Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonato

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CARDELLO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Avrebbe abbandonato volentieri anche quella cuccagna dove minacciava d'ingrassarsi peggio del padrone, pur di fare una vita più attiva, più varia! Là sempre le stesse cose: alzarsi, preparare il caffè col torlo d'uovo e i biscotti pel signor Decano, spazzare le stanze, rifare i due letti, spolverare, lustrare scarpe e stivali, accompagnare il padrone dal macellaio, dall'erbaiuolo, dal pizzicagnolo e poi al monastero per la messa alle monache, e alla Matrice pel coro e per la messa cantata, e tornare a casa a preparare il desinare. Dopo un anno, in cucina poteva fare tutto da sè, quantunque il signor Decano si affacciasse spesso colà per dargli, e non occorreva, una mano di aiuto e insegnargli qualche nuovo intingolo col Libro dei Cuochi sotto gli occhi. E andando al mercato, o stando in cucina, il signor Decano non scordava mai di fargli ripetere: - Su, don Calogero; come diceva quel bestione? O paglia o fieno, Pur che il ventre sia pieno - - Diteglielo anche voi: "Bestione!" - Eccellenza, sì: Bestione! - E la pancetta del signor Decano sobbalzava allegramente per la larga risata che quel " Bestione " provocava. Il Decano aveva avuto la buona idea d'insegnargli a leggere e a scrivere, meglio che non avesse fatto don Carmelo, che lo aveva abbandonato quando cominciava a compitare, e d'insegnargli inoltre le quattro regole dell'aritmetica. Cardello aveva appreso con facilità. Ma dei libri del padrone che egli si era provato a leggere, capiva soltanto alcune vite di santi e qualche volume di prediche. Non erano divertenti, specialmente questi. Non dovevano divertire neppure il padrone, se li lasciava mangiare dalla polvere nei vecchi scaffali, in uno stanzone che serviva anche di riposto per tutti gli arnesi resi inservibili dall'uso. Leggeva e rileggeva il Libro dei Cuochi che il signor Decano teneva sul tavolino, accanto ai quattro volumi del breviario rilegati in pelle nera, e che egli dichiarava il primo libro del mondo. Ogni volta che Cardello gli diceva: - Permette, voscenza? - il Decano gli rispondeva: - Anzi! Anzi! Dovreste impararlo a memoria! - Se non che accadeva spesso che quando al signor Decano veniva il capriccio di tentare un piatto nuovo, pareva che il primo libro del mondo s'ingegnasse di far andar a male gl'ingredienti. Sissignore; tante once di questo, tante di quello, tante di quell'altro ... con le bilance sul tavolino per pesare esattamente ogni cosa; e appena il nuovo piatto veniva portato in tavola, il signor Decano affrettatosi ad assaggiarlo, esclamava sempre: - Ci siamo! - Spessissimo si vedeva però che non c'erano affatto perchè sùbito il signor Decano diceva a Cardello Don Calogero, mangiatene pure quanto volete; io ho lo stomaco ripieno. O serbatelo per domani; sarà buono lo stesso. - Segno che il piatto era riuscito immangiabile. E allora passavano mesi prima che la confezione di un altro piatto nuovo venisse a tentare il signor Decano. * * * Dopo due anni di questa vita, Cardello aveva giornate e settimane di cattivo umore, nelle quali sbrigava alla lesta le faccende di casa, e non si curava che il signor Decano lo rimproverasse: - Ah, don Calogero! Don Calogero! Così non va bene! Tutta questa polvere qui! ... E i vestiti spazzolati alla diavola! E le scarpe lustrate alla peggio! E l'arrosto bruciato! E il pesce fritto malissimo! Che vi prende da qualche tempo in qua? - Che mi prende? - rispose un giorno Cardello - Mi prende che io me ne vado e le bacio le mani. - Perchè, don Calogero? Perchè? Vi par poco il salario? - Mi annoio, Eccellenza! Ecco la verità! - Me ne dispiace più per voi che per me. Che vi manca qui? - Eccellenza, non mi manca