido come un cadavere, faceva cenno agli altri due di seguirlo verso il primo vagone: forse in cerca di preda. Pazzesco! Lungo il convoglio si vedevano correre su e giù profili umani. Mendel si impose; aiutato da Karlis, trascinò a forza Leonid verso il boschetto più vicino. Si guardarono in faccia, ansimando; un mezzo deragliamento, un mezzo successo. La motrice in avaria, ma non distrutta; la linea interrotta, ma riparabile in pochi giorni; il ponte e i vagoni quasi intatti. Leonid malediceva se stesso, avrebbe dovuto prevedere che al ponte il treno avrebbe rallentato. Se avessero interrotto i binari un chilometro più in là, il danno sarebbe stato dieci volte maggiore. Gli uomini della scorta, non più di mezza dozzina, si affaccendavano intorno alla locomotiva, senza curarsi di cercare gli autori del guasto. I tre attesero nascosti che venisse buio, poi si avvicinarono senza fretta sulla via del ritorno. Leonid appariva abbattuto, e Mendel cercò di ridargli animo: la colpa non era sua, mancavano i mezzi, e in qualche modo il treno era pure stato arrestato. Leonid tacque a lungo, volgendogli la schiena; poi disse: _ Tu non capisci. Era un regalo. _ Un regalo? A chi? _ A Line: alla ragazza col mitra, sì, a quella che monta di guardia con te. È la mia donna, dall' altra notte. Il treno era un regalo per lei. Mendel ebbe voglia di ridere e di piangere. Stava per dire a Leonid che Novoselki non era il luogo per una storia d' amore, ma poi si trattenne. Proseguirono in silenzio; a metà notte si accorsero che Karlis era rimasto indietro e si fermarono ad aspettarlo. Passò un' ora e Karlis non ricomparve: se n' era andato. I due ripresero la via nelle tenebre sempre più fitte. Giunti al campo, fecero il loro rapporto, e Dov li ascoltò senza fare commenti né esprimere giudizi: sapeva come andavano quelle imprese. La fuga di Karlis era un guaio, ma non poteva essere prevista né evitata, e del resto non era il primo caso; Novoselki non era un Lager, chi voleva se ne andava. Avrebbe parlato? La taglia della polizia era attraente, dieci rubli per ogni testa di ebreo denunciato: i tedeschi sono gente generosa. D' altra parte, coi tedeschi stessi Karlis aveva certi conti in sospeso, e poi al monastero era sempre stato trattato bene, e infine aveva altri modi per guadagnarsi il pane. In ogni caso, non c' era rimedio: solo stare all' erta, soprattutto nei primi giorni, e se c' era un attacco, difendersi. Non venne alcun attacco; venne invece, verso la metà di settembre, portata dai misteriosi informatori di Dov, la notizia che l' Italia aveva capitolato, e mise il campo in subbuglio. Le notizie di guerra, invariabilmente trionfali, erano un lineamento fondamentale di Novoselki. Non passava settimana senza che gli Alleati sbarcassero in Grecia, o Hitler morisse assassinato, o gli americani liquidassero i giapponesi con una nuova arma portentosa. Ogni annunzio entrava poi in circuito affannoso, veniva adornato, arricchito di particolari, e diventava per giorni un presidio contro l' angoscia; i pochi che rifiutavano di crederlo erano guardati con disprezzo. Poi svaniva, veniva dimenticato senza lasciare traccia, in modo che la notizia successiva era accettata senza riserve. Ma questa volta era diverso, l' annunzio della capitolazione era confermato da due fonti, veniva da Radio Mosca, ed era stato avallato da Dov in persona, che di solito era scettico. I commenti erano convulsi, non si parlava d' altro. Dunque le forze dell' Asse erano dimezzate. Dunque la guerra sarebbe finita entro un mese, due al massimo. Era impossibile che gli Alleati non approfittassero della situazione: non erano già sbarcati in Italia? Per le loro armate l' Italia non poteva essere che un passo, in tre giorni sarebbero arrivati al confine e sarebbero penetrati nel cuore della Germania. Quale confine? La geografia dell' Europa veniva ricostruita appassionatamente, attraverso ricordi scolastici e leggendari. Pavel, l' unico cittadino delle paludi che in Italia ci fosse materialmente stato, sedeva come un oracolo al centro di un capannello continuamente rinnovato. Pavel Jurevic Levinski teneva molto al suo patronimico, e meno al suo cognome troppo rivelatore: lui era un russo ebreo, non un ebreo russo. A trentacinque anni aveva già alle spalle una carriera molteplice: era stato sollevatore di pesi, poi attore dilettante e professionista, cantante, e perfino, per qualche mese, annunciatore alla Radio di Leningrado. Gli piaceva giocare a carte e ai dadi, gli piaceva il vino, e all' occorrenza bestemmiava come un cosacco. Nella comunità smunta di Novoselki spiccava per il suo aspetto atletico: nessuno capiva come da quelle razioni di fame Pavel potesse ricavare alimento per i suoi muscoli. Era di media statura, compatto, sanguigno. La barba, che portava rasa, gli arrivava fino sotto gli occhi, e cresceva così rapida che poche ore dopo il passaggio del rasoio già gli stendeva sul viso un' ombra nero-azzurra. Capelli e sopracciglia erano neri e cespugliosi. Aveva una vera voce da russo, profonda morbida e sonora, ma quando aveva finito di parlare o cantare la bocca gli si richiudeva dura, come una tagliola d' acciaio. Il suo viso era a forti rilievi, come a monti e valli; rilevati gli zigomi, incavato il canaletto che dal setto nasale porta al labbro superiore; segnata da due risalti carnosi l' inserzione del canaletto con il labbro. Aveva denti forti ed occhi da incantatore. Con quegli occhi, e con le mani che aveva corte e pesanti, faceva svanire i dolori alle giunture, il mal di schiena, e qualche volta, per poche ore, anche la fame e la paura. Aveva scarsa propensione per la disciplina, ma al monastero godeva di una tacita impunità. I suoi ascoltatori lo tempestavano di domande sull' Italia. _ Ma certo, che ci sono stato. Diversi anni fa, con la famosa tournée del Teatro Ebraico di Mosca. Io ero Geremia, il profeta di sventure: venivo in scena con un giogo sulle spalle, a profetizzare la deportazione degli ebrei a Babilonia, e muggivo come un bue. Avevo una parrucca viola, ero tutto imbottito per sembrare ancora più grosso, e avevo le scarpe con la suola spessa un palmo, perché un profeta è alto di statura. Recitavamo in ebraico e in jiddisch: gli italiani, a Milano, a Venezia, a Roma, a Napoli, non capivano una parola e applaudivano come impazziti. _ Così tu l' Italia l' hai proprio vista coi tuoi occhi? _ gli chiese Ber, l' allievo rabbino. _ Certamente: dal treno. Tutta l' Italia è lunga come da Leningrado a Kiev, si va in un giorno dalle Alpi alla Sicilia: adesso che l' esercito italiano si è arreso, gli Alleati arriveranno alla frontiera tedesca in un baleno. Del resto, anche prima di arrendersi, gli italiani non sono mai stati fascisti sul serio, tant' è vero che Mussolini stesso aveva fatto venire a Roma il Teatro di Mosca, e i soldati italiani in Ucraina non hanno fatto resistenza. L' Italia è un bellissimo paese, con mari, laghi e montagne, tutto verde e fiorito. La gente è cortese e amichevole, sono ben vestiti ma un po' ladri: insomma, è un paese strano, molto diverso dalla Russia. Ma i confini? Fin dove sarebbero arrivati gli Alleati? Qui si vide che Pavel Jurevic non aveva le idee chiare, si ricordava vagamente di Tarvisio, ma non sapeva più se al di là c' era la Germania o la Jugoslavia o l' Ungheria. Si ricordava invece di una ragazza dagli occhi neri con cui aveva passato una notte a Milano, ma questo episodio ai suoi ascoltatori non interessava. Passò ottobre, il freddo incominciò a farsi sentire, e lo spirito collettivo a declinare. Giungevano notizie contraddittorie: i russi avevano ripreso Smolensk, ma i tedeschi non erano crollati. Si combatteva in Italia, ma non al confine, non alle Alpi: si parlava di sbarchi alleati in paesi mai sentiti. Possibile che inglesi e americani, con tutto il loro petrolio e il loro oro, non fossero capaci di dare ai tedeschi il colpo di clava definitivo? E l' Eterno, benedetto Egli sia, perché se ne stava nascosto dietro le nuvole grige della Polessia invece di soccorrere il Suo popolo? "Tu ci hai scelti fra tutte le nazioni": perché proprio noi? Perché prospera l' empio, perché la strage degli indifesi, perché la fame, le fosse comuni, il tifo, e il lanciafiamme delle SS nelle tane stipate di bambini atterriti? E perché ungheresi, polacchi, ucraini, lituani, tartari, devono rapinare e massacrare gli ebrei, strappargli le ultime armi dalle mani, invece di unirsi a loro contro il nemico comune? Ed ecco arrivare l' inverno, amico ed alleato delle armate russe, nemico crudele per i sequestrati di Novoselki. Il vento della Siberia aveva già steso un velo di ghiaccio trasparente sulla faccia nera delle paludi: presto si sarebbe consolidato ed avrebbe retto il peso dei cacciatori d' uomini. Le tracce dei passi sulla neve si sarebbero potute leggere dall' aria, o anche da terra, come si leggono i rotoli della Scrittura. La legna non mancava, ma ogni focolare era una spia; le colonne di fumo che salivano dai camini del monastero sarebbero state visibili a decine di chilometri, a segnalare come un indice teso verso la terra: "le vittime del sacrificio sono qui". Dov dispose che di giorno tutti i cittadini esenti da servizi vivessero riuniti in un solo locale e dormissero a notte nella stessa camerata. Si doveva accendere un fuoco solo; la tubazione del camino doveva essere deviata in modo da far capo fra i rami di una grande quercia che cresceva rasente il muro, così la fuliggine si sarebbe fermata sui rami invece di annerire la neve tutto intorno. Tutto questo avrebbe servito? sarebbe bastato? Forse sì o forse no, ma era importante che tutti facessero qualche cosa per il bene comune, che tutti avessero la sensazione che qualcosa veniva decisa e fatta. Conciatori e ciabattini presero a confezionare stivali di tutte le misure usando tutte le pelli che i contadini erano disposti a cedere, anche pelli di cane e di gatto: rozzi stivali barbarici cuciti con lo spago e col pelo all' interno. Non soltanto per uso locale; Dov mandò una missione a Rovnoe, un villaggio di ucraini di confessione battista, a barattare una partita di stivali contro viveri e lana. Anche i battisti erano disprezzati e perseguitati, sia dai tedeschi sia dai russi; avevano buoni rapporti con gli ebrei. Gli ambasciatori tornarono da Rovnoe pochi giorni dopo, con un discreto carico di merce e con un messaggio per Dov. Era firmato da Gedale, il comandante leggendario, quello che aveva guidato la rivolta del ghetto di Kossovo, e la cui vita era stata salvata da un violino. Dov, che considerava ormai Mendel come il suo luogotenente, gli lesse il messaggio e lo discusse con lui. Conteneva due punti: in primo luogo, Gedale faceva sapere a Dov che nel ghetto di Soligorsk ormai decimato i tedeschi avevano fatto affiggere un decreto di "amnistia", steso nel loro gergo cinicamente eufemistico: le "Umsiedlungen", i trasferimenti forzati (li chiamavano trasferimenti!) erano sospesi a tempo indeterminato; gli ebrei che si nascondevano nella zona, e in specie gli artigiani, erano invitati a rientrare nel ghetto, non sarebbero stati puniti per la loro fuga ed avrebbero ricevuto le carte annonarie. Che Dov, in vista dell' inverno, si regolasse nel modo che riteneva più saggio. In secondo luogo, Gedale invitava Dov a una partita di caccia. Una caccia ai cacciatori: era un' occasione unica. Il conte Daraganov, già grande proprietario terriero, era tornato sulle sue terre al seguito dei tedeschi, e offriva loro una partita di caccia nella sua tenuta sulle sponde del lago Cervonoe, a un giorno di cammino da Novoselki. Ci sarebbe stata una dozzina di alti ufficiali della Wehrmacht; la notizia era certa, veniva da un ucraino che collaborava coi partigiani e che era stato scelto come battitore. La banda a cui Gedale temporaneamente apparteneva era forte e bene organizzata, composta per buona parte da volontari dell' inverno 1941, cioè dall' aristocrazia partigiana sovietica. Gedale pensava che una partecipazione ebraica alla caccia sarebbe stata gradita, opportuna, e forse anche ricompensata con armi od altro. Sul primo punto, Dov si riserbò di decidere più tardi; sul secondo, la sua scelta fu immediata. Era importante dimostrare ai russi che anche gli ebrei sapevano combattere e lo desideravano. Mendel si offerse come volontario: era soldato, sapeva sparare. Dov ci pensò su per qualche istante; no, né Mendel né Leonid, proprio perché erano combattenti esercitati. L' azione proposta da Gedale era importante sotto l' aspetto della propaganda, era una beffa, ma militarmente non significava molto ed era pericolosa. La logica partigiana era spietata, prescriveva che gli uomini migliori venissero tenuti da parte per le operazioni serie, per le divisioni, l' offesa e la difesa. Avrebbe mandato Ber e Vadim, due nebech, due sprovveduti: proprio perché erano sprovveduti. _ Pensi che io abbia le mani sporche? Le ho; come tutti quelli che devono scegliere. Ber, il ragazzo occhialuto che era di turno con Leonid, e Vadim, partirono baldanzosi; Vadim, un giovane imprudente, loquace e distratto, addirittura con allegra fierezza: _ Bucheremo quelle pance coperte di medaglie! _ Non avevano con sé che una pistola e due granate a mano ciascuno. Ritornò Vadim da solo, dopo due giorni, terreo e sfinito, con una spalla trapassata, a raccontare l' impresa. Non era stato un gioco, era stato un macello, una confusione. Sparavano tutti contro tutti, fischiavano proiettili da tutte le direzioni. Avevano cominciato i partigiani russi, erano bene appostati fra i cespugli; con una salva sola avevano ucciso quattro degli ufficiali tedeschi, non sapeva se colonnelli o generali. Poi aveva visto gli ausiliari ucraini venire allo scoperto, sparavano contro i partigiani, sparavano per aria, e si sparavano anche fra loro; uno di loro, davanti ai suoi occhi, aveva abbattuto un ufficiale tedesco col calcio del fucile. Ber era morto subito, ucciso chissà da chi, forse per caso: era in piedi, si guardava intorno; non aveva la vista tanto buona. Lui Vadim aveva gettato le sue granate contro il gruppo dei tedeschi, che invece di sparpagliarsi si erano riuniti e facevano quadrato; una era esplosa e l' altra no. Dov mandò Vadim a riposare, ma il giovane non riposò. Aveva violenti attacchi di tosse e sputava una schiuma sanguigna. Nella notte gli venne la febbre e perse coscienza; al mattino era morto. Morto perché? Aveva ventidue anni, disse Mendel a Dov, e non riuscì ad evitare una vibrazione di rimprovero. _ Non è detto che non invidieremo questo modo di morire, _ rispose Dov. Vadim fu sepolto ai piedi di un ontano, in mezzo ad un' improvvisa tempesta di neve. Sulla sua tomba Dov fece piantare una croce, perché Vadim era un ebreo convertito; e poiché nessuno conosceva le preghiere ortodosse, lui stesso recitò il Kaddìsch. _ È meglio che niente, _ disse a Mendel. _ Non è per il morto, ma per i vivi che ci credono _. Il cielo era talmente scuro che la neve, sia a terra, sia quella che turbinava nell' aria, appariva grigia. Dov mandò un messaggero a Rovnoe, che cercasse di Gedale e della sua banda e chiedesse immediatamente rinforzi, ma il messaggero tornò senza risposta. Non aveva trovato nessuno, e invece aveva visto i contadini di Rovnoe, uomini e donne, sulla piazza con le mani legate. Aveva visto un drappello di SS con le armi puntate, che li facevano salire su un carro. Aveva visto uomini della milizia ausiliaria, ucraini o lituani, che prendevano bracciate di pale da una baracca e le caricavano sul carro, e aveva visto il carro avviarsi verso il vallone a sud del paese, seguito dalle SS che scherzavano e fumavano. Ecco quello che aveva da raccontare. Non c' era anima a Novoselki, e in tutte le terre occupate, che ignorasse il significato delle pale. Dov disse a Mendel che si era pentito di aver mandato Ber allo sbaraglio: _ Se il colpo fosse andato bene, con una vittoria netta, io avrei avuto ragione di arrischiare due uomini. Invece è andato piuttosto male, e adesso io ho torto. Ber, anche da morto, è un ebreo: se ne accorgerebbe chiunque. Ho fatto male a scegliere lui. Del suo cadavere si occuperà certamente la Gestapo. La nostra partecipazione alla caccia ci ha forse rivalutati presso i russi di Gedale, ma tirerà addosso anche a noi la rappresaglia dei tedeschi. La fuga di Karlis, le pale di Rovnoe, Ber: sono tre segnali minacciosi. I tedeschi non tarderanno a localizzarci. Il miracolo della nostra impunità è finito. Così dovevano aver pensato anche gli anziani del campo, a cui Dov aveva detto dell' "amnistia" promessa dai tedeschi. Volevano tornare a Soligorsk: chiesero di andarsene, di essere riaccompagnati al ghetto. Preferivano aggrapparsi alle promesse dei nazisti piuttosto che affrontare la neve e la morte certa a Novoselki. Erano artigiani, al ghetto avrebbero lavorato, e a Soligorsk c' erano le loro case, e accanto alle case il cimitero. Preferivano la servitù e il pane scarso del nemico: come dargli torto? Tornò a mente a Mendel una voce terribile di tremila anni prima, la protesta che avevano rivolta a Mosè gli ebrei incalzati dai carri del Faraone: _ Mancavano dunque le tombe in Egitto perché tu ci conducessi a morire qui? Servire gli Egizi era per noi sorte migliore che morire nel deserto _. Il Signore nostro Dio, il Padrone del Mondo, aveva diviso le acque del Mar Rosso, e i carri erano stati travolti. Chi avrebbe diviso le acque davanti agli ebrei di Novoselki? Chi li avrebbe sfamati con le quaglie e la manna? Dal cielo nero non scendeva manna, ma neve spietata. Che ognuno si scegliesse il proprio destino. Dov fece allestire tre slitte per portare a Soligorsk i ventisette cittadini che non avevano compiti militari e che avevano scelto la via del ghetto; vi erano compresi tutti i bambini, mentre Adam aveva preferito restare. I muli, quelli portati dagli uomini di Ozarici, erano solo due: uno dovette trainare due slitte. Partirono muti, senza scambiare addii, imbacuccati in stracci, paglia e coperte, obbedendo alla povera speranza di qualche settimana di vita concessa in più. In questo modo, subito nascosti alla vista dal sipario della neve, essi spariscono da questa storia. Dov fece scavare tre bunker, o meglio tre tane nella terra nuda, che nonostante il freddo non era ancora gelata. Erano a duecento metri circa dal monastero, nella direzione da cui prevedeva che sarebbero arrivati i tedeschi, che avevano stabilito una guarnigione a Rovnoe semidistrutta; ogni tana poteva contenere due uomini, ed era mascherata da sterpi che si coprirono rapidamente di neve. _ Le pale servono anche a noi, _ disse, e mandò un' altra squadra a scavare una buca quadrata, profonda due metri, attraverso la pista più grande che da Rovnoe conduceva al monastero. La fece coprire con tavole di legno leggero, e su queste fece mettere sterpi fino al livello della neve sul terreno circostante: dopo una notte di nevicata continua il dislivello si notava appena. Sulla pista, e sulla trappola così preparata, fece passare a più riprese due uomini che si trascinavano dietro due pale appesantite con sassi, in modo da simulare due carreggiate recenti. Distribuì armi a tutti, e fece piazzare la mitragliatrice pesante sulla torretta sana. I cacciatori di uomini arrivarono due giorni dopo. Erano più di cinquanta, qualcuno doveva aver sopravvalutato le forze dei difensori. Si udì lo strepito dei cingoli prima che qualcosa si vedesse attraverso il velo della neve, che continuava a cadere fitta. Un cingolato leggero apriva la colonna, seguendo la pista che Dov aveva predisposta: avanzava lento, giunse alla trappola, oscillò sull' orlo e vi cadde, sfondando le tegole che crepitarono. Dov salì sulla torretta, dove Mendel stava pronto con la mitragliatrice. Lo trattenne: _ Risparmia colpi, spara solo se vedi qualcuno che tenta di uscire dalla buca _. Ma nessuno uscì, forse il veicolo si era capovolto. Dietro al cingolato leggero ne veniva un altro pesante, e dietro a questo gli uomini appiedati, a ventaglio, sulla pista e fra gli alberi. Il cingolato pesante aggirò la buca e aprì il fuoco; allo stesso istante anche Mendel cominciò a sparare a brevi raffiche, in preda alla febbre delle battaglie. Vide cadere alcuni tedeschi, e insieme udì sotto di sé due esplosioni violente: due razzi anticarro avevano colpito il tetto del monastero, che crollò e prese fuoco. Altri colpi sfondarono in più punti le mura dell' edificio. In mezzo al fumo e al fracasso Dov gli urlò nelle orecchie: _ Spara tutto, adesso. Senza risparmio. Stiamo combattendo per tre righe nei libri di storia _. Anche Dov sparava verso il basso, con uno dei moschetti italiani. Ad un tratto Mendel lo vide barcollare; cadde all' indietro, ma si rialzò subito dopo. Insieme, udì altri spari di arma leggera provenire dai bunker: obbedendo all' ordine di Dov, i combattenti dei bunker stavano prendendo i tedeschi da tergo. Colti di sorpresa, i tedeschi si scompaginarono, volgendo le spalle al monastero: Mendel si precipitò con Dov giù per le scale, in mezzo alle macerie e alle fiamme. Vide gente muoversi, e gridò loro di seguirlo; uscirono all' aperto sul lato opposto del fabbricato e furono fra gli alberi: "al sicuro", pensò assurdamente. Dall' altro lato il combattimento era ripreso. Udirono schianti di granate e comandi urlati da un altoparlante, videro uomini e donne uscire dalle brecce con le mani alzate. Videro i cacciatori di uomini che li perquisivano ridendo, li interrogavano e li allineavano contro il muro; ma quanto avvenne nel cortile del monastero di Novoselki non verrà narrato. Non è per descrivere stragi che questa storia sta raccontando se stessa. Si contarono. Erano undici: Mendel stesso, Dov, Leonid, Line, Pavel, Adam, un' altra donna di cui Mendel non conosceva il nome, e quattro degli uomini di Ozarici. Adam si stava dissanguando per una ferita all' alto della coscia, talmente in alto che non fu possibile legarlo; si distese sulla neve e morì in silenzio. Dov non era ferito, ma solo stordito. Aveva una contusione alla tempia, forse un proiettile di rimbalzo o un sasso scagliato dalle esplosioni. I tedeschi si attardarono fino a notte a far saltare quanto restava del monastero; non seguirono le piste dei fuggiaschi, che la neve aveva già confuse, e se ne andarono portandosi dietro i loro morti e la mitragliatrice.

