Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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I sogni dell'anarchico

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Mioni, Ugo 5 occorrenze

E nel momento stesso, nel quale la dottrina più cara;, l'assioma più gradito, la teoria più desiderata gli sarebbe apparso errore l'avrebbe tosto abbandonato, perché per lui la verità era superiore a tutto. Quando poi era andato a militare nelle file dell'anarchia, aveva detto a tutti i suoi aderenti d'i questo suo proposito; lo sapevano tutti, che egli era passato alle file anarchiche per persuasione; erano fieri di averlo compagno e lo additavano agli altri partiti, come una grande prova della bontà del loro sistema. - Se non fosse convinto, che l'anarchia è il miglior sistema e contiene la verità, non militerebbe nelle nostre file ? dicevano. Ed ora una voce lo rimproverava: ? Tu fai contro la luce. - Pah! Per un sogno! per un sogno sciocco! Chiuse l'armadio e consultò l'orologio. Le sette erano passate di poco. L'amico Narciso sarebbe venuto attorno le otto. Aveva tempo di prendere un caffè. Passò alla finestra e aprì le invetriate, per poter spalancare le persiane. Una raffica di vento freddo entrò nella stanza. Di fuori il buio era ancora perfetto; il cielo gravido di nubi; il lastrico coperto di un alto strato di neve candida, le vie deserte. Per il momento non nevicava. Chiuse rapidamente la finestra, cacciò una berretta di pelle in capo, tirò su il collare del pastrano, cacciò nelle tasche le mani inguantate, usci dal suo piccolo appartamento, scese le scale e passò sulla via. Il pensiero: tu scendi per l'ultima volta queste scale, gli sembrò cosi strano; lo fece trasalire. Pensò: Non potrei lanciare ora, la bomba e approfittare della confusione, che avverrà, per svignarmela? Era per lo meno probabile che avrebbe messo al sicuro la propria vita. Ma poi cacciò questo pensiero. Non voleva sembrare vile; non voleva che si fosse detto l'indomani: la bomba venne lanciata da uno dei nostri soliti avversari, gente vale, capace di commettere il delitto, ma incapace di sopportarne le consegunze. Giunse sulla via e attraverso. Era deserta. Chi mai esce a quell'ora il giorno di Natale? Il freddo era cane; la neve, dura. scricchiolava sotto i suoi piedi, che imprimevano in quella orme profonde. Giunse alla piccola piazza, dove c'era un caffè. Era aperto. Attraverso le lastre, appannate dall'alito di chi si trovava entro, trapelava uno scialbo bagliore. Pose la mano sul saliscendi, apri l'uscio ed entrò. Il caffè era deserto; non v'era allora anima vivente. Chi mai va alla mattina di Natale, alle sette, al caffè? A quell'ora i più dormono ancora; e chi non dorme è in chiesa oppur prende il caffè a casa sua. I pochi frequentatori assidui del caffè nelle prime ore del mattino, operai ed impiegati, non ci vanno il giorno di Natale. Nessuno lavorava in questo giorno ed essi potevano custodire perciò un po' più a lungo le piume. I camerieri sbadigliavano annoiati. Uno gli si fa incontro. ? Buon Natale Egli non risponde. Gli viene il prurito di protestare contro il saluto, contro il Natale, contro i gonzi, che ancora lo festeggiano, ma comprende, che ciò non avrebbe giovato. Ci voleva la rivoluzione ed il trionfo dell'anarchia, per cancellare ogni traccia di superstizione. Si fece portare il suo solito caffè ed i giornali. Fu di malumore al rilevare, che i giornali del mattino non erano usciti, in omaggio alla festa. ? Maledetto Natale! ? mormorò tra sé e se. Il cameriere del suo tavolo gli domandò colla confidenza che concede una lunga conoscenza: ? Ha passato bene la notte di Natale? ? Ho dormito ? fu la brusca risposta. ? Non è stato invitato a cena da nessuno; non ha atteso la mezzanotte? Egli proruppe in una breve risata di scherno. ? Sono superiore a queste scioccaggini! Per me il Natale è un giorno come tutti gli altri, e la notte di Natale ho dormito e sognato, come in tutte le altre notri ? rispose. Il cameriere sorrise. Sorrideva sempre: Osservò: ? C'è chi ci tiene moltissimo ai sogni d'ella notte di Natale. Giovanni Giunti non rispose ma si occupò del suo caffè. II cameriere comprese e si allontanò. Vuotò in fretta la tazza.Non si sentiva ad agio in quell'ambiente pubblico, allora vuoto, sotto gli occhi curiosi dei camerieri sfaccendati, i quali lo osservavano come una rara avis, una bestia strana. Non voleva pascere, colla sua persona, l'altrui curiosità. Fece un breve giro per la città silenziosa, alla luce grigia di un' alba,contrastata delle dense nubi, che velavano il cielo, e poi ritornò a casa per attendere Narciso Rossi. Erano le sette e tre quarti. Che cosa aveva da fare; come ammazzare il tempo fino alle dieci, quando sarebbe andato alla cattedrale, per gettare la bomba tra i fedeli? Girò irrequieto su e giù nella stanza da studio, tormentato dai suoi antichi sogni, il cui ricordo, strana cosa, non lo abbandonava. Apri due volte lo stipo e lo rinchiuse. La vista delle bombe non gli faceva più piacere. Una voce interna lo rimproverava: - Tu fai contro la luce. Ed egli sentiva, che la voce non aveva tutti i torti. L'anarchia? L'unica tavola di salvezza. Gettare la bomba? Era necessario - In chiesa? Voleva