niente. - O dunque? - Me ne vado e le bacio le mani. - Fate come vi piace. Ve ne pentirete presto. E quindici giorni dopo, Cardello baciava le mani al signor Decano, ringraziandolo del bene che gli aveva fatto; ma lietissimo di non più dover indossare l'abito lungo e portare la tuba in testa e l'ombrello rosso sotto l'ascella; di non più dover seguire il padrone a dieci passi di distanza, e di non più star a sbadigliare nella sagrestia del Monastero di Santa Chiara mentre il padrone confessava le monache, o in quella della Matrice mentre recitava, nel coro, l'uffizio con gli altri canonici. No; quella vita troppo monotona non era per lui. Un mestiere libero, all'aria aperta, ecco quel che ci voleva. Avrebbe sofferto, avrebbe lottato, ma voleva riuscire qualcosa di meglio di un servitore. Ai burattini non pensava più. Era impossibile incontrarsi in un altro don Carmelo, davvero Re dei burattinai Il gruzzoletto dei salarii, accumulato in due anni, gli sarebbe bastato per vivere parecchi mesi, caso mai non avesse potuto trovar sùbito dove impiegarsi. Avrebbe fatto fin lo sterratore, il manovale, ora che davano mano ai lavori per la conduttura dell'acqua, ed era arrivato l'impresario piemontese, che, dicevano, pagava bene gli operai. Qualunque mestiere, ma il servitore, no, non più! E pensando che per due anni si era dovuto mascherare con l'abito nero fino alle ginocchia, la tuba e l'ombrello rosso sotto il braccio, sentiva un grand'impeto di rabbia contro di sè, e non riusciva a capire come si fosse potuto rassegnare tanto tempo senza buttar ogni cosa per aria.

Il Drago e cinque altre Novelle per fanciulli

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

E quando aveva inteso il rumore della porta chiusa dalle bambine, s'era sentito solo solo, abbandonato; e tutti i terrori della notte precedente gli erano piombati addosso. - Questa volta è finita! - ripeteva. - Questa volta non c'è più rimedio! Invece del medico, perchè non mando a chiamare il notaio? No, no: gli pareva quasi impossibile che Gesù Bambino volesse ripagarlo in quel modo della messa anda- ta a sentire a mezzanotte, ripagarlo facendolo morire.:No, Gesù Bambino misericordioso si sarebbe ricorda- to delle orfanelle che rimanevano senza aiuto e senza guida, se il loro tutore era portato via dalla febbre e dalla tosse che gli toglieva il respiro. Il dottor Cipolla, lungo, lungo, lungo, magro e stecchito, col bastone sotto braccio, aggiustandosi a ogni po' le punte del colletto della camicia, era entrato sorridendo, senza togliersi il cappello a staio perchè aveva paura d'infreddarsi, e s'era fermato in piedi davanti al letto. Lo chiamavano San Pantaleone chi sa perchè, forse per la statura, quasi quel San Pantaleone indicasse qualcosa di spropositamente alto col semplice suono delle sillabe. - Sedete, dottore! sedete! - disse don Paolo, con voce lamentosa, interrotta da colpi di tosse. Non poteva vederselo davanti, ritto in piedi, con quella tuba in testa che toccava la volta della camera, e il collo incastrato nell'alto colletto che non gli permetteva di abbassare il capo. - Sedete, dottore! Temeva che la sua voce di malato non riuscisse ad arrivare fino a lassù, sotto la tuba, e penetrargli dentro gli orecchi sempre turati con la bambagia. - Voialtre, andate di là, - soggiunse per allontanare le bambine. E appena esse furono uscite di camera, si mise a singhiozzare. - Dottore, ditemi la verità! Per quelle creature, che non voglio lasciare in mezzo a una via, ditemi la veri- tà! - Certe cose, caro don Paolo, - rispose il dottore, tirandosi le punte del colletto, - non bisogna mai riman- darle proprio agli estremi momenti, quando la testa non ci regge più! Così anche per le cose della santa Chiesa. - Dunque sono spacciato? - Non esageriamo caro don Paolo!... Ecco qui un