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Alcuni di loro avevano abbandonato le armi e si erano gettati nel fiume ingrossato dal disgelo, era stata una visione che rallegrava, una immagine da portarsi nella tomba: gli ebrei la raccontavano ai russi con facce allucinate. Sì, gli uomini biondi e verdi della Wehrmacht erano fuggiti davanti a loro, entravano nell' acqua e cercavano di arrampicarsi sulle lastre di ghiaccio trascinate dalla corrente, e loro avevano sparato ancora, e avevano visto i corpi dei tedeschi affondare o navigare verso la foce sui loro catafalchi di ghiaccio. Il trionfo era durato poco, si capisce: i trionfi durano sempre poco, e, come sta scritto, la gioia dell' ebreo finisce nello spavento. Loro si erano ritirati nel bosco portandosi dietro quelli fra gli ebrei del ghetto di Ljuban che sembravano in grado di combattere, ma i tedeschi erano tornati e avevano ucciso tutti quelli che nel ghetto erano rimasti. La loro guerra era così, una guerra in cui non ci si volta a guardare indietro e non si fanno i conti, una guerra di mille tedeschi contro un ebreo e di mille morti ebrei contro un morto tedesco. Erano allegri perché erano senza domani e non si curavano del domani, e perché avevano visto i superuomini sguazzare nell' acqua gelata come le rane: un regalo che nessuno gli avrebbe più tolto. Portavano anche altre notizie più utili. Il rastrellamento era già cominciato, e loro erano stati sloggiati dal loro campo, che del resto era un povero campo di tane, provvisorio, non certo paragonabile a quello di Turov. Ma non era vero che fosse un grande rastrellamento: non c' erano né carri né artiglieria pesante, e un prigioniero tedesco che loro avevano interrogato aveva confermato che il punto più debole dell' accerchiamento doveva proprio essere dove pensava Ulybin: a sud-ovest, lungo la Stviga. Dov stava bene, non zoppicava quasi più, ma era più curvo di prima. I suoi capelli, di nuovo accuratamente pettinati, erano più radi e più bianchi. Sissl gli chiese se voleva mangiare qualcosa, e lui rispose ridendo: _ A un malato si domanda, a un sano si dà, _ ma aveva più fretta di raccontare che di mangiare. Intorno a lui si era formato un cerchio di ascoltatori, ebrei e russi: non erano molti quelli che dalla Grande Terra tornavano in territorio partigiano. _ Quanto tempo è che parlano, quei due? Un' ora? È buon segno: più parlano e più vanno d' accordo; e vuole anche dire che i tedeschi sono ancora lontani, o che hanno cambiato strada. Ma sicuro, che mi hanno curato: che cosa avevate pensato? All' ospedale di Kiev. Non aveva più il tetto, o anzi non l' aveva ancora, perché lo stanno ricostruendo, e sapete chi? I prigionieri tedeschi, quelli che si sono arresi a Stalingrado. _ Non c' era il tetto, non c' era da mangiare e non c' era l' anestesia, ma c' erano le dottoresse, e mi hanno operato subito: mi hanno tolto qualcosa dal ginocchio, un osso, e me lo hanno anche fatto vedere. Nelle cantine, mi hanno operato, alla luce dell' acetilene, e poi mi hanno messo in corsia, una corsia sterminata, più di cento lettini per parte, con dentro vivi, moribondi e morti. Non è bello stare in ospedale, ma proprio in quella corsia è arrivata la mia fortuna: se c' è la fortuna, anche un bue partorisce. È venuta una visita, uno importante, del Politburò, un ucraino: piccolo, grasso, calvo, con l' aria del contadino e il petto coperto di medaglie. In mezzo a quella confusione di portantini che andavano e venivano, si è fermato proprio davanti a me. Mi ha chiesto chi ero, da dove venivo e dove ero stato ferito; aveva dietro quelli della radio, e ha improvvisato un discorso dove diceva che tutti quanti, russi e georgiani e jakuti ed ebrei, siamo figli della gran madre Russia, e che tutte le questioni devono finire .... Si udì la voce di Piotr: _ Se quello era un ucraino, ed era un pezzo grosso, gli potevi dire che incominciasse a fare pulizia a casa sua! Sono gentaglia, gli ucraini: quando sono venuti i tedeschi, gli hanno aperto le porte e gli hanno offerto il pane e il sale. I loro banderisti sono peggio dei tedeschi _. Altre voci fecero tacere Piotr ed esortarono Dov a continuare. _ ... e mi ha chiesto, una volta che io fossi guarito, dove volevo essere mandato. Io gli ho risposto che la mia casa è troppo lontana, che avevo amici partigiani, e che avrei voluto ritrovarli. Bene, appena mi hanno dichiarato guarito lui si è dato da fare. Forse voleva dare un esempio, ha ripescato Gedale e la sua banda e mi ha fatto paracadutare vicino al suo campo, insieme a una cassa con dentro quattro parabellum come suo regalo personale. Scendere col paracadute fa abbastanza paura, ma sono finito nel fango e non mi sono fatto niente. Dov avrebbe avuto ancora una quantità di cose da raccontare su quanto aveva visto e udito durante la sua convalescenza nella Grande Terra, ma si aprì la porta del comando, ne uscirono Gedale ed Ulybin, e tutti tacquero.

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Si fermarono all' alba a riposare in un capannone abbandonato, sul confine polacco. Verso mezzogiorno gli uomini di vedetta videro passare forze tedesche lungo la strada maestra; tutti si disposero alla difesa, ma la colonna proseguì senza curarsi di controllare il capannone. Ripresero la marcia a notte, ed in una brughiera le due squadre si separarono; Ulybin e i suoi piegarono a sinistra per rientrare in territorio sovietico, e la squadra di Gedale procedette verso Recitsa per campi incolti. Gedale li rassicurò: _ Il peggio è passato. Ancora una notte di cammino e saremo fuori. Ma Mendel e i suoi amici si sentivano più sicuri prima, nel campo di Turov, dove non si pativa la fame né il freddo, e ciascuno sentiva sopra la testa un tetto di solide travi ed un' autorità: Ulybin stesso, o i messaggeri venuti dal cielo, o un potere più lontano. Questi gedalisti (così chiamavano se stessi) era gente temeraria, randagia e povera. Jòzek, il luogotenente di Gedale, si arrotolò una sigaretta d' erbe in un brandello di carta da giornale, chiese a Leonid un fiammifero, lo spaccò in due per il lungo, accese con una metà e ripose l' altra in tasca. Le due vacche, gli disse, erano preda di guerra; le avevano prese pochi giorni prima, nel corso dell' attacco a Ljuban, "perché nella guerra bisogna anche pensare alla roba". Erano magre e restie, dove trovavano un ciuffo d' erba si fermavano testarde a brucarla resistendo agli strattoni e ritardando la marcia. Dove c' erano ancora chiazze di neve nell' ombra degli alberi, la aravano con gli zoccoli in cerca di licheni. _ Alla prima occasione le vendiamo, _ disse Jòzek in tono concreto. Jòzek non era russo ma polacco di Bialystok, e falsario di professione. Raccontò la sua storia a Mendel durante la prima tappa dopo la separazione; prima no, non sapeva come i russi l' avrebbero presa. _ È un buon mestiere, ma non facile. Io ho incominciato da ragazzo, nel 192.: ero litografo apprendista e falsificavo i francobolli. La polizia polacca, a quel tempo, aveva altro da pensare e non c' era gran pericolo, ma guadagnavo poco. Nel 1937 ho cominciato con i documenti, ero molto bravo nei passaporti. Poi è venuta la guerra, a Bialystok sono arrivati i russi, e nel '41 i tedeschi. Io ho dovuto nascondermi, ma vivevo bene: di documenti c' era richiesta, soprattutto di tessere annonarie per i polacchi e di carte d' identità ariane per gli ebrei. _ Sarei andato avanti tranquillo fino alla fine della guerra, ma un concorrente mi ha denunciato perché le mie tariffe erano troppo basse. Sono rimasto in prigione tre settimane; si capisce che anche i miei documenti personali erano falsi, risultavo cristiano da due generazioni, ma mi hanno fatto spogliare, hanno capito che ero ebreo e mi hanno spedito in Lager, a Sachsenhausen, a spaccare pietre. Jòzek si interruppe ed accese un' altra sigaretta con il mezzo fiammifero che aveva riposto. Era biondiccio, gracile, di media statura, con una lunga faccia volpina e occhi verdi quasi senza cigli, che teneva sempre socchiusi come per aguzzare lo sguardo. La squadra si era fermata in una radura; Jòzek stava sdraiato sull' erba umida di rugiada, fumava e raccontava con gusto. Molti lo circondavano in ascolto: conoscevano già la storia, ma amavano sentirla ripetere; altri dormivano. Leonid si era appartato con Line, e Sissl ascoltava stando un po' in disparte: aveva cavato fuori ago e filo, e rammendava una calza nella luce incerta dell' alba. _ Il mondo è strano, _ riprese Jòzek. _ Un ebreo muore, ma un ebreo falsario si salva. Alla fine del '42 nel Lager hanno affisso un avviso: i tedeschi cercavano tipografi e litografi. Io mi sono presentato, e mi hanno mandato in una baracchetta in fondo al Lager dove ho creduto di sognare. C' era un laboratorio molto meglio attrezzato del mio, e un gruppo di prigionieri polacchi, céchi, tedeschi ed ebrei che fabbricavano dollari e sterline false, e anche documenti per gli agenti dello spionaggio. Non per dire, io ero il più bravo e i lavori delicati li davano a me; ma ho capito presto che la faccenda scottava, era chiaro che nessuno di noi sarebbe uscito vivo. Allora mi sono dedicato a raccogliere oro, che nei Lager non mancava mai, e a fabbricarmi un ordine di trasferimento. _ E perché non un ordine di rilascio? _ chiese Mendel. _ Si vede che tu non sai cos' è un Lager. Non si è mai visto che un ebreo venga rilasciato; specie poi un ebreo come me. Mi sono fatto un ordine di trasferimento al Lager di Brest-Litovsk, perché un polacco è meglio se scappa in Polonia: un ordine in piena regola, su carta delle SS, con timbri e firme, intestato a Jòzef Treistman, n. 67703, Funktionshäftling, Prigioniero Funzionario. Rischiavo molto, ma non aver scelta è una scelta. Mi hanno messo su un treno con due accompagnatori, erano due militari anziani della Territoriale. Li ho corrotti con l' oro, non aspettavano altro; sono scappato poco prima di arrivare a Brest, ho vissuto alla macchia due settimane, poi ho trovato Gedale. Col passare dei giorni e con l' approfondirsi della conoscenza, a Mendel appariva sempre più naturale che fra Gedale e Ulybin non si fosse trovato un accordo. Al di là della secolare divaricazione fra russi ed ebrei, sarebbe stato difficile trovare due uomini più diversi: la sola qualità che avevano in comune era il coraggio, e questo non era strano, perché un comandante senza coraggio non dura a lungo. Ma anche i loro coraggi erano diversi: il coraggio di Ulybin era ostinato e opaco, un coraggio-dovere che sembrava il frutto di uno studio e una disciplina piuttosto che un dono naturale. Ogni sua decisione ed ogni suo ordine arrivavano come dal cielo alla terra, carichi d' autorità e di minaccia inespressa; spesso erano ordini ragionevoli, perché Ulybin era un uomo scaltro, ma anche quando non lo erano suonavano perentori, ed era difficile non obbedirli. Il coraggio di Gedale era estemporaneo e vario, non scaturiva da una scuola ma da un temperamento insofferente dei vincoli e poco propenso a scrutare l' avvenire; dove Ulybin calcolava, Gedale si gettava come in un gioco. Mendel riconosceva in lui, ben fusi come in una lega pregiata, metalli eterogenei: la logica e la fantasia temeraria dei talmudisti; la sensitività dei musici e dei bambini; la forza comica dei teatranti girovaghi; la vitalità che si assorbe dalla terra russa. Gedale era alto e magro, largo di spalle ma con membra esili e petto poco profondo. Il naso era arcuato e tagliente come una prua, la fronte bassa sotto il confine dei capelli neri, le guance incavate e solcate da rughe nella pelle conciata dal vento e dal sole, la bocca larga e piena di denti. Era svelto nei movimenti, ma camminava con una goffaggine che sembrava voluta, come un clown nel circo. Parlava con voce alta e sonora anche quando non occorreva, come se il petto gli facesse da cassa armonica; rideva spesso, anche in momenti poco opportuni. Mendel e Leonid, abituati alla gerarchia dell' Armata Rossa, furono disorientati ed allarmati dalle maniera dei gedalisti. Le decisioni venivano prese alla buona, in assemblee chiassose; altre volte si accettavano spensieratamente disegni temerari di Gedale, di Jòzek o di altri; altre volte ancora nascevano litigi, che però si placavano presto. Non sembrava che entro la banda ci fossero tensioni o disaccordi permanenti. I componenti si proclamavano sionisti, ma di tendenze svariate, con tutte le sfumature che si possono inserire fra il nazionalismo ebraico, l' ortodossia marxista, l' ortodossia religiosa, l' egualitarismo anarchico e il ritorno tolstoiano alla terra, che ti redimerà se tu la redimi. Anche Gedale si dichiarava sionista. Per parecchi giorni Mendel cercò di capire a quale tendenza appartenesse, ma alla fine ci rinunciò: seguiva simultaneamente diverse idee, o nessuna, o cambiava spesso. Certo era più portato all' azione che alla teoria, e i suoi scopi erano semplici: sopravvivere, portare ai tedeschi il massimo danno, e andare in Palestina. Gedale era curioso fino all' indiscrezione. Ai nuovi venuti non chiese alcun dato anagrafico e neppure li prese in forza ufficialmente, ma volle sapere la storia di ognuno, e l' ascoltò con l' attenzione candida dei bambini. Sembrava provare simpatia per tutti, apprezzare le virtù di tutti, ignorare le loro debolezze. _ L-khàyim, _ disse a Pavel dopo aver ascoltato la sua storia, _ alla vita. Benvenuto fra noi, sia benedetta la tua schiena. Abbiamo bisogno di schiene come la tua. Tu sei un bisonte ebreo: un animale raro, ti terremo prezioso. Magari non vorresti esserlo, ma chi nasce ebreo resta ebreo, e chi nasce bisonte resta bisonte. Sia benedetto colui che entra. Era la prima sosta tranquilla che la banda si concedeva dopo essere uscita dall' accerchiamento. Aveva passato la notte nel fienile di una casa colonica abbandonata, avevano trovato acqua limpida nel pozzo, l' aria era leggera e profumata, tutti i visi erano distesi, e Gedale si stava divertendo. Leonid compresse la sua storia nell' arco di due o tre minuti, ma Gedale non se ne adombrò e non volle saperne di più. Gli disse solo: _ Tu sei molto giovane. È una malattia che guarisce presto, anche senza medicine, ma può essere pericolosa ugualmente. Finché ce l' hai addosso, abbiti riguardo. Leonid lo guardò attonito e sospettoso: _ Che cosa hai voluto dire? _ Non mi vorrai prendere alla lettera. Anch' io ho sangue di profeta, come ogni figlio d' Israele, e ogni tanto gioco a fare il profeta. Con Line e Sissl abbandonò il vaticinio e sfoderò maniere da operetta. Le chiamò "mie nobili dame", ma volle sapere quanti anni avevano, se erano ancora vergini e chi erano stati i loro uomini. Sissl rispose intimidita, Line con fierezza chiusa, tutte e due mostrarono fretta di porre fine all' interrogatorio. Gedale non insistette e si rivolse a Mendel. Ascoltò attento la sua narrazione, e gli disse: _ Tu non reciti. Sei rimasto un orologiaio, non hai messo su le penne del pavone e neanche quelle del falco. Benvenuto anche tu, ci sarai utile perché sei un prudente, servirai da contrappeso. Qui tra noi la prudenza è andata un po' dimenticata. Abbiamo anche poca memoria, salvo che per una cosa. _ Quale? _ chiese Mendel. Gedale accostò solennemente l' indice al naso: _ "Ricòrdati quello che ti ha fatto Amalec nel cammino, dopo che voi eravate usciti dall' Egitto. Ti ha assaltato mentre eri in strada, ha ucciso tutti i deboli, i malati e gli affaticati che erano alla tua retroguardia; non ha avuto timore di Dio. Perciò, quando il tuo Dio ti avrà dato requie dai tuoi nemici, tu di Amalec spegnerai perfino la memoria: non lo dimenticare". Ecco, questo noi non lo dimentichiamo. Ho citato a memoria, ma questa volta non a sproposito. A metà maggio la banda di Gedale era accampata sulle rive del Gorin, bianche di mughetti e di margherite frettolose. Uomini e donne, nudi o quasi, si lavavano con gioia nell' acqua lenta del fiume. Jòzek, con due compagni armati, era partito per Recitsa con le due vacche e il cavallo di Pavel: a Recitsa, presso il confine ucraino, c' era mercato. Ritornò poche ore dopo; aveva barattato le vacche contro pane, formaggio, lardo, carne salata, sapone: il resto era in marchi tedeschi d' occupazione. Il Tordo incedeva glorioso e sudato sotto il carico. Sembrava quasi che la guerra fosse finita, comunque era finito l' inverno. Nella cittadina Jòzek non aveva visto traccia di tedeschi: se c' erano, se ne stavano acquattati. Non aveva avuto bisogno di dare spiegazioni né di mercanteggiare, i contadini avevano imparato da un pezzo che con i partigiani (di qualsiasi colore) non si doveva essere né curiosi né avari. Al ritorno, Jòzek vide una buona metà della banda schierata in silenzio sulla sponda del fiume; Gedale seduto su un ceppo, con i piedi nell' acqua e il violino a mezz' aria; ed Izu, uno degli uomini di Blizna, peloso come un orso e tutto nudo, che guadava lentissimo, passo dopo passo, verso uno scoglio in mezzo alla corrente. Tutti lo stavano guardando, e lui faceva cenno a tutti di non muoversi e non parlare. Quando fu ai piedi dello scoglio, si immerse completamente, sempre con estrema prudenza; si vide l' acqua agitarsi per un istante, ed Izu emerse stringendo fra le mani un grosso pesce che si dibatteva. Lo morse dietro la testa, e il pesce si afflosciò: era lungo due palmi, le sue scaglie color bronzo scintillavano al sole. _ Che cosa ha preso, Izu? _ chiese Gedale. _ Credevo che fosse una trota; invece è un sazàn! _ rispose Izu orgoglioso, risalendo la riva. _ È strano, nell' acqua così bassa _. Si accovacciò presso una pietra piatta, sventrò il pesce, lo lavò nell' acqua corrente, lo incise lungo il dorso con il coltello, e prese a staccarne la carne dai fianchi ed a mangiarla. _ Come, non lo fai cuocere? _ Il pesce cotto non ha più vitamine, _ rispose Izu masticando. _ Però è più gustoso. E poi ha più fosforo, e il fosforo fa diventare intelligenti. Si vede che voi di Blizna lo mangiate sempre crudo. Gedale salutò Jòzek da lontano, agitando la mano: _ Bravo, Jòzek, per una settimana siamo a posto _. Poi riprese a suonare il violino: si era spogliato fino alla cintura, ed aveva in viso un' espressione estatica, non si capiva se per la musica o per il pediluvio, ma Bella non gli dava requie. Delle tre donne che erano arrivate a Turov con la banda sembrava che Bella fosse la più vicina a Gedale, che si ritenesse la sua donna legittima e definitiva, e che Gedale fosse di opinione diversa oppure non si curasse di definire la questione. Insieme con altri, Bella stava montando una tenda militare, ma continuamente si interrompeva, ed interrompeva Gedale gridandogli all' orecchio come a un sordo; Gedale le rispondeva pazientemente, riprendeva a suonare, e di nuovo Bella lo interrompeva con le sue doglianze: _ Smettila con quel violino: vieni piuttosto a dare una mano! _ Appendilo ai salici, Gedale! _ gridò Dov di lontano. _ Non siamo ancora a Gerusalemme, ma non siamo più a Babilonia, _ rispose Gedale, e riprese a suonare. Bella era una biondina esile dal lungo viso imbronciato. Dimostrava una quarantina d' anni, mentre Gedale non doveva aver oltrepassato i trenta; distribuiva spesso rimbrotti e critiche, e dava ordini che nessuno eseguiva, ma non mostrava di risentirsene. Gedale la trattava con tenerezza appena tinta di ironia. Nella tarda mattinata le sentinelle avvistarono un uomo solo, che di lontano gridava "Non sparate!"; lo lasciarono avvicinare, ed era Piotr. Gedale lo accolse senza mostrare stupore: _ Bravo, hai fatto bene a venire con noi. Siediti, fra poco si mangia. _ Compagno comandante, _ disse Piotr, _ ho solo la rivoltella, il parabellum l' ho lasciato a quelli di Ulybin. _ Se lo portavi con te era meglio, ma non importa. _ Vedi, io lo so che non ho fatto bene, ma con Ulybin ho litigato. Era troppo duro, non solo con me ma con tutti. E una sera abbiamo avuto una discussione seria ... una discussione politica. _ E avete parlato dei gedalisti, non è vero? _ Come hai fatto a indovinarlo? Gedale non rispose, ma domandò a sua volta: _ Non manderà a cercarti? Guarda che noi con Ulybin non vogliamo questioni. _ Non manderà a cercarmi. È lui che mi ha cacciato via. Mi ha detto di posare il parabellum e di andarmene. Me l' ha detto lui di venire da voi. _ Te lo avrà detto da arrabbiato. O da ubriaco: magari poi ci ripensa. _ Era arrabbiato ma non era ubriaco, _ disse Piotr. _ E poi, adesso loro sono a quattro o cinque giorni di marcia. E io non sono un disertore. Non sono venuto con voi per paura; sono venuto per combattere con voi. Quella sera, senza un motivo preciso, nel campo di Gedale si fece festa: forse perché era stato il primo giorno fuori delle paludi e dei pericoli, e il primo giorno di primavera aperta; forse perché l' arrivo di Piotr aveva rallegrato tutti; o forse soltanto perché, frammezzo agli altri viveri accatastati sulla groppa del Tordo, Jòzek aveva riportato anche un barilotto di vodka polacca. Avevano acceso un fuoco fra due dune di sabbia e tutti sedevano intorno a cerchio; Dov disse a Gedale che forse era un' imprudenza, e allora Gedale spense il fuoco, ma il bagliore delle braci riscaldava gli animi ugualmente. Il primo ad esibirsi fu Pavel. Nessuno lo aveva