attendere Narciso Rossi. Il tempo passava, lentamente, molto lentamente, ma pur passava. Passano anche le ore delle maggiori angosce???, che sembrano interminabili, e quanto più interminabile sembrò uno spazio di tempo prima d'incominciarlo o mentre ci si era dentro, perché tempo di sofferenze di dolori, d'ignominia, tanto più breve esso sembra di' poi, quando è terminato, osservare alla serena luce di giorni lontani. Vennero le otto e un quarto, la mezza, i tre quarti. Incominciò a diventare impaziente. Avevano pur deciso di lanciare la bomba quella mattina I Quanto più attenete, tanto più si concretizza in lui un pensiero, e questo, sa è: Attendere. Attendiamo, che la calma ritorni nel mio spirito. Non era detto, che si dovevano lanciare le bombe proprio quella mattina. Non era neppur detto che dovevano venir lanciate. La direziono del partito, forte a parole e vile a fatti, aveva anzi deciso, che non dovevano venir lanciate, che il loro getto avrebbe danneggiato la causa piuttosto idi favorirla. Voleva dire a Narciso Rossi: - Ti tengo legato alla tua promessa, ma oggi non è ancora venuto il giorno opportuno. E' meglio attendere alquanto e fare i preparativi con maggior calma. Le lanceremo più tardi, in un giorno di maggior concorso, di gran folla, dopo di aver combinato le cose in modo da poter fuggire. L'amico avrebbe accettato con voluttà la proposta, ed intanto egli avrebbe potuto riflettere; sciogliere le potenti obiezioni, causate dai terribili sogni; cercare prove per dimostrare, che la Chiesa è il maggior nemico dell'umanità. Avrebbe continuato a vivere, per qualche giorno ancora. La vita non è spiacevole neppur per un anarchico. L'attuale società è la peggiore che immaginar si possa eppure non la si abbandona volentieri. Ma un evento venne a turbare i suoi calcoli. Erano le nove, quando bussarono. ? Chi può essere? ? esclamò. La visita gli veniva importuna. Non poteva essere Marcelle. Questi sapeva che c'era il campanello elettrico; non la domestica la quale aveva le chiavi dell'abitazione, per poter venire quando le sarebbe parso bene. Una visitarla mattina di Natale; in quella mattina cosi brutta, così piena di vento, di neve, alle nove? Andò all'uscio e lo aperse. Gli si presentò la faccia rossa di un fattorino, dal grosso naso a peperone, che brillava di una luce rossastra, intensa, e dall'alito, che puzza va di alcool. Il fattorino aveva fatto già il sacrifizio mattutino a Dio Bacco. Tra le dita, coperte da un paio di guanti di lana, una volta grigi, ed ora coperti di sudiciume, egli teneva una lettera. ?E' tei il signor Giunti? ? domandò. ? Chi manda? - E' lei o non è lei? - insistè il fattorino? Date qui. - E' lei o non è lei? - ripetè il fattorino, il quale aveva fatto delle libazioni durante tutta la notte e non sembrava disposto,a cedere la tetterà senza aver prima risposta a quella domanda. - Sì - rispose l'anarchico, che si era accorto dello stato anormale del fattorino. - Prenda - rispose questi soddisfatto, dandogli la lettera. - Chi manda? - insistè Giunti da canto suo. Il fattorino rise. _ Un uomo in calzoni. ? rispose. ? Matta idea la Mi diede la lettera qua, sulla strada. Buona idea la mia di appostarmi il giorno di Natale. Cioè. Non mi era appostato. Ero stato a Messa Diamine. Ci vado a Natale ed a Pasqua. Non sono mica un cane io. Eppoi ero andato a bere un bicchierino. Tempo cane. signori. Loro signori non sentono l'inverno. Hanno una bella abitazione, mangiano bene, bevono meglio, sono ben vestiti. Ma verrà il giorno, sa! Non sono anarchico io! il ciel mi guardi! Ma verrà il giorno; deve venire il giorno..! ? esclamò il fattorino, «e i suoi piccoli occhi lustri, brillavano di una luce strana, tra il minaccioso e l'allegro. Egli assaporava già ora le gioie di quel dì, vicino o lontano, ma che doveva certo venire, nel quale sarebbero state livellate le condizioni sociali ed egli avrebbe potuto passarsela come i signori, liberi questi da fare i fattorini se credevano, e magari di mendicare. Giunti non dimenticò di essere anarchico. Volle fare un po' di propaganda alte sue persuasioni, e disse perciò: ? Il giorno è vicino! Stupore del vecchio. ? Lo dice anche lei? ? domandò. ?Sì. - Allora si farà tutto a parte? - Tutto sarà di tutti. - Ella, un signore, lo dice? - Ne sono convinto ed anelo, ed anelo il momento. Il fattorino rise. Il suo riso era ironico. Il popolo ha un'ironia sublime. _ Se il signore vuole può affrettare quel momento. Si decida. Io sono disposto di accertare tutto. Mettiamo in comune la sua abitazione. Sono pronto di entrare subito - disse. Una leggera nube velò il volto di Giunti. E' questa la solita obiezione che i non anarchici fanno a chi professa queste dottrine. ? Voi siete anche comunardi. Ebbene: Procedete coll'esempio. - Lo farò, quando lo faranno tutti. Per guarire la società è necessario che il capitale sparisca, che spariscano i superiori, le autorità, le leggi, e che tuffo diventi proprietà di tutti ? osservò. I] fattorino rise. - Così lo dicono furti. E mentre l'uno attende che incomincino gli altri, non si muore di fame e di freddo ? osservò. Giunti sentì nausea di quell'uomo. ? Se spendeste un po' meglio il vostro danaro; se invece di ricorrere al bicchierino