calmante per la tosse! una cucchiaiata all'ora; poi pen- seremo alla febbre... Niente di grave. - La mia sentenza di morte! - pensava don Paolo, seguendo con gli occhi la mano che scriveva la ricetta sul ginocchio della gamba accavalcata all'altra. E prima che il dottore andasse via, egli lo pregò di mandargli il notaio Miani, pel testamento, erano a u- scio e bottega, non sarebbe stato troppo incomodo per lui. Il dottor Cipolla, che s'interessava molto anche della salute dell'anima dei suoi clienti, dopo il notaio, s'affrettò a mandargli pure suo compare, il canonico. Ma don Paolo, che aveva dovuto fare un bello sforzo per vincere l'idea di malaugurio del testamento, quando vide entrare il canonico, non potè frenarsi: - Venite a portarmi la jettatura anche voi? Lasciatemi in pace! - Sono venuto per una visita, - si scusava il canonico. Don Paolo però seguitava a strillare: - No, compare; se mi confesso muoio! - Siete cristiano, sì o no? - Cristianissimo; ma se mi confesso e prendo il viatico, muoio! - Le cose sante sono la miglior medicina, compare. - Ma se non debbo morire ... E non voleva morire, almeno questa volta. E ragionava, a modo suo, parlando a stento, fra un colpo di tosse e l'altro, per convincere il canonico, che si frenava a stento per non ridere. - Come? sono andato alla messa di Natale per devozione, ci ho condotto anche le bambine e il Signore, in ricompensa, mi farebbe morire? Non è possibile. Dio è giusto. Non può mandarmi all'inferno; non ho ruba- to, non ho ammazzato, non ho calunniato; ho fatto anzi un'opera di carità da meritarmi il paradiso ... - Questo non dovreste dirlo voi, - lo interruppe il canonico. - Se il Signore si avvede che mi son confessato e comunicato, dice: - Quel povero don Paolo portiamolo in paradiso, è meglio, giacchè ora si trova in grazia nostra! - No, Signore benedetto! lasciatemi star qui ... Non vedete che queste orfanelle hanno soltanto me, e che se muoio io, le spogliano, le riducono alla miseria con tutto il bel testamento che ho fatto? Lasciatemi quaggiù un altro pochino! - Il Signore sa bene quel che deve fare, non ha bisogno dei vostri consigli! ... - Non lo consiglio, lo prego! E dovreste pregarlo anche voi nella. santa messa! Io dico: Il Signore, non vuol farmi dannare. Ebbene, se muoio non confessato, mi danno... Dunque mi dia. la salute del corpo, non per me, per le orfanelle... E per ciò non mi confesso, no, no, no! Potete andarvene, compare canonico! Il canonico, dalle risa, era passato alla commozione per tanta ingenuità, che in fine significava profondis- sima fede in Dio; e non insistette, anche per non turbare il malato, che non gli sembrava così grave come il dottor Cipolla gli aveva detto. - Riposatevi; avete chiacchierato troppo! Infatti, calmatasi l'eccitazione, don Paolo era ricaduto, ansimante, con la testa sui guanciali, la bocca a- perta e gli occhi chiusi. Le orfanelle lo guardavano atterrite, senza osare di accostarsi al letto, interrogandosi con cenni: - Che dobbiamo fare? Non dovettero far altro che preparare qualche scottatura di tiglio, di cammomilla, e poi ottimi brodi di pollo durante la convalescenza. La quale, contro ogni previsione del dottore, fu così rapida, che una mattina in cui egli credeva di trovare il malato ancora a letto in attesa del permesso di alzarsi per qualche ora, lo trovò invece in cucina davanti a un fornello, mentre Giovanna grattava il cacio, e Lisa sbatteva in un piatto le uova per una magnifica frittata, e lui sminuzzava un po' di prezzemolo e di cipolla da servire pel condimento. Il dottore, che appunto tornava dalla casa di un cliente morto pochi minuti prima senza permesso di lui, ed era rimasto male davanti ai parenti in lagrime e che quasi l'accusavano di aver ammazzato il malato, visto don Paolo in atto di fare il cuoco, s'era messo