chiamato, ma si mise fieramente in piedi presso le braci, prese un pezzo di carbone e si tracciò sul labbro superiore due baffetti, si tirò sulla fronte un ciuffo di capelli bagnati, salutò tutti col braccio teso all' altezza degli occhi, e incominciò a concionare. Dapprima parlò in tedesco, con rabbia crescente: il suo era un discorso improvvisato, contava più il tono che il contenuto, ma tutti risero quando lo udirono rivolgersi ai soldati tedeschi incitandoli a combattere fino all' ultimo uomo, e chiamandoli volta a volta eroi della Grande Germania, figli di puttana, cani celesti, difensori del nostro sangue e del nostro suolo, e buchi del culo. A grado a grado, la sua collera si faceva più rovente, fino a soffocargli la parola in un ringhio canino interrotto da accessi di tosse convulsa. Ad un tratto, come se fosse scoppiato un ascesso, lasciò il tedesco e continuò in jiddisch, e tutti si torsero dalle risa: era straordinario sentire Hitler, nel pieno del suo delirio, che nella lingua dei paria incitava qualcuno a massacrare qualcun altro, non si capiva se i tedeschi a massacrare gli ebrei o viceversa. Lo applaudirono con frenesia, gli chiesero il bis, e Pavel dignitosamente, invece di replicare il suo numero (che, spiegò, aveva collaudato nel 1937 in un cabaret di Varsavia) cantò "O sole mio", in una lingua che nessuno comprendeva e che lui sosteneva essere italiano. Poi venne sulla scena Mottel il Tagliagole. Mottel era un ometto dalle gambe corte e dalle braccia lunghissime, agile come una scimmia. Arraffò tre, poi quattro, poi cinque tizzoni, e se li fece volteggiare intorno, sopra la testa, sotto le gambe; sullo sfondo del cielo viola si disegnava un intrico sempre nuovo di parabole rutilanti. Fu applaudito, ringraziò inchinandosi ai quattro punti cardinali, e si ritirò imitando l' andatura sghemba dell' orango. Perché Tagliagole? Spiegarono a Mendel che Mottel non era il primo venuto. Era di Minsk, aveva trentasei anni, ed era tagliagole due volte. Nella prima metà della sua carriera era stato un tagliagole rispettabile: per quattro anni era stato il shokhèt, il macellaio rituale, della Comunità. Aveva superato l' esame prescritto, possedeva la licenza, ed era considerato un esperto nell' arte di mantenere affilato il coltello e di recidere con un solo colpo la trachea, l' esofago e le carotidi dell' animale. Ma poi (per colpa di una donna, si sussurrava) si era messo su una cattiva strada: aveva abbandonato la moglie e la casa, si era intruppato con la malavita locale, e, pur senza dimenticare il suo mestiere precedente e la preparazione teorica, era diventato bravo anche a tagliare le borse e a dare la scalata ai balconi. Aveva conservato il coltello rituale, lungo e con la punta ottusa; tuttavia, ad emblema del suo nuovo indirizzo, ne aveva spezzato obliquamente l' estremità, ricavandone una punta acuminata. Così modificato, il coltello si prestava anche ad altri usi. _ Una donna! Avanti una donna! _ gridò qualcuno con voce rauca di vodka. Si fece avanti Bella pettinandosi i capelli color della stoppa, ma Pavel, barcollando come un orso, la urtò con l' anca rimandandola nel cerchio degli spettatori, e riprese il suo posto. Non aveva ancora finito, e non si capiva se fosse ubriaco o fingesse soltanto. Questa volta era un rabbino chassidico; ubriaco, naturalmente, che snocciolava le preghiere del Sabato in preteso ebraico, di fatto in un russo da postribolo. Pregava a perdifiato, a velocità vertiginosa, perché (spiegò in un a parte) fra una stecca e l' altra non deve passare il porcellino: fra una parola sacra e l' altra non deve potersi far strada il pensiero profano. Questa volta gli applausi furono più moderati. Bella non si era arresa. Si accostò alle braci, levò in gesto grazioso la mano sinistra, pose la destra sul cuore e incominciò a cantare una romanza, "Si me ne andrò lontana"; ma non andò molto lontana, perché dopo poche battute la voce le si fece stridula e scoppiò a singhiozzare. Venne Gedale, la prese per mano e la condusse da parte. Da molte parti si faceva il nome di Dov. _ Vieni fuori, siberiano, _ gli disse Piotr, _ e raccontaci che cosa hai visto nella Grande Terra _. Gli fece seguito Pavel, che si era assunto il ruolo di maestro della festa: _ Ed ora, ecco per voi David Yavor, il più saggio fra noi, il più anziano e il più amato. Avanti, Dov, tutti ti vogliono vedere e ascoltare _. Era sorta la luna, quasi piena, e illuminava i capelli bianchi di Dov, che si avviò malvolentieri al centro dell' arena. Fece un riso timido e disse: _ Che cosa volete da me? Non so né cantare né ballare, e quello che ho visto a Kiev ve l' ho già raccontato troppe volte. _ Raccontaci di tuo nonno nichilista. _ Raccontaci della caccia all' orso al tuo paese. _ Raccontaci di quella volta che sei scappato dal treno dei tedeschi. _ Raccontaci della cometa _; ma Dov si schermì: _ Sono tutte cose che ho già raccontate, e non c' è noia più grande che ripetersi. Facciamo qualche gioco, invece; o qualche gara. _ La lotta! _ disse Piotr. _ Chi vuole misurarsi con me? Per qualche momento nessuno si mosse; poi ci fu una breve discussione fra Line e Leonid. Leonid intendeva accettare la sfida, e Line, per qualche motivo, cercava energicamente di dissuaderlo. Alla fine Leonid si svincolò; i due contendenti si sfilarono la giubba e gli stivali e si posero in guardia. Si afferrarono a vicenda per le spalle, cercando di ribaltarsi col gioco delle gambe; ruotarono più volte attorno, poi Leonid tentò di cingere Piotr alla vita e non ci riuscì. I due cani della banda abbaiavano inquieti, ringhiavano e rizzavano il pelo. Piotr, oltre che più forte di Leonid, era avvantaggiato dalle braccia più lunghe. Dopo una schermaglia confusa e non troppo corretta, Leonid cadde e Piotr gli fu subito sopra, facendogli toccare la terra con le spalle. Piotr salutò il pubblico con le mani levate, e si trovò davanti Dov. _ Che cosa vuoi, zio? _ chiese Piotr: era più alto di Dov di quasi tutta la testa. _ Lottare con te, _ rispose Dov, e si mise in guardia, ma con indolenza, con le mani che pendevano molli dai polsi, nell' atteggiamento che gli era abituale nei momenti di riposo. Piotr attese, perplesso. _ Ora ti insegno una cosa, _ disse Dov, e si fece sotto. Piotr arretrò tenendolo d' occhio. Il movimento di Dov, nel pallido chiarore della luna, non si distinse bene; si vide Dov tendere una mano e un ginocchio, abbassandosi leggermente, e Piotr vacillare sbilanciato e cadere sulla schiena. Si rialzò e si scosse via la polvere: _ Dove hai imparato questi colpi? _ chiese impermalito; _ te li hanno insegnati da militare? _ No, _ rispose Dov, _ me li ha insegnati mio padre _. Gedale disse che Dov avrebbe dovuto istruire tutta la banda in quel modo di lottare, e Dov rispose che lo avrebbe fatto volentieri, specialmente con le donne. Tutti risero, e Dov aggiunse che quella era la lotta dei Samoiedi: nel luogo dove lui era nato erano state deportate diverse famiglie di Samoiedi. _ Sono i russi che li hanno chiamati così, perché credevano che mangiassero carne umana: "Samo-jed" vuol dire "mangia-se-stesso", ma a loro questo nome non piace. Sono brava gente, e da loro si imparano molte cose; ad accendere il fuoco quando c' è il vento, a ripararsi dalla tormenta sotto un cumulo di fascine. Anche a guidare le slitte trainate dai cani. _ Questo, è meno facile che ci venga utile, _ osservò Piotr. _ Ma questo, invece, può servire, _ disse Dov. Dal cinturone che Piotr aveva deposto insieme con la giubba, estrasse il coltello; lo afferrò con le due dita per la punta, lo librò per un momento come per prendere la mira, poi lo scagliò contro il tronco di un acero, lontano otto o dieci metri. Il coltello volò volteggiando e si piantò profondo nel legno. Provarono altri, primo fra tutti Piotr, stupito e ingelosito, ma nessuno riuscì, neppure riducendo a metà la distanza dall' albero: nel migliore dei casi, il coltello colpiva il tronco col manico o di piatto e cadeva a terra. Gedale e Mendel non riuscirono neppure a centrare il tronco. _ Peccato che al posto dell' acero non ci fosse il Dottor Goebbels, _ disse Jòzek, che non aveva preso parte né allo spettacolo né ai giochi. Dov spiegò che per uccidere un uomo non va bene un coltello qualunque; ci vogliono coltelli speciali, sottili ma pesanti, e ben bilanciati. _ Capito, Jòzek? _ disse Gedale, _ tienilo a mente, la prossima volta che vai al mercato. Alcuni dormivano già quando Gedale prese il violino e cominciò a cantare; ma non cantava per essere applaudito. Cantava sommesso, lui che era così chiassoso quando parlava; altri gedalisti si unirono, alcune voci del coro erano armoniose ed altre meno, ma tutte erano convinte e risentite. Mendel e i suoi ascoltarono con stupore il ritmo, che era alacre, quasi di una marcia, e le parole, che erano queste: "Ci riconoscete? Siamo le pecore del ghetto, Tosate per mille anni, rassegnate all' offesa. Siamo i sarti, i copisti ed i cantori Appassiti nell' ombra della Croce. Ora abbiamo imparato i sentieri della foresta, Abbiamo imparato a sparare, e colpiamo diritto. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando? I nostri fratelli sono saliti al cielo Per i camini di Sobibòr e di Treblinka, Si sono scavati una tomba nell' aria. Solo noi pochi siamo sopravvissuti Per l' onore del nostro popolo sommerso Per la vendetta e la testimonianza. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando? Siamo i figli di Davide e gli ostinati di Massada. Ognuno di noi porta in tasca la pietra Che ha frantumato la fronte di Golia. Fratelli, via dall' Europa delle tombe: Saliamo insieme verso la terra Dove saremo uomini fra gli altri uomini. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando?" Finito che ebbero di cantare, tutti si addormentarono avvolti nelle coperte; vegliarono solo le sentinelle, arrampicate sugli alberi ai quattro angoli dell' accampamento. Al mattino Mendel chiese a Gedale: _ Che cosa cantavate ieri sera? È il vostro inno? _ Chiamalo così se vuoi; ma non è un inno, è solo una canzone. _ L' hai composta tu? _ La musica è mia, ma cambia un poco, di mese in mese, perché non sta scritta da nessuna parte. Le parole invece non sono mie. Eccole, guarda, sono scritte qui. Dalla tasca interna della giubba Gedale cavò fuori un plico di tela incerata legato con uno spago. Lo disfece e ne estrasse un foglio quadrettato, sgualcito, intestato 13 Juni, Samstag. Era stato strappato senza garbo da un' agenda, ed era fittamente ricoperto di caratteri jiddisch tracciati a matita. Mendel lo prese, lo guardò con attenzione, poi lo rese a Gedale: _ Leggo a stento i caratteri stampati, e il corsivo non lo leggo affatto. L' ho dimenticato. Gedale disse: _ Io ho imparato a leggerlo tardi, nel '42, nel ghetto di Kossovo: in una occasione è servito come linguaggio segreto. A Kossovo c' era con noi Martin Fontasch. Di mestiere era carpentiere, si è guadagnato da vivere così fino alla fine, ma la sua passione era comporre canzoni. Faceva tutto da solo, le parole e la musica, ed era conosciuto in tutta la Galizia; si accompagnava con la chitarra, e cantava le sue canzoni ai matrimoni e alle feste di paese; qualche volta anche nei caffè concerto. Era un uomo pacifico e aveva quattro figli, ma è stato con noi nella rivolta del ghetto, è scappato con noi ed è venuto nel bosco, lui solo e non più giovane: tutti i suoi erano stati uccisi. Nella primavera dell' anno scorso eravamo dalle parti di Novogrudok e c' è stato un brutto rastrellamento; metà dei nostri sono morti combattendo, Martin è stato ferito ed è caduto prigioniero. Il tedesco che lo ha perquisito gli ha trovato in tasca un flauto: più che un flauto era un piffero, un giocattolo da quattro soldi che Martin si era fatto da sé intagliando un ramo di sambuco. Ora quel tedesco era un suonatore di flauto: ha detto a Martin che un partigiano si impicca e un ebreo si fucila, lui era ebreo e partigiano, e poteva scegliere. Però era anche un suonatore, e allora lui, essendo un tedesco che amava la musica, gli concedeva di esprimere un ultimo desiderio: ma che fosse un desiderio ragionevole. _ Martin chiese di comporre un' ultima canzone, e il tedesco gli concesse mezz' ora di tempo, gli diede questo foglio e lo chiuse in una cella. Trascorso il tempo, ritornò, si fece dare la canzone e lo uccise. È stato un russo che ci ha raccontato questa storia; da principio collaborava coi tedeschi , poi i tedeschi lo sospettarono di fare il doppio gioco e lo chiusero nella cella accanto a quella di Martin, ma riuscì ad evadere e rimase con noi qualche mese. Pare che il tedesco fosse fiero della canzone di Martin; la faceva vedere in giro come una curiosità e si riprometteva di farsela tradurre alla prima occasione. Ma non ha fatto in tempo. Noi lo tenevamo d' occhio, lo abbiamo seguito, lo abbiamo isolato, e una notte siamo entrati scalzi nell' isba requisita dove lui abitava. A me piace la giustizia e avrei voluto chiedergli qual era il suo ultimo desiderio, ma Mottel mi faceva fretta, così io l' ho strozzato nel suo letto. Gli abbiamo trovato addosso il flauto di Martin e la canzone: a lui non ha portato fortuna, ma per noi è come un talismano. Ecco, guarda qui: fin quaggiù è il testo che ci hai sentito cantare, e queste parole in fondo dicono così: "Scritto da me Martin Fontasch, che sto per morire. Sabato 13 giugno 1943". L' ultima riga non è in jiddisch ma in ebraico; sono parole che tu conosci, "Ascolta Israele, il Signore Iddio nostro è unico". _ Aveva composto molte altre canzoni, allegre e tristi; la più famosa l' aveva scritta molti anni prima che in Polonia arrivassero i tedeschi, in occasione di un pogrom: a quel tempo, a fare i pogrom ci pensavano i contadini. Quasi tutti i polacchi la conoscono, non solo gli ebrei, ma nessuno sa che l' ha composta Martin il carpentiere. Gedale rifece il plico e lo rimise in tasca: _ Adesso basta, pensieri come questi non sono per tutti i giorni. Vanno bene ogni tanto, ma se uno ci vive dentro se ne avvelena e non è più un partigiano. E tieni bene a mente che io credo in tre cose soltanto, alla vodka, alle donne e al parabellum. Una volta credevo anche nella ragione, ma adesso non più. Qualche giorno dopo Gedale decise che il riposo era durato abbastanza, ed era tempo di riprendere il cammino: _ ... ma questa è una banda aperta, e chi preferisce rimanere in Russia se ne può andare; senza le armi, s' intende. Può aspettare il fronte, o andare dove gli pare _. Nessuno scelse di lasciare la banda, e Gedale chiese a Piotr: _ Conosci questo paese? _ Abbastanza, _ rispose Piotr. _ Quanto è distante la ferrovia? _ Una dozzina di chilometri. _ Benissimo, _ disse Gedale. _ La prossima tappa la facciamo in treno. _ In treno? Ma tutti i treni sono scortati! _ disse Mendel. _ Ebbene, provare si può sempre. Con le scorte si ragiona _. A Gedale apparve più seria l' obiezione di Pavel: _ E il cavallo? Non vorrai mica abbandonarlo. Oltre a tutto ci serve, metà dei bagagli li porta lui. Gedale si rivolse di nuovo a Piotr: _ Che treni passano su questa linea? _ Treni merci, quasi tutti; a volte c' è a bordo anche qualche passeggero, gente che fa la borsa nera. Se portano materiale per i tedeschi, sono scortati, ma non è mai una grossa scorta: due uomini sulla locomotiva e due in coda. Tradotte militari di qui non ne passano mai. _ Qual è la stazione più vicina? _ È Kolki, quaranta chilometri a sud: è una piccola stazione. _ C' è il piano caricamento? _ Non lo so. Non ricordo. Intervenne Dov: _ Ma perché ci vuoi far prendere il treno? Gedale rispose con impazienza: _ E perché non dovremmo prenderlo? Camminiamo da più di mille chilometri; e la ferrovia è a due passi; e insomma io voglio entrare in terra polacca in una maniera che la gente si ricordi di noi. Ci pensò su un momento e aggiunse: _ Abbordare un treno in stazione è troppo pericoloso. Bisogna fermarlo in aperta campagna, ma allora il cavallo non può salire. Ecco, il grosso dei bagagli li prendiamo noi, tanto la tappa è breve; tu Pavel vai avanti col cavallo e ci aspetti a Kolki. Pavel non era convinto: _ E se non arrivate? _ Se non arriviamo ci vieni incontro col cavallo. _ E se il piano caricamento non c' è? Gedale scosse le spalle: _ E se, e se, e se! Solo i tedeschi prevedono tutto, ed è per questo che perdono le guerre. Se non c' è ci arrangeremo. Vedremo sul posto, il modo non ci mancherà. Parti, Pavel; ricordati che sei un contadino, e non farti vedere troppo nell' abitato. Da queste parti, i tedeschi i cavalli li requisiscono. Pavel partì al trotto, ma era ancora in vista quando il Tordo ricadde nel suo solenne passo abituale. Gedale e i suoi si misero in marcia e in poco più di due ore raggiunsero la ferrovia. Era a un solo binario, e tagliava la prateria da un orizzonte all' altro diritta come un raggio di luce. È facile confondere la speranza con la probabilità. Tutti si aspettavano che il treno venisse da nord e fosse diretto al confine polacco; dopo qualche ora di attesa lo videro invece arrivare da sud. Era un merci e viaggiava lentamente. Gedale fece appostare uomini armati dietro i cespugli ai due lati dei binari, poi, in maniche di camicia e disarmato, si pose fra le rotaie sventolando uno straccio rosso. Il treno rallentò e si fermò, e dalla cabina di guida incominciarono immediatamente a sparare. Gedale scattò via in un lampo e si defilò dietro un nocciolo; tutti gli altri risposero al fuoco. Mendel, mentre anche lui sparava cercando di centrare le feritoie della locomotiva, ammirò la preparazione militare dei gedalisti. Da quanto aveva visto delle loro maniere fino a quel momento, si sarebbe aspettato che fossero spericolati, come infatti erano; ma non aveva previsto la precisione e l' economia del loro fuoco, e la tecnica corretta con cui si erano disposti. Sarti, copisti e cantori, diceva la loro canzone: ma avevano imparato presto e bene il loro nuovo mestiere. L' inesperto e lo spaurito si riconoscono subito, perché cercano il riparo massiccio, la roccia o il grosso tronco, che proteggono sì, ma impediscono di spostarsi e di sparare senza esporre il capo. Invece tutti si erano appiattati dietro cespugli folti, e sparavano attraverso le foglie, spostandosi spesso per disorientare l' avversario. Anche la scorta del treno, al riparo delle lamiere, sparava preciso e fitto: dovevano essere almeno quattro uomini, e non facevano economia di munizioni. Nel vagone di coda, invece, non c' era difesa. Mendel vide a un tratto Mottel balzare fuori ed avventarsi al convoglio. In un attimo si arrampicò sul tetto dell' ultimo vagone; lassù era al riparo, e del resto dalla cabina non lo avevano visto. Aveva appesa alla cintura una granata a mano tedesca, di quelle a forma di clava, che esplodono a tempo, e correva verso la locomotiva di vagone in vagone, saltando le giunzioni. Quando fu sul tetto del primo vagone lo si vide strappare l' innesco della granata e aspettare qualche secondo; poi, con la granata stessa, ruppe il vetro del lunotto della cabina e lasciò cadere la granata nell' interno. Ci fu l' esplosione ed il fuoco cessò. Nella cabina trovarono che i tedeschi della scorta erano solo tre; uno era ancora vivo, e Gedale lo finì senza esitare. Anche il macchinista e il fuochista erano morti; peccato, disse Gedale, loro non c' entravano e ci sarebbero stati utili: beh, chi serve i tedeschi ha dei rischi e lo sa. Faceva il broncio come un bambino. L' iniziativa di Mottel era stata brillante ma aveva guastato i suoi piani: _ E chi la fa muovere, adesso? Chissà la tua bomba che guai ha combinato sulle leve di comando; e oltre a tutto bisogna invertire la marcia. _ Tu, comandante, sei una testa dura e non sei mai contento, _ disse Mottel che si aspettava un elogio. _ Io ti regalo un treno e tu mi critichi. Un' altra volta voi andate all' attacco e io accendo la pipa. Gedale non gli diede ascolto, e disse a Mendel di salire in cabina e di vedere se se la cavava a rimettere la macchina in moto. Altri uomini intanto stavano ispezionando il convoglio. Ritornarono delusi: non portava roba pregiata, solo sacchi di cemento, calce e carbone. Gedale fece sgomberare dal cemento due vagoni coperti, per gli uomini e per il cavallo: non aveva abbandonato l' idea della scampagnata ferroviaria. Era molto eccitato; ordinò di tagliare tutti i sacchi col coltello, poi ci ripensò e ne fece accatastare un buon numero fra i binari davanti alla motrice: _ Con meno fretta si sarebbe potuto fare un buon lavoro; ma anche così, con un po' di pioggia e un po' di fortuna, farà un bel blocco _. Poi salì in cabina da Mendel: _ Allora? Che cosa mi sai dire? _ Una locomotiva non è un orologio, _ rispose Mendel seccato. _ Nu, sempre ingranaggi sono, e la tua non è una risposta. Una locomotiva non è un orologio, e un orologiaio non è un ferroviere, e un bue non è un porco, e uno come me non è un capobanda, ma fa il capobanda e lo fa meglio che può; anzi, fa il capobandito _. Qui Gedale rise, di quel suo riso facile che rischiarava l' aria in un attimo. Rise anche Mendel: _ Adesso scendi, che proviamo. Gedale scese e Mendel armeggiò fra i comandi. _ Attento, ora do il vapore _. Il fumaiolo sbuffò, i respingenti gemettero, e