ed ai liquori vi compraste pane, non avreste da lamentarvi ? disseti fattorino rise. - Non ho bisogno di lezioni - osservò. Giunti prese la lettera e diede al fattorino una lira di mancia. Questi neppure ringraziò. La lira gli sembrava troppo poca cosa per un uomo, il quale si vantava comunardo e predicava venuto il tempo della divisione, nel quale tutto doveva diventare proprietà di tutti. Giunti rientrò nella sua stanza calda, ben illuminata. ? Manda Marcelle. Cosa scrive? ? disse, osservando la soprascritta. Gli venne un sospetto. - Che sia davvero vile? - domandò a se stesso. Stracciò la busta e lesse le poche righe. _ Vile i ? esclamò. ? Davvero vile! Il biglietto, scritto colla mano tremante, diceva: ? Non posso! Tanti innocenti..? ? Tanti, tanti innocenti! - motteggiò. Innocenti? No, non erano innocenti. Erano correi; correi magari senza volerlo, senza saperlo; correi per l'istruzione sbagliata, ricevuta dai genitori, dagli avi; correi, perché non avevano saputo sollevarsi in alto, a più spirabil aere; eppoi tutta la società era folle, era fiacca; aveva bisogno di una lezione. Innocenti? Non lo erano; perché frequentavano la chiesa, i passeggi, perché facevano sfoggio del loro lusso, perché erano borghesi, perché volevano che sopravvivesse una società avariata, perché volevano conservate le disuguaglianze sociali? Ma anche se fossero stati innocenti, il mondo è fatto così. La natura non bada ne, agli innocenti ne ai rei; sacrifica quanti occorrono venir sacrificati, per il raggiungimento dei propri fini; il falcone e l'aquila fanno allo sfesso modo scempio della pacifica gallina e del superbo tacchino, il falcone divora egualmente il passero, così dannoso, e un usignolo canoro, e gli uragani schiantano l'inutile pioppo e la quercia, il melo, il pero, il susino ed altri alberi, così utili alla vita. Innocenti? La sua era opera necessaria e purificatrice; si trattava di ricostruire una società nuova sulle rovine dell'antica; e questa non volendo crollare da sé andava atterrata. Non era per colpa sua se nel suo crolloessa avrebbe schiacciato e seppellito sotto le macerie anche qualche innocente. Egli non voleva che il bene altrui; non era per colpa sua, se, per ottenere il bene, doveva schiantare coloro che vi si opponevano. Narciso Rossi si rifiutava. Vile! Vile! Già; il Natale; la pazza poesia della sacra notte. Egli l'aveva passata coi congiunti, alla luce di qualche albero, scioccamente ornato di fiori e di lumi; aveva udito il canto di inni e canzoni natalizie, e si era commosso. Vile, vile! Non pensò, che qualche minuto prima aveva deciso di non gettare la bomba; di rinunziare, per il momento, a quell'atto d'i vendetta sociale; di dire a Narciso, che avrebbe atteso tempi migliori. Non senti che rabbia e sdegno per l'antico amico ed un'avversione grande contro di lui... Che aveva da fare? Rimanere fedele alla decisione presa poc'anzi e procastinare il getto delle bombe?,, Ma che ne avrebbe detto Narciso Rossi? Lo avrebbe giudicato egualmente vile; oppure avrebbe pensato che non si poteva fare senza di lui; che egli, Narciso, era indispensabile? Avrebbe potuto rimproverargli la sua colpa? No. L'altro gli avrebbe potuto dire: Perché rimproveri a me quanto dovresti rimproverare prima a tè stesso? sei forse un bambino, che non osi agire da solo; che dipendi da me nel tuo operato? sic io sono un vile, che mi sono rifiutato di gettare la bomba, lo sei tu pure. Era proprio necessario che due scoppiassero allo stesso tempo? Non bastava una sola, la tua? Potenza dell'orgoglio umano, di un falso amor proprio, della tema di venir giudicato male! Egli mutò rapidamente pensiero. Aveva deciso di soprassedere a quel getto; di attendere un istante più opportuno. La sua prudenza gli aveva suggerito questo. Aveva preso questa decisione dopo un esame maturo e prudente, ed ora bastò quello scritto, bastò la tema di venir creduto vile, per fargli mutare pensiero. - Non avrà il gusto di rimproverarmi la sua viltà! - disse, e prese la rapida decisione di attuare il suo progetto e di diventare, quella mattina ancora, assassino e omicida. La ragione gli diceva: Attendi, attendi! Ma egli ne faceva tacere con violenza la voce., La coscienza gli diceva: Bada che fai contro la luce; ed i suoi sogni si ergevano maestosi, terribili, avanti a lui e gridavano: Tu agisci male; tu inganni la tua coscienza; la Chiesa non ha mai avversato la vera libertà, non è nemica d'Italia. Il suo falso amor proprio fece tacere anche questa voce. Non gli riuscì di riduria al silenzio; pure la soffocò dicendo a se stesso: Non essere vile! Prese posto al tavolo e scrisse a Narciso Rossi. Gli scrisse parole molto amare, di grande rimprovero per la sua viltà senza nome. Vile, che non sai mantenere una promessa Vile, che non sai sacrificarti per un ideale! Vile, che paventi le conseguenze di un'azione, che riconosci doverosa e giusta! Vile, vile! Ora e sempre vile! Sii maledetto, da chi va a morire per il suo ideale; va a morire solo, perche ti rifiuti; va a morire colla certezza, che il suo sacrifizio non porterà lo isperato frutto, perche tu gli neghi la tua cooperazione! Vile! Disonore del partito; sii maledetto! Chiuse la lettera in una busta, vergò la soprascritta