a ridere e s'era sentito venire l'acquolina in bocca all'odore. - Ah, voi fate venir in casa il medico per invitarlo a colazione? - Se volete favorire, - aveva risposto don Paolo, sorridendo. Ma per levarselo di torno subito, gli aveva messo in mano una carta da dieci lire, pagamento delle visite. Non voleva conti in sospeso con nessuno, col medico soprattutti: certa gente è meglio tenerla lontana quanto più si può. - Staremo un bel pezzo prima di rivederci, caro dottore! - gli disse su l'uscio, allegro, quasi avesse in ta- sca il contratto con Domineddio, di dover campare un secolo o poco meno. E fu proprio così. * * * Erano passati dieci anni. Lisa aveva preso marito da sei mesi; si parlava già di certe trattative con un cu- gino del marito di Lisa che aveva posto gli occhi su Giovanna; e don Paolo sembrava più arzillo di quando aveva leticato con la strega per le bambine. Soltanto la testa non lo serviva bene come una volta; la memoria gli veniva meno di giorno in giorno. Chiacchierava troppo del passato, rammentandosi i più minuti particola- ri; ma gli avvenimenti vicini, anche della giornata, gli si scancellavan subito dalla mente. Le prime volte, accorgendosene, ne aveva riso egli stesso: - Comincio a istupidire, figlie mie! Da lì a qualche mese però le cose cambiarono. Non usciva più di casa; andava da una stanza all'altra come sperduto, con le sopracciglia aggrottate, le mani dietro la schiena, guardando attorno con aria diffidente, quasi andasse notando novità che gli dispiace- vano. Brontolava, si stizziva per cose da nulla, ripeteva certi atti giorno per giorno, a ora fissa, quantunque ogni volta si lasciasse subito convincere che aveva torto. A ora fissa, da una settimana, si metteva a preparare la tavola. - Che fate, nonno? - Lo vedi. Non si desina oggi forse? - Ma se abbiamo già desinato due ore fa! - Abbiamo già desinato? ... È vero, hai ragione. Stava un momentino esitante, e zitto zitto sparecchiava. Poi, da lì a un mese, non si lasciò convincere più. Era inutile ripetergli: - Abbiamo già desinato! - egli scoteva il capo, con aria maliziosa e continuava ad apparecchiare. Quando aveva finito, si sedeva a tavola, aspettando, battendo sull'orlo del piatto con la forchetta e col coltello, impazientendosi del ritardo: - Volete farmi morire di fame, povero vecchio? Ingrate, ingrate! Vi ho dato tutta la mia roba; mi sono spogliato per voi ... ed ecco la ricompensa! Dannate! L'inferno vi aspetta. Urlava, piangeva. Lisa e Giovanna un po' ridevano, un po' rimanevano stupite, afflitte di vederlo piange- re; poi, a furia di carezze e di buone maniere, riuscivano a farlo levare da tavola, a deviarlo da quella fissa- zione; suggerendogli: - È mezzanotte; andate a letto. Il sole vicino al tramonto inondava la camera dove lo conducevano, ma egli non se n'avvedeva; e mentre Lisa chiudeva gli scuretti della finestra, egli dava mano a spogliarsi, e intanto domandava: - E il santo rosario? - L'abbiamo recitato or ora. - Sì, sì, è vero; non bisogna scordarsene mai altrimenti la Madonna non ci aiuta. Andate a letto anche voi. È mezzanotte. Ma questo stratagemma giovò per poco. Una notte Lisa e Giovanna furono svegliate da forti picchi all'uscio. - Dormiglione, su, levatevi! È mezzogiorno. E d'allora in poi, a ogni mezzanotte era mezzogiorno per lui. Lisa si alzava, apriva la finestra: - Non vedete che è buio? - È annuvolato. C'è l'ecclissi ... Si rammentava dell'ecclissi di anni addietro, e affermava che il sole sarebbe ricomparso subito. Insomma ci voleva una pazienza da santi; e Lisa e Giovanna erano proprio due sante, che gli volevano bene, e lo ado- ravano, e lo compativano, povero vecchio. Lisa qualche volta leticava col marito che non aveva carità, com'ella gli rimproverava: - Forse sa quel che fa, poverino? Ora, di tanto in tanto, egli