il convoglio si spostò a ritroso di qualche metro; tutti gridarono "urrà", ma Mendel disse: _ C' è ancora pressione in caldaia, ma durerà poco. Non basta il macchinista, ci vuole anche il fuochista _. Quanto erano efficienti i gedalisti nel combattimento, altrettanto erano confusionari nelle scelte di pace. Nessuno voleva fare il fuochista; dopo un' intricata discussione, a Mendel fu assegnata come aiutante una donna, che però era forte come un uomo: Ròkhele Nera, che doveva scontare una punizione perché diversi giorni prima, nel corso della pulizia delle armi, aveva smarrito la molla di un moschetto. Si chiamava Ròkhele Nera per distinguerla da Ròkhele Bianca: era scura in viso come una zingara, magra e svelta. Aveva gambe lunghissime, lungo anche il collo, che reggeva un piccolo viso triangolare illuminato dagli occhi ridenti ed obliqui. Portava i capelli neri raccolti in una crocchia. Era anche lei una veterana di Kossovo, benché avesse poco più di vent' anni. Ròkhele Bianca invece era una creatura semplice e mite, che non parlava quasi mai, e quando parlava lo faceva con voce così bassa che si stentava a capirla. Per questi motivi nessuno sapeva nulla di lei, né lei sembrava desiderosa di far sapere qualcosa a qualcuno: seguiva passivamente il cammino della banda, obbediva a tutti e non protestava mai. Veniva da un remoto villaggio della Galizia ucraina. Mendel mostrò alla Nera come doveva fare per alimentare la caldaia, tutti gli altri salirono sui due vagoni liberi e il treno si mosse, spinto invece che trainato. Mendel bloccò la manetta del vapore su una velocità molto bassa, perché dalla cabina non poteva vedere la via. Jòzek si era installato col mitra nell' abitacolo del frenatore, sull' ultimo vagone che ora era il primo, e faceva da battistrada; ogni tanto si sporgevano entrambi, e Jòzek segnalava a Mendel se la via era libera. La fuochista rideva come a un gioco e impalava carbone con entusiasmo infantile; in breve fu tutta sudata, e nera sul serio, da capo a piedi, tanto che occhi e denti brillavano come fanali nel buio. Mendel, invece, non si divertiva affatto. La soddisfazione per aver domato quel bestione meccanico si spense presto; il sangue sul pavimento di lamiera lo metteva a disagio, si sentiva inquieto per quella marcia fatta quasi alla cieca, e l' intera impresa gli sembrava una follia gratuita e un' imprudenza estrema. Non capiva quali lontane intenzioni avesse Gedale. A metà strada si dovette convincere che Gedale aveva raramente intenzioni lontane, e preferiva improvvisare: si era sporto dal vagone e gli faceva cenno di fermare. Fermò, e scesero tutti e due. _ Senti, orologiaio, mi è venuto in mente che sarebbe bene danneggiare questo treno più che possiamo. Che cosa si può fare? _ Qui, proprio niente, _ rispose Mendel. _ Se andassimo per diritto invece che a rovescio, potremmo sganciare i vagoni e bloccarli in qualche modo, ma così è un altro discorso. Ecco, il solo lavoro che si può fare è di ribaltare le sponde dei vagoni scoperti; così, con le scosse, tutta la calce e il carbone finiranno sparsi sulla scarpata. _ E i vagoni stessi e la locomotiva? _ Ci penseremo dopo, _ disse Mendel. _ Quando tu ne avrai avuto abbastanza. Gedale ignorò la provocazione, mandò tre uomini a ribaltare le sponde, e il treno ripartì seminando allegramente il materiale dai due lati. Arrivarono a Kolki nel primo pomeriggio, e i vagoni erano quasi vuoti: Pavel col cavallo li aspettava sul piano caricamento. Nella stazioncina non c' era nessuno, salvo il capostazione, che però vide il mitragliatore in mano a Jòzek, fece una specie di saluto militare e si ritirò. Mendel frenò, caricò in un istante Pavel e il Tordo, e ripartì. Gedale era felice, e fece segno a Mendel di andare avanti, e più in fretta: "A Sarny! A Sarny!" Al di sopra dello strepito della macchina, dai due vagoni arrivavano fino a Mendel grida e canti, e i nitriti di Tordo spaventato. Poco dopo fu Mendel che prese l' iniziativa di fermare il treno presso un fiumiciattolo che solcava la steppa disabitata. Non solo per riposarsi e per dar modo a Ròkhele di lavarsi un poco, ma anche per avvisare che l' acqua del serbatoio stava per finire. Tutti si misero al lavoro, facendo la spola al fiume con i pochi recipienti disponibili: qualche pentola di cucina e un secchio trovato sulla motrice. L' operazione andava per le lunghe, e Mendel ne approfittò per ascoltare Pavel, che stava raccontando quanto aveva visto a Kolki. _ Non abbiamo corso nessun rischio, né il cavallo né io. Nessuno si è occupato di noi né ci ha rivolto la parola, eppure credo proprio che nessuno mi abbia preso per un contadino. Tedeschi non ne ho visti; ci devono pur essere, perché davanti al municipio c' erano i loro manifesti di propaganda, ma in strada non si fanno vedere. La gente non ha più paura di parlare, o ne ha meno di prima; sono entrato in un' osteria, c' era la radio accesa, e la voce era quella di Radio Mosca: diceva che i russi hanno ripreso la Crimea, che tutte le città tedesche sono bombardate di giorno e di notte, e che in Italia gli alleati sono alle porte di Roma. Ah, come è bello passeggiare nelle strade di un paese, vedere i balconi con i vasi di fiori, le insegne dei negozi, le finestre con le tendine! Guardate che cosa vi ho portato: l' ho staccato io dal muro, ce n' è su tutte le cantonate. Pavel mostrava in giro un manifesto, stampato in grossi caratteri su brutta carta gialliccia, in russo e in polacco. Diceva: "Non lavorate per i tedeschi, non date loro informazioni. Chi fornirà grano ai tedeschi verrà ucciso. Lettore, ti stiamo spiando; se strappi questo manifesto ti spareremo". _ E tu lo hai strappato? _ chiese Mottel. _ Non l' ho strappato, l' ho staccato: è un' altra cosa. L' ho staccato con rispetto, chiunque si sarebbe accorto che lo portavo via per farlo vedere a qualcuno; e difatti non mi hanno sparato. Vedete? è firmato dal Reggimento Stella Rossa: comandano loro. _ Comandiamo anche noi, _ interruppe Gedale con impeto. _ Entreremo a Sarny a modo nostro: in modo da farci ricordare. Chi conosce Sarny? La conosceva Jòzek, che ci aveva fatto il servizio militare nell' esercito polacco: una cittadina modesta, forse ventimila abitanti. Qualche fabbrica, una filanda e un' officina per la riparazione del materiale ferroviario. La stazione? Jòzek la conosceva benissimo perché ci era stato di presidio poco prima che scoppiasse la guerra; Sarny era l' ultima città polacca prima della frontiera, i russi ci erano entrati senza combattere, subito dopo l' inizio delle ostilità. Era una stazione abbastanza importante, perché ci passava la linea per Lublino e Varsavia, e per via dell' officina di riparazioni. C' era un gran capannone e una piattaforma girevole, appunto per avviare le locomotive all' officina. Gedale si illuminò, e disse a Mendel: _ La tua macchina farà una fine gloriosa _. Mendel disse che sperava di non farla anche lui. Gedale fece fermare il treno a notte, all' imbocco dello smistamento, e fece scendere tutti dai vagoni. Il cavallo, impaurito dal buio, si imbizzarrì: rifiutava di scendere, tentava di inalberarsi, nitriva convulso e scalciava contro la parete di fondo del vagone. Lo tirarono e spinsero, alla fine si decise a saltare, ma atterrò malamente rompendosi una zampa anteriore; Pavel si allontanò senza dire parola, e Gedale lo finì sparandogli nella nuca. Anche la stazione di Sarny sembrava deserta: nessuno reagì allo sparo. Gedale disse a Mendel di spingere i vagoni su un binario laterale, e a Jòzek e Pavel di andare avanti cauti, e di deviare gli scambi in direzione della piattaforma; tornarono a lavoro compiuto, e riferirono che il ponte della piattaforma era in posizione trasversale rispetto al binario di arrivo: benissimo, disse Gedale. Avrebbe mandato la locomotiva a fracassarsi nella fossa della piattaforma, l' officina sarebbe rimasta bloccata per almeno un mese. _ Non sei convinto, orologiaio? Ti ci sei affezionato, eh? Un poco anch' io, ma ad andare più avanti non mi fido, e non la voglio regalare ai tedeschi. E ti dirò una cosa che ho imparata nei boschi: le imprese che riescono meglio sono quelle che il tuo nemico non crede che tu possa fare. Su, spingi via i vagoni, metti in moto la macchina e salta giù. Mendel obbedì. La locomotiva senza equipaggio sparì nel buio, visibile soltanto per le faville che scaturivano dal fumaiolo. Tutti aspettarono col fiato sospeso; pochi minuti dopo si udì un fracasso di lamiere sfondate, un rombo di tuono, e un sibilo acuto che andò estinguendosi lentamente. Ululò una sirena d' allarme, si sentirono voci concitate, i gedalisti fuggirono in silenzio verso la campagna. Mentre camminava a tentoni, nel buio dell' oscuramento, inciampando nelle rotaie e nei cavi, ronzavano nella testa di Mendel, incongrue, le parole della benedizione dei miracoli: "Benedetto sii Tu o Signore Dio nostro, re del mondo, che hai fatto per noi un miracolo in questo luogo". In questo modo la banda di Gedale segnò il suo ingresso nel mondo abitato.

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Avvistarono un mulino a vento, lo esplorarono, e lo trovarono abbandonato e vuoto. Vuoto, sì: farina non ce n' era, non un sacco, non una manciata, ma l' odore acido della farina fermentata pervadeva tutti i recessi della costruzione, commisto al sentore di muffa e di fungo del legno impregnato di pioggia. Tuttavia il tetto era stagno, e il locale delle macine era ragionevolmente asciutto; lungo le pareti correvano robusti scaffali, forse destinati a reggere i sacchi di grano. I gedalisti si sistemarono per la notte, parte sul pavimento, parte sugli scaffali stessi: alla luce delle candele, il luogo aveva assunto un aspetto pittoresco, metà teatro e metà retroscena. Comodo non era, ma c' era posto per tutti, anche coricati, e il tamburellare della pioggia sul tetto di legno era allegro e intimo. Isidor, uno degli scampati di Blizna, si era impadronito di una candela e di un pezzo di lamiera: sdraiato sul ventre, raschiava palmo a palmo il pavimento. Era il più giovane della banda, non aveva ancora compiuto diciassette anni; prima di unirsi a Gedale, era rimasto nascosto per quasi quattro anni, col padre, la madre e una sorellina, in una buca scavata sotto il pavimento d' una stalla. Il contadino padrone della stalla aveva estorto al padre tutto il denaro ed i valori della famiglia, e poi lo aveva denunziato alla polizia polacca. Isidor aveva avuto fortuna, quando erano venuti i tedeschi era fuori, ogni tanto uno dei quattro usciva a respirare aria pulita nel bosco: stava ritornando, si era nascosto, e dal nascondiglio aveva visto le SS, anche loro ragazzi, poco più anziani di lui, che uccidevano a bastonate il padre la madre e la sorella. Non avevano visi feroci, anzi, sembrava che si divertissero; dietro di loro, Isidor aveva visto il contadino e sua moglie, pallidi come la neve. Da allora, Isidor non ragionava più molto bene. Era un ragazzo dall' aria assente, un po' curvo lungo di braccia e di gambe; portava sempre un coltello alla cintura, e spesso farneticava di tornare al suo paese per uccidere quel contadino. _ Cosa fai, Isidor? Le pulizie di Pasqua? _ chiese Mottel dall' alto del suo scaffale. Isidor non rispose e continuò a raschiare: ogni tanto, quando aveva raccolto un pizzico di polverino bianchiccio, lo portava alla bocca, lo biascicava e poi sputava. _ Lascia stare, ti verrà il mal di pancia, _ disse Mottel, _ mangi più legno marcio che farina _. Spesso Isidor si metteva nei guai e bisognava sorvegliarlo; ma cercava di rendersi utile, e tutti gli volevano bene. Aveva l' ossessione della fame, e si metteva in bocca tutto quello che trovava. _ Tieni, mangia questa, _ gli disse Ròkhele Nera, tendendogli una manciata di uvaspina che aveva raccolta nel bosco. _ Fra poco ritorna Jòzek, qualcosa avrà trovato. Ritornò Jòzek, infatti, con poca roba e poca varietà. I contadini del luogo erano poveri ed anche diffidenti, non avevano simpatia né per i russi, né per gli ebrei, né per i partigiani; avevano accettato di trattare con lui solo perché aveva parlato in polacco, ma gli avevano dato solo uva e pane chiedendo un prezzo esorbitante. _ Per oggi e per domani ce n' è abbastanza, e poi vedremo, _ disse Gedale. _ Vedremo quale strategia seguire. Si era levato il vento, e sembrava di stare dentro una nave. La struttura, di colossali travi di legno appena sgrossato, scricchiolava, vibrava e beccheggiava. Le quattro pale, spoglie delle loro tele e bloccate da chissà quanto tempo, si mettevano in moto ad ogni colpo di vento per arrestarsi subito con un urto sordo. Il loro sforzo vano si trasmetteva in sussulti e schianti agli alberi ed agli ingranaggi; l' intera costruzione sembrava tendersi come un gigante schiavo che lottasse per scatenarsi. Solo Pavel era riuscito a prendere sonno, e russava supino, a bocca spalancata. _ Ih, qui è tutto pieno di vermi! _ disse a un tratto Isidor, che stava rovistando con uno stecco le commessure del pavimento. _ Lasciali stare, _ disse Bella allarmata, _ mangia il tuo pane e mettiti a dormire. Isidor si volse a Bella con un riso melenso: _ Certo, che li lascio stare. Io i vermi non li mangio: non sono kòscher. _ Sciocco, i vermi non si mangiano perché sono sporchi: non perché non sono kòscher, _ disse Bella, che si stava tagliando le unghie con una forbicina. Era quella la sola forbicina che la banda possedeva: Bella sosteneva che apparteneva a lei personalmente, e che chi la voleva usare gliela doveva chiedere in prestito e restituirla senza fallo. Ad ogni unghia tagliata, si contemplava il dorso della mano con attenzione e compiacimento, come un pittore dopo una pennellata. Intervenne Ròkhele Bianca, con un filo di voce: _ I vermi sono taréf appunto perché sono sporchi. Anche il porco è sporco, e per questo è taréf. Come si fa a non credere nel koscherùt? Tanto vale non essere ebrei. _ Per me, _ disse Jòzek, _ sono tutte storie di altri tempi. Il porco sarà sporco, ma la lepre e il cavallo sono puliti, eppure non sono kòscher. Perché? _ Non si può sapere tutto, _ rispose la Bianca infastidita, _ forse, al tempo di Mosè erano sporchi; o portavano qualche malattia. _ Appunto: l' hai detto tu stessa, sono cose di altri tempi. Se Mosè fosse qui con noi, in questo mulino, non ci penserebbe un momento a cambiare le leggi. Spaccherebbe le tavole, come aveva fatto quella volta che si era arrabbiato per il vitello d' oro, e ne farebbe di nuove. Specialmente se avesse visto le cose che abbiamo visto noi. _ Kòscher-schmòscher, _ sbadigliò Mottel, ricorrendo all' ingegnoso modo jiddisch di sminuire l' oggetto di cui si parla ripetendolo distorto: _ kòscher-schmòscher, io se avessi una lepre la mangerei. Anzi, domani metto su qualche trappola. Da ragazzo ero bravo per le trappole; bisogna che mi rifaccia la mano. Piotr stava a sentire a bocca spalancata. Si rivolse a Leonid, che sedeva accanto a lui: _ Perché non potete mangiare la lepre? _ Non lo so. So che non bisogna, ma non so dirti perché. È una bestia proibita, è scritto così nella Torà. Intervenne Dov: _ È proibita perché non ha il piede forcuto. Isidor disse: _ Ma allora, se i miei vermi avessero i piedi forcuti, si potrebbero mangiare? Gedale aveva notato la faccia sbalordita di Piotr: _ Non farci caso, russo. Se stai con noi, a queste faccende ti dovrai abituare. Tutti gli ebrei sono matti, ma noi siamo un po' più matti degli altri. È per questo che fino adesso abbiamo avuto fortuna, la nostra è la fortuna dei meschugge. Anzi, ora che ci penso: noi abbiamo un inno ma non abbiamo una bandiera. Dovresti farcene una, Bella, invece di perdere tempo con la toilette. Una bandiera di tutti i colori, e in mezzo, invece della falce, o del martello, o dell' aquila con due teste, o della stella di Davide, ci metterai un meschugge col berretto a sonagli e l' acchiappafarfalle. Poi si rivolse di nuovo a Piotr: _ Del resto, se sei venuto con noi è perché un po' matto lo sei anche tu, non c' è altra spiegazione. I russi sono o matti o noiosi, e si vede che tu sei del ramo dei matti. Ti troverai bene, anche se le nostre leggi sono un po' complicate; non preoccuparti, noi le rispettiamo solo quando non intralciano la partisanka, ma ci divertiamo a discuterle. Noi siamo bravi a fare le distinzioni, fra il puro e l' impuro, fra l' uomo e la donna, fra l' ebreo e il gòi, e distinguiamo anche fra le leggi della pace e le leggi della guerra. Per esempio: la legge della pace dice che non si deve desiderare la donna d' altri .... Piotr, che era sdraiato accanto a Ròkhele Nera, se ne allontanò un poco, forse inconsciamente. _ No, appunto, non devi preoccuparti. Qui tutti desiderano tutte. _ Comandante, tu non parli mai sul serio, _ interruppe Line, che invece parlava sempre sul serio. La sua voce di contralto, leggermente rauca, non era forte, ma aveva la virtù di imporsi sopra le altre voci. _ Sulla faccenda della donna d' altri noi abbiamo parecchio da dire. _ Noi chi? _ chiese Gedale. _ Noi donne. Prima di tutto: perché una donna può essere di un uomo, altro o no, e un uomo non può essere di una donna? Vi pare giusto? Per noi non è giusto, non è accettabile. Non è più accettabile; le donne oggi vanno in esilio come gli uomini, sono impiccate come gli uomini, e sparano meglio degli uomini. Basterebbe questo per far vedere che la legge mosaica è reazionaria. Pavel si era svegliato, ridacchiava e diceva qualcosa sottovoce a Piotr. Leonid taceva, ma guardava di sottecchi Line con aria preoccupata. Venne una forte raffica, la pioggia mista a grandine scrosciò contro la parete; il mulino cigolò e ruotò in blocco, come una giostra, sul gigantesco perno confitto nel suo alveo interrato. Isidor si strinse alla Bianca, che lo tranquillizzò carezzandolo sul capo ispido. _ Avanti, avanti, Line, _ disse Gedale. _ Non ti spaventerai per un po' di vento. Dicci qual è la tua legge; se non è troppo stretta, vedremo di obbedirla. _ Non è il vento che mi spaventa, siete voi. Siete dei cinici e dei primitivi. La nostra legge è semplice: finché non si è sposati, uomini e donne possono desiderarsi e fare l' amore quanto vogliono. L' amore, fino al matrimonio, deve essere libero, e di fatto è già libero, lo è sempre stato, e non c' è legge che lo possa imprigionare. Neanche la Bibbia dice niente di diverso; i nostri padri non erano diversi da noi, facevano l' amore come noi, allora come oggi. _ Allora più di oggi, _ disse Pavel, _ mica per niente la Bibbia incomincia con una chiavata. _ ... ma dopo il matrimonio non è più così, _ continuò Line senza dargli ascolto. _ Noi al matrimonio ci crediamo, perché è un patto, e i patti si mantengono. La moglie appartiene al marito, però anche il marito appartiene alla moglie. _ E allora noi non ci sposiamo, _ disse Gedale. _ Vero, Bella? _ Sta' zitto, guarda, _ rispose Bella, _ tanto lo sanno tutti che sei un sudicione. E di sposarmi non te l' ho mai chiesto. Come comandante potrai anche andare, ma come marito è meglio non parlarne. _ Benissimo, _ disse Gedale, _ lo vedi che andiamo sempre d' accordo. Abbiamo tempo a pensarci: prima, bisogna che finisca la guerra _. Poi si volse a Leonid, che stava accoccolato accanto a Line, scuro in viso: _ E tu, moscovita, che cosa pensi delle teorie della tua donna? _ Non penso niente. Lasciami in pace. _ ... e io non sono la donna di nessuno, _ aggiunse Line. _ Ma quante storie! _ disse Jòzek dal suo angolo, rivolto a uno degli uomini di Slonim. _ Giacobbe nostro padre, per esempio, aveva quattro donne che andavano benissimo d' accordo fra loro. Intervenne Mottel: _ Però non erano donne d' altri. Giacobbe era nel suo buon diritto, perché una l' aveva avuta per sbaglio, anzi per un inganno di Labano, e altre due erano schiave. Di mogli vere ne aveva una sola: era tutto regolare. _ Bravo, Mottel! _ disse Gedale. _ Non ti sapevo così istruito. Hai studiato in Jeschiva, prima di cominciare a tagliare gole? _ Ho studiato diverse cose, _ rispose Mottel con sussiego. _ Ho studiato anche il Talmud, e sapete che cosa dice il Talmud a proposito delle donne? Dice che a una donna che non sia la propria moglie non si deve parlare, e neppure fare segni, né con le mani, né coi piedi, né con gli occhi. Che non bisogna guardare i suoi abiti, neppure se non li indossa. Che ascoltare una donna che canta è come vederla nuda. Che è un peccato grave se due fidanzati si abbracciano: la donna ne esce impura, come se avesse le regole, e si deve purificare nel bagno rituale. _ Tutto questo sta nel Talmud? _ chiese Mendel, che non aveva parlato finora. _ Nel Talmud e altrove, _ disse Mottel. _ Che cosa è il Talmud? _ chiese Piotr. _ È il vostro Vangelo? _ Il Talmud è come una minestra con dentro tutte le cose che un uomo può mangiare, _ disse Dov. _ Però c' è il grano con la crusca, la frutta con i noccioli e la carne con le ossa. Non è tanto buona, ma nutre. È pieno di errori e di contraddizioni, ma proprio per questo insegna a ragionare, e chi lo ha letto tutto .... Pavel lo interruppe: _ Che cosa è il Talmud, te lo spiego io con un esempio. Stai bene attento: Due spazzacamini cadono per la canna di un camino; uno esce sporco di fuliggine, l' altro esce pulito. Ti domando: quale dei due va a lavarsi? Sospettando una trappola, Piotr si guardò intorno come in cerca di un aiuto. Poi si fece animo, e rispose: _ Si va a lavare quello che è sporco. _ Sbagliato, _ disse Pavel. _ Quello che è sporco vede il viso dell' altro, che è pulito, e crede di essere pulito anche lui. Invece, quello che è pulito vede la fuliggine sulla faccia dell' altro, crede di essere sporco e si va a lavare. Hai capito? _ Ho capito, sì. È ben ragionato. _ Ma aspetta; l' esempio non è ancora finito. Adesso ti faccio una seconda domanda. Questi due spazzacamini cadono una seconda volta per lo stesso camino, e ancora una volta uno è sporco e l' altro no. Chi va a lavarsi? _ Ti ho detto che ho capito. Va a lavarsi lo spazzacamino pulito. _ Sbagliato, _ disse Pavel senza pietà. _ Lavandosi dopo la prima caduta, l' uomo pulito ha visto che l' acqua nel catino non diventava sporca, e invece l' uomo sporco ha capito il motivo per cui l' uomo pulito era andato a lavarsi. Perciò, questa volta si va a lavare lo spazzacamino sporco. Piotr stava a sentire con la bocca socchiusa, mezzo spaventato e mezzo incuriosito. _ E ora la terza domanda. I due cadono giù per il camino una terza volta. Quale dei due si va a lavare? _ D' ora in avanti, si va a lavare quello che è sporco. _ Sbagliato ancora. Hai mai visto che due cadano attraverso lo stesso camino, e uno sia pulito e l' altro sporco? Ecco, il Talmud è fatto così. Piotr rimase attonito per qualche secondo, poi si scosse come un cane uscito dall' acqua, rise timido, e disse: _ Mi hai fatto sentire come un pulcino bagnato. Come una recluta appena entrata in caserma. Bene, ho capito che cosa è il vostro Talmud, ma se mi fate un secondo esame io me ne vado e torno da Ulybin. Non è il mio genere, preferisco andare all' assalto. _ Non te la prendere, russo, _ disse Gedale, _ Pavel non aveva cattive intenzioni, non ti voleva canzonare. Line intervenne: _ Voleva solo farti provare che effetto fa essere ebreo; voglio dire, che effetto fa avere la testa fatta in un certo modo, ed essere in mezzo a gente che ha la testa fatta in un modo diverso. Ecco, adesso l' ebreo sei tu, solo in mezzo ai goyim che ridono di te. _ ... e farai bene a cambiarti il nome, _ disse Gedale, perché il tuo è troppo cristiano: invece che Piotr Fomic fatti chiamare Geremia o Abacucco o in qualche altro modo poco appariscente. E impara il jiddisch e dimentica il russo; e fatti magari anche circoncidere, se no presto o tardi noi faremo un pogrom _. Detto così, Gedale sbadigliò di gusto, soffiò sulla candela, diede la buonanotte a tutti e si ritirò con Bella. Anche le due o tre altre candele furono spente. Si udì nel buio, rauca di sonno, una voce, forse quella di uno degli uomini di Ruzany: _ ... al mio paese c' era un ebreo che aveva mangiato una salsiccia di cinghiale. Il rabbino lo rimproverò, ma lui disse che quel cinghiale ruminava, e perciò era kòscher. "Sciocchezze, i cinghiali non ruminano", disse il rabbino. "Non ruminano in generale, ma quello invece sì. Ruminava in particolare: ruminava come un bue", disse l' ebreo; e siccome il cinghiale non c' era più, il rabbino dovette stare zitto. _ Al mio paese, _ disse un' altra voce, _ c' era un ebreo che si è fatto battezzare quattordici volte. _ Perché? Non bastava una volta sola? _ Certo bastava, ma a lui piaceva la cerimonia. Si udì qualcuno scatarrare e sputare, e poi una terza voce disse: _ Al mio paese c' era un ebreo che si ubriacava. _ Beh, che cosa c' è di strano? _ rispose un altro. _ Niente. Non ho mica detto che fosse una cosa strana, ma stasera è strano raccontare cose non strane, dal momento che tutti raccontano cose strane. _ Al mio paese ... _ cominciò Isidor; una voce di donna lo interruppe: _ Basta, adesso; dormi, che è tardi _. Ma Isidor continuò: _ Al mio paese c' era una donna che aveva visto il diavolo. Si chiamava Andùschas, aveva la forma di un unicorno, e suonava. _ Cosa suonava? _ Suonava il corno. _ Ma come faceva, se ce lo aveva sulla fronte? _ Non lo so, _ disse Isidor, _ non le ho chiesto. Una voce profonda sbadigliò dall' alto: _ Fate silenzio, adesso. È ora di dormire, abbiamo camminato tanto. Dobbiamo riposarci. Anche il Signore ci ha messo sei giorni per creare il mondo, e il settimo si è riposato. Rispose Gedale: _ Si è riposato, e ha detto "Speriamo che funzioni". Si udì ancora nel buio la voce esile di Ròkhele Bianca, che mormorava la preghiera della sera, "Nella Tua mano affido il mio spirito", e la benedizione "Il Misericordioso spezzi il giogo che ci opprime, e ci riconduca a fronte alta nella nostra terra"; poi fu silenzio. L' acquazzone della sera si era ridotto ad una pioggerella mite e persistente, ed anche il vento era diminuito. L' ossatura del vecchio mulino non gemeva più, ma crepitava sommessa, come se la rodessero centinaia di tarli, e Mendel, sdraiato sul duro dell' assito, non riusciva a prendere sonno. Altri suoni confusi venivano dal solaio, passi fitti e leggeri, forse di topi o di faine, sullo sfondo dei respiri e dei mugolii dei compagni che dormivano. L' aria era tiepida, gravida di umori notturni e del sentore acre e dolce dei pollini, e Mendel si sentiva invadere dal desiderio. Era un desiderio da adolescente, senza contorni, morbido caldo e bianco: cercava di descriverlo a se stesso e non ci riusciva. Desiderio di un letto, e di un corpo di donna nel letto; desiderio di sciogliersi in un' altra, di essere con lei una carne sola, una doppia carne isolata nel mondo, appartata dalle strade, dalle armi, dalle paure e dai ricordi della strage. Accanto a lui Sissl respirava quieta. Mendel tese una mano nel buio e ne sentì il fianco, avvolto nel ruvido della coperta. Premette, cercò di attirarla a sé, ma Sissl resisteva, pietrificata dal sonno. Sullo schermo incerto del dormiveglia si inseguivano nomi e visi, presenti e lontani. Sissl bionda e stanca. Rivke dai tristi occhi neri, ma Mendel la scacciò subito, non la voleva, non la poteva pensare. Rivke, Strelka, la fossa: va' via, Rivke, per favore. Torna là da dove sei venuta, lasciami vivere. Mendel cercava ostinatamente di addormentarsi, e si rendeva conto che era proprio quel suo sforzo il pungiglione che lo manteneva sveglio. La sua mente non era ancora così confusa da ignorare che un altro viso e un altro nome battevano alla sua porta. Un nome senza volto, il nome di Raab, la meretrice dal potere perverso; sì, era vera la bizzarra notizia, bastava che Mendel pronunciasse quel nome, anche solo nella mente, e la sua carne si tendeva. E un volto senza nome, un volto incavato, giovane e logoro, dagli occhi grandi e lontani. Mendel ebbe un sobbalzo: non era senza nome, quel volto. Aveva un nome, ed era il nome di Line. La vide come l' aveva vista poche ore prima, convinta nella discussione, priva di pigrizie e di dubbi, grave fino ad essere quasi ridicola, vibrante come un cavo teso. Si liberò dalla coperta, si tolse le scarpe e la cercò a tentoni, inciampando nelle membra dei dormienti. Aveva visto dove si era ritirata per dormire, e la trovò facilmente, sotto la scala che portava al soppalco: toccò nel buio i suoi capelli, ed il suo sangue ne ebbe un urto. Accanto a Line dormiva Leonid, i due erano avvolti nella stessa coperta; l' immagine di Leonid e quella di Sissl ingombrarono per un istante la coscienza di Mendel, poi si allontanarono nel buio, sempre più piccole e trasparenti, fino a sparire, come era sparito il viso terribile di Rivke. Mendel toccò la spalla di Line, poi la sua fronte. La mano della ragazza, piccola ma forte, si liberò dalla coperta, trovò il braccio di Mendel e lo risalì esplorandolo. Si infilò nell' apertura della camicia, sfiorò le guance mal rase; le dita trovarono la cicatrice sulla fronte, la seguirono attente e sensibili fin dove spariva fra i capelli. Sopravvenne l' altra mano, e premette la nuca di Mendel attirando la testa verso il basso. Mendel aiutò Line a svolgersi dalla coperta senza che Leonid si svegliasse. Salirono insieme sul soppalco: la scaletta scricchiolò sotto il loro peso, ma il rumore si confuse nel brusio del vento e della pioggia. Il soppalco era ingombro. Mendel riconobbe al tasto una tramoggia, toccò un ingranaggio unto di morchia; ritrasse la mano con ribrezzo e se la pulì sul fondo dei pantaloni. Sentì con i piedi un' area libera, vi trasse Line che lo seguiva docile. Si coricarono, e Mendel spogliò Line dei suoi panni militari. Il corpo che emerse era magro e nervoso, quasi maschile; il ventre era piatto, braccia e cosce muscolose e snelle. Le ginocchia erano quadrate, dure, ruvide come quelle dei bambini; la mano di Mendel esplorò avida le due infossature ai lati del tendine, sotto la rotula, poi risalì lungo il fianco, ma i seni, pur piccoli, erano sfioriti, tristi sacchetti di pelle vuota sotto cui si palpavano le costole. Mendel si spogliò, e subito Line gli si avvinghiò addosso come per una lotta. Schiacciata sotto il peso del corpo mascolino, Line si torceva, avversario tenace e resiliente, per eccitarlo e sfidarlo. Era un linguaggio, e pur nella nebbia rossa del desiderio Mendel lo intendeva: ti voglio ma ti resisto. Ti resisto perché ti voglio. Io esile ti giaccio sotto ma non sono tua. Io non sono la donna di nessuno, e resistendo ti lego a me. Mendel la sentiva armata anche nuda, armata come la prima volta che l' aveva intravista nel dormitorio di Novoselki. Di nessuno e di tutti, come Raab di Gerico: Mendel lo percepì e ne fu trafitto, mentre all' ultimo istante si strappava da lei. Lo sforzo fu così lacerante che Mendel singhiozzò forte, nel silenzio buio del mulino. Quando la febbre si fu sciolta nella quiete del corpo soddisfatto, soave come una convalescenza, Mendel tese l' orecchio: il silenzio non era completo, si udivano altre voci soffocate, difficili a riconoscersi. Scivolò nel sonno accanto a Line che già dormiva tranquilla. Si svegliò poco dopo, alla prima luce del giorno, quando tutti gli altri dormivano ancora, e distinse Gedale accanto a Bella, Pavel accanto a Ròkhele Nera, e Ròkhele Bianca accanto a Isidor. Il viso pallido ed affilato di Line posava nel cavo del suo braccio. Perché l' ho fatto? Che cosa cerco in lei? L' amore e il piacere. No, non solo questo. Cerco in lei un' altra donna, e questo è terribile e ingiusto. L' ho cercata in Sissl e non l' ho trovata. Cerco quella che non c' è più, e non la troverò. Ed ora sono legato a questa: sono legato da questa, legato dall' edera. Per sempre, o non per sempre, non lo so: nulla è per sempre. E lei non è legata a me: lei lega e non si lega, te ne dovresti essere accorto, Mendel, non sei più un bambino, sciogliti finché sei in tempo, questo non è tempo di legarsi. Sciogliti o finirai male: male come Leonid. Si guardò intorno, e Leonid non c' era. Niente di strano, poteva essere uscito. Continuò a consigliare fraternamente a se stesso di liberarsi di Line, a ordinarselo, a imporselo, e sapeva benissimo che, se un altro gli avesse parlato così, lui Mendel, il mite orologiaio, gli avrebbe rotto la faccia a pugni. Dopo mezz' ora erano svegli tutti e Leonid non c' era; erano spariti anche il suo zaino e la sua arma. Gedale brontolò in polacco, invitando il diavolo ad occuparsi di Leonid; poi proseguì in jiddisch: _ Nu, noi non siamo l' Armata Rossa e io non sono Ulybin, e lui come partigiano non vale molto. Non è uomo da tradirci, ma se incappa nei tedeschi è un altro discorso. Speriamo che non combini guai. Da solo non va tanto lontano: fra tre giorni lo ritroviamo, vedrete. _ Però il fucile automatico avrebbe potuto lasciarlo, disse Jòzek. _ Già, è questo il guaio. Se lo ha preso è per adoperarlo. Mendel propose di andarlo a cercare. Dov aggiunse che si sarebbe potuto provare con i cani, e Gedale disse che si arrangiassero ma non perdessero troppo tempo. Dov condusse un cane ad annusare la coperta sotto cui Leonid aveva dormito, poi lo portò all' aperto; il cane fiutò svogliatamente il terreno, alzò il naso e fiutò l' aria, fece due o tre giri su se stesso; infine abbassò la coda e le orecchie e puntò il muso verso Dov e Mendel, con l' aria di dire: _ Che cosa volete da me? _ Andiamo, _ disse Gedale. _ Preparatevi a partire. Di andarlo a cercare non se ne parla neanche. Se lui cercherà noi, saprà come trovarci _. Mendel pensò: "È andato a sparare ai tedeschi, ma forse voleva sparare a me". Ripresero il cammino, fra un cielo splendido e una terra impregnata di pioggia. Aggirarono alcuni villaggi apparentemente deserti; la colonna procedeva lenta, guidata da Jòzek, attraverso macchie di bosco e campi invasi dalle erbacce. Il terreno era piano, ma verso ponente si delineavano quinte di colline ottuse. Mendel marciava in silenzio, e non si sentiva contento di essere Mendel. In una notte sola aveva tradito due volte: forse tre, contando anche Sissl. Ma Sissl non andava contata, eccola lì poco più avanti nella fila, camminava dietro a Piotr col suo passo tranquillo di sempre. E neanche i morti non bisogna contarli, stanno nel loro mondo di morti, non ne escono quasi mai. Non bisogna lasciarli uscire, è come quando scoppia il tifo, bisogna rinforzare la recinzione, tenerli chiusi nel loro lazzaretto. I vivi hanno diritto di difendersi. Ma con Leonid era stato diverso, Leonid non era morto ... e lo sai, tu, se non è morto? Se non lo hai ucciso tu, che eri il suo fratello, e che quando ti hanno chiesto conto di lui hai risposto con l' insolenza di Caino? Forse gli hai tolto la sola cosa che aveva; hai tagliato il cavo del rimorchio, e lui sta affondando, o è già affondato. Anzi, hai fatto peggio: lo hai sganciato dal cavo, e ti sei messo al suo posto. Adesso sei tu che ti fai rimorchiare. Da lei, dalla ragazzetta testarda dalle unghie rosicchiate. Bada a quello che fai, Mendel figlio di Nachman! Al mattino del terzo giorno di marcia si trovarono sul ciglio di una forra. La parete era scoscesa, di brutta terra marnosa resa viscida dalla pioggia; anche la parete opposta era ripida, e sul fondo, trenta metri più in basso, scrosciava un torrente fangoso strozzato fra le due rive. _ Sarai bravo a fare dollari falsi, Jòzek, ma come guida non vali molto, _ disse Gedale. _ Qui non si passa: hai sbagliato strada. Jòzek aveva buone giustificazioni. Le piste erano molte, e non si poteva pretendere che lui, dopo anni, le ricordasse tutte. Era colpa della pioggia; con tempo asciutto, di questo lui era sicuro, si poteva scendere e risalire abbastanza bene, e il torrente si riduceva a un rigagnolo che non faceva paura a nessuno. Comunque, non c' era bisogno di tornare indietro. Si poteva proseguire verso nord, seguendo il ciglio della gola; presto o tardi un passaggio lo si sarebbe trovato. Si rimisero in cammino, per tracce di sentieri invase dai rovi. Si vide presto che il torrente, anziché a nord, volgeva verso un nord-est che era quasi un est, e la popolarità di Jòzek declinò: non si era mai visto che per andare a ponente si dovesse camminare verso levante. Gedale disse che Cristoforo Colombo aveva fatto proprio così, o insomma viceversa, e Bella, stanca morta, gli disse di non fare il buffone. Jòzek insisteva a dire che ci doveva essere un passaggio, non molto lontano; infatti, verso metà giornata trovarono un sentiero ben segnato che correva lungo il ciglione. Lo seguirono per una mezz' ora, e videro che Jòzek doveva avere ragione: la gola piegava verso sinistra, cioè a ponente, con un angolo acuto, e il sentiero, sempre più battuto, scendeva obliquamente verso il fondo. Nonostante la pioggia che era caduta pochi giorni prima, si distinguevano impronte bovine: forse il sentiero conduceva a un guado, o a un ponte, o ad un' abbeverata. Discesero, videro che il sentiero raggiungeva il torrente proprio all' apice della curva, e che oltre la curva la gola si apriva in un letto pianeggiante; il torrente si divideva in vari rami che scorrevano lenti fra i ciotoli. Nella breve pianura c' erano le rovine di una baracca di pietra; sulla soglia stavano sei uomini, e uno di questi era Leonid. Degli altri, quattro erano armati, e vestivano uniformi del vecchio esercito polacco, lacere e stinte; il sesto, disarmato e nudo fino alla cintola, stava un po' in disparte ad abbronzarsi al sole. Uno degli armati si fece incontro ai gedalisti. Si sfilò al di sopra del capo il mitragliatore, che portava a tracolla; non lo puntò contro i nuovi venuti, ma lo resse negligentemente penzoloni tenendolo per la canna, e disse in polacco: _ Fermatevi _. Gedale, che in Polonia era nato e cresciuto, e che parlava il polacco meglio del russo, si fermò, fece cenno alla fila di fermarsi, e disse in russo a Jòzek: _ Senti un po' che cosa desidera il Pan. Il Pan, cioè il Signore, capì (e del resto Gedale aveva fatto del suo meglio perché capisse), e disse con fredda collera: _ Desidero che ve ne andiate. Qui è terra nostra, e voi avete già fatto abbastanza guai. Davanti alla prospettiva di un litigio, Gedale aveva assunto un' aria estasiata che irritava ulteriormente il polacco. Disse a Jòzek: _ Di' al signore che, se gli abbiamo provocato dei fastidi, è stato senza nostra colpa, o almeno senza intenzione di danneggiare lui personalmente. Chiedigli se vuole alludere alla faccenda della locomotiva di Sarny, e se sì, digli che non lo faremo più. Digli che abbiamo una gran voglia di andarcene, e che non c' è bisogno del suo incoraggiamento. Chiedigli .... Venne fuori che il signore capiva il russo abbastanza bene, poiché non attese che Jòzek traducesse, ed interruppe Gedale con violenza: _ Si capisce che parlo della locomotiva. Anche quello è territorio nostro, delle Forze Armate Nazionali, e la rappresaglia dei tedeschi l' abbiamo dovuta fronteggiare noi. Ma parlo anche del vostro uomo, _ e qui indicò Leonid, con un gesto sprezzante del pollice, _ di questo stupido temerario, di questo insensato con la Stella Rossa che se ne va da solo a fare l' eroe, senza pensare che .... Questa volta fu Gedale ad interrompere, in buon polacco, abbandonando per la sorpresa il giochetto dell' interpretariato: _ Come? Che cosa ha fatto? Dove lo avete catturato? _ Non lo abbiamo catturato, _ ringhiò il polacco, _ lo abbiamo salvato. E non lo andate a raccontare in giro: perché è la prima volta, sangue d' un cane, che le NSZ salvano un giudeo, e per di più russo e comunista, dalle pallottole dei tedeschi. Ma deve proprio essere un po' tocco: armato, in pieno giorno, senza neppure guardarsi intorno, se ne andava diritto verso il posto di blocco dei tedeschi .... _ Quale posto di blocco? _ Quello della centrale di Zielonka. A rischio di scatenare un finimondo; e senza pensare che l' energia di Zielonka serve anche a noi. Se volete fare dei sabotaggi, andate più lontano, che il diavolo vi porti. E informatevi della situazione politica. E soprattutto non mandate dei balordi come questo. _ Non lo abbiamo mandato noi: è stata una sua iniziativa, _ disse Gedale. _ Lo interrogheremo e lo puniremo. _ Ce lo ha detto anche lui, che l' iniziativa era sua: ci abbiamo già pensato noi a interrogarlo. Ma non ci prenderete per dei deficienti. O per dei bambini. È dal '39 che noi combattiamo su due fronti, e certi trucchi li abbiamo imparati. E voi li avete copiati dai nazi: tutto preciso come al tempo dell' incendio del Reichstag, si prende uno un po' debole di mente, lo si manda allo sbaraglio, e poi la rappresaglia cade come un fulmine dalla parte che fa comodo a voi. Il polacco si fermò per prendere fiato. Era alto, secco, non più giovane, e i mustacchi grigi gli tremavano per la collera. Gedale diede un' occhiata dalla parte di Leonid: stava seduto sulla soglia di pietra della baracca, con le mani legate appoggiate sulle cosce. Era lontano solo dieci passi, a portata di voce, ma sembrava che non stesse ascoltando. Il polacco osservava Jòzek con attenzione: _ Ma anche tu mi hai l' aria di essere ebreo. Ne abbiamo viste, di cose strane, ma questa le passa tutte: degli ebrei che vanno in giro per la Polonia con le armi rubate ai polacchi, e si spacciano per partigiani, puttane le loro madri! Gedale scattò. Con la sinistra strappò il mitragliatore dalle mani del polacco, e con la destra gli assestò un violento ceffone sull' orecchio. Il polacco vacillò, fece qualche passo incerto ma non cadde. Gli altri tre si erano avvicinati con aria minacciosa, ma il loro capo gli disse qualcosa, ed essi si ritirarono di qualche passo, tenendo però sempre le armi puntate. _ Sono ebreo anch' io, Panie Kondotierze, _ disse Gedale con voce tranquilla. _ Queste armi non le abbiamo rubate, e le sappiamo usare piuttosto bene. Voi combattete da cinque anni, e noi da tremila. Voi su due fronti, e i nostri fronti non si possono contare. Sia ragionevole, Signor Condottiero. Abbiamo lo stesso nemico da combattere: non sprechiamo le nostre forze _. Poi aggiunse, con un sorriso cortese: _ ... e neppure le nostre ingiurie _. Forse il "condottiero" sarebbe stato meno arrendevole se non si fosse visto circondato da una ventina di gedalisti dall' aria risoluta. Brontolò qualche misteriosa imprecazione a base di tuono e di colera, poi disse burbero: _ Non vogliamo sapere niente di voi e non vogliamo avere niente a che fare con voi. Ripigliatevi il vostro uomo. E prendetevi anche quell' altro, che