e l'abbandonò sul tavolo. Dopo la sua morte l'avrebbero trovata e pubblicata. Ne era lieto. Avrebbe procurato così a Narciso Rossi la maggior onta. I veri anarchici avrebbero disprezzato il traditore, e gli altri, i partiti dell'ordine, i borghesi, avrebbero lodato il giovane onesto, che s'i era rifiutato di commettere un delitto di lanciare una bomba, di macchiarsi di tanta colpa; e le lodi, l'approvazione delle autorità e dei circoli borghesi, gli avrebbero recato un'onta ancora maggiore del biasimo dei suoi antichi consenzienti. Narciso Rossi era spacciato. Non gli rimaneva che il suicidio. Sogghignò a questo pensiero. Consultò l'orologio. Erano le nove e mezzo. Doveva spicciarsi se voleva arrivare nella cattedrale a tempo. Aprì l'armadio, levò la bomba sua, l'accarezzò, la baciò e la celò sul petto, sopra il cuore. Indossò il mantello di uscita, tirò alto il collare, cacciò la beretta fin sugli occhi e uscì di stanza. Chiuse l'uscio della propria abitazione. L'abbandonava per sempre. Chi ci sarebbe andato ad abitare? Che se ne curava? Di chi sarebbero stati i suoi mobili? Che gl'importava? Aveva lasciato erede universale Gianni Carpi, il solo onesto fra gli anarchici; il solo veramente povero ed audace tra di loro, coll'incarico di usare dell'anse ereditario soltanto per scopi.di partito, per diffondere l'anarchia. Gianni Carpi avrebbe fatto un buon uso di quel danaro e del ricavato dei mobili; non avrebbe tenuto nulla per se. Egli non dubitava della di lui onestà... Giunse sulla via. Nevicava di nuovo, ed il vento impetuoso gli sbatteva la neve sul volto accecandolo quasi. Doveva procedere con grande cautela iper non scivolare. Una caduta sarebbe stata disastrosissima; avrebbe causato Lo scoppio della bomba, ed era questo che egli voleva impedire. Sacrificare la vota, sì, ma con costrutto. Abbenchè il tempo fosse brutto c'era della gente sulla via. Vide delle faccio allegre. La grande festa del Natale aveva riempito gli animi di letizia. Gente andava a fare certi piccoli acquisti nelle pasticcerie, i soli ambienti aperti nella sacra giornata; andavano a fare delle visite, andavano in chiesa.. Quei volti allegri gli davano sui nervi. Sentiva di odiare gli uomini; provava una grande nausea. Eterni malcontenti, protestavano continuamente contro la Chiesa, contro l'autorità, contro ogni sorta di tirannide; e bastava che la Chiesa, ricordando antiche favole, offrisse loro un giorno un po' diverso dagli altri, per far loro dimenticare il passato e renderli scioccamente, stupidamente felici. Valeva la pena sacrificarsi per simile gente: valeva la pena morire per loro? Portò la mano al petto, alla bomba. Che avrebbe giovato il suo getto? Avrebbe esso scosso le coscienze e destato le masse; quello sarebbe stato il primo segno di una grande rivoluzione sociale, oppure?... Già; il suo eroico attentato sarebbe passato forse inosservato. Le masse non erano ancora mature. Doveva attendere? Oh, se non fosse stata quella infame lettera di Narciso Rossi. Ma ora non poteva assolutamente desistere. Nessuno doveva neppur lontanamente sospettare che egli fosse vile. Giunse alla cattedrale. Le campane suonavano allegramente. Il Vescovo faceva il suo ingresso nella chiesa illuminata a festa e piena, zeppa di una folla festante. Il vescovo! Uno degli oppressori delle masse.Quanto l'odiava! Non lo aveva veduto ancora mai; ora lo vedeva per la prima volta: un povero vecchio, dal volto di asceta, con un sorriso buono, paterno, sulle labbra, che procedeva ricurvo, schiacciato da! peso degli anni e dalle cure, dalle brighe, dalle fatiche del suo ministero; un vecchio buono, tanto diverso dall'immagine che egli si era formata di lui. Si cacciò tra la folla. L'organo cominciò a suonare e la Messa ebbe principio. Vide i volti atteggiati a grande letizia. Comprese che quella giornata rappresentava per l'umanità un grande punto di riposo: era quello un giorno, nel quale il povero dimenticava per un istante le proprie miserie; l'operaio riposava dal lavoro snervante; il ricco scendeva al povero e ne comprendeva, per un istante, le miserie; un giorno di pace, di letizia per tutti. Doveva egli turbare la serenità di quel giorno? Doveva portare la desolazione, la morte, in quel luogo di pace? Oh, i suoi sogni! La Chiesa ha fatto sempre quanto stava nelle sue forze per il bene dell'umanità. Non era lei responsabile dei danni che le classi povere ed umili risentivano, ne dell'abuso di libertà nelle classi dirigenti, o dello squilibrio sociale. Certo. La religione aveva fatto il suo tempo. Ma perche non lasciarla morire in pace; perche voler punire nella Chiesa gli altrui delitti? Cercò di allontanare il ricordo dei suoi sogni. La Chiesa è stata sempre il puntello dei troni; essa ha benedetto la guerra e sanzionato ogni sorta di ingiustizie sociali. Eppoi non poteva tollerare la faccia di vile. La Messa ha incominciato. Il venerando veglio è salito all'altare e lo avvolge in profumi che escono dal ricolmo incensiere. Chi ha da colpire? Dove ha da lanciare la bomba? Nel presbitero? Ha da colpire il vescovo, i canonici, oppure la ha da lanciare in mezzo alla folla che ora? Il vescovo è ritornato al suo trono. Gloria in excelsis Deo! ià! Dio! Dio! Non si