perdeva anche la conoscenza delle persone. - Chi siete? Che fate qui? Chi cercate? - Sono Lisa; non mi conoscete? - Lo so, lo so; ma costei, chi è costei? - Giovanna. A quei nomi rimaneva turbato. I ricordi delle figliuole morte e la figura delle due donne che si vedeva da- vanti lo imbrogliavano, lo rendevano dubbioso; e voltava le spalle, crollando la testa, ricominciando da capo dopo un momento: - Chi siete? Che fate qui? Il padrone sono io. La roba è mia. E si metteva a discorrere, divagando: - Avevo due figliuole ... Quella strega le mandava a chiedere l'elemosina ... E sono morte, povere creature, morte di tifo! ... Ve ne ricordate? Io ho fatto testamento; ho lasciato ogni cosa a loro ... Erano orfanelle, abbandonate da tutti ... Il Signore se l'è prese ... Sia fatta la volontà di Dio! Come vi chiamate? Lisa? Giovanna? Si chiamavano così anche le mie creature. Se volete stare con me e servirmi ora che sono vecchio, faccio testamento e lascio ogni cosa a voi ... Il padrone sono io. Ma qui non ci voglio più stare; voglio andarmene a casa mia. Prendete le chiavi; andiamo, andiamo! E bisognava secondarlo, perchè non s'arrabbiasse e non urlasse. Lisa fingeva di mettersi lo scialle - e spesso bastava buttarsi addosso una salvietta, un asciugamani - e gli dava braccio per le scale. Scendevano giù, in istalla o in cantina, e risalivano: - Eccoci in casa nostra! - Ah, come si sta bene qui! Colà non mi ci potevo vedere! ... In casa altrui uno non può fare a modo proprio. Si erano abituate a queste stranezze; spesso le prevenivano, le secondavano sempre, visto che era il mi- glior mezzo per non farle prolungare; e anche ci si divertivano quando il povero vecchio si sfogava a parlare del passato lontano, molto lontano, che gli veniva alla mente con lucidità e precisione meravigliosa. Si divertivano quasi, anche quando se la prendeva con loro, con quelle ingrate che lo facevano morire di fame, che non potevano più vederselo dinanzi, perchè il padrone era lui e loro volevano tutta la roba per sè ... - Ma le gastigherò io! So io come gastigarle! - Come? - Straccerò il testamento, le lascierò nude in mezzo a una via! - Fate bene, - gli diceva Lisa ridendo. - Dovreste lasciare la roba a noialtre. - A voialtre? Che c'entrate voialtre? La roba mia è delle mie figlie, delle orfanelle che ho cresciute, nu- trendole con la carne del mio cuore, col sangue delle mie vene! Che c'entrate voialtre? Esse soltanto mi vo- gliono bene; e pregheranno per l'anima mia quando sarò morto; che c'entrate, voialtre? * * * Per altri due anni era durata così, senza un giorno di tregua. Poi il vecchio era diventato triste, muto. Passava le ore della giornata su una seggiola, con le mani su le ginocchia, guardando di tratto in tratto le due giovani, o tirando il laccio della culla dove dormiva Paolino, il bambino di Lisa; docile e obbediente alla parola di lei: - Su, cullate il bambino. Non aveva mai domandato di chi fosse quel bambino, nè come si trovasse in casa, nè come si chiamasse. Ma un giorno avevano visto il povero vecchio alzarsi dalla seggiola dov'era stato tutta la mattinata a sede- re, e stropicciarsi gli occhi e la fronte, quasi si destasse da profondissimo sonno. - Lisa! ... Giovanna! Le chiamava sorridendo, con voce tremula dalla commozione, maravigliato, quasi le rivedesse dopo lunga assenza. E pareva ricordarsi di tutto, e pareva si vergognasse di quel che ricordava ... - Sono stato pazzo? Oh, povere figlie mie, quanto vi ho fatto soffrire! ... Ma ora me ne vado; non vi tormento più ... Me ne vado a trovare quelle altre che mi aspettano da un pezzo ... Dio vi bene- dica, povere orfanelle! E fece atto di alzar le mani per benedirle ... Le lasciò ricadere ... S'era spento tutt'a un tratto, dolcemente, tra le braccia di Lisa e di Giovanna. Roma, novembre 1893.