dice di essere dei vostri: noi non sappiamo che cosa farcene. A un suo gesto, i suoi seguaci afferrarono Leonid per le braccia, lo fecero alzare in piedi e lo spinsero verso Gedale, che tagliò subito la corda che gli legava le mani. Leonid non disse una parola, non sollevò gli occhi da terra, e si inserì nella schiera dei gedalisti fermi sul sentiero. L' altro uomo nominato dal polacco, quello che se ne stava in disparte a torso nudo a prendere il sole, si fece avanti spontaneamente. Era alto quanto Gedale, aveva un ardito naso da falco e un paio di maestosi baffi neri, ma non doveva avere molto più di vent' anni. Il suo corpo, muscoloso ed agile, sarebbe stato un buon modello per una statua di atleta se non fosse stato per il piede equino che gli deturpava una gamba. Aveva raccattato da terra un fagotto, e sembrava contento di cambiare padrone. Era tempo di ripartire; Gedale rese l' arma al polacco, e gli disse: _ Signor Condottiero, credo che possiamo essere d' accordo su un punto solo, e cioè che anche noi non vogliamo avere niente a che fare con voi. Ci dica quale strada dobbiamo tenere. Il polacco rispose: _ Tenetevi alla larga da Kovel, da Lukov e dalla ferrovia. Non provocate i tedeschi nella nostra zona, e andate al diavolo. _ Ma che bel tipo! _ disse Gedale a Mendel quando ebbero ripreso la marcia, senza mostrare né collera residua né disprezzo. _ Proprio un tipo fantastico, da film di indiani. Secondo me aveva sbagliato secolo. _ Però lo hai preso a schiaffi! _ Per forza: ma che c' entra? L' ho ammirato lo stesso: come si ammira una cascata o un animale strano. È uno stupido, e forse anche pericoloso, ma ci ha offerto un bello spettacolo. Del resto, Gedale sembrava innamorarsi di ogni nuovo venuto, al di là di ogni considerazione morale o utilitaria. Girava intorno ad Arié, il giovane zoppo, come se volesse sentirne l' odore ed osservarlo sotto tutte le angolazioni. Nonostante il suo difetto, Arié non aveva difficoltà a seguire la fila, anzi, camminava agile e sciolto, e si rese subito popolare uccidendo una quaglia con una sassata e offrendola in omaggio a Ròkhele Bianca. Non parlava né capiva il jiddisch, e pronunciava il russo in un modo molto strano: era georgiano, Arié, e fiero di esserlo. La sua lingua materna era il georgiano, il russo lo aveva imparato a scuola, ma il suo nome, di cui era altrettanto fiero, era ebraico puro: Arié significa Leone. Pochi fra i gedalisti avevano incontrato prima un ebreo georgiano, e Jòzek, metà per scherzo, metà sul serio, osò addirittura mettere in dubbio che Arié fosse ebreo; chi non parla jiddisch non è ebreo, è quasi un assioma, e lo dice anche il proverbio: "Redest keyn jiddisch, bist nit keyn jid". _ Se sei ebreo, parlaci in ebraico: dicci una benedizione in ebraico. Il giovane accettò la sfida, e recitò la benedizione del vino con la pronuncia sefardita, rotonda e solenne, invece che in quella askenazita, sincopata e stretta. Molti risero: _ Ih, parli ebraico come lo parlano i cristiani! _ No, _ rispose Arié nobilmente offeso: _ noi parliamo come Abramo nostro padre. Siete voi che parlate sbagliato. Arié si integrò nella banda con rapidità sorprendente. Era robusto e volonteroso ed accettava di buona voglia tutti i lavori; accettò anche quel poco di disciplina partigiana che la banda aveva conservato. Mentre tutti erano curiosi di lui, si mostrò poco curioso delle finalità della banda: _ Se andate ad ammazzare i tedeschi, vengo con voi. Se andate in Terra d' Israele, vengo con voi _. Era intelligente, allegro, fiero e permaloso. Fiero di molte cose: di essere georgiano (discendente dai Macedoni di Alessandro, precisò, senza però essere in grado di dimostrarlo in alcun modo); di non essere russo, ma ad un tempo di essere compatriota di Stalin; del suo cognome Hazansvili. _ Ma certo! Gli assomigli perfino, _ rise Mottel. _ Non solo nei baffi, ma anche nel nome. _ Stalin è un grand' uomo e voi non lo dovreste prendere in scherzo. Mi piacerebbe assomigliargli nel nome, ma non è così. Lui è Dzugasvili, cioè il figlio di Dzuga, e io sono soltanto Hazansvili, che vuol dire il figlio del Hazàn, del cantore della Sinagoga. Era permaloso sull' argomento della sua deformità, e non gli piaceva che se ne parlasse, ma con ogni probabilità essa gli aveva salvato la vita: _ Alla leva militare mi avevano riformato, e al paese mi canzonavano, perché andare soldato per noi è un onore. Ma poi, nel '42, quando prendevano tutti, hanno mobilitato anche me, e mi hanno spedito nelle retrovie di Minsk a cuocere il pane nella panetteria militare. I tedeschi mi hanno preso prigioniero, ma come lavoratore civile, e questa è stata la mia fortuna. Che io fossi ebreo, non se ne sono accorti .... _ Tutto merito dei baffi, credi a me, _ disse Jòzek: peccato che pochi ci abbiano pensato, a farseli crescere. _ Dei baffi e della statura. E poi perché mi sono dichiarato contadino e specialista in innesti. _ Sei stato furbo! _ Ma no, è proprio il mio mestiere, io e mio padre e mio nonno abbiamo sempre innestato viti. E allora mi hanno messo in un' azienda agricola a innestare alberi che non avevo mai visti. Eravamo quasi liberi, e in aprile sono scappato. Volevo andare con i partigiani, e sono incappato in quelli che avete visti; con loro però non stavo tanto bene, mi dicevano "ebreo" e mi facevano portare i pesi come a un mulo. Gedale tendeva alle decisioni improvvisate, ma sulla questione di Leonid non se la sentiva di improvvisare. Chiamò da parte Jòzek, Dov e Mendel e non era il Gedale di tutti i giorni: non divagava, pensava a quello che diceva, e parlava sommesso. _ Le punizioni non mi piacciono: né darle né riceverle. Sono roba da prussiani, e per gente come noi servono a poco. Ma questo ragazzo l' ha fatta grossa: se ne è andato con le armi, senza ordini e senza permesso, e ha fatto quanto poteva per metterci nei guai tutti quanti. È stata una fortuna che il grosso delle forze delle NSZ era lontano, altrimenti ce la vedevamo brutta. Si è comportato da sciocco, ed ha fatto apparire sciocchi tutti noi: sciocchi ed intrusi, pasticcioni e guastamestieri. Già da queste parti non siamo mai stati molto amati; dopo questa faccenda lo saremo ancora meno, e la nostra strada è lunga, ed abbiamo bisogno dell' appoggio della popolazione. O almeno di una neutralità silenziosa. Leonid queste cose le deve capire: gliele dobbiamo far capire. Jòzek alzò la mano per chiedere la parola. _ Se fosse un altro uomo, io credo che il miglior rimedio sarebbe quello di picchiarlo un poco e poi di invitarlo a fare l' autocritica, come fanno i russi. Ma Leonid è un tipo strano, è difficile capire perché fa le cose che fa. Tu dici bene, comandante, che dobbiamo fargli capire certe cose; ebbene, secondo me, e almeno per il momento, quel ragazzo non è in grado di capire niente. Da quando lo abbiamo ripreso non ha più detto una parola: non una. Non mi ha guardato in faccia una volta, e tutte le volte che gli ho portato la gavetta ha fatto finta di mangiare e poi, appena io me ne andavo, versava via tutto: l' ho visto benissimo. Se fossimo in tempo di pace, so io che cosa ci vorrebbe per lui. _ Un medico? _ chiese Gedale. _ Sì, il medico dei matti. _ Voi due lo conoscete da più tempo, _ disse Gedale rivolto a Mendel e a Dov. _ Qual è il vostro pensiero? Parlò per primo Dov, del che Mendel fu lieto. _ A Novoselki mi ha dato qualche fastidio perché non era puntuale sul lavoro. L' ho mandato a fare un sabotaggio, per metterlo alla prova e per dargli un' occasione di far buona figura davanti agli altri: mi pareva che ne avesse bisogno. Se l' è cavata né bene né male, con coraggio e con precipitazione: lo hanno tradito i nervi. Secondo me è un bravo ragazzo con un brutto carattere, ma io non credo che si possa giudicare un uomo da quello che ha fatto a Novoselki; o del resto, anche da quello che fa qui. _ Non mi interessa giudicarlo, _ disse Gedale, _ mi interessa sapere che cosa dobbiamo fare di lui. Tu che dici, orologiaio? Mendel era sulle spine. Gedale sapeva, o aveva indovinato, la vera causa della sortita suicida di Leonid? Se sì, non parlarne era puerile e disonesto. Se no, se non lo aveva intuito, Mendel avrebbe preferito non fornire materia alla sua curiosità ed ai pettegolezzi di tutti. Insomma erano fatti suoi, non è vero? Suoi e di Line, fatti privati. Di aggravare la posizione di Leonid non si sentiva l' animo, e raccontare che Leonid aveva disertato per una faccenda di donne voleva dire aggravare la sua posizione. E aggravare anche la tua. Sì, certo: aggravare anche la mia. Si tenne sul vago, sentendosi intimamente bugiardo, e spregevole come un verme: _ È un anno che siamo insieme, ci siamo incontrati nel luglio dell' altr' anno nelle foreste di Brjansk. Sono d' accordo con Dov, è un bravo ragazzo con un carattere difficile. Mi ha raccontato la sua storia, la sua vita non è mai stata facile, ha incominciato a soffrire molto prima di noi. Secondo me, punirlo sarebbe una crudeltà, e per giunta inutile: si sta punendo da sé. E sono d' accordo anche con Jòzek; sarebbe un uomo da curare. Gedale si alzò di scatto e cominciò a camminare su e giù. _ Siete veramente dei bravi consiglieri. Curarlo, ma non si può. Punirlo, ma non si deve. Tanto valeva dirlo chiaro, che il vostro consiglio è di lasciare le cose come stanno, e che la faccenda si risolva da sé. Mi sembrate i consolatori di Giobbe. Va bene, per adesso lasciamola così; vedrò se la ragazza mi saprà dare un suggerimento più concreto: lei lo conosce meglio di voi, o almeno sotto un aspetto diverso. Dunque non sa, pensò Mendel con sollievo, e insieme vergognandosi del suo sollievo. Ma del colloquio fra Gedale e Line Mendel non seppe più nulla; o non era avvenuto, o (cosa più probabile) Line non aveva detto niente di essenziale. Il malumore di Gedale durò poco; nei giorni successivi era ritornato ai suoi modi consueti, ma, come già aveva fatto a Sarny, scomparve nuovamente ai primi di luglio mentre la colonna era accampata nei pressi di Annopol, non lontano dalla Vistola. Ricomparve il giorno dopo, con una giacca nuova di velluto, un cappello di paglia da contadino, una boccetta di profumo-Ersatz per Bella, e regalini anche per le altre quattro donne. Ma non era andato in città per fare acquisti; dopo di allora diverse cose cambiarono. Le precauzioni aumentarono: di nuovo, come in primavera, si marciava di notte, e di giorno la banda si accampava cercando di non dare nell' occhio; il che si faceva sempre meno facile, perché la zona era fittamente percorsa da strade, e cosparsa di villaggi e case coloniche. Gedale sembrava avere fretta; richiedeva tappe più lunghe, anche di venti chilometri per notte, e puntava in una direzione precisa, verso Opatòw e Kielce. Raccomandò a tutti di non allontanarsi dal gruppo e di non rivolgere la parola ai contadini che eventualmente si incontrassero: con la gente del luogo potevano intrattenersi solo quelli che parlavano polacco, ma anche loro il meno possibile. Sia nelle tappe, sia durante gli spostamenti, la presenza di Leonid era diventata penosa per tutti, e per Mendel in specie. Mendel dovette confessare a se stesso che di Leonid aveva paura: evitava la sua vicinanza, nelle marce in fila indiana si metteva in testa quando Leonid era in coda, o viceversa; ma invece, notò Mendel con disappunto, Leonid, consapevolmente o no, manovrava in modo da essergli vicino, pur senza rivolgergli la parola. Si limitava a guardarlo, con quei suoi occhi neri carichi di tristezza e di richiesta, come se volesse affliggerlo con la sua presenza, non lasciarsi dimenticare, vendicarsi affliggendolo. O forse anche sorvegliarlo? Forse: alcuni suoi gesti facevano pensare che Leonid fosse in preda al sospetto. Volgeva di scatto la testa guardandosi alle spalle. Durante le fermate, che avvenivano di giorno, e per lo più in casupole contadine abbandonate, si coricava per dormire scegliendo il posto più vicino alla porta, e dormiva poco; si svegliava di soprassalto, si guardava intorno inquieto, spiava fuori dalla porta o dalle finestre. In un mattino grigio di nuvole, dopo una tappa notturna che aveva affaticato tutti, Mendel stava raccogliendo legna nel bosco e se lo vide accanto, che raccoglieva legna anche lui, sebbene nessuno glielo avesse ordinato. Era dimagrito e teso, aveva gli occhi lucidi. Si rivolse a Mendel con aria complice: _ Lo hai capito anche tu, non è vero? _ Capito che cosa? _ Che siamo venduti. Non possiamo più farci illusioni. Siamo venduti, e ci ha venduti lui. _ Lui chi? _ chiese Mendel sbalordito. Leonid abbassò la voce: _ Lui, Gedale. Ma non poteva fare diversamente, lo ricattavano, era un burattino nelle loro mani _. Poi fece cenno con l' indice sulle labbra di fare silenzio, e riprese a raccogliere legna. Mendel non raccontò l' episodio a nessuno, ma pochi giorni dopo Dov gli disse: _ Quel tuo amico ha delle idee strane. Dice che Gedale lavora per l' NKVD o per non so quale altra polizia segreta, che loro lo ricattano, e che noi siamo tutti ostaggi nelle loro mani. _ Qualcosa del genere ha detto anche a me, _ disse Mendel. _ Che fare? _ Niente, _ disse Dov. Mendel si ricordò di avere paragonato Leonid a un orologio inceppato dalla polvere; adesso, invece, Leonid gli ricordava certi altri orologi che gli avevano portati da riparare: forse avevano preso un urto, le spire della molla si erano accavallate, un po' ritardavano, un po' avanzavano follemente, e finivano tutti col guastarsi in modo irrimediabile. L' estate era fulgida e ventosa, e i gedalisti si accorsero di essere entrati nel paese della fame. Le raccomandazioni di Gedale, di evitare i contatti con la gente del luogo, si rivelarono superflue, se non ironiche. Non c' era molta gente, in quelle campagne: nessun uomo, poche donne; sulle soglie delle fattorie devastate, solo vecchi e bambini. Non era gente di cui si dovesse avere paura, anzi, erano essi stessi sigillati dalla paura. Pochi mesi prima, i partigiani dell' Armata Interna polacca avevano scatenato un attacco ai presidi4 tedeschi della zona, mentre a sud di Lublino reparti paracadutati sovietici interrompevano le linee di comunicazione tedesche che portavano munizioni e rifornimenti al fronte. Altri reparti polacchi avevano fatto saltare in aria ponti e viadotti, ed avevano attaccato un villaggio da cui i tedeschi avevano allontanato con la forza i contadini nel 1942 per installarvi i coloni del Reich Millenario. La rappresaglia tedesca si era estesa a tutta la zona ed era stata feroce. Non si era rivolta contro le bande, pressoché inafferrabili, che si erano rifugiate nelle foreste, ma contro la popolazione civile. I tedeschi avevano fatto accorrere rinforzi dalle lontane retrovie; di notte accerchiavano i villaggi polacchi e li incendiavano, oppure deportavano tutti gli uomini e le donne in età di lavoro: gli concedevano mezz' ora di tempo per prepararsi al viaggio, poi li caricavano sui loro autocarri e li portavano via. In alcuni paesi avevano dedicato la loro attenzione ai bambini: deportavano in Germania i bambini dall' aspetto "ariano" e uccidevano gli altri. I villaggi, poveri da sempre, erano ridotti ad ammassi di ruderi affumicati e di macerie, ma i campi erano rimasti indenni, e la segala matura aspettava invano chi la mietesse. L' iniziativa venne da Mottel. Era andato a chiedere acqua ad un casolare isolato, a forse un chilometro dal villaggio di Zborz, e ci aveva trovato una vecchia sola, coricata sulla paglia della stalla, ma nella stalla bestie non ce n' erano più. La vecchia faticava a muoversi, aveva una gamba rotta che nessuno le aveva curato. Aveva detto a Mottel che andasse al pozzo, prendesse tutta l' acqua che voleva, e ne portasse un poco anche a lei. Ma che le portasse anche qualcosa da mangiare: qualunque cosa. Era digiuna da tre giorni, ogni tanto qualcuno del villaggio si ricordava di lei e le portava una fetta di pane. Eppure nel campo lì davanti c' era segala da nutrire una grossa famiglia, ma alla prima pioggia sarebbe marcita, perché per falciarla non c' era nessuno. Mottel riferì a Gedale, e Gedale decise all' istante. _ Dobbiamo aiutare questa gente. La nostra guerra è anche questo. È l' occasione buona per fargli capire che veniamo da amici e non da nemici. Jòzek storse la faccia: _ Da queste parti non ci hanno mai voluto bene; prima che i tedeschi bruciassero le loro case, loro bruciavano le nostre. Non vogliono bene agli ebrei, e neanche vogliono bene ai russi, e molti di noi sono ebrei e russi. Sanno che cosa è successo ai contadini russi negli anni venti, e hanno paura della collettivizzazione. Aiutiamoli, ma stiamo attenti. Tutti gli altri, invece, furono d' accordo senza riserve: erano stanchi di distruggere, stanchi delle opere negative e stupide a cui la guerra costringe gli uomini. I più entusiasti erano Piotr e Arié, che erano pratici dei lavori della campagna. Mottel aveva riferito che il tetto della "sua" vecchia era sfondato, e Piotr disse: _ Lo riparerò io. Sono bravo a rattoppare i tetti di canne, è un lavoro che facevo al mio paese, mi pagavano per farlo. Ma adesso, per riparare il tetto della tua vecchia, darei tanti rubli quanti me ne davano; se li avessi, beninteso, perché invece non li ho. La vecchia accettò, Piotr si mise al lavoro aiutato da Sissl, e pochi giorni dopo un uomo anziano dai baffi spioventi fu visto aggirarsi nei dintorni. Faceva le viste d' interessarsi d' altro: raddrizzava paletti, controllava le paratie dei fossati benché questi fossero disperatamente asciutti, ma spiava da lontano il lavoro dei due. Un giorno si presentò a Piotr e gli rivolse in polacco diverse domande; Piotr finse di non capire e andò a cercare Gedale. _ Sono il Burmistrz, il sindaco del villaggio, _ disse il vecchio con dignità, benché avesse piuttosto l' aspetto di un mendicante. _ Chi siete voi? Dove andate? Che cosa volete? Gedale si era presentato al colloquio disarmato, in maniche di camicia, in brache borghesi lacere e stinte, e con il cappello di paglia che aveva comperato. Parlava polacco senza accento jiddisch, e per chiunque sarebbe stato difficile appurare la sua condizione. Da principio fu cauto: _ Siamo un gruppo di dispersi, uomini e donne. Veniamo da diversi paesi, e non vogliamo farvi del male. Siamo di passaggio, andiamo molto lontano, non vogliamo disturbare nessuno, ma non vogliamo neppure essere disturbati. Siamo stanchi ma abbiamo le braccia buone: forse vi possiamo essere utili in qualche cosa. _ Per esempio? _ chiese il sindaco diffidente. _ Per esempio potremmo mietere, prima che la segala si guasti. _ Che cosa volete in cambio? _ Una parte del raccolto, quella che ti sembrerà giusta; e poi acqua, un tetto, e che si parli poco di noi. _ Quanti siete? _ Una quarantina; cinque sono donne. _ Sei tu il loro capo? _ Sono io. _ Noi siamo meno di voi: neppure trenta, contando anche i bambini. Guarda che denaro non ne abbiamo mai avuto, bestiame non ne abbiamo più, e non ci sono neppure donne giovani. _ Peccato per le donne giovani, _ rise Gedale, _ ma non è questo il nostro primo pensiero. Te l' ho detto, ci bastano l' acqua, il silenzio, e se possibile un tetto sotto cui dormire qualche notte. Siamo stanchi di guerra e di cammino, abbiamo nostalgia dei lavori di pace. _ Anche noi siamo stanchi di guerra, _ disse il sindaco; e subito aggiunse: _ Ma sapete mietere? _ Siamo fuori esercizio, ma ce la caviamo. _ A Opatòw c' è il mulino, _ disse il sindaco, _ e pare che funzioni. Falci ce ne sono, quelle ce le hanno lasciate. Potete incominciare domani. Andarono a mietere tutti gli uomini di Blizna e di Ruzany, e in più Arié, Dov, Line e Ròkhele Nera, a cui si aggiunse Piotr quando ebbe finito di rassettare il tetto: una ventina in tutto. Arié era il più pratico, e insegnò a tutti gli altri come si rizzano i covoni e come si affila la falce prima con il martello e poi con la cote. Anche Piotr si dimostrò bravo e resistente alla fatica. Line stupì tutti: esile com' era, mieteva dall' alba al tramonto senza mostrare segni di stanchezza, e sopportava senza disagio il calore, la sete e il nugolo di tafani e di zanzare che si era subito radunato. Non era la prima volta che faceva quel lavoro: lo aveva fatto mille anni prima, presso Kiev, in una fattoria collettiva in cui i giovani sionisti si preparavano all' emigrazione in Palestina, al tempo remoto in cui essere sionisti e comunisti non era ancora diventata una contraddizione assurda. Lavorava bene anche Dov, benché gli pesassero gli anni e le ferite. Neanche per lui era un' esperienza del tutto nuova: aveva mietuto i girasoli quando era confinato a Vologda, dove i giorni d' estate erano lunghi diciotto ore e bisognava lavorarle tutte. Gli altri della banda, fra cui Mendel, Leonid, Jòzek ed Isidor, si distribuirono nel villaggio a fare diversi lavori che il sindaco aveva indicati: c' erano pollai da rimettere in ordine, altri tetti da riparare, orti da zappare. Superata la prima diffidenza, si venne a sapere che c' erano anche patate da raccogliere, e furono le patate stesse a fare da cemento fra gli ebrei vagabondi e i contadini polacchi disperati, a sera, sotto le stelle dell' estate, seduti nell' aia, sulla terra battuta ancora calda di sole.