pensa che al nume trascendentale e crudele, che risiede in ciclo e non si cura ne si è mai curato dei propri figli, chiede da loro gloria e non da loro in cambio nulla. Il coro canta giulivo: Gloria, gloria in excelsis Deo ono voci di fanciulli che scendono dall'alto della cantoria nella chiesa, accompagnate dal suono grave dell'organo e da alcuni violini, sapientemente toccati. Le voci erano così dolci, così soavi, così carezzevoli. Sembrava udire il canto degli angeli nella notte di Natale. Fuori imperversa la bufera; il vento scuote le gigantesche invetriate multicolori, attraverso le quali giunge scarsa la luce scialba di quella mattina, nel suo cuore imperversavano pure le bufere, ed intanto i fanciulli cantavano il loro Gloria in excelsis Deo! ubentra un coro di uomini forte, solenne. Et in terra pax.... gli ride ironicamente. Pace! Quale menzogna! Dal giorno della nascita del bambino ebreo ad oggi si ripere la bugiarda promessa. In terra pax! Ma quando mai venne pace alla terra? Il coro continua: Hominibus bonae voluntatìs. ueste parole sono una rivelazione. Pace agli uomini di buon volere! Ed il mondo non vuole la pace! A chi si deve ascrivere la mancanza di pace? Non ode altro. Non è per la colpa della Chiesa e del Nume, se pu re esso esiste, che la pace non regna sul mondo, ma, per la mala volontà degli uomini. Gli angeli annunziarono la pace. Non.crede che furono gli angeli, ma l'annunzio fu dato. Si promise la pace ma si chiese in cambio buon volere Qual meraviglia, se gli uomini non avendo offerto la loro buona volontà non.abbiano avuto la sospirata pace? La pace? Poteva egli portare al mondo la vera pace, fondata su di una forte, ben sentita e ben radicata anarchia, se gli uomini non erano di buon volere? A che cosa avrebbe giovato il gettito della bomba se gli uomini, ed i più bisognosi, i più reietti in modo speciale, facevano brutto viso all'anarchia e si rifiutavano di occuparsi della loro misera sorte e di cercare i remedi opportuni al loro male ed a quello della società? Doveva gettare la bomba? Non in chiesa. Dunque sulla via; in qualche ritrovo di ricchi, di gaudenti, al caffè, in teatro? Con qual profitto? Urgeva qualche cosa di ben più importante. Bisognava organizzare le file anarchiche e fare la propaganda al vangelo dell' anarchia. Un libro anarchico, diffuso in migliaia di esemplari, avrebbe giovato assai di più di cento bombe. Non doveva dunque lanciarla? Narciso Rossi che cosa avrebbe detto? Lo avrebbe schernito, avrebbe raccontato a tutti la sua viltà, perche egli, l'idealista, si era rifiutato di aiutarlo, per disciplina di partito, per sfare agli ordini dei superiori, mentre l'altro, il ribelle, l'audace, non aveva trovato il coraggio necessario. Da vero bambino aveva bisogno di un compagno, e da solo non sapeva, non poteva fare nulla... Senti uno sdegno infinito contro Narciso Rossi e la brama di punirlo. Voleva affrontarlo, giungere a lui, costringerlo ad uscire in sua compagnia, menarlo in qualche ritrovo e allora lanciare la bomba, per compromettere lui pure, per unirlo alle altre vittime e per fargli subire la morte del traditore. Non ne poteva più in chiesa. Si fece largo tra la folla, giunse all'uscio e passò sulla via. Il vento soffiava più forte che mai; la neve scendeva fitta; i passanti procedevano frettolosi; nessuno si curava dell'uomo, che portava sul petto la morte. Un grido, un urlo. Una fanciulla è scivolata; fa degli sforzi immensi per tenersi in piedi ed urla dalla paura, dallo spavento di dover stramazzare al suolo, a rischio di rompersi le gambe e le braccia. Egli le è vicino; ad un passo di distanza. Corre da' lei per aiutarla. Essa getta disperata le braccia al suo collo, per sostenersi a lui: una fanciulla modesta, poveramente vestita. Dal collo le pende una medaglina della Madonna. Povera fanciulla; la sua esile persona cozza, col suo maschio petto sul quale riposa la bomba. Un rombo terribile, spaventoso, e sul suolo candido di neve giacciono due cadaveri insanguinati, sfracellati, orrendamente mutilati, sui quali scende fitta, fitta la neve, coprendo tutti e due, l'assassino e l'assassinata, di un candido mantello. Candido per l'umile vergine, che era stata quella mattina alla Comunione ed ora si recava con un incarico della madre inferma dalla zia. Candido anche per lui, l'assassino, che era colpevole al cospetto degli uomini. Lo era anche al cospetto di Dio? La grazia aveva picchiato al suo cuore più volte, e specialmente quella notte nel sonno; ed egli le aveva fatto il sordo. Ma quante volte disprezziamo la grazia, perché non la conosciamo, perché ci hanno insegnato a non farne conto, perché ci hanno educato male? Quante volte tutta la colpa non l'abbiamo noi, ma essa è di coloro che ci hanno educato, dell'ambiente, di quel libro, che fu galeotto come chi lo scrisse? Dio solo conosce tutto: l'ambiente nel quale ci troviamo e le cause del nostro traviamento. Non dobbiamo perciò disperare della salvezza spirituale di nessuno e pregare per tutti. Perché, se è grande la giustizia di Dio, ben maggiore ne è la misericordia. Quando noi abbiamo da agire riflettiamo alla sua giustizia; quando abbiamo da giudicare pensiamo agli abissi della sua misericordia infinita.