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Le guardie del rajah non avendo potuto seguire le tracce dei fuggiaschi in causa del fiume dovevano aver abbandonato l'inseguimento. - Bindar, - disse Sandokan salendo a bordo della barcaccia, - governa in modo da farci giungere in città a notte inoltrata. Non voglio che ci vedano entrare nel palazzo di Surama, che dovrà servirci da quartier generale. - S'imbarcarono levando l'ancora, ritirarono l'ormeggio ed imboccarono il canale che doveva condurli nel Brahmaputra remando lentamente, non avendo molta fretta. Una gran calma regnava sulla palude e sulle sue rive. Solo di quando in quando qualche uccello acquatico s'alzava pesantemente, descrivendo qualche curva intorno alla bangle, poi si lasciava cadere fra i gruppi di canne. In mezzo alle piante del loto, mezzo affondati nel fango, sonnecchiavano dei grossi coccodrilli, i quali non si degnavano di muoversi nemmeno quando la barca passava accanto a loro. Fu verso le sei della sera che Sandokan ed i suoi compagni raggiunsero il Brahmaputra. Due poluar, specie di navigli indiani, i più adatti alla navigazione interna, perché assai leggermente costruiti, colla prora e la poppa ad eguale altezza e muniti di due piccoli alberi che sorreggono due vele quadrate, navigavano a poca distanza l'uno dall'altro radendo quasi la riva opposta, dove la corrente si faceva sentire più forte. - Che siano barche in crociera? - si chiese Sandokan, che le aveva subito notate. - Non vedo seikki a bordo, - disse Tremal-Naik. - Mi hanno più l'apparenza di navigli mercantili. - Vedo una spingarda sulla prora di uno di essi. - Talvolta quelle barche sono armate non essendo sempre sicuri i corsi d'acqua che attraversano queste regioni. - Tuttavia li sorveglieremo, - mormorò Sandokan. - Possiamo accertarci subito se sono dei semplici trafficanti od esploratori. - In quale modo? - Rimanendo noi indietro o sopravvanzandoli. - Proviamo: giacché non abbiamo fretta facciamo ritirare i remi e lasciamoci portare dalla corrente. - I malesi, subito avvertiti, ritirarono le lunghe pale e la bangle rallentò la sua corsa, andando un po' di traverso. I due poluar continuarono la loro marcia, aiutati dalla brezza che gonfiava le loro vele ed in pochi minuti si trovarono considerevolmente lungi dalla bangle, sparendo poi entro la curva del fiume. - Se ne sono andati - disse Tremal-Naik. - Come vedi io non m'ero ingannato. - Sandokan crollò il capo senza rispondere. Non pareva affatto convinto della tranquillità di quei due piccoli navigli. - Dubiti? - chiese Tremal-Naik. - Un pirata fiuta gli avversari a grandi distanze, - disse finalmente la Tigre della Malesia. - Io sono più che sicuro che quei due poluar perlustrano il fiume. - Ci avrebbero fermati ed interrogati. - Non siamo ancora giunti a Gauhati. - Che i seikki ci abbiano seguìti nella nostra ritirata attraverso la jungla? Eppure quella sera io non vidi alcuna barca a darci la caccia. - E le rive non le conti? Voi siete tutti corridori insuperabili ed un uomo che avesse seguito la riva sinistra avrebbe potuto facilmente tenersi sempre in vista della bangle e notare il luogo ove aveva imboccato il canale della palude. - E perché non ci hanno assaliti nella jungla? - Può darsi che non abbiano avuto il coraggio di farlo - rispose Sandokan. - Le mie non sono però che semplici supposizioni e potrei benissimo ingannarmi. Tuttavia