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Edek si sentiva abbandonato: non riceveva ordini né informazioni, non sapeva più chi aveva intorno. Alcuni dei suoi uomini erano spariti; se n' erano andati, così, in silenzio, con le armi o senza. Anche all' interno del campo la disciplina si era allentata; nascevano litigi, che spesso si dilatavano in risse. Per il momento, attriti fra polacchi ed ebrei non ne erano ancora nati, ma mezze parole ed occhiate di traverso li facevano sentire imminenti. A dispetto degli ordini di Edek, era ricomparsa la vodka, dapprima nascosta, poi alla luce del sole. Si erano diffusi anche i pidocchi, pessimo segno: difendersi non era facile, polveri e medicine non ce n' erano, ed Edek non sapeva come provvedere. Marian, sanguigno e taurino, già maresciallo nell' esercito polacco, tenne una pubblica dimostrazione: accese un piccolo fuoco di legna dentro una delle baracche, su una lamiera, e fece vedere che se si tengono stesi gli abiti a una certa distanza dalla fiamma, i pidocchi scoppiano senza che il tessuto si indebolisca. Ma era un circolo vizioso: i pidocchi nascono dalla demoralizzazione, e creano altra demoralizzazione. Line si staccò da Mendel. Fu triste, come tutti i distacchi, ma non stupì nessuno: era nell' aria da tempo, fino dall' assalto al Lager di Chmielnik. Mendel ne soffrì, ma di una sofferenza grigia e fiacca, senza il dardo della disperazione. Line non era mai stata sua, se non nella carne, né Mendel era stato di lei. Si erano saziati l' uno dell' altra, spesso, con piacere e con furia, ma avevano parlato poco, e quasi sempre i loro discorsi si erano inceppati nell' incomprensione o nella discordia. Line non aveva mai dubbi, e non tollerava i dubbi di Mendel: quando questi affioravano (e affioravano proprio al momento della stanchezza e della verità, quando i loro corpi si scioglievano l' uno dall' altro), Line si induriva, e Mendel aveva paura di lei. Aveva anche, oscuramente, vergogna di se stesso, ed è difficile amare una donna che faccia nascere la vergogna e la paura. Confusamente, indistintamente, Mendel sentiva che Line aveva ragione. No, non aveva ragione, era nella ragione, dalla parte della ragione. Un partigiano, ebreo o russo o polacco, un combattente, dev' essere come Line, non come Mendel. Non deve dubitare: il dubbio te lo ritrovi sul mirino del fucile, e ti devia il colpo peggio della paura. Ecco, Line ha ucciso Leonid e non porta pena. Ucciderebbe anche me, se io fossi uno scorticato come era lui; se io non avessi addosso una pelle callosa, un' armatura. Non lucida e sonante, ma opaca e tenace; i colpi mi arrivano, ma smussati. Ammaccano senza ferire. Eppure Line ridestava il suo desiderio, e Mendel fu ferito quando seppe che Line era la donna di Marian. Ferito, e insieme offeso, e malignamente soddisfatto e ipocritamente indignato. Una schikse, dunque, una che va con tutti, anche con i polacchi. Vergogna, Mendel, non è per questo che ti sei fatto partigiano. Un polacco vale quanto te; anzi, forse più di te, se Line ha preferito Marian. Rivke non lo avrebbe fatto. Già, non lo avrebbe fatto, ma Rivke non c' è più, Rivke è a Strelka sotto un metro di calce e un metro di terra, Rivke non è di questo mondo. Apparteneva all' ordine, al mondo delle cose giuste fatte alle ore giuste: faceva cucina, teneva pulita la casa, perché a quel tempo gli uomini e le donne vivevano in una casa. Teneva i conti, anche i miei, e mi faceva coraggio quando ne avevo bisogno: mi ha fatto coraggio perfino il giorno che è scoppiata la guerra e io sono partito per il fronte. Non si lavava tanto, le ragazze moderne a Strelka si lavavano più di lei, si lavava una volta al mese come è prescritto, ma eravamo una carne. Una balebusteh, era: una regina della casa. Comandava, e io non me ne accorgevo. Con occhio accidioso, Mendel vedeva comporsi nel campo altri legami distratti ed effimeri. Sissl ed Arié: bene, buon per loro, in lietezza e prosperità; speriamo che lui non la picchi, i georgiani picchiano le mogli, e Arié è più georgiano che ebreo. Hanno le ossa solide, e non solo le ossa: faranno dei bei bambini, buoni chalutzim, buoni coloni per la Terra d' Israele, se mai ci arriveremo. Speriamo anche che nessun polacco guardi Sissl troppo da vicino, perché Arié è svelto col coltello. Ròkhele Nera e Piotr. Bene anche questi, era un pezzo che la faccenda maturava. Piotr, fra i polacchi, era più isolato degli ebrei, e una donna è il miglior rimedio contro la solitudine. O anche solo mezza donna: la situazione non era chiara, e del resto Mendel non aveva voglia di indagare, ma sembrava che la Nera si tirasse dietro anche Mietek, il radiotelegrafista. Peccato per Edek, più che tutti gli altri Edek avrebbe avuto bisogno di una donna, o insomma di una compagnia, di qualcuno che condividesse la sua sofferenza: ma Edek cercava invece di isolarsi, di scavarsi una nicchia, di tirare su un muro fra sé e il mondo. Bella e Gedale: su questa coppia nessuno aveva niente da dire. Erano una coppia da sempre, una coppia incredibilmente stabile, senza che se ne capisse la ragione. Gedale, così libero nelle parole e nei fatti, così imprevedibile, sembrava legato a Bella da un ormeggio ben saldo, come una nave al molo. Bella non era bella, appariva di parecchio più anziana di Gedale, non combatteva, alle faccende quotidiane della banda collaborava pigramente, malvolentieri, criticando gli altri (soprattutto le altre) a ragione o a torto. Si portava dietro scampoli incongrui della sua precedente vita borghese, di cui nessuno sapeva nulla: rimasugli goffi ed ingombranti, anche materialmente, abitudini a cui tutti avevano rinunciato ed a cui Bella non intendeva rinunciare. Accadeva spesso, quasi ritualmente, che Gedale pigliasse il volo su un programma, un piano, o anche solo su un discorso fantasioso ed allegro, e che Bella lo richiamasse a terra con una osservazione piatta e scontata. Allora Gedale si rivolgeva a lei con irritazione simulata, come se tutti e due recitassero a soggetto: _ Bella, perché mi tarpi le ali? _ Dopo quasi otto mesi di convivenza, e dopo tante vicende comuni, Mendel non cessava di domandarsi che cosa tenesse Gedale vincolato a Bella: del resto, non solo sotto questo aspetto Gedale era difficile da interpretare, e impossibile prevedere i suoi atti. Forse Gedale sapeva di non avere freni, ed aveva bisogno di trovarne fuori di sé; forse sentiva accanto a sé, impersonate in Bella, le virtù e le gioie del tempo di pace, la sicurezza, il buon senso, l' economia, la comodità. Gioie modeste e scolorite, ma tutti, sapendolo o no, le rimpiangevano e speravano di ritrovarle, al termine della strage e del cammino. Gedale era irrequieto, ma non aveva ceduto all' onda di riflusso che, partita dai polacchi, aveva trascinato con sé in maggiore o minor misura anche i gedalisti. Ricordava a Mendel lo storno che Arié aveva trovato: come quello, era impaziente di riprendere la via. Girava per il campo, ossessionava il radiotelegrafista, discuteva con Edek, con Dov, con Line, con Mendel stesso. Suonava ancora il violino, ma non più con abbandono: volta a volta, con noia o con frenesia. Ròkhele Bianca non era né inquieta né scoraggiata. Non era più sola: da quando la banda aveva trovato asilo nel campo polacco, accadeva sempre più di rado di incontrarla separata da Isidor. Da principio nessuno si era stupito, Isidor tendeva a mettersi nei guai, o almeno a fare sciocchezze, e che la Bianca gli facesse un poco da mamma sembrava naturale. Prima, di Isidor si era curata Sissl, ed anzi, fra le due donne era sorta un' ombra di rivalità, ma adesso Sissl aveva altro per la testa. Quanto alla Bianca stessa, sembrava aver bisogno di qualcuno che avesse bisogno di lei. Teneva d' occhio il ragazzo, badava che si coprisse e si tenesse pulito e all' occorrenza lo rimproverava con autorità materna. Ora, a partire dai primi di dicembre sia i due, sia il rapporto che li legava andarono incontro ad un mutamento mal definibile ma palese a tutti. Isidor parlava meno e meglio; non farneticava più di vendette impossibili, non portava più il coltello alla cintura, ed invece aveva chiesto a Edek e a Gedale di prendere parte alle esercitazioni di tiro. Il suo sguardo si era fatto più attento, cercava di rendersi utile, il suo passo era diventato più rapido e sicuro, e perfino le spalle sembravano essersi allargate un poco. Faceva domande: poche, ma non insulse né puerili. Quanto a Ròkhele, appariva ad un tempo maturata e ringiovanita. Per meglio dire: mentre prima non aveva avuto un' età, adesso ce l' aveva; sorprendeva, rallegrava vederla ritornare giorno per giorno ai suoi ventisei anni, fino allora mortificati dalla timidezza e dal lutto. Non teneva più gli occhi rivolti al suolo, e tutti si accorsero che i suoi occhi erano belli: grandi, bruni, affettuosi. Elegante non era certo (nessuna delle cinque donne lo era) ma non era più un fagotto informe; la si vedeva, al lume della lanterna, lavorare d' ago per adattare alla sua taglia gli abiti militari che per mesi aveva indossati senza prendersene cura. Adesso, anche la Bianca aveva capelli, gambe, un seno, un corpo. Quando accadeva di incontrare i due insieme, fra le baracche del campo, Isidor non camminava più dietro a Ròkhele, ma al suo fianco; più alto di lei, piegava impercettibilmente il capo nella direzione della donna, come a farle riparo. Una sera in cui Isidor era in corvée di pulizia, la Bianca chiamò Mendel in disparte: gli voleva parlare in segreto. _ Che vuoi, Ròkhele? Che cosa posso fare per te? chiese Mendel. _ Dovresti sposarci, _ disse la Bianca arrossendo. Mendel aperse la bocca, la richiuse, e poi disse: _ Che cosa ti viene mai in mente? Io non sono un rabbino, e neppure un sindaco; documenti non ne avete, potreste anche essere già sposati. E Isidor ha solo diciassette anni. E ti pare che questo sia il momento di sposarsi? La Bianca disse: _ Lo so bene che la regola non è questa; lo so che ci sono delle difficoltà. Ma l' età non conta: un uomo si può sposare già a tredici anni, lo dice il Talmud. E che io sono vedova lo sanno tutti. Mendel non trovava le parole. _ È un nonsenso, una narischkeit! Un capriccio che domani ti sarà passato. E perché sei venuta proprio da me? Oltre a tutto, io non sono neppure un ebreo pio. Non ha senso, è come se tu mi chiedessi di volare o di fare un incantesimo. _ Vengo da te perché sei un giusto, e perché io vivo in peccato. _ Se tu vivi in peccato, io non ci posso fare nulla: è una cosa che riguarda solo voi due. E poi, secondo me i peccati non sono quelli che fate voi, sono un' altra cosa, sono quelli che fanno i tedeschi. E che io sia un giusto è da vedersi. Ròkhele non si arrese: _ È come quando si è su una nave o su un' isola: se non c' è un rabbino, il matrimonio lo può fare uno qualunque. Se è un giusto è meglio, ma basta una persona qualunque: anzi, lo deve fare, è una mitzvà. Mendel attinse a memorie giacenti da secoli: _ Perché il matrimonio sia valido ci vuole la Ketubà, il contratto: tu ti dovrai impegnare a dare a Isidor una dote, e lui dovrà garantire che ti può mantenere. Mantenerti, lui, Isidor. Ti pare serio? _ La Ketubà è una formalità, ma il matrimonio è un cosa seria; e io e Isidor ci vogliamo bene. _ Lascia almeno che io ci pensi su fino a domani. Una faccenda così non mi costa né fatica né denaro, ma mi sembra un imbroglio: è come se tu mi dicessi "Caro Mendel, imbrogliami", mi capisci? e se ti accontento, il peccato lo faccio io. Non potresti aspettare che la guerra finisca? Trovereste un rabbino, e potreste fare le cose in regola. Io non saprei neppure quali parole dire: bisognerà dirle in ebraico, no? E io l' ebraico l' ho dimenticato, e se sbaglio tu crederai di essere sposa e invece sarai rimasta nubile. _ Le parole le detterò io e non importa che siano in ebraico: qualunque lingua va bene, il Signore le capisce tutte. _ Io non credo nel Signore, _ disse Mendel. _ Non importa. Basta che ci crediamo io e Isidor. _ Insomma, non capisco che fretta avete. Ròkhele Bianca disse: _ Sono incinta. Il giorno dopo Mendel riferì il dialogo a Gedale. Si aspettava che scoppiasse a ridere, invece Gedale, molto serio, rispose che certamente Mendel doveva accettare: _ Bisogna che te lo dica, in questa storia c' entro anch' io. Isidor non era mai stato con una donna. Me lo ha detto tempo fa, un giorno che io lo canzonavo un poco: era il giorno del mulino a vento. Ho visto che soffriva; mi ha detto che non aveva mai avuto il coraggio. Aveva solo tredici anni quando ha dovuto nascondersi sotto la stalla, ci è stato quattro anni, poi gli sono successe le cose che sai. "Bisogna aiutarlo", ho pensato: per un verso mi sembrava una mitzvà,per un altro mi incuriosiva l' esperimento. Cosi ne ho parlato con Ròkhele, che anche lei era rimasta sola, e le ho proposto di occuparsi di lui. Ecco, se n' è occupata. lo però non avrei creduto che la faccenda sarebbe andata avanti così in fretta e così bene. _ Sei sicuro che questo sia un bene? _ chiese Mendel. _ Non so, ma credo di sì. Mi pare un segno buono, anche se loro sono due nebech. Anzi, proprio perché sono due nebech. Vergognandosi un poco, Mendel sposò Isidor e Ròkhele Bianca meglio che poté.

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Non era una cascina, ma un bunker camuffato, ora abbandonato e vuoto. Il villaggio, invece, brulicava di gente. Era cinto da mura, e dalle porte entravano ed uscivano uomini anziani e donne, dall' aria furtiva e famelica, trascinando carrettini con viveri o cianfrusaglie. Ai lati del portale stavano due guardiani dal volto duro, in borghese, apparentemente disarmati. _ Che cosa volete? _ chiesero ai quattro, che avevano riconosciuto come forestieri. _ Comprare roba da mangiare, _ rispose Pavel nel suo miglior tedesco. Una delle sentinelle fece con la testa cenno di entrare. Il villaggio non era stato danneggiato. Le viuzze acciottolate correvano racchiuse fra pittoresche facciate dai colori vivaci intersecate dai travi a vista dipinti di nero. Lo sfondo era sereno, ma la presenza umana era inquietante. Le strade erano gremite di gente che camminava in tutte le direzioni, apparentemente senza meta né scopo: persone anziane, bambini, mutilati. Non si vedevano uomini validi. Anche le finestre erano piene di volti timorosi e diffidenti. _ Sembra un ghetto, _ mormorò Ròkhele, che era stata a Kossovo. _ Lo è, _ rispose Pavel; _ devono essere profughi da Dresda. Adesso tocca a loro _. Avevano parlato in jiddisch, e forse a voce troppo alta, perché una donna dal corpo massiccio, infilata in un paio di stivali da uomo, si volse ad un vecchio che l' accompagnava e gli disse con ostentazione: _ Eccoli qui di nuovo, più sfrontati di prima _. Poi, rivolgendosi direttamente ai quattro ebrei, aggiunse: _ Il vostro posto non è qui. _ E dove, allora? _ disse Pavel in buona fede. _ Dietro il filo spinato, _ rispose la donna. Pavel, d' impeto, la afferrò per i risvolti del cappotto, ma subito la lasciò andare perché con la coda dell' occhio aveva visto che intorno a loro si stava formando assembramento. Allo stesso istante udì sopra il suo capo un colpo secco, e al suo fianco Ròkhele barcollò e cadde prona. La gente che stava intorno sparì in un attimo, anche le finestre si svuotarono. Pavel si inginocchiò accanto alla ragazza: respirava, ma le sue membra erano flosce, inerti. Non sanguinava, non si vedevano ferite. _ È svenuta; portiamola via, _ disse agli altri due. Al campo, Sissl e Mendel la esaminarono meglio. La ferita c' era sì, quasi invisibile, nascosta sotto la folta capigliatura nera: un foro netto poco al di sopra della tempia sinistra; non c' era foro di uscita, la pallottola era rimasta nel cranio. Gli occhi erano chiusi; Sissl sollevò le palpebre e vide solo il bianco della sclera, le iridi erano girate all' in su, nascoste dentro le orbite. Ròkhele respirava sempre più leggermente, irregolarmente, e non aveva più polso. Finché visse, nessuno osò parlare, come per timore di spezzare quel soffio; a sera la ragazza era morta. Gedale disse: _ Andiamo, con tutte le armi. Partirono a notte, tutti; rimasero nel campo solo Bella e Sissl a scavare la fossa, e la Bianca a recitare la preghiera dei morti sul corpo della sua compagna nera. Le armi non erano molte, ma la collera li spingeva come la tempesta spinge una nave. Una donna, di vent' anni, neppure una guerriera; una donna scampata al ghetto e a Treblinka, uccisa in tempo di pace, a tradimento, senza motivo, da una mano tedesca. Una donna senz' armi, operosa gaia e spensierata, quella che accettava tutto e non si lamentava mai, la sola che non conoscesse la paralisi della disperazione, la fuochista di Mendel, la donna di Piotr. Era Piotr il più furente, ed anche il più lucido. _ Al Rathaus, _ disse breve: _ Quelli che contano saranno lì _. Raggiunsero rapidi e silenziosi la porta del villaggio; le sentinelle non c' erano, irruppero di corsa per le vie deserte, mentre a Mendel tornavano a mente immagini lontane, sbiadite ed importune, immagini che ti inceppano invece di sospingerti. Simone e Levi che vendicano col sangue l' affronto fatto dai Sichemiti alla sorella Dina. Era stata giusta quella vendetta? Esiste una vendetta giusta? Non esiste; ma sei uomo, e la vendetta grida nel tuo sangue, e allora corri e distruggi e uccidi. Come loro, come i tedeschi. Accerchiarono il Rathaus. Piotr aveva ragione: a Neuhaus mancava ancora l' energia elettrica, le strade erano buie, e buie la maggior parte delle finestre, ma quelle del primo piano del municipio erano debolmente illuminate. Piotr aveva chiesto ed ottenuto la pistola automatica donata da Smirnov; dall' ombra dove si era nascosto, con due soli colpi singoli, uccise i due uomini che stavano di guardia davanti all' ingresso. _ Presto, adesso! _ gridò. Corse alla porta e tentò convulsamente di sfondarla, prima col calcio della pistola, poi a spallate. Era pesante e resisteva, e già si sentivano voci concitate all' interno. Arié e Mendel si scostarono dalla facciata, e simultaneamente gettarono ciascuno una bomba a mano contro le finestre illuminate; piovvero in strada schegge di vetro, passarono tre lunghissimi secondi, poi si udirono le due esplosioni: tutte le finestre del piano si sfondarono e vomitarono fuori frammenti di legno e carte. Intanto Mottel cercava inutilmente di aiutare Piotr ad aprire la porta. _ Aspetta! _ gli gridò; si arrampicò in un lampo alla finestra del piano terreno, sfondò i vetri con un colpo d' anca e saltò all' interno. Pochi secondo dopo lo si sentì sparare tre, quattro colpi dalla sua pistola, e subito dopo la serratura della porta fu aperta dall' interno. _ Voi rimanete qui fuori, e non lasciate scappare nessuno! _ ordinò Piotr a quattro degli uomini di Ruzany; lui e tutti gli altri si precipitarono su per le scale, scavalcando il corpo di un uomo anziano che giaceva di traverso sugli scalini. Nella sala del consiglio stavano quattro uomini con le braccia alzate; altri due erano morti, e il settimo gemeva in un angolo e si agitava debolmente. _ Chi è il borgomastro? _ urlò Gedale; ma già Piotr aveva premuto il grilletto a raffica ed aveva falciato tutti. Nessuno era intervenuto, nessuno era sfuggito, e i quattro uomini messi a guardia non avevano visto avvicinarsi nessuno. Nelle cantine del Rathaus i gedalisti trovarono pane, prosciutti e lardo, e tornarono al campo carichi e indenni, ma Gedale disse: _ Di qui ce ne dobbiamo andare. Seppellite la Nera, smontate le tende, e subito in marcia: gli americani sono a trenta chilometri. Camminavano nella notte, con fretta, e rimorso per la vendetta facile, e sollievo perché tutto era finito. La Bianca marciava con coraggio, aiutata a turno dagli altri perché non rimanesse indietro. Mendel si trovò a camminare in testa alla colonna, fra Line e Gedale. _ Li avete contati? _ chiese Line. _ Dieci, _ rispose Gedale. _ Due accanto alla porta, uno lo ha ucciso Mottel per le scale, sette nel salone. _ Dieci contro uno, _ disse Mendel. _ Abbiamo fatto come loro: dieci ostaggi per un tedesco ucciso. _ Il tuo conto è sbagliato, _ disse Line. _ I dieci di Neuhaus non vanno sul conto di Ròkhele. Vanno sul conto dei milioni di Auschwitz. Ricordati di quello che ha raccontato la francese. Mendel disse: _ Il sangue non si paga col sangue. Il sangue si paga con la giustizia. Chi ha sparato alla Nera è stato una bestia, ed io non voglio diventare una bestia. Se i tedeschi hanno ucciso col gas, dovremo uccidere col gas tutti i tedeschi? Se i tedeschi uccidevano dieci per uno, e noi faremo come loro, diventeremo come loro, e non ci sarà pace mai più. Gedale si intromise: _ Forse hai ragione, Mendel. Ma allora, come si spiega che io adesso mi sento meglio? Mendel si guardò dentro, poi ammise: _ Sì, anch' io mi sento meglio, ma questo non dimostra niente. A Neuhaus erano profughi da Dresda. Lo ha raccontato Smirnov: a Dresda sono morti centoquarantamila tedeschi in una sola notte. Quella notte, a Dresda, c' era un fuoco che ha fuso la ghisa dei lampioni. _ Non siamo stati noi a bombardare Dresda, _ disse Line. _ Basta, _ disse Mendel. _ È stata l' ultima battaglia. Camminiamo, andiamo dagli americani. _ Andiamo a vedere che faccia hanno, _ disse Gedale, che non sembrava troppo coinvolto dai problemi che preoccupavano Mendel. _ La guerra è finita: è difficile da capire, lo capiremo a poco a poco, ma è finita. Domani farà giorno e non ci sarà più da sparare né da nascondersi. È primavera, e da mangiare ne abbiamo, e tutte le strade sono aperte. Andiamo a cercare un posto nel mondo dove lui possa nascere in pace. _ Lui chi? _ chiese Line. _ Il bambino. Nostro figlio, il figlio dei due innocenti. Si inoltrarono nella terra di nessuno con gli animi divisi. Erano incerti e timidi, si sentivano lavati a nuovo, come pagine bianche, ritornati bambini. Bambini adulti e selvaggi, maturati nei disagi, nell' isolamento, nei bivacchi e nella guerra, disadatti davanti alla soglia dell' Occidente e della pace. Ecco, sotto i loro stivali venti volte rappezzati, il suolo della nemica, della sterminatrice, la Germania-Deutschland-Dajcland-Niemcy: una campagna nitida, non toccata dalla guerra, ma attenzione, non è che apparenza, la Germania vera è quella delle città, quella intravista a Glogau e a Neuhaus, quella di Dresda, Berlino e Amburgo di cui avevano sentito raccontare con raccapriccio. È quella la vera Germania, quella che si era ubriacata di sangue e aveva dovuto pagare; un corpo prostrato, ferito a morte, già corrotto. Nudo: insieme con l' allegria barbarica della rivincita, provavano un disagio nuovo; si sentivano indiscreti ed impudichi, come chi scopre una nudità vietata. Ai due lati della strada si vedevano case con le finestre sbarrate, come occhi spenti o che non vogliano vedere; alcune ancora coperte dal tetto di paglia, altre scoperchiate, o con il tetto bruciato. Campanili smozzicati, campi sportivi su cui già crescevano erbacce. Nei centri abitati, mucchi di macerie su cui si leggevano cartelli: "Non calpestare: corpi umani"; lunghe code davanti ai pochi negozi aperti, e cittadini affaccendati a cancellare e scalpellare i simboli del passato, quelle aquile e croci uncinate che avrebbero dovuto durare mille anni. Ai balconi sventolavano strane bandiere rosse: recavano ancora l' ombra della svastica nera che ne era stata scucita in gran fretta; ma presto, al progredire del loro cammino, le bandiere rosse si fecero più rade e infine sparirono. Gedale disse a Mendel: _ Se il tuo nemico cade, non rallegrarti; ma non aiutarlo a rialzarsi. La linea di demarcazione fra i due eserciti non era ancora stata consolidata. Al mattino del secondo giorno di marcia si trovarono in un dolce paese verde e bruno, collinoso, cosparso di fattorie e di ville; sui campi i contadini erano già al lavoro. _ Americani? _; i contadini si stringevano nelle spalle con diffidenza ed accennavano vagamente a ovest. _ Russi? _ Niente russi; qui nessun russo. Si trovarono in mezzo agli americani senza accorgersi del trapasso. Le prime pattuglie in cui si imbatterono sbirciarono senza interesse la carovana sbrindellata dei gedalisti: in Germania non c' erano che profughi, avevano visto di peggio. Solo a Scheibenberg una ronda li fermò e li scortò al comando tappa. Il piccolo ufficio, ricavato al piano terreno di una villa requisita, traboccava di gente, quasi tutti tedeschi, evacuati dalle città bombardate o in fuga davanti all' Armata Rossa. Gli uomini della banda lasciarono i bagagli (e le armi nascoste nei bagagli) alla custodia di Mottel e si misero ordinatamente in coda. _ Parla tu per tutti, _ disse Gedale a Pavel. Pavel era intimidito: _ Ma l' inglese io non lo so. Faccio finta di saperlo, mastico solo le parole, come fanno gli attori e i pappagalli. _ Non importa, ti interrogherà in tedesco. Tu rispondi in cattivo tedesco, di' che siamo italiani e che andiamo in Italia. _ Non mi crederà. Non abbiamo l' aria di italiani. _ Tu prova. Se va bene, bene; se va male, vedremo. Non rischiamo molto, Hitler adesso non c' è più. L' americano che sedeva dietro la scrivania era sudato, scamiciato ed annoiato, ed interrogò Pavel in un tedesco sorprendentemente buono; tanto che Pavel dovette faticare non poco per inventarsi un linguaggio che suonasse credibile in bocca a un italiano. Fortunatamente l' americano sembrava del tutto indifferente a quello che Pavel diceva, a come lo diceva, alla banda, alla sua composizione, alle sue intenzioni, al suo passato e al suo futuro. Dopo qualche istante disse a Pavel: _ Per favore, sia più conciso _; dopo un altro minuto lo interruppe e gli disse di aspettare fuori della villa, lui e i suoi compagni. Pavel uscì, tutti si rimisero gli zaini in spalla, e se ne andarono da Scheibenberg "con la mano levata". Gedale disse: _ Non è detto che tutti gli americani siano così distratti, e non sappiamo quali accordi ci siano fra russi e americani. A buon conto, chi ha ancora uniformi e distintivi sovietici addosso o nel bagaglio, è meglio che se ne liberi; se ci rimandassero indietro non sarebbe divertente. Ormai non avevano più fretta. Proseguirono verso ponente a piccole tappe, fermandosi spesso a riposare, in uno scenario sempre nuovo, idilliaco e tragico. Spesso venivano sorpassati da reparti militari americani, motorizzati o a piedi, in marcia verso il cuore della Germania, o incrociavano sterminate colonne di prigionieri di guerra tedeschi scortati da soldati americani, bianchi o negri, col mitragliatore che pendeva indolentemente dalla spalla. Alla stazione di Chemnitz, fermo su un binario morto, stava un treno merci di cinquanta vagoni, orientato in direzione della linea di demarcazione; portava l' intero macchinario di una cartiera, le scorte, gli enormi rotoli di carta appena prodotta, e i mobili degli uffici. A guardia del convoglio c' era soltanto un soldato, giovanissimo e biondo, in divisa sovietica, sdraiato su un divano incastrato in mezzo al macchinario; Piotr lo salutò in russo, attaccarono discorso, e il soldatino spiegò che la cartiera andava in Russia, non sapeva dove; era un regalo degli americani ai russi, perché tutte le fabbriche russe erano kaputt. A Piotr il soldato non chiese nulla. Poco oltre era una fabbrica bombardata, forse un' officina meccanica; una squadra di prigionieri di guerra stava spalando le macerie, sorvegliata da ufficiali e tecnici americani. Non lavoravano come sterratori, ma piuttosto come archeologi: in punta di pala, spesso con le mani nude, e su ogni reperto metallico gli americani si curvavano attenti, lo esaminavano, lo etichettavano e lo mettevano accuratamente da parte. Ròkhele non si lamentava mai, ma era stanca, e le sue condizioni preoccupavano tutti. Stentava a camminare: le sue caviglie gonfiavano ogni giorno di più, dovette rinunciare agli stivali, tagliare malamente la tomaia delle scarpe che Mottel le aveva procurate, e si ridusse infine a camminare in ciabatte. Per brevi tratti la portarono anche su una barella, ma era chiaro che bisognava trovare una soluzione. Arrivarono a metà giugno a Plauen, sulla linea ferroviaria Berlino-Monaco-Brennero, e Gedale mandò Pavel e Mottel a studiare la situazione. La situazione era confusa; i treni passavano irregolarmente, con orari imprevedibili, carichi oltre ogni limite ragionevole. Si accamparono nella sala d' aspetto, che aveva assunto l' apparenza di un dormitorio pubblico. In cassa non c' era più denaro sufficiente per pagare il tragitto dell' intera banda fino al Brennero, come Gedale avrebbe voluto; altro denaro dovette essere speso per una visita ginecologica alla Bianca, che fu ricoverata in una clinica e ne uscì entusiasta per la pulizia e l' ordine che vi aveva trovato; era sana, la gravidanza normale, solo un po' di stanchezza. Camminare sì, ma non troppo. Nel frattempo, la maggior parte dei componenti della banda vagabondavano per la città, come turisti ed insieme alla ricerca di qualche baratto da cui ricavare quattrini. _ Gli abiti pesanti sì, perché andiamo verso Sud e verso l' estate, _ aveva detto Gedale. _ Gli attrezzi di cucina solo se a un prezzo conveniente; le armi a nessun costo. Nessuno dei gedalisti aveva esperienza della vita di città; solo Leonid l' aveva avuta, e molti lo rimpiangevano. A Plauen erano intimiditi e sorpresi dalle contraddizioni: in mezzo alle strade ancora ingombre di macerie girava il lattaio col carrettino e la trombetta, puntuale, tutte le mattine alla stessa ora. Il caffè e la carne avevano prezzi folli, invece l' argenteria era a buon mercato. Mottel comprò per pochi marchi una bella macchina fotografica già carica; si disposero in gruppo, alcuni in piedi, altri accovacciati in prima fila, tutti con le armi bene in vista. Nessuno voleva mancare dalla foto, così dovettero pregare un passante di fotografarli, sullo sfondo di una prospettiva di case in rovina. I treni funzionavano male, ma il Reisebüro, l' unico Ufficio Viaggi della città, funzionava bene: la linea telefonica era stata ripristinata, e sapevano più cose che alla stazione. Ciò non di meno, Gedale dalla stazione non si allontanava mai molto. Lo si vedeva spesso in compagnia di uno dei manovali delle ferrovie; Gedale era generoso con lui, gli offriva la birra all' osteria, un giorno furono visti insieme appartati nel giardinetto della stazione: Gedale suonava il violino e il tedesco il flauto, entrambi seri ed intenti. Gedale, senza dare spiegazioni, raccomandò che nessuno si assentasse: forse si ripartiva presto, tutti dovevano essere reperibili nel giro di pochi minuti. Invece trascorsero nella stazione ancora alcune settimane, in un' atmosfera di pigrizia e di attesa indistinta. Faceva caldo, in stazione funzionava un posto della Croce Rossa che distribuiva ogni giorno una zuppa a chiunque la richiedesse, profughi e dispersi di ogni razza e nazionalità arrivavano e partivano alla spicciolata. Alcuni fra i cittadini di Plauen intrecciarono cauti rapporti con i gedalisti accampati: erano incuriositi ma non facevano domande. I dialoghi erano inceppati dall' attrito linguistico; chi parla jiddisch capisce abbastanza bene chi parla tedesco e viceversa, e per di più quasi tutti i gedalisti si arrangiavano a parlare il tedesco, più o meno correttamente, e con accento jiddisch più o meno marcato, ma le due lingue, storicamente sorelle, appaiono ai rispettivi parlatori l' una come la caricatura dell' altra, così come a noi uomini le scimmie appaiono come le nostre caricature (e certo noi appariamo tali a loro). Forse questo fatto non è estraneo all' antico risentimento dei tedeschi contro gli ebrei aschenaziti, in quanto corruttori dell' Alto Tedesco. Ma altri fattori più profondi intervenivano ad intercettare la comprensione reciproca. Ai tedeschi, quegli stranieri ebrei, così diversi dai borghesi ebrei locali che si erano lasciati disciplinatamente irretire e massacrare, apparivano sospetti: troppo pronti, troppo energici, sporchi, stracciati, fieri, imprevedibili, primitivi, "russi". Agli ebrei riusciva impossibile, ed insieme necessario, distinguere i cacciatori di teste a cui erano sfuggiti, e su cui si erano appassionatamente vendicati, da questi vecchietti timidi e chiusi, da questi bambini biondi e gentili che si affacciavano alle porte della stazione come davanti alle inferriate dello zoo. Non sono loro, no: ma sono i loro padri, i loro maestri, i loro figli, loro stessi ieri e domani. Come risolvere il groviglio? Non lo si risolve. Partire, al più presto. Anche questa terra scotta: scotta questo paese pettinato ed innamorato dell' ordine, scotta quest' aria dolce e blanda di piena estate. Partire, partire: non siamo venuti dal fondo della Polessia per addormentarci nella Wartesaal di Plauen sull' Elster, e per ingannare l' attesa con le foto di gruppo e la zuppa della Croce Rossa. Ma il 20 di luglio venne improvviso il segnale, in piena notte, ad esaudire il desiderio collettivo ed inespresso. Piombò Gedale nell' atrio, fra i dormienti: _ Tutti in piedi subito, con i bagagli legati. Seguitemi in silenzio, si parte fra un quarto d' ora _. Nel tramestio che seguì si incrociarono le domande e le spiegazioni frettolose: che tutti gli venissero dietro, non lontano, sul binario di manovra. Il suo amico, il flautista, il manovale, aveva fatto il miracolo. Eccolo lì, quasi nuovo, come nuovo, il vagone che li avrebbe portati in Italia: comperato, sì; comperato per pochi dollari, non tanto legalmente; un vagone sinistrato, riparato da poco, ancora da collaudare; organizzato, insomma. Organizzato? Sì, si dice così, si diceva così nei ghetti, nei Lager, in tutta l' Europa nazista; una cosa che uno si procura illegalmente si chiama organizzata. E il treno sarebbe arrivato fra poco, il campanello della stazione stava già suonando. Tutti furono pronti in un momento, ma all' appello mancava Pavel. Gedale bestemmiò in polacco (perché il jiddisch non possiede bestemmie) e mandò di corsa un gregario a cercarlo; fu trovato poco lontano, con una prostituta tedesca, e ricondotto alla stazione mentre ancora si riabbottonava i pantaloni. Bestemmiava anche lui, in russo, ma non fece obiezioni. Salirono tutti sul vagone senza fare rumore. _ Chi lo aggancerà al treno? _ chiese Mendel. _ Lui, Ludwig. Me lo ha promesso. Se occorrerà, gli daremo una mano anche noi. _ Ma come hai fatto a fartelo amico? _ Col violino. Come quel tale, nell' antichità, che con la lira ammansiva le tigri. Non che Ludwig sia una tigre, è gentile e pieno di talento, è stato un piacere suonare con lui; e per farci questo servizio si è accontentato di poco. _ Però è sempre un tedesco, _ brontolò Pavel. _ Beh, che c' entra? In guerra non c' è andato, ha sempre fatto il ferroviere, suona il flauto e nel '33 non ha votato per Hitler. Lo sai, tu, che cosa avresti fatto se fossi nato in Germania, da un padre e da una madre purosangue, e se a scuola ti avessero insegnato tutto quelle loro bubkes del sangue e del suolo? Le donne prepararono in un angolo del vagone un giaciglio per la Bianca, con paglia e coperte. Bella si volse a Gedale e disse: _ ... però, di' la verità, a te i treni sono sempre piaciuti. Io credo che, se non ci si fosse messa di mezzo quella suora di Bialystok, non saresti diventato un violinista ma un ferroviere. Gedale rise felice e disse che era proprio vero, gli piacevano i treni e tutti i veicoli: _ Ma questa volta il gioco ha dato profitto, andiamo in Italia con un vagone tutto nostro, padronale. Così viaggiano solo i capi di Stato! _ Nu, _ disse Isidor pensieroso, _ sei ancora abbastanza giovane. Adesso che la guerra è finita i partigiani non servono più. Perché non dovresti fare il ferroviere? Piacerebbe anche a me, laggiù in Terra d' Israele. In quel momento si udì un fragore di ruote, si vide sui binari il bagliore del faro, e un lungo treno merci entrò in stazione. Frenò stridendo, rimase fermo per una mezz' ora, poi manovrò lentamente: appollaiato sui respingenti dell' ultimo vagone, un uomo agitò la lanterna in segno di saluto, era lui, Ludwig. Il treno retrocedette a passo d' uomo, ci fu un urto, poi si udì lo stridore di ganci. Il treno ripartì, trascinando verso le Alpi il vagone speciale dei gedalisti.

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