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Perché mi hai abbandonato? Sì; lo aveva abbandonato. Ricordava la sua tribù forte, potente, padrona della grande oasi, dominatrice delle vie del deserto. Egli ne era il capo temuto. Suo padre gli aveva lasciato un nome terribile, che tutti paventavano, un'autorità, avanti alla quale tremavano tutti, un forte esercito di tremila armati, le casse piene di oro giallo, caldo, più caldo della sabbia del deserto, molti schiavi e molte schiave. Egli aveva stretto con mano forte le redini del governo ed avido di dominare sul deserto, di essere padrone delle grandi vie, che conducono al suo interno, per poter taglieggiare a piacimento le carovane ed imporre loro le tasse che voleva; per diventare il padrone del paese, aveva dato battaglia ad una tribù finitima e che gli era rivale, l'aveva debellata ed era stato senza misericordia coi vinti. Chi gli era caduto vivo nelle mani era sitato macellaio o fatto schiavo e conservato ad una sorte più terribile della morte. Quanto sangue sparso allora! Egli fremeva della barbara giova al pensiero di quell'eccidio, e gli sembrava di veder scorrere ancora ai suoi piedi, sulla sabbia del deserto, un ruscello di sangue umano, rosso; gli pareva di allungare il braccio colla mano, piegata a mo' di scodella, di attingere quel liquore rosso, caldo, e di portarlo alle labbra. Spegnere la propria sete col sangue dei morti nemici! Dimenticò per un'istante la propria sete, il suo sfinimento, e si rizzò fìero, maestoso, sul suo cavallo. Io! Il principe Ramsette! Ma poi ricadde nell'antica prostrazione; la persona si curvò ed egli dovette con ambo le bracca afferrare il collo del fido cavallo e stringersi a quello, per non stramazzare al suolo. La sua ultima vittoria, perché i vinti avevano implorato l'aiuto dei potenti ed odiati romani, ed il proconsole aveva avocato a sé la causa ed osato citare lui, un principe, lui, Ramsette, al proprio tribunale. Aveva risposto: Un libero principe non può venir giudicato da nessuno! ed aveva invitato il proconsole al proprio tribunale. Aveva armato la sua tribù. Sperava di vincere. I suoi erano uomini liberi; i romani schiavi. Un uomo libero vale per cento, per mille schiavi e ne sbaraglia una legione. Eppoi egli si lusingava, che tutte le altre tribù si saprebbero unite a lui, le libere, per conservare la propria libertà, le soggiogate, per scuotere il durissimo giogo. Ma le sue speranze non si erano avverate. Molti Io temevano, molti lo odiavano, molti lo volevano veder umiliato; la sua umiliazione premeva loro assai più della loro libertà. Non vedevano il loro vero nemico nel proconsole romano, che li teneva domi, li soggiogava alla dominatrice del mondo; vedevano piuttosto in lui un rivale pericoloso, che andava umiliato. Nessuno lo aiutò; uno o l'altro favorì anzi i romani. Si venne alla lotta, ed egli fu vinto. Le centurie romane, bene armate di bronzo, furono insensibili alle leggere frecce; i suoi invece non poterono resistere al loro impeto; molti fuggirono; molti vennero mietuti dalle loro spade, molti furono trapassati dalle loro lande. Dall'alto del suo destriero egli aveva diretto la pugna e cercato d'infiammare i suoi e di condurli al trionfo; ma quando aveva visto sbaragliati i suoi uomini, prima invincibili, da' un pugno di nemici, inferiori di numero; quando gli avversari si erano lanciati contro di lui; quando aveva udito la voce del centurione gridare: « Mille sesterzi a chi lo piglia vivo», un terribile spavento lo aveva incolto. Morto sì, ma schiavo mai. Aveva dato di sprone al suo cavallo ed incominciato quella fuga pazza, da parte sua, quell'inseguimento pazzo da parte loro. Fuggire? Dove? Alla sua oasi, per condurre colà il nemico; per dargli in preda le donne, i fanciulli, il suo oro? Mai! Si lusingava, che il nemico non avesse trovato la via dell'oasi, non si fosse spinto fin là, a predare, sgozzare ed incendiare; si lusingava di poterlo allontanare in un'altra direzione. E perciò fuggì all'impazzata, nel deserto, senza una meta. avido solo di mettere una immensa distanza tra sé ed il nemico: di mettere in salvo la propria vita; di non cadere nelle mani di quell'avversario temuto, di non diventare suo schiavo. Dio serpente! Mi salva, mi salva! E continuava la cavalcata pazza. Il sole volge rapidamente al tramonto. I colli gettano lunghe ombre, strane, e prendono tinte fiammeggianti; domina, da principio, il giallo, un giallo saturo che diventa poi arancione e poi rosso fuoco mentre i colli ardono; sembra che un gigantesco incendio divampi nel deserto; l'orizzonte è in fiamme, odi in mezzo a quelle fiamme, rossa essa pure, un'enorme brace, si tuffa la gigantesca palla solare. Il rosso cede il' luogo al violetto; sembra che le rocce vestano a mestizia per l'occaso del sole. Il fuoco si spegne sull'orizzonte, rapidamente; i colli si coprono di gramaglie, e sul padiglione nero del cielo compariscono numerose stelle. Il capo prorompe in un urlo di spavento. In mezzo a quelle stelle è comparso un indice luminoso, gigantesco, il dito di Dio, che gli minaccia' sventura. «La cometa! L'astro della mia rovina! e cade privo di sensi a terra.

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Malediva al suo dio serpente che lo aveva abbandonato, ai romani, alla cometa, a se stesso, che non aveva messo fine alla propria sventura; che aveva avuto il pugnale e non lo aveva piantato nel proprio cuore, ne messa, così, rapida fine alla propria vita. Quella sera la cometa apparve di nuovo. Essa destò in lui una lieta speranza. Non era apparsa dunque per lui, per annunziare la sua sventura, che questa era compiuta. Annunziava la rovina dei romani? Venisse! Non l'anelava per la propria liberazione, ma perché li odiava tanto. La marcia continua. Non ne può più, e riceve dal centurione un colpo d'i sferza sul dorso; il primo colpo, che sfiora le sue vergini spalle. Urla più che dal dolore dalla rabbia, dallo sdegno, dall'infinita vergogna; lui, un principe, battuto di verga! stringe i pugni, vuole gettarsi, colle mani legate, contro l'audace che lo ha battuto, ma viene ricevuto a colpi di verga, abbondanti ... Hanno passato il deserto e sono arrivati su territori fertili, ben coltivati, fittamente abitati, dove il suo paesaggio viene accolto ora da parole di scherno, di beffe, ed ora di meraviglia, di stupore. Nessuno ha compassione di lui. Egli muore dalla vergogna nel vedersi meta di quello stupore, di quello scherno, nell'accorgersi che nessuno lo compiange. Giunge finalmente a Cartagine, dove viene trascinato dal proconsole. Ode parole di scherno. Viene considerato prigioniero di guerra e condannato alla schiavitù imperiale. Verrà mandato a Roma. Protesta. E' africano, è principe. La guerra fu ingiusta; esige la libertà; si dichiara pronto di venire a patti, di assoggettare la sua tribù ai romani, di riconoscere l'imperatore, di pagare un annuo tributo. Le sue parole vengono accolte con un riso di scherno. La sua tribù più non esiste; è stata annientata; tutti gli uomini sono morti e le donne trascinate sui mercati; la sua oasi è diventata proprietà del fisco. Lo conducono allo stabulum, fra gli schiavi, dove la verga lo costringe all'ubbidienza, al lavoro. Il cibo è scarso. le piaghe molte, il lavoro faticoso. E' incatenato assieme a prigionieri di guerra, frementi di libertà; a delinquenti, condannati per volgari delitti, a schiavi, nati tra le catene, che non hanno mai gustato la libertà, che hanno cambiato di spesso padrone e furono acquistati dallo stato per venire inviati a Roma. Fra gli ischiavi vi sono parecchi suoi antichi sudditi, catturati nella battaglia o nella sua oasi e parecchi suoi antichi schiavi, lieti quest'ultimi che il loro antico padrone sia pure schiavo. Egli è stato sempre un padrone molto crudele; non ha mai avuto compassione di loro; non può chiedere, che essi abbiano ora compassione di lui.

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I pretoriani lo hanno abbandonato. ? Le amazzoni! - Sono fuggite. Sono andate a cercare altri protettori. Anche i mimi lo hanno abbandonato. Schiavi, liberti, cortigiani saccheggiano il palazzo. Gli portano via tutto; financo le coperte del letto e la fiala preziosa, che Lomita gli aveva preparato. Vuole difendere le sue corone di alloro. E' solo. Non riesce. I sucri strumenti musicali; la sua cetra. Anche questi gli vengono tolti. Nessuno ne ascolta i comandi, le proteste, le suppliche; si ride del suo pianto; egli viene schernito, beffeggiato od ignorato. Un sovrano decaduto. Quanto soffre! Pazzi pensieri gli passano per la mente»: vuole recarsi nelle Gallie, incontro all'esercito ribelle. Domerà i soldati col suo canto; s'inginocchierà avanti a loro e piangerà. Le sue lagrime li commuoveranno, il suo canto li renderà propizi. Ma poi cambia pensiero. Vuole rifugiarsi dai Parti e riconquistare col loro aiuto il trono; si recherà a Roma, salirà la tribuna e commuoverà il popolo, coll'eloquenza appresa da Seneca. Manda messi da Virgilio Rufo. E' disposto di rinunciare al trono, purché gli lascino la prefettura d'Egitto. Manda messi a Roma. Lo lascino in vita, l'Apollo novello. Non ne sa che fare del trono. Se lo tengano. Anela glorie maggiori. Quanto soffre! Oh questa ingrata plebe! Avesse l'umanità una festa sola, per spiccarla di busto, con un taglio solo! Solo il re del canto il dio Apollo, ha diritto alla vita! Nessuno si cura di lui; trova a stento uno schiavo che gli prepara un boccone. Il palazzo svaligiato è deserto, ma la folla non è contenta della sua umiliazione, ne chiede il sangue. Chi lo difenderà? Oh queste umiliazioni, queste ingiurie, questa solitudine! Lo accascia tanto. Un uomo, vestito poveramente, entra nel palazzo e lo avvicina. - Cesare. Un pugno di fedeli è deciso di salvarti. Di fedeli? Vi erano adunque ancora degli uomini che gli erano rimasti fedeli? Tanti lo avevano abbandonato. Respira. ? Salvatemi! Promette loro ricchezze, cariche, condividerà con loro il dominio del mondo, purché lo salvino. Sono decisi di salvarlo. Verranno a prenderlo, di notte, con una lettiga; Io porteranno in una villa romita, dove se ne starà nascosto, finché la procella si sarà calmata. Non possono conservargli il trono; non sta nella loro potestà. Gli vogliono conservare almeno la vita. Egli paventa un tranello. - Non temere. Noi ti difenderemo col nostro sangue. Andremo volentieri per te alla morte, lieti di morire per te, è la risposta. Gli viene un sospetto. ? Chi siete? L'uomo non risponde. - Mi volete salvare, perché adorate in me l'Apollo vivente, perché siete entusiasmati della mia voce, del mio canto? - Perché il nostro Dio ci ha imposto di esserti fedeli e di dare per te anche il sangue. ? Cristiani? chiede, fremendo dallo sdegno. ? Cristiani! L'uomo non può continuare. Il pugnale del sovrano lo ha trafitto nel petto. E' caduto morto al suolo. Freme al vedere quel morto. E' adirato seco stesso che ha ucciso quell'uomo. Chissà?.... Forse?..... Ora avrà anche i cristiani contro di sé, ed i cristiani sono grandi fattucchieri, che vorranno vendicare su di lui tutto ji sangue che egli ha sparso. Deve fuggire. Un cortigiano gli suggerisce: ? Apriti le vene. E' il solo, che gli è rimasto fedele. Il suicidio! Mai! Non può privare il mondo del suo canto. La fuga! Si getta ai piedi del cortigiano. ? Salvami! Poi cambia pensiero. ? Uccidimi! lo supplica. Nessuno osa farlo, si teme. ? Suicidati! Non ha coraggio. Fugge sopra un povero ronzino seguito da quattro servi; uno solo gli è fedele, gli altri lo seguono costretti. Un servo fedele; un fenice ?Chi sei?Perchè non mi abbandoni tu pure? Il servo, il povero schiavo, gli parla; cerca di sollevarne lo spirito, di destare in lui fiducia in Dio. Un cristiano! Maledetti cristiani! Giunge al Tevere. Si vuole gettare nelle sue acque ma non ha coraggio. Alla villa di Faone E' un liberto che ha beneficato, che ha amato, che gli sarà rimasto fedele. La via è polverosa; il caldo soffocante. I rari passanti guardano con indifferenza il cavaliere, madido di sudore, in groppa al magro ronzino, seguito da quattro schiavi; certo un uomo povero. Ignorano, che egli è il dominatore del mondo. Lo era. Ora non lo era più. Sciocco! Perché non ha rinunziato all'impero? Gli dei gli hanno pur dato il canto! Giunge da Paone. - Il senato ti ha deposto; ti ha giudicato. Sei staro dichiarato nemico della patria. Ti hanno condannato alle forche? Il senato! Quei senatori, che ha tanto beneficato, che ha avuto ai suoi piedi, che lo hanno dichiarato l'amore e la delizia del genere umano, il miglior tra i Cesari. Il senato! Maledetti, maledetti! E' adirato con se stesso, che li ha tollerati in vita, che non li ha fatti scannare tutti, tutti. Eppoi pensa a se stesso. Deposto, condannato alle forche. Gli avessero lasciato almeno l'Egitto! ? Suicidati! Deve suicidarsi. Le forche. Mai! Ma non sa decidersi. _ Scavatemi la fossa. Mentre la scavano gira desolato per la villa, per i giardini. Il sudore dell'angoscia gl'imperla la fronte; il cuore gli si stringe come in una morsa; gli si fa scuro avanti agli occhi; si sente tanto infelice. ? Un grande artista perisce! esclama. Sofrre, pensando al suo canto, e rumina fughe. Vuole salvare la vita, andare in Grecia, e colà cantare, cantare. ? Suicidati! ? Il mio canto? - Non suicidarti! Ricorri a Dio. Lo prega; invoca il suo aiuto e ti rassegna alla sua volontà I Quello che vuole il Signore! E' lo schiavo cristiano che gli suggerisce cosi. Egli si avventa sdegnato contro di lui. - Maledetto! Mi vuoi vivo acciocché il senato mi conduca alle forche! Lo uccide. E mentre osserva sdegnato quel cadavere, imbrattato di sangue, che giace ai suoi piedi, viene ansante un nunzio. ? Cesare. Vengono! ? Chi? - I messi del senato per catturarti e condurti alle forche. Odi. Ode il calpestio dei cavalli. Le forche! Mai! Non può indugiare. Vuole cacciare il pugnale insanguinato nelle mani del messo. - Uccidimi! Ti prego, ti scongiuro! Uccidimi I esclama con angoscia di morte. Ha tanta paura della morte. Gli manca il coraggio del suicidio. ? Suicidati! Il calpestio si fa più vicino. Ecco apparire i soldati a cavallo. Deve, deve! Un ultimo sguardo al sole, che splende infuocato sul cielo; agli alberi verdi de! giardino. La vita è così bella, e dover piombare nel regno delle ombre I Uno sguardo al cadavere ai suoi piedi. Un grande scatto di odio, contro i cristiani. Sono essi la causa della sua sventura. Ogni male viene dai cristiani. Un grande rimpianto. Muore il più grande cantante di ogni tempo. Vibra il pugnale e se lo caccia nel petto. L'acciaio freddo, freddo, entra lentamente nelle sue carni.... sente brividi di morte.....

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Egli agita allora le braccia incatenate verso il' ciclo e maledice all'Eterno che ha abbandonato l'Italia e permette la rovina di questa terra!

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