apriamo bene gli occhi e teniamoci pronti a qualunque evento. Sento per istinto che dovremo lottare con un uomo fortissimo che vale dieci volte il rajah. - Quel greco? - Sì, - rispose Sandokan. - È lui il nemico pericoloso. - È vero. Senza quell'uomo Yanez avrebbe fatto a quest'ora chissà che cosa. - A me basta avere i seikki sottomano. Se il demjadar riesce a persuaderli a mettersi ai miei servigi, vedrai che pandemonio saprò scatenare io a Gauhati. - Accese il suo cibuc e si sedette sulla murata di prora, lasciando penzolare le gambe sul fiume che rumoreggiava intorno alla bangle. Il sole stava allora tramontando dietro le alte cime dei palas, quei bellissimi alberi dal tronco nodoso e massiccio, coronato da un fitto padiglione di foglie vellutate, d'un verde azzurrognolo, donde partono degli enormi grappoli fiammeggianti, dai quali si ricava una polvere color di rosa, adoperata dagli indù nelle feste di Holi. Sulle rive, numerosi contadini battevano, con un ritmo monotono, l'indaco, raccolto durante la giornata e messo a macerare entro vasti mastelli per meglio distaccare le particelle e farle precipitare più presto, avendo gli indiani un modo diverso per trattare tale materia colorante. Altri invece spingevano in acqua colossali bufali per dissetarli, guardandoli attentamente onde i coccodrilli non li afferrassero pel naso o pel muso e li tirassero sotto, cosa comunissima nei fiumi dell'India. La bangle, verso le nove, giunse in vista dei fanali che splendevano nelle vie principali della capitale dell'Assam. Stava per passare vicino all'isolotto su cui si alzava la pagoda di Karia, quando si trovò improvvisamente dinanzi ai due poluar che chiudevano il passaggio. Una voce si era subito alzata sul più vicino: - Ohe! Da dove venite e dove andate? - Lascia che risponda io, - disse Tremal-Naik a Sandokan. - Fa' pure, - rispose questi. Il bengalese alzò la voce gridando: - Veniamo da una partita di caccia. - Fatta dove? - chiese la medesima voce di prima. - Nella palude di Benar, - rispose Tremal-Naik. - Che cosa avete ucciso? - Una dozzina di coccodrilli che andremo a raccogliere domani essendo affondati. - Avete visto degli uomini in quei dintorni? - Null'altro che dei marabù e delle oche. - Passate e buona fortuna. - La bangle, che aveva rallentata la marcia, riprese la corsa a tutta forza di remi, mentre i due poluar allentavano le gomene per lasciarle il passo. - Che cosa ti ho detto? - disse Sandokan a Tremal-Naik, quando furono lontani dai due navigli. - Noi pirati abbiamo un fiuto straordinario e sentiamo i nemici a distanze incredibili. - Me ne hai dato or ora una prova, - rispose Tremal-Naik. - Che ci abbiano proprio seguìti? - Non ne dubito. - Tuttavia ce la siamo cavata benissimo. - Per la tua buona idea. - Dove sbarcheremo? - Nel centro della città. Questa notte desidero dormire nel palazzo di Surama. Forse là troveremo notizie di Yanez. Kubang non avrà mancato di fare una visita ai servi. - È quello che pensavo anch'io. Quel malese è molto intelligente. - Un gran furbo, - disse Sandokan. - Se non lo fosse non sarebbe un malese. Bah! evitata la crociera tutto andrà bene. Domani ci metteremo in cerca di Surama e prepareremo al greco od ai suoi uomini un bel tiro. Credi che nel suo palazzo abbia un chitmudgar? - Certo, Sandokan, - rispose Tremal-Naik. - Un indiano che si rispetta, deve avere una ventina di servi per