Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La tregua

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Levi, Primo 4 occorrenze

Nel campo di Buna abbandonato dai tedeschi la camera degli infettivi, in cui i due francesi e io eravamo riusciti a sopravvivere e ad instaurare una parvenza di civiltà, rappresentava un' isola di relativo benessere: nel reparto contiguo, il reparto dei dissenterici, la morte dominava incontrastata. Attraverso la parete di legno, a pochi centimetri dalla mia testa, sentivo parlare in italiano. Una sera, mobilitando le poche energie che mi restavano, mi ero deciso ad andare a vedere chi viveva ancora là dietro. Avevo percorso il corridoio buio e gelato, avevo aperto la porta, e mi ero trovato precipitato nel regno dell' orrore. Erano un centinaio di cuccette: la metà almeno erano occupate da cadaveri irrigiditi dal freddo. Solo due o tre candele rompevano l' oscurità: le pareti e il soffitto si perdevano nelle tenebre, talché sembrava di penetrare in una enorme spelonca. Non vi era alcun riscaldamento, ad eccezione degli aliti infetti dei cinquanta malati ancora vivi. Malgrado il gelo, il tanfo di feci e di morte era così intenso che mozzava il fiato, e bisognava fare violenza ai propri polmoni per costringerli ad attingere quell' aria corrotta. Pure cinquanta vivevano ancora. Stavano raggomitolati sotto le coperte; alcuni gemevano o urlavano, altri scendevano con pena dalle cuccette per evacuare sul pavimento. Chiamavano nomi, pregavano, imprecavano, imploravano aiuto in tutte le lingue d' Europa. Mi trascinai a tastoni lungo una delle corsie fra le cuccette a tre piani, incespicando e barcollando nel buio sullo strato di escrementi gelati. Udendo il mio passo, le grida raddoppiarono: mani adunche uscivano di sotto le coperte, mi trattenevano per gli abiti, mi toccavano fredde il viso, tentavano di sbarrarmi la strada. Giunsi infine alla parete divisoria, in fondo alla corsia, e trovai chi cercavo. Erano due italiani in una sola cuccetta, stretti fra loro in un viluppo per difendersi dal gelo: Cesare e Marcello. Conoscevo bene Marcello: veniva da Cannaregio, l' antichissimo ghetto di venezia, era stato a Fossoli con me, e aveva passato il Brennero nel vagone attiguo al mio. Era sano e forte, e fino alle ultime settimane di Lager aveva tenuto duro, sopportando valorosamente la fame e la fatica: ma il freddo dell' inverno lo aveva piegato. Non parlava più, ed io, al lume del fiammifero che accesi, stentai a riconoscerlo: un viso giallo e nero di barba, tutto naso e denti; gli occhi lucidi e dilatati dal delirio, fissi nel vuoto. Per lui c' era poco da fare. Cesare, invece, lo conoscevo appena, poiché era arrivato a Buna da Birkenau pochi mesi prima. Mi chiese acqua, prima che cibo: acqua, perché da quattro giorni non beveva, e lo bruciava la febbre, e la dissenteria lo svuotava. Gliene portai, insieme con gli avanzi della nostra minestra: e non sapevo di porre così le basi di una lunga e singolare amicizia. Le sue capacità di ripresa dovevano essere straordinarie, poiché lo ritrovai nel campo di Bogucice due mesi dopo, non solo ristabilito, ma poco meno che florido, e vispo come un grillo; eppure era reduce da una avventura addizionale che aveva messo a estrema prova le naturali qualità del suo ingegno, consolidate alla dura scuola del Lager. Dopo l' arrivo dei russi, era stato ricoverato anche lui in Auschwitz fra i malati, e siccome la sua malattia non era grave, e la sua fibra robusta, era guarito presto; anzi, un po' troppo presto. Verso la metà di marzo, le armate tedesche in rotta si erano concentrate attorno a Breslavia, e avevano tentato una ultima disperata controffensiva in direzione del bacino minerario slesiano. I russi erano stati colti di sorpresa: forse sopravvalutando l' iniziativa avversaria, si erano affrettati ad approntare una linea difensiva. Occorreva una lunga trincea anticarro, che sbarrasse la valle dell' Oder fra Oppeln e Gleiwitz: le braccia erano scarse, l' opera colossale, la necessità urgente, e i russi provvidero secondo le loro consuetudini, in modo estremamente sbrigativo e sommario. Un mattino, verso le nove, armati russi avevano improvvisamente bloccato alcune strade centrali di Katowice. A Katowice, e in tutta la Polonia, mancavano gli uomini: la popolazione maschile in età di lavoro era sparita, prigioniera in Germania e in Russia, dispersa nelle bande partigiane, massacrata in battaglia, nei bombardamenti, nelle rappresaglie, nei Lager, nei ghetti. La Polonia era un paese in lutto, un paese di vecchi e di vedove. Alle nove di mattina non c' erano che donne in strada: massaie con la borsa o il carrettino, in cerca di viveri e di carbone per le botteghe e i mercati. I russi le avevano messe in fila per quattro con la borsa e tutto, le avevano condotte alla stazione e spedite a Gleiwitz. Simultaneamente, e ciò cinque o sei giorni prima che io vi arrivassi col greco, avevano circondato a un tratto il campo di Bogucice: urlavano come cannibali, e sparavano colpi in aria per intimorire chi tentasse di svignarsela. Avevano messo a tacere senza molti complimenti i colleghi tranquilli della Kommandantur, che avevano cercato timidamente di interporsi, erano penetrati nel campo coi mitra all' anca, e avevano fatto uscire tutti dalle baracche. Sullo spiazzo centrale del campo si era quindi svolta una sorta di versione caricaturale delle selezioni tedesche. Una versione assai meno sanguinosa, poiché si trattava di andare al lavoro e non alla morte; in compenso, molto più caotica ed estemporanea. Mentre alcuni soldati andavano per le baracche a snidare i renitenti, e li inseguivano poi in corsa pazza come in un gran gioco di rimpiattino, altri si erano messi sulla porta, ed esaminavano uno per uno gli uomini e le donne che a mano a mano venivano loro presentati dai cacciatori, o si presentavano spontaneamente; il giudizio se "bolnoj" o "zdorovyj" (ammalato o sano) veniva pronunziato collegialmente, per acclamazione, non senza dispute rumorose nei casi controversi. Il "bolnoj" venivano rimandati in baracca; gli "zdorovyj" messi in fila davanti al reticolato. Cesare era stato fra i primi a capire la situazione ("a svagare il movimento", diceva lui), si era condotto con lodevole perspicacia, e per un pelo non era riuscito a farla franca: si era nascosto nella legnaia, un posto a cui nessuno aveva pensato, e ci era rimasto fino alla fine della caccia, ben zitto e fermo sotto i tronchetti, un spalliera dei quali si era fatta crollare addosso. Ed ecco, uno schiappino qualsiasi, in cerca di rifugio, era venuto a cacciarsi là dentro tirandosi dietro un russo che lo inseguiva. Cesare era stato pescato, e dichiarato sano: per pura rappresaglia, perché era uscito di fra la legna che sembrava un Cristo in croce, anzi, uno storpio deficiente, e avrebbe commosso un sasso: tremolava tutto, si era fatto venire la bava alla bocca, e camminava tutto sbilenco, arrancando, trascinando una gamba, con gli occhi strabici e spiritati. Lo avevano ugualmente aggregato alla fila dei sani: dopo qualche secondo, con una fulminea inversione di tattica, aveva tentato di darsela a gambe, e di rientrare nel campo per il buco nel fondo. Ma era stato raggiunto, aveva rimediato una sventola e un calcio negli stinchi, e si era rassegnato alla sconfitta. I russi li avevano portati fino oltre Gleiwitz a piedi, più di trenta chilometri; laggiù li avevano sistemati alla meglio in stalle e fienili, e gli avevano fatto fare una vita da cani. Mangiare poco, e sedici ore al giorno di picco e pala, pioggia o sole che fosse, col russo sempre lì col mitra puntato: gli uomini alla trincea, e le donne (quelle del campo e le polacche trovate in strada) a pelare patate, fare cucina e le pulizie. Era dura; ma a Cesare più che il lavoro e la fame cuoceva lo smacco. Farsi castigare così, come un pivetto, lui che aveva tenuto banco a Porta Portese! Tutto Trastevere ne avrebbe riso. Bisognava che si riabilitasse. Lavorò tre giorni; il quarto, barattò la pagnotta contro due sigari. Uno lo mangiò; l' altro, lo fece macerare nell' acqua e se lo tenne tutta notte sotto l' ascella. Il giorno dopo era pronto per marcare visita: aveva tutto quanto occorreva, una febbre da cavallo, coliche orrende, vertigini, vomito. Lo misero a letto, ci stette fino a che l' intossicazione fu smaltita, poi di notte se ne andò liscio come l' olio, e se ne tornò a Bogucice a piccole tappe, con la coscienza tranquilla. Trovai modo di farlo sistemare nella mia camera, e non ci separammo più fino al viaggio di ritorno. _ Qui ci risiamo, _ disse Cesare infilandosi le brache, cupo in viso, quando, pochi giorni dopo il suo ritorno, la quiete notturna del campo fu drammaticamente rotta. Era un finimondo, una esplosione: soldati russi correvano su e giù per i corridoi, battevano contro le porte delle camerate col calcio dei mitra, urlando comandi concitati e incomprensibili; poco dopo arrivò lo stato maggiore, Marja in cernecchi, Egorov e Dancenko vestiti a mezzo, seguiti dal ragionier Rovi, smarrito e insonnolito ma in alta uniforme. Bisognava alzarsi e vestirsi, subito. Perché? Erano tornati i tedeschi? Ci trasferivano? Nessuno sapeva niente. Riuscimmo infine a catturare Marja. No, i tedeschi non avevano sfondato il fronte, ma la situazione era ugualmente molto grave. "Inspektsija": quel mattino stesso arrivava un generale, da Mosca, a ispezionare il campo. L' intera Kommandantur era in preda al panico e alla disperazione, in uno stato d' animo da dies irae. L' interprete di Rovi galoppava di camerata in camerata, vociferando ordini e contrordini. Comparvero scope, stracci, secchi; tutti erano mobilitati, bisognava pulire i vetri, fare sparire i cumuli di immondizie, spazzare i pavimenti, lucidare le maniglie, togliere le ragnatele. Tutti si misero al lavoro, sbadigliando e imprecando. Passarono le due, le tre, le quattro. Verso l' alba, si cominciò a sentire parlare di "ubornaja": la latrina del campo rappresentava infatti un brutto problema. Era un edificio in muratura, situato nel bel mezzo del campo, ampio, vistoso, impossibile a nascondere o a mascherare. Da mesi nessuno provvedeva alla pulizia e alla manutenzione: all' interno, il pavimento era sommerso da un palmo di lordura stagnante, tanto che vi avevamo confitto grossi sassi e mattoni, e per entrare si doveva saltellare dall' uno all' altro in equilibrio precario. Dalle porte e dalle crepe dei muri il liquame traboccava all' esterno, attraversava il campo sotto forma di rigagnolo fetido, e si perdeva a valle in mezzo ai prati. Il capitano Egorov, che sudava sangue e aveva perduto compiutamente la testa, scelse fra noi una corvée di dieci uomini, e li fece mandare sul posto con scope e secchi di cloro, con l' incarico di fare pulizia. Ma era chiaro a un bambino che dieci uomini, anche se muniti di strumenti adatti, e non solo di scope, ci avrebbero impiegato almeno una settimana ; e quanto al cloro, tutti i profumi d' Arabia non sarebbero bastati a bonificare il luogo. Non è infrequente che dall' urto fra due necessità scaturiscano decisioni insensate, là dove sarebbe più savio lasciare che il dilemma si sciolga per virtù propria. Un' ora più tardi (e l' intero campo ronzava come un alveare disturbato) la corvée venne richiamata, e si videro arrivare tutti e dodici i territoriali del comando, con legname, chiodi, martelli, e rotoli di filo spinato. In un batter d' occhio tutte le porte e le finestre della scandalosa latrina furono chiuse, sbarrate, sigillate con tavole di abete spesse tre dita, e tutte le pareti, fino al tetto, furono coperte da un groviglio inestricabile di filo spinato. La decenza era salva: il più diligente degli ispettori non avrebbe potuto materialmente mettervi piede. Venne mezzogiorno, venne sera, e del generale nessuna traccia; il mattino dopo se ne parlava già un po' meno; il terzo giorno non se ne parlava più affatto, i russi della Kommandantur erano ritornati alla loro abituale e benefica incuria e sciatteria, due tavole erano state schiodate dalla porta di dietro della latrina, e tutto era rientrato nell' ordine. Un ispettore venne, tuttavia, qualche settimana più tardi; venne a controllare l' andamento del campo, e più precisamente le cucine, e non era un generale, ma un capitano che portava un bracciale con la sigla NKVD, di fama lievemente sinistra. Venne, e dovette trovare particolarmente gradevoli le sue mansioni, o le ragazze della Kommandantur, o l' aria dell' Alta Slesia, o la vicinanza dei cuochi italiani: perché non se ne andò più, e restò a ispezionare la cucina tutti i giorni fino a giugno, quando partimmo, senza esercitare visibilmente alcun' altra attività utile. La cucina, gestita da un barbarico cuoco bergamasco e da un numero imprecisato di assistenti volontari grassi e lustri, era situata subito fuori della recinzione, ed era costituita da un capannone riempito quasi per intero dalle due grosse marmitte di cottura, che riposavano su fornelli di cemento. Vi si entrava salendo due scalini, e non c' era porta. L' ispettore fece la sua prima ispezione con molta dignità e serietà, prendendo appunti su un libretto. Era un ebreo sulla trentina, lunghissimo e dinoccolato, con un bel volto ascetico da Don Chisciotte. Ma il secondo giorno aveva scovato chissà dove una motocicletta, e fu folgorato da un così ardente amore, che da allora in poi non furono più visti disgiunti mai. La cerimonia della ispezione divenne un pubblico spettacolo, a cui assistevano sempre più numerosi i borghesi di Katowice. L' ispettore arrivava verso le undici come una tromba d' aria: frenava di colpo con stridore orribile, e facendo perno sulla ruota anteriore faceva sbandare quella posteriore di un quarto di cerchio. Senza arrestarsi, puntava verso la cucina a testa bassa, come un toro che carichi; superava i due gradini con paurosi sobbalzi; descriveva due . frettolosi, con tutto lo scappamento aperto, intorno alle marmitte; volava nuovamente gli scalini all' ingiù, salutava militarmente il pubblico con un sorriso radioso, si curvava sul manubrio, e spariva in una nuvola di fumo glauco e di fracasso. Il gioco andò liscio per varie settimane; poi, un giorno non si vide né motocicletta né capitano. Questo stava in ospedale, con una gamba rotta; quella era nelle mani amorevoli di un cenacolo di aficionados italiani. Ma furono rivisti ben presto in circolazione: il capitano aveva fatto adattare una mensolina al telaio, e vi teneva appoggiata la gamba ingessata, in posizione orizzontale. Il suo viso dal nobile pallore era atteggiato a felicità estatica; così combinato, riprese con impeto appena ridotto le sue quotidiane ispezioni. Solo quando venne aprile, le ultime nevi si furono sciolte, e il mite sole ebbe prosciugato il fango polacco, incominciammo a sentirci veramente liberi. Cesare era già stato in città varie volte, e insisteva perché lo seguissi nelle sue spedizioni: mi decisi infine a superare l' inerzia, e partimmo insieme in una splendida giornata primaverile. Su richiesta di Cesare, a cui interessava l' esperimento, non uscimmo dal buco nel reticolato. Uscii io per primo dalla porta grande; la sentinella mi domandò come mi chiamavo, poi mi chiese il lasciapassare ed io lo presentai. Controllò: il nome corrispondeva. Io girai l' angolo, e attraverso il filo spinato passai il rettangolino di cartone a Cesare. La sentinella domandò a Cesare come si chiamava. Cesare rispose "Primo Levi". Gli chiese il lasciapassare: il nome corrispondeva nuovamente, e Cesare uscì in piena legalità. Non che Cesare tenga molto ad agire legalmente: ma gli piacciono le eleganze, i virtuosismi, mettere il prossimo nel sacco senza farlo soffrire. Eravamo entrati in Katowice allegri come scolari in vacanza, ma il nostro umore spensierato urtava ad ogni passo con lo scenario in cui ci addentravamo. Ad ogni passo ci imbattevamo nelle vestigia della tragedia immane che ci aveva sfiorati e miracolosamente risparmiati. Tombe ad ogni quadrivio, tombe mute e frettolose, senza croce ma sormontate dalla stella rossa, di militari sovietici morti in combattimento. Uno sterminato cimitero di guerra in un parco della città, croci e stelle commiste, e quasi tutte recavano la stessa data: la data della battaglia per le vie, o forse dell' ultimo sterminio tedesco. In mezzo alla via principale, tre, quattro carri armati tedeschi, apparentemente intatti, trasformati in trofei e in monumenti; il prolungamento ideale del cannone di uno fra questi faceva capo a un enorme foro, a metà altezza della casa di fronte: il mostro era morto distruggendo. Ovunque rovine, scheletri di cemento, travi di legno carbonizzate, baracche di lamiera, gente in stracci, dall' aria selvaggia e famelica. Ai crocicchi importanti, segnalazioni stradali infisse a cura dei russi, e curiosamente contrastanti con il nitore e la precisione prefabbricata delle analoghe insegne tedesche, viste prima, e di quelle americane che avremmo viste dopo: rozze tavole di legno greggio, con su scarabocchiati i nomi a mano, col catrame, in caratteri cirillici ineguali. Gleiwitz, Cracovia, Czenstochowa: anzi, poiché il nome era troppo lungo, "Czenstoch" su una tavola, e poi "owa" su di un' altra tavola più piccola, inchiodata sotto. Eppure la città viveva, dopo gli anni di incubo della occupazione nazista e l' uragano del passaggio del fronte. Molte botteghe e caffè erano aperti; addirittura proliferante il mercato libero; in funzione i tram, i pozzi di carbone, le scuole, i cinematografi. Per quel primo giorno, poiché fra tutti e due non avevamo un soldo, ci accontentammo di un giro di ricognizione. Dopo qualche ora di marcia in quell' aria frizzante, la nostra fame cronica si era riacutizzata. _ Vieni con me, _ disse Cesare, _ andiamo a fare colazione. Mi condusse al mercato, nell' ala dove stavano le bancarelle della frutta. Sotto gli occhi malevoli della fruttivendola, colse dal primo banco una fragola, una sola, ma ben grossa, la masticò piano piano, con aria di intenditore, poi scosse il capo: _ Nié ddobre, _ disse severamente. (_ È in polacco, _ mi spiegò; vuol dire che non sono buone _.) Passò al banco successivo, e ripeté la scena; e così con tutti fino all' ultimo. _ Beh? Che aspetti? _ mi disse poi con cinica fierezza: _ Se hai fame, non hai che da fare come me. Certo, non era con la tecnica delle fragole che ci saremmo messi a posto. Cesare aveva capito la situazione, e cioè che quello era il momento di dedicarsi seriamente al commercio. Mi spiegò il suo sentimento: con me era amico, e non mi chiedeva niente, se volevo potevo andare sul mercato con lui, magari dargli anche una mano e imparare il mestiere, ma era indispensabile che lui si trovasse un vero socio, che disponesse di un piccolo capitale iniziale e di una certa esperienza. Anzi, per verità lo aveva già trovato, un certo Giacomantonio dalla faccia da galera, suo vecchio conoscente di San Lorenzo. La forma della società era estremamente semplice: Giacomantonio avrebbe comperato, lui avrebbe venduto, e si sarebbero divisi gli utili in parti uguali. Comperato che cosa? Di tutto, mi disse: qualunque cosa capitava. Cesare, benché avesse poco più di vent' anni, vantava una preparazione merceologica sorprendente, paragonabile a quella del greco. Ma, superate le analogie superficiali, mi resi conto ben presto che fra il greco e lui correva un abisso. Cesare era pieno di calore umano, sempre, in tutte le ore della sua vita, e non solo fuori orario come Mordo Nahum. Per Cesare il "lavoro" era volta a volta una sgradevole necessità, o una divertente occasione di incontri, e non una gelida ossessione, né una luciferesca affermazione di se stesso. L' uno era libero, l' altro schiavo di sé; l' uno avaro e ragionevole, l' altro prodigo ed estroso. Il greco era un lupo solitario, in eterna guerra contro tutti, vecchio anzitempo, chiuso nel cerchio della sua ambizione trista. Cesare era un figlio del sole, un amico di tutto il mondo, non conosceva l' odio né il disprezzo, era vario come il cielo, festoso, furbo e ingenuo, temerario e cauto, molto ignorante, molto innocente e molto civile. Nella combinazione con Giacomantonio io non volli entrare, ma accettai di buon grado l' invito di Cesare ad accompagnarlo qualche volta al mercato, come apprendista, interprete e portatore. Lo accettai, non solo per amicizia, e per fuggire la noia del campo, ma soprattutto perché assistere alle imprese di Cesare, anche alle più modeste e triviali, costituiva una esperienza unica, uno spettacolo vivo e corroborante, che mi riconciliava col mondo, e riaccendeva in me la gioia di vivere che Auschwitz aveva spenta. Una virtù quale quella di Cesare è buona in sé, in senso assoluto; è sufficiente a conferire nobiltà a un uomo, a riscattarne molti eventuali difetti, a salvarne l' anima. Ma in pari tempo, e su di un piano più pratico, essa costituisce una scorta preziosa per chi intenda esercitare il commercio sulle pubbliche piazze: infatti al fascino di Cesare non era insensibile nessuno, né i russi del comando, né i compagni assortiti del campo, né i cittadini di Katowice che frequentavano il mercato. Ora, è chiaro altresì che, per le dure leggi del commercio, quanto è di vantaggio a chi vende è svantaggioso a chi compra, e viceversa. Aprile volgeva al fine, e il sole era già caldo e franco, quando Cesare venne ad aspettarmi dopo la chiusura dell' ambulatorio. Il suo socio patibolare aveva fatto una serie di colpi brillanti: aveva comperato per cinquanta zloty complessivi una penna stilografica che non scriveva, un contasecondi, e una camicia di lana in discrete condizioni. Questo Giacomantonio, dal fiuto esperto di ricettatore, aveva avuto la eccellente idea di mettersi di piantone alla stazione di Katowice, in attesa dei convogli russi che rientravano dalla Germania: quei soldati, ormai smobilitati e sulla strada di casa, erano i contraenti più faciloni che si possano immaginare. Erano pieni di allegria, di noncuranza e di preda, non conoscevano le quotazioni locali, e avevano bisogno di soldi. D' altronde, metteva conto di passare qualche ora alla stazione anche al di fuori di ogni fine utilitario, ma solo per assistere allo straordinario spettacolo dell' Armata Rossa in rimpatrio: spettacolo ad un tempo corale e solenne come una migrazione biblica, e ramingo e variopinto come una trasferta di saltimbanchi. Sostavano a Katowice lunghissimi convogli di carri merci adibiti a tradotta: erano attrezzati per viaggiare mesi, forse fino al Pacifico, ed ospitavano alla rinfusa, a migliaia, militari e civili, uomini e donne, ex prigionieri, tedeschi a loro volta prigionieri; e inoltre merci, mobilia, bestiame, impianti industriali smobilitati, viveri, materiale bellico, rottami. Erano villaggi ambulanti: alcuni carri contenevano quanto appariva un nucleo familiare, una o due paia di letti matrimoniali, un armadio a specchi, una stufa, una radio, sedie e tavoli. Fra un vagone e l' altro erano tesi fili elettrici di fortuna, provenienti dal primo vagone che conteneva un generatore; servivano per l' illuminazione, e in pari tempo a stendervi la biancheria ad asciugare (e a sporcarsi di fuliggine). Quando al mattino si aprivano le porte scorrevoli, sullo sfondo di quegli interni domestici apparivano uomini e donne vestiti a mezzo, dalle larghe faccie assonnate: si guardavano intorno frastornati, senza saper bene in quale punto del mondo si trovavano, poi scendevano a lavarsi all' acqua gelida degli idranti, e offrivano in giro tabacco e fogli della "Pravda" per arrotolare sigarette. Partii dunque per il mercato con Cesare, che si proponeva di rivendere (magari ai russi stessi) i tre oggetti sopra descritti. Il mercato aveva ormai perso il suo primitivo carattere di fiera delle miserie umane. Il razionamento era stato abolito, o piuttosto era caduto in disuso; dalla ricca campagna circostante arrivavano i carri dei contadini con quintali di lardo e di formaggio, con uova, polli, zucchero, frutta, burro: giardino di tentazioni, sfida crudele alla nostra fame ossessiva e alla nostra mancanza di quattrini, incitamento imperioso a procurarcene. Cesare vendette la penna al primo colpo, per venti zloty, senza contrattazione. Non aveva assolutamente bisogno di interprete: parlava soltanto italiano, anzi romanesco, anzi ancora, il gergo del ghetto di Roma, costellato di vocaboli ebraici storpiati. Certo non aveva altra scelta, perché altre lingue non conosceva: ma, a sua insaputa, questa ignoranza giocava fortemente a suo vantaggio. Cesare "giocava nel suo campo", per dirla in termini sportivi: per contro, i suoi clienti, tesi a interpretare la sua parlata incomprensibile e i suoi gesti mai visti, erano distolti dalla necessaria concentrazione; se facevano controfferte, Cesare non le comprendeva, o fingeva testardamente di non comprenderle. L' arte del ciarlatano non è così diffusa come io pensavo: il pubblico polacco pareva la ignorasse, e ne era affascinato. Cesare poi era un mimo di gran classe: sventolava la camicia nel sole, tenendola ben stretta per il colletto (sotto il colletto c' era un buco, ma Cesare la teneva in mano proprio nel punto dove c' era il buco), e ne proclamava le lodi con eloquenza torrenziale, con inserti e divagazioni inedite ed insulse, apostrofando a tratti questo o quello fra il pubblico con nomignoli osceni che si inventava sul momento. Si interruppe bruscamente (conosceva per istinto il valore oratorio delle pause), baciò la camicia con affetto, e poi, con voce risoluta e insieme commossa, come se gli piangesse il cuore a separarsene, e vi si inducesse solo per amore del suo prossimo, _ Tu, panzone, _ disse: _ quanto mi daresti per sta cosciuletta? Il panzone rimase interdetto. Guardava la "cosciuletta" con desiderio, e con la coda dell' occhio si sbirciava ai fianchi, mezzo sperando e mezzo temendo che qualcun altro facesse la prima offerta. Poi avanzò esitando, tese una mano incerta e borbottò qualcosa come "pingìsci". Cesare ritirò la camicia al seno come se avesse visto un aspide. _ Che ha detto, quello? _ mi chiese, come se sospettasse di aver ricevuto una offesa mortale; ma era una domanda retorica, poiché riconosceva (o indovinava) i numerali polacchi molto più prontamente di me. _ Tu sei matto, _ disse poi perentorio, puntandosi un indice alla tempia e girandolo come un trapano. Il pubblico rumoreggiava e rideva, parteggiando visibilmente per lo straniero fantastico, venuto dai confini del mondo a far portenti sulle loro piazze. Il panzone se ne stava a bocca aperta, dondolandosi come un orso da un piede all' altro. _ Du ferìk, _ riprese Cesare spietato (intendeva dire "verrückt"); indi, a maggior chiarimento, aggiunse: _ Du meschuge _. Esplose un uragano di risa selvagge: questo l' avevano capito tutti. "Meschuge" è un termine ebraico che sopravvive nel yiddish, e pertanto è universalmente compreso in tutta l' Europa centrale e orientale: vale "matto", ma contiene l' idea accessoria di follia vuota, melanconica, ebete e lunare. Il panzone si grattava la testa e si tirava su i pantaloni, pieno di imbarazzo. _ Sto, _ disse poi, cercando pace: _ Sto zlotych, cento zloty. L' offerta era interessante. Cesare, alquanto mansuefatto, si rivolse al panzone da uomo a uomo, con voce suadente, come a convincerlo di una qualche sua involontaria ma pur grossolana trasgressione. Gli parlò a lungo, a cuore aperto, con calore e confidenza, dicendogli: _ Vedi? capisci? non sei d' accordo? _ Sto zlotych, _ ripeté quello, testardo. _ Questo è de Capurzio! _ mi disse Cesare. Poi, come colto da improvvisa stanchezza, e in un estremo tentativo di accordo, gli mise una mano sulla spalla e gli disse maternamente: _ Senti. Senti, compare. Tu non mi hai capito bene. Facciamo così, mettiamoci d' accordo. Te me dài tanto così _ (e gli disegnò 150 col dito sul ventre), _ te me dài Sto Pingisciu, e io te la mollo sulla groppa. Va bene? Il panzone bofonchiava e faceva di no col capo, con gli occhi rivolti in giù; ma l' occhio clinico di Cesare aveva colto il segno della capitolazione: un movimento impercettibile della mano verso la tasca posteriore dei pantaloni. _ E dài! Caccia 'ste pignonze! _ incalzò Cesare, battendo il ferro finché era caldo. Le pignonze (il termine polacco, dall' ostica grafia ma dall' assonanza così curiosamente nostrana, affascinava Cesare e me) furono infine cacciate, e la camicia mollata; ma subito Cesare mi strappò energicamente alla mia ammirazione estatica. _ A compa': famo resciutte, sennò questi svagano er bùcio _. Così, per timore che il cliente si accorgesse prematuramente del buco, facemmo resciutte (ossia prendemmo congedo), rinunciando a piazzare l' invendibile contasecondi. Camminammo con dignitosa lentezza fino alla cantonata più vicina, poi svicolammo con la maggior rapidità che le gambe ci permettevano, e ritornammo al campo per vie traverse.

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Rintracciò mia madre, le consegnò la lettera (e fu l' unico mio segno di vita che in nove mesi giunse a destinazione), e le descrisse confidenzialmente come io mi trovassi in condizioni di salute estremamente preoccupanti: naturalmente non lo avevo messo nella lettera, ma ero solo, ammalato, abbandonato, senza soldi, in urgente bisogno di aiuto; secondo la sua opinione, era indispensabile provvedere immediatamente. Certo l' impresa non era facile: ma lui Cravero, mio amico fraterno, era lì a disposizione. Se mia madre gli avesse consegnato duecentomila lire, in due o tre settimane mi avrebbe riportato a casa a salvamento. Anzi, se la signorina (mia sorella, che assisteva al colloquio) avesse voluto accompagnarlo .... Va ascritto a lode di mia madre e di mia sorella di non aver concesso immediata fiducia al messaggero. Lo rimandarono, pregandolo di ripassare di lì a qualche giorno, perché la somma non era disponibile. Cravero scese le scale, rubò la bicicletta di mia sorella che stava sotto il portone, e scomparve. Mi scrisse dopo due anni, a Natale, una affettuosa cartolina di auguri dalle Carceri Nuove. Nelle sere in cui Tramonto ci esentava dalla ripetizione del processo, era spesso di scena il Signor Unverdorben. Rispondeva a questo nome strano e bello un mite, anziano e ombroso ometto di Trieste. Il Signor Unverdorben, che non rispondeva a chi non lo chiamava "signore", e pretendeva di essere trattato con il "lei", aveva trascorso una lunga duplice esistenza avventurosa, e come il Moro e Tramonto era prigioniero di un sogno, anzi di due. Era inesplicabilmente sopravvissuto al Lager di Birkenau, e ne aveva riportato un orrendo flemmone a un piede; perciò non poteva camminare, ed era il più assiduo e il più ossequioso fra coloro che mi offrivano compagnia e assistenza durante la mia malattia. Era anche molto loquace, e se non si fosse spesso ripetuto, secondo il costume dei vecchi, le sue confidenze potrebbero costituire un romanzo a sé stante. Era musicista, un grande musicista incompreso, compositore e direttore d' orchestra: aveva composto un' opera lirica, "La regina di Navarra", che era stata lodata da Toscanini; ma il manoscritto giaceva inedito in un cassetto, perché i suoi nemici tanto avevano scrutato nelle sue carte, con immonda pazienza, che infine avevano scoperto come quattro battute consecutive dello spartito si ritrovassero identiche nei Pagliacci. La sua buona fede era ovvia, lampante, ma su queste cose la legge non scherza. Tre battute sì, quattro no. Quattro battute sono un plagio. Il Signor Unverdorben era troppo signore per sporcarsi le mani con gli avvocati e le querele: aveva virilmente dato l' addio all' arte, e si era fatta una esistenza nuova come cuoco di bordo sui transatlantici di linea. Così aveva molto viaggiato, e aveva visto cose che nessun altro ha visto. Principalmente, aveva visto animali e piante straordinari, e molti segreti della natura. Aveva visto i coccodrilli del Gange, che hanno un solo osso rigido che va dalla punta del naso alla coda, sono ferocissimi e corrono come il vento; ma, appunto per questa loro singolare struttura, non possono spostarsi che in avanti e indietro, come un treno sui binari, e perciò basta collocarsi di fianco, al di fuori anche di poco della linea retta che costituisce il loro prolungamento, per essere al sicuro. Aveva visto gli sciacalli del Nilo, che bevono correndo per non essere addentati dai pesci: di notte i loro occhi brillano come lanterne, e cantano con rauche voci umane. Aveva anche visto i cappucci della Malesia, che sono fatti come i cavoli nostrani, ma molto più grossi: e basta toccare le loro foglie con un dito, che non si riesce più a districarsene, la mano e poi il braccio e poi l' intera persona dell' incauto vengono attirati, lentamente ma irresistibilmente, nel mostruoso cuore appiccicoso della pianta carnivora, e digeriti a poco a poco. L' unico rimedio, che quasi nessuno conosce, è il fuoco, ma bisogna agire prontamente: basta la fiammella di un fiammifero sotto la foglia che ha ghermito la preda, e il vigore della pianta si scioglie. In questo modo, grazie alla sua prontezza e alle sue conoscenze di storia naturale, il Signor Unverdorben aveva salvato da sicura morte il capitano della sua nave. Ci sono poi certi serpentelli neri che dimorano confitti nelle squallide sabbie d' Australia, e che si avventano all' uomo di lontano, per l' aria, come palle di fucile: un loro morso basta a fare cadere riverso un toro. Ma tutto in natura si ricollega, non vi è offesa contro cui non ci sia difesa, ogni veleno ha il suo antidoto: basta conoscerlo. La morsicatura di questi rettili guarisce prontamente se viene trattata con saliva umana; non però quella della persona aggredita. Perciò, in quelle terre, nessuno viaggia mai solo. Nelle lunghissime sere polacche, l' aria della camerata, greve di tabacco e di odori umani, si saturava di sogni insensati. È questo il frutto più immediato dell' esilio, dello sradicamento: il prevalere dell' irreale sul reale. Tutti sognavano sogni passati e futuri, di schiavitù e di redenzione, di paradisi inverosimili, di altrettanto mitici e inverosimili nemici: nemici cosmici, perversi e sottili, che tutto pervadono come l' aria. Tutti, ad eccezione forse di Cravero, e certamente di D' Agata. D' Agata non aveva tempo di sognare, perché era ossessionato dal terrore delle cimici. Queste incomode compagne non piacevano a nessuno, naturalmente; ma tutti avevamo finito col farci l' abitudine. Non erano poche e sparse, ma un esercito compatto, che col sopraggiungere della primavera aveva invaso tutti i nostri giacigli: stavano annidate di giorno nelle fenditure dei muri e delle cuccette di legno, e partivano in scorreria non appena cessava il tramestio del giorno. A cedere loro una piccola porzione del nostro sangue, ci saremmo rassegnati di buon grado: era meno facile abituarsi a sentirle correre furtive sul viso e sul corpo, sotto gli abiti. Potevano dormire tranquilli solo quelli che avevano la fortuna di godere di un sonno pesante, e che riuscivano a cadere nell' incoscienza prima che quelle altre si risvegliassero. D' Agata, che era un minuscolo, sobrio, riservato e pulitissimo muratore siciliano, si era ridotto a dormire di giorno, e passava le notti appollaiato sul letto, guardandosi intorno con occhi dilatati dall' orrore, dalla veglia e dall' attenzione spasmodica. Teneva stretto in mano un aggeggio rudimentale, che si era costruito con un bastoncello e un pezzo di rete metallica, e il muro accanto a lui era coperto di una lurida costellazione di macchie sanguigne. In principio queste sue abitudini erano state derise: aveva forse la pelle più fina di noi altri? Ma poi la pietà aveva prevalso, commista con una traccia di invidia; perché, fra tutti noi, D' Agata era il solo il cui nemico fosse concreto, presente, tangibile, suscettibile di essere combattuto, percosso, schiacciato contro il muro.

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Non tutte, ma in gran parte, avevano abbandonato "volontariamente" il loro paese. Una volontà coartata, ricattata, distorta dalla menzogna e dalla propaganda nazista sottile e pesante, che minacciava e blandiva dai manifesti, dai giornali, dalla radio: tuttavia una volontà, un assenso. Donne dai sedici ai quarant' anni, centinaia di migliaia, contadine, studentesse, operaie, avevano lasciato i campi devastati, le scuole chiuse, le officine distrutte, per il pane degli invasori. Non poche erano madri, e per il pane avevano lasciato i figli. In Germania avevano trovato il pane, il filo spinato, un duro lavoro, l' ordine tedesco, la servitù e la vergogna: e sotto il peso della vergogna ora rimpatriavano, senza gioia e senza speranza. La Russia vincitrice non aveva indulgenze per loro. Tornavano a casa in carri merci, spesso scoperti, divisi orizzontalmente da un tavolato affinché fosse meglio sfruttato lo spazio: sessanta, ottanta donne per carro. Non avevano bagaglio: solo le vesti logore e stinte che portavano indosso. Corpi giovanili, ancora solidi e sani, ma visi chiusi ed acri, occhi fuggitivi, una conturbante, animalesca umiliazione e rassegnazione nessuna voce usciva da quei viluppi di membra, che si scioglievano pigramente quando i convogli fermavano in stazione. Nessuno le aspettava, nessuno sembrava accorgersi di loro. Di animali umiliati e domati erano la loro inerzia, il loro appartarsi, la loro dolente mancanza di pudore. Noi soli assistevamo con pietà e tristezza al loro passaggio, nuova testimonianza e nuovo aspetto della pestilenza che aveva prostrato l' Europa. Partimmo da Zmerinka alla fine di giugno, oppressi da una greve angoscia che era nata dalla delusione e dalla incertezza del nostro destino, e aveva trovato una oscura risonanza e conferma nelle scene cui a Zmerinka avevamo assistito. Compresi i "rumeni", eravamo millequattrocento italiani. Fummo caricati su una trentina di carri merci, che vennero agganciati ad un convoglio diretto a nord. Nessuno, a Zmerinka, seppe o volle precisarci la nostra destinazione: ma andavamo a nord, via dal mare, via dall' Italia, verso la prigionia, la solitudine, il buio, l' inverno. Malgrado tutto, stimammo buon segno che non ci fossero state distribuite scorte per il viaggio: forse questo non sarebbe stato lungo. viaggiammo infatti per soli due giorni e una notte, con pochissime fermate, attraverso uno scenario maestoso e monotono di steppe deserte, di foreste, di villaggi sperduti, di lente e larghe fiumane. Pigiati nei vagoni merci, si stava scomodi: alla prima sera, approfittando di una fermata, Cesare e io scendemmo a terra, per sgranchirci le gambe e trovare una migliore sistemazione. Notammo che in testa erano vari vagoni passeggeri, e un vagone infermeria: sembrava vuoto. _ Perché non ci saliamo? _ propose Cesare. _ È proibito, _ risposi io insulsamente. Perché infatti doveva essere proibito, e da chi? Del resto, avevamo già potuto constatare in varie occasioni che la religione occidentale (e tedesca in specie) del divieto differenziale non ha radici profonde in Russia. Il vagone infermeria non solo era vuoto, ma offriva raffinatezze da sibariti. Lavatoi efficienti, con acqua e sapone sospensioni dolcissime che attutivano le scosse delle ruote meravigliosi lettini appesi a molle regolabili, completi di lenzuola candide e coperte calde. Al capezzale del letto che avevo scelto, dono supererogatorio del destino , trovai addirittura un libro in italiano: "I ragazzi della via Paal", che non avevo mai letto da bambino. Mentre i compagni già ci dichiaravano dispersi, trascorremmo una notte di sogno. Il treno varcò la Beresina alla fine del secondo giorno di viaggio, mentre il sole, rosso come un granato, calando obliquo fra i tronchi con incantata lentezza, vestiva di luce sanguinosa le acque, i boschi e la pianura epica, cosparsa tuttavia di rottami d' armi e di carriaggi. Il viaggio terminò poche ore dopo, in piena notte, nel culmine di un violento temporale. Fummo fatti scendere sotto il diluvio, in una oscurità assoluta, rotta a tratti dai lampi. Camminammo per mezz' ora in fila indiana, nell' erba e nella melma, ciascuno aggrappato come un cieco all' uomo che lo precedeva, e non so chi guidasse il capofila approdammo infine, bagnati fino alle ossa, in un enorme edificio buio, semidistrutto dai bombardamenti. Continuava a piovere, il pavimento era fangoso e fradicio, e altra acqua cadeva dalle lacune del tetto: attendemmo il giorno in un dormiveglia faticoso e passivo. Sorse un giorno splendido. Uscimmo all' aperto, e solo allora ci accorgemmo di avere pernottato nella platea di un teatro, e di trovarci in un esteso complesso di caserme sovietiche danneggiate e abbandonate. Tutti gli edifici, inoltre, erano stati sottoposti a una devastazione e spoliazione tedescamente meticolosa: le armate germaniche in fuga avevano asportato tutto quanto era asportabile: i serramenti, le inferriate, le ringhiere, gli interi impianti di illuminazione e di riscaldamento, le tubazioni dell' acqua, perfino i paletti del recinto. Dalle pareti era stato estratto fin l' ultimo chiodo. Da un raccordo ferroviario adiacente erano stati divelti i binari e le traversine: con una macchina apposita, ci dissero i russi. Più di un saccheggio, insomma: il genio della distruzione, della controcreazione, qui come ad Auschwitz la mistica del vuoto, al di là di ogni esigenza di guerra o impeto di preda. Ma non avevano potuto asportare gli indimenticabili affreschi che ricoprivano le pareti interne: opere di qualche anonimo poeta-soldato, ingenue, forti e grezze. Tre cavalieri giganti, armati di spade, elmi e mazze, fermi su un' altura, in atto di spingere lo sguardo per uno sterminato orizzonte di terre vergini da conquistare. Stalin, Lenin, Molotov, riprodotti con affetto reverente nelle intenzioni, con audacia sacrilega negli effetti, e riconoscibili precipuamente e rispettivamente per i baffoni, la barbetta e gli occhiali. Un ragno immondo, al centro di una ragnatela grande come la parete: ha un ciuffo nero di traverso fra gli occhi, una svastica sulla groppa, e sotto sta scritto: "Morte agli invasori hitleriani". Un soldato sovietico in catene, alto e biondo, che leva una mano ammanettata a giudicare i suoi giudici: e questi, a centinaia, tutti contro uno, seduti sugli scanni di un tribunale-anfiteatro, sono degli schifosi uomini-insetti, dalle facce gialle e grige, adunche, travolte, macabre come teschi, e si ritraggono l' uno contro l' altro, come lemuri che fuggano la luce, respinti nel nulla dal gesto profetico dell' eroe prigioniero. In queste caserme spettrali, e in parte accampati a cielo aperto nei vasti cortili invasi dall' erba, bivaccavano migliaia di stranieri in transito come noi, appartenenti a tutte le nazioni d' Europa. Il calore benefico del sole incominciava a penetrare la terra umida, e ogni cosa intorno a noi fumava. Mi allontanai dal teatro di qualche centinaio di metri, inoltrandomi in un prato folto dove intendevo spogliarmi e asciugarmi al sole: e nel bel mezzo del prato, quasi mi attendesse, chi vidi se non lui, Mordo Nahum, il mio greco, quasi irriconoscibile per la suntuosa pinguedine e per l' approssimativa uniforme sovietica che indossava: e mi guardava dagli scialbi occhi di gufo, persi nel viso roseo, circolare, rossobarbuto. Mi accolse con cordialità fraterna, lasciando cadere nel vuoto una mia maligna domanda circa le Nazioni Unite che così mal governo avevan fatto di loro greci. Mi chiese come stavo: avevo bisogno di qualcosa? di cibo? di abiti? Sì, non potevo negarlo, avevo bisogno di molte cose. _ Si provvederà, _ mi rispose misterioso e magnanimo: _ io qui conto per qualche cosa _. Fece una breve pausa, e soggiunse: _ Hai bisogno di una donna? Lo guardai interdetto: temevo di non aver capito bene. Ma il greco, in ampio gesto, percorse colla mano tre quarti di orizzonte: e allora mi avvidi che in mezzo all' erba alta, sdraiate al sole, vicine e lontane, giacevano sparse una ventina di vaste fanciulle sonnacchiose. Erano creature bionde e rosee, dalle schiene poderose, dall' ossatura massiccia e dal placido viso bovino, vestite in varie foggie rudimentali e incongrue. _ Vengono dalla Bessarabia, _ mi spiegò il greco: _ sono tutte alle mie dipendenze. Ai russi piacciono così, bianche e spesse. Era una gran pagaille qui prima ma da quando me ne occupo io, tutto va a meraviglia: pulizia, assortimento, discrezione, e nessuna questione per i quattrini. È un buon affare, anche: e qualche volta, moi aussi j' y prends mon plaisir. Mi ritornò a mente, sotto nuova luce, l' episodio dell' uovo sodo, e la sfida sdegnosa del greco: _ Su, dimmi qualche articolo in cui io non abbia mai commerciato! _ No, non avevo bisogno di una donna, o per lo meno non in quel senso. Ci separammo dopo un cordiale colloquio e dopo di allora, essendosi posato il turbine che aveva sconvolto questa vecchia Europa, trascinandola in una contraddanza selvaggia di separazioni e di incontri, non ho più rivisto il mio maestro greco, né ho più sentito parlare di lui.

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Se avessi abbandonato secchio e cinture, preziosa proprietà comune, mi sarei disonorato per sempre: tirai con quanta forza avevo, afferrai il secchio, rovesciai l' acqua a terra, e via di corsa, impacciato dalle cintole aggrovigliate, verso il treno che già si muoveva. Un secondo di ritardo poteva essere un mese di ritardo: corsi senza risparmio, per la vita, scavalcai due siepi e lo steccato, e mi avventai sui ciottoli mobili della massicciata mentre il treno mi sfilava davanti. Il mio vagone era già passato: mani pietose si tesero verso di me dagli altri, agganciarono le cinture e il secchio, altre mani mi avvinghiarono per i capelli, le spalle, gli abiti, e mi issarono di peso sul pavimento dell' ultimo carro, dove giacqui semisvenuto per mezz' ora. Il treno continuava a procedere verso nord: si inoltrava in una valle sempre più stretta, passò le Alpi Transilvane per il valico di Predeal il 24 settembre, in mezzo a severe montagne brulle, in un freddo pungente, e ridiscese a Brasov. Qui la locomotiva venne staccata, garanzia di tregua, e cominciò a svolgersi il cerimoniale consueto: gente dall' aria furtiva e feroce, con le accette in mano, in giro per la stazione e fuori; altri coi secchi, a disputarsi la poca acqua; altri ancora a rubare paglia dai pagliai, o a fare commerci coi locali; bambini sparsi intorno in cerca di guai o di saccheggi minori; donne a lavare o a lavarsi pubblicamente, a scambiarsi visite e notizie da vagone a vagone, a rinfocolare le liti rimuginate durante la tappa, e ad accenderne di nuove. Subito furono accesi i fuochi, e si cominciò a cucinare. Accanto al nostro convoglio stazionava un trasporto militare sovietico, carico di camionette, mezzi corazzati e fusti di carburante. Era sorvegliato da due robuste soldatesse, in stivali ed elmetto, moschetto a spalla e baionetta in canna: erano di età indefinibile e di aspetto legnoso e scostante. Come videro accendere fuochi proprio sotto i fusti di benzina, si indignarono giustamente per la nostra incoscienza, e gridando "nelzjà nelzjà" imposero di spegnerli immediatamente. Tutti obbedirono, sacramentando; ad eccezione di un gruppetto di alpini, gente coriacea, reduci dalla campagna di Russia, che avevano organizzato un' oca e la stavano arrostendo. Si consultarono con sobrie parole, mentre le due donne imperversavano alle loro spalle; poi due di loro, designati a maggioranza, si levarono in piedi, col viso severo e risoluto di chi si sacrifica coscientemente per il bene comune. Affrontarono le soldatesse e parlarono loro sottovoce. La trattativa fu sorprendentemente breve: le donne deposero l' elmetto e le armi, indi i quattro, seri e composti, si allontanarono dalla stazione, si inoltrarono in un viottolo e sparirono ai nostri sguardi. Ritornarono un quarto d' ora più tardi, le donne avanti, un po' meno legnose e lievemente congestionate, gli uomini dietro, fieri e sereni. La cottura era a buon punto: i quattro si accovacciarono a terra con gli altri, l' oca fu scalcata e ripartita in buona pace, poi, dopo la breve tregua, le russe ripresero le armi e la sorveglianza. Da Brasov la direzione di marcia volse nuovamente ad ovest, verso il confine ungherese. Venne la pioggia a peggiorare la situazione: difficile accendere i fuochi, un solo vestito bagnato addosso, fango dovunque. Il tetto del vagone non era stagno: solo pochi metri quadrati di pavimento restavano abitabili, sugli altri grondava acqua senza misericordia. Ne nascevano contese e alterchi senza fine al momento di coricarsi per dormire. È antica osservazione che in ogni gruppo umano esiste una vittima predestinata: uno che porta pena, che tutti deridono, su cui nascono dicerie insulse e malevole, su cui, con misteriosa concordia, tutti scaricano i loro mali umori e il loro desiderio di nuocere. La vittima del nostro vagone era il Carabiniere. Sarebbe arduo stabilirne il perché, se pure un perché esisteva: il Carabiniere era un giovane carabiniere abruzzese, gentile, mite, servizievole e di bell' aspetto. Non era neppure particolarmente ottuso, era anzi piuttosto permaloso e sensibile, e perciò soffriva acutamente della persecuzione a cui era sottoposto dagli altri militari del vagone. Ma appunto, era carabiniere: ed è noto che fra l' Arma (come si chiama per antonomasia) e le altre forze armate non corre buon sangue. Si rimprovera ai carabinieri, perversamente, la loro eccessiva disciplina, serietà, castità, onestà; la loro mancanza di umorismo; la loro obbedienza indiscriminata; i loro costumi; la loro divisa. Corrono sul loro conto leggende fantastiche, grottesche e scempie, che si tramandano nelle caserme di generazione in generazione: la leggenda del martello, la leggenda del giuramento. Tacerò dell' una, troppo nota e infame; secondo l' altra, a quanto appresi, la giovane recluta dell' Arma è tenuta a prestare un segreto e abominevole giuramento infero, in cui, tra l' altro, si impegna solennemente "a uccidere suo padre e sua madre": e ogni carabiniere, o li ha uccisi, o li ucciderà, se no non passa appuntato. Il giovane infelice non poteva aprire bocca: _ Fai silenzio tu, che hai ammazzato papà e mamma _. Ma non si ribellò mai: incassava questo e cento altri vituperi con la pazienza adamantina di un santo. Un giorno mi prese da parte, come neutrale, e mi assicurò "che la faccenda del giuramento non era vera". In mezzo alla pioggia, che ci rendeva collerici e tristi, viaggiammo quasi senza soste per tre giorni, fermando solo per poche ore in un paese pieno di fango, dal nome glorioso di Alba Julia. La sera del 26 settembre, dopo di aver percorso più di ottocento chilometri in terra rumena, eravamo alla frontiera ungherese, presso Arad, in un villaggio chiamato Curtici. Sono sicuro che gli abitanti di Curtici ancora ricordano il flagello del nostro passaggio: è da credersi anzi che questo sia entrato a far parte delle tradizioni locali, e che se ne parlerà per generazioni, accanto al fuoco, come altrove ancora si parla di Attila e di Tamerlano. Anche questo particolare del nostro viaggio è destinato a rimanere oscuro: secondo ogni evidenza, le autorità militari o ferroviarie rumene non ci volevano più, o ci avevano già "scaricati", mentre quelle ungheresi non ci volevano accettare, o non ci avevano "presi in carico": negli effetti, rimanemmo inchiodati a Curtici, noi e il treno e la scorta, per sette giorni estenuanti, e devastammo il paese. Curtici era un villaggio agricolo di forse mille abitanti, e disponeva di ben poco; noi eravamo millequattrocento, e avevamo bisogno di tutto. In sette giorni, vuotammo tutti i pozzi; esaurimmo le scorte di legna, e arrecammo gravi ingiurie a tutto quanto la stazione conteneva di combustibile; delle latrine della stazione stessa è meglio non parlare. Provocammo un pauroso aumento nei prezzi del latte, del pane, del granturco, del pollame; dopo di che, essendo ridotto a zero il nostro potere di acquisto, si verificarono furti di notte e poi anche di giorno. Le oche, che a quanto pareva costituivano la principale risorsa locale, e inizialmente circolavano libere per i viottoli fangosi in solenni squadriglie bene ordinate, sparirono affatto, in parte catturate, in parte richiuse nelle stie. Ogni mattina aprivamo le porte, nella speranza assurda che il treno si fosse mosso inavvertitamente, durante il nostro sonno: ma nulla era cambiato, il cielo era sempre nero e piovoso, le case di fango sempre davanti ai nostri occhi, il treno inerte e impotente come una nave in secca; e le ruote, quelle ruote che ci dovevano portare a casa, ci curvavamo ad esaminarle: no, non si erano mosse di un millimetro, sembravano saldate ai binari, e la pioggia le arrugginiva. Avevamo freddo e fame, e ci sentivamo abbandonati e dimenticati. Il sesto giorno, snervato e inferocito più di tutti gli altri, Cesare ci piantò. Dichiarò che ne aveva abbastanza di Curtici, dei russi, del treno e di noi; che non voleva diventare matto, e neanche morire di fame o essere accoppato dai curticesi; che uno, quando è in gamba, se la cava meglio da solo. Disse che, se eravamo disposti, potevamo anche seguirlo: ma patti chiari, lui era stufo di fare della miseria, era pronto a correre dei rischi, ma voleva tagliare corto, far su quattrini alla svelta, e tornare a Roma in aeroplano. Nessuno di noi si sentì di seguirlo, e Cesare se ne andò: prese un treno per Bucarest, ebbe molte avventure, e riuscì nel suo proposito, tornò cioè a Roma in aereo, sebbene più tardi di noi; ma questa è un' altra storia, una storia "de haulte graisse", che non racconterò, o racconterò in altra sede solo se e quando Cesare me ne darà il permesso. Se in Romania avevo provato un delicato piacere filologico nel gustare nomi quali Galati, Alba Julia, Turnu Severin, al primo ingresso in Ungheria ci imbattemmo invece in Békéscsaba, cui fecero seguito Hòdmezo5vasàrhely e Kiskunfélegyhàza. La pianura magiara era intrisa d' acqua, il cielo era plumbeo, ma sopra ogni cosa ci attristava la mancanza di Cesare. Aveva lasciato fra noi un vuoto doloroso: in sua assenza, nessuno sapeva di cosa parlare, nessuno più riusciva a vincere la noia del viaggio interminabile, la fatica dei diciannove giorni di tradotta che ormai ci pesavano sulle spalle. Ci guardavamo l' un l' altro con un vago senso di colpa: perché lo avevamo lasciato partire? Ma in Ungheria, malgrado i nomi impossibili, ci sentivamo ormai in Europa, sotto l' ala di una civiltà che era la nostra, al riparo da allarmanti apparizioni quali quella del cammello in Moldavia. Il treno puntava verso Budapest, ma non vi penetrò: sostò a più riprese a Ujpest e in altri scali periferici il 6 di ottobre, concedendoci visioni spettrali di ruderi, di baracche provvisorie e di strade deserte; poi si inoltrò nuovamente nella pianura, fra scrosci di pioggia e veli di nebbia autunnale. Fermò a Szòb, ed era giorno di mercato: scendemmo tutti, per sgranchirci le gambe e spendere i pochi soldi che avevamo. Io non avevo più nulla: ma ero affamato, e barattai la giacca di Auschwitz, che avevo gelosamente conservata fino allora, contro un nobile impasto di formaggio fermentato e cipolle, il cui aroma acuto mi aveva avvinto. Quando la macchina fischiò, e risalimmo sul vagone, ci contammo, ed eravamo due in più. Uno era Vincenzo, e nessuno se ne stupì. Vincenzo era un ragazzo difficile: un pastore calabrese di sedici anni, finito in Germania chissà come. Era selvaggio quanto il Velletrano, ma di natura diversa: timido, chiuso e contemplativo quanto quello era violento e sanguigno. Aveva mirabili occhi celesti, quasi femminei, e un viso fine, mobile, lunare: non parlava quasi mai. Era nomade nell' anima, inquieto, attratto a Staryje Doroghi dal bosco come da demoni invisibili: e anche sul treno, non aveva residenza stabile in un vagone, ma li girava tutti. Subito comprendemmo il perché della sua instabilità: appena il treno partì da Szòb, Vincenzo piombò a terra, con gli occhi bianchi e la mascella serrata come di sasso. Ruggiva come una belva, e si dibatteva, più forte dei quattro alpini che lo trattenevano: una crisi epilettica. Certamente ne aveva avute altre, a Staryje Doroghi e prima: ma ogni volta, quando ne avvertiva i segni premonitori, Vincenzo, spinto da una sua selvatica fierezza, si era rifugiato nella foresta perché nessuno sapesse del suo male; o forse, davanti al male fuggiva, come gli uccelli davanti alla tempesta. Nel lungo viaggio, non potendo restare a terra, quando sentiva arrivare l' attacco cambiava vagone. Stette con noi pochi giorni, poi sparì: lo ritrovammo appollaiato sul tetto di un altro vagone. Perché? Rispose che di lassù si vedeva meglio la campagna. Anche l' altro nuovo ospite, per diverse ragioni, si rivelò un caso difficile. Nessuno lo conosceva: era un ragazzotto robusto, scalzo, vestito con giacca e pantaloni dell' Armata Rossa. Parlava solo ungherese, e nessuno di noi riusciva a capirlo. Il Carabiniere ci raccontò che, mentre a terra stava mangiando pane, il ragazzo gli si era avvicinato e aveva teso la mano; lui gli aveva ceduto metà del suo cibo, e da allora non era più riuscito a staccarlo: mentre tutti risalivamo in fretta sul vagone, doveva averlo seguito senza che nessuno ci badasse. Fu accolto bene: una bocca in più da sfamare non preoccupava. Era un ragazzo intelligente e allegro: appena il treno fu in moto, si presentò con grande dignità. Si chiamava Pista e aveva quattordici anni. Padre e madre? Qui era più difficile farsi intendere: trovai un mozzicone di matita e un pezzo di carta, e disegnai un uomo, una donna, e un bambino in mezzo; indicai il bambino dicendo "Pista", poi rimasi in attesa. Pista si fece serio, poi fece un disegno di terribile evidenza: una casa, un aereo, una bomba che stava cadendo. Poi cancellò la casa, e disegnò accanto un grosso cumulo fumante. Ma non era in vena di cose tristi: appallottolò quel foglio, ne chiese un altro, e disegnò una botte, con singolare precisione. Il fondo, in prospettiva, e tutte le doghe visibili, a una a una; poi la cerchiatura, e il foro con lo spinotto. Ci guardammo interdetti: quale era il senso del messaggio? Pista rideva, felice: poi disegnò se stesso accanto, col martello in una mano e la sega nell' altra. Non avevamo ancora capito? era il suo mestiere, era bottaio. Tutti gli vollero subito bene; d' altronde, teneva a rendersi utile, spazzava il pavimento tutte le mattine, lavava con entusiasmo le gavette, andava a prendere l' acqua, ed era felice quando lo mandavamo a "fare la spesa" presso i suoi compatrioti delle varie fermate. Al Brennero, si faceva già intendere in italiano: cantava belle canzoni del suo paese, che nessuno capiva, poi cercava di spiegarcele a gesti, facendo ridere tutti e ridendo di gran cuore lui per primo. Era affezionato come un fratello minore al Carabiniere, e ne lavò a poco a poco il peccato originale: aveva bensì ucciso padre e madre, ma in fondo doveva essere un buon figliolo, dal momento che Pista lo aveva seguito. Riempì il vuoto lasciato da Cesare. Gli chiedemmo perché era venuto con noi, che cosa veniva a cercare in Italia: ma non riuscimmo a saperlo, in parte per la difficoltà di intenderci, ma principalmente perché lui stesso sembrava lo ignorasse. Da mesi vagabondava per le stazioni come un cane randagio: aveva seguito la prima creatura umana che lo avesse guardato con misericordia. Speravamo di passare dall' Ungheria all' Austria senza complicazioni di confine, ma non fu così: il mattino del 7 ottobre, ventiduesimo giorno di tradotta, eravamo a Bratislava, in Slovacchia, in vista dei Beschidi, degli stessi monti che sbarravano il lugubre orizzonte di Auschwitz. Altra lingua , altra moneta, altra via: avremmo chiuso l' anello? Katowice era a duecento chilometri: avremmo ricominciato un altro vano, estenuante circuito per l' Europa? Ma a sera entrammo in terra tedesca: il giorno . eravamo incagliati nello scalo merci di Leopoldau, una stazione periferica di Vienna, e ci sentivamo quasi a casa. La periferia di Vienna era brutta e casuale come quelle a noi familiari di Milano e di Torino, e come quelle, nelle ultime visioni che ne ricordavamo, macinata e sconvolta dai bombardamenti. I passanti erano pochi: donne, bambini, vecchi, nessun uomo. Familiare, paradossalmente, mi suonava anche il loro linguaggio: alcuni comprendevano perfino l' italiano. Cambiammo a caso il danaro che avevamo con moneta locale, ma fu inutile: come a Cracovia in marzo, tutti i negozi erano chiusi, o vendevano solo generi razionati. _ Ma che cosa si può comperare a Vienna senza tessera? _ chiesi ad una ragazzina, non più che dodicenne. Era vestita di stracci, ma portava scarpe coi tacchi alti ed era vistosamente truccata: _ Ueberhaupt nichts, _ mi rispose con scherno. Ritornammo alla tradotta per passarvi la notte; durante la quale, con molte scosse e stridori, percorremmo pochi chilometri e ci trovammo trasferiti in un altro scalo, Vienna-Jedlersdorf. Accanto a noi emerse dalla nebbia un altro convoglio, anzi, il cadavere tormentato di un convoglio: la locomotiva stava verticale, assurda, col muso puntato al cielo come se volesse salirvi; tutti i vagoni erano carbonizzati. Ci accostammo, spinti dall' istinto del saccheggio e da una curiosità irridente: ci ripromettevamo una soddisfazione maligna nel mettere le mani sulle rovine di quelle cose tedesche. Ma alla irrisione rispose irrisione: un vagone conteneva vaghi rottami metallici che dovevano avere fatto parte di strumenti musicali bruciati, e centinaia di ocarine di coccio, sole superstiti; un altro, pistole di ordinanza, fuse e arrugginite; il terzo, un intrico di sciabole ricurve, che il fuoco e la pioggia avevano saldato entro i foderi per tutti i secoli avvenire: vanità delle vanità, e il sapore freddo della perdizione. Ci allontanammo, e vagando alla ventura ci trovammo sull' argine del Danubio. Il fiume era in piena, torbido, giallo e gonfio di minaccia: in quel punto il suo corso è pressoché rettilineo, e si vedevano, uno dietro l' altro, in una brumosa prospettiva da incubo, sette ponti, tutti spezzati esattamente al centro, tutti coi monconi immersi nell' acqua vorticosa. Mentre ritornavamo alla nostra dimora ambulante, fummo riscossi dallo sferragliare di un tram, sola cosa viva. Correva all' impazzata sui binari malconci, lungo i viali deserti, senza arrestarsi alle fermate. Intravvedemmo il manovratore al suo posto, pallido come uno spettro; dietro a lui, deliranti di entusiasmo, stavano i sette russi della nostra scorta, e nessun altro passeggero: era il primo tram della loro vita. Mentre gli uni si spenzolavano fuori dei finestrini, gridando "hurrà, hurrà", gli altri incitavano e minacciavano il guidatore perché andasse più in fretta. Su una grande piazza si teneva mercato; ancora una volta un mercato spontaneo e illegale, ma assai più misero e furtivo di quelli polacchi, che avevo frequentato col greco e con Cesare: ricordava invece da vicino un altro scenario, la Borsa del Lager, indelebile nelle nostre memorie. Non banchetti, ma gente in piedi, freddolosa, inquieta, a piccoli crocchi, pronta alla fuga, con borse e valigie in mano e le tasche gonfie; e si scambiavano minuscole cianfrusaglie, patate, fette di pane, sigarette sciolte, spicciolo e logoro ciarpame casalingo. Risalimmo sui vagoni col cuore gonfio. Non avevamo provato alcuna gioia nel vedere Vienna sfatta e i tedeschi piegati: anzi, pena; non compassione, ma una pena più ampia, che si confondeva con la nostra stessa miseria, con la sensazione greve, incombente, di un male irreparabile e definitivo, presente ovunque, annidato come una cancrena nei visceri dell' Europa e del mondo, seme di danno futuro. Sembrava che il treno non potesse staccarsi da Vienna: dopo tre giorni di soste e di manovre, il 10 ottobre eravamo a Nussdorf, un altro sobborgo, affamati, bagnati e tristi. Ma il mattino dell' 11, quasi avesse ritrovato ad un tratto una traccia perduta, il treno puntò decisamente verso ponente: con inconsueta rapidità attraversò St. Po5lten, Loosdorf e Amstetten, e a sera, lungo la strada che correva parallelamente alla ferrovia, apparve un segno, portentoso ai nostri sguardi come gli uccelli che annunciano ai naviganti la terra vicina. Era un veicolo nuovo per noi: un' auto militare tozza e sgraziata, piatta come una scatola, che portava dipinta sulla fiancata una stella bianca e non rossa: una jeep, insomma. Un negro la guidava; uno degli occupanti si sbracciava verso di noi, e urlava in napoletano: _ Si va a casa, guaglioni! La linea di demarcazione era dunque vicina: la raggiungemmo a St. Valentin, a pochi chilometri da Linz. Qui fummo fatti scendere, salutammo i giovani barbari della scorta e il macchinista benemerito, e passammo in forza agli americani. I campi di transito sono tanto peggio organizzati quanto più breve è la durata media del soggiorno: a St. Valentin non ci si fermava che poche ore, un giorno al massimo, ed era perciò un campo molto sporco e primitivo. Non c' era luce né riscaldamento né letti: si dormiva sul nudo pavimento di legno, in baracche paurosamente labili, in mezzo al fango alto una spanna. La sola attrezzatura efficiente era quella dei bagni e della disinfezione: sotto questa specie, di purificazione e di esorcismo, l' Occidente prese possesso di noi. Al compito sacerdotale erano addetti alcuni G.I. giganteschi e taciturni, disarmati, ma adorni di una miriade di aggeggi di cui ci sfuggiva il significato e l' impiego. Per il bagno, tutto andò liscio: erano una ventina di cabine di legno, con doccia tiepida e accappatoi, lusso mai più visto. Dopo il bagno, ci introdussero in un vasto locale in muratura, tagliato in due da un cavo da cui pendevano dieci curiosi attrezzi, vagamente simili a martelli pneumatici: si sentiva fuori pulsare un compressore. Tutti e millequattrocento, quanti eravamo, fummo stipati da un lato della divisione, uomini e donne insieme: ed ecco entrare in scena dieci funzionari dall' aspetto poco terrestre, avvolti in tute bianche, con casco e maschera antigas. Agguantarono i primi del gregge, e senza complimenti infilarono loro le cannucce degli arnesi pendenti, via via, in tutte le aperture degli abiti: nel colletto, nella cintura, nelle tasche, su per i pantaloni, sotto le sottane. Erano specie di soffietti pneumatici, che insufflavano insetticida: e l' insetticida era il DDT, novità assoluta per noi, come le jeep, la penicillina e la bomba atomica, di cui avemmo notizia poco dopo. Imprecando o ridendo per il solletico, tutti si adattarono al trattamento, finché venne il turno di un ufficiale di marina e della sua bellissima fidanzata. Quando gli incappucciati misero le mani, caste ma rudi, su costei, l' ufficiale si pose energicamente di mezzo. Era un giovane robusto e risoluto: guai a chi osasse toccare la sua donna. Il perfetto meccanismo si arrestò netto: gli incappucciati si consultarono brevemente, con inarticolati suoni nasali, poi uno di loro si tolse maschera e tuta e si piantò davanti all' ufficiale coi pugni serrati, in posizione di guardia. Gli altri fecero cerchio ordinatamente, ed ebbe inizio un regolare incontro di pugilato. Dopo pochi minuti di combattimento silenzioso e cavalleresco, l' ufficiale cadde a terra col naso sanguinante; la ragazza, stravolta e pallida, venne infarinata da tutte le parti secondo le prescrizioni, ma senza collera né volontà di rappresaglia, e tutto rientrò nell' ordine americano.

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