lo meno ed un direttore di casa. - Che si lasci pescare da me ed il colpo sarà fatto. Non si tratta che di sapere i luoghi che frequenta. - Perché? - Lascia fare a me: ho la mia idea. Ehi, Bindar, possiamo approdare? - Sì, sahib. - Accosta la riva dunque. - La bangle in pochi colpi di remo attraversò il fiume e andò ad ancorarsi dinanzi ad un vecchio bastione che difendeva la città verso occidente. - A terra, - comandò Sandokan, dopo essersi assicurato che dietro la bastionata non vi era nessuno. - Due soli malesi rimangano a guardia della bangle. - Presero le loro armi e scesero sulla riva che era coperta da fitte macchie di nagatampo, alberi durissimi e che producono dei fiori odorosi e bellissimi, dei quali si adornano le giovani indiane. - Seguitemi, - disse Sandokan. - Giungeremo al palazzo di Surama inosservati, se non vi saranno intorno delle spie. - Che cosa temi ancora? - chiese Tremal-Naik. - Eh! Quel greco è capace di aver teso degli agguati, mio caro. In cammino amici e se vi sarà da menar le mani non fate uso che delle scimitarre. Nessun colpo di carabina o di pistola. - Sì, Tigre della Malesia - risposero i malesi. - Venite! - Si misero a costeggiare il fiume coperto da enormi tamarindi, che rendevano colla loro ombra l'oscurità più fitta; poi raggiunto il sobborgo orientale, si cacciarono fra le viuzze interne dirigendosi verso il centro della città. Essendo già molto tardi, pochissimi abitanti si trovavano per le vie e anche quelli s'affrettavano a girare al largo, scambiando probabilmente Sandokan ed i suoi uomini per soldati del rajah in cerca di qualche malvivente. La mezzanotte non doveva essere lontana quando il drappello sbucò sulla piazza dove sorgeva il palazzo, che Yanez aveva acquistato per la sua bella fidanzata. Sandokan si era arrestato lanciando un rapido sguardo a destra ed a sinistra. - Vedo due indiani fermi dinanzi al palazzo, - disse a Tremal-Naik. - Non mi sono sfuggiti, - rispose il bengalese. - Che siano due spie di quel maledetto greco? - Può darsi. Egli ha interesse a far sorvegliare il palazzo. - Cerchiamo di prenderli in mezzo. Ci faremo credere guardie del rajah intenti ad eseguire una ronda notturna. - I due indiani però, accortisi della presenza del drappello, si allontanarono rapidamente non ostante che Tremal-Naik avesse subito gridato dietro a loro: - Alt! Servizio del rajah! - Non devono essere due galantuomini, - disse Sandokan quando li vide scomparire entro una viuzza tenebrosa. - Lasciamoli andare. - Poi volgendosi verso Kammamuri continuò: - Tu resta qui di guardia coi malesi. La nostra spedizione notturna non è ancor finita e prima che sorga il sole voglio fare la conoscenza colla dimora privata di quel cane di greco. - Salì la gradinata seguìto da Tremal-Naik e da Bindar e percosse, senza troppo fracasso, la lastra di bronzo sospesa allo stipite della porta. Il guardiano notturno che vegliava nel corridoio, fu pronto ad aprire e riconoscendo in quegli uomini gli amici della sua padrona, fece un profondo inchino. - Conducimi subito dal maggiordomo, - disse Sandokan. - Sbrigati, ho fretta. - Entra nel salotto, sahib. Fra mezzo minuto ti raggiungerò. - Sandokan ed i suoi due compagni aprirono la porta ed entrarono in una elegantissima stanzetta che era ancora illuminata. Si erano appena seduti dinanzi ad uno splendido tavolino d'ebano di Ceylan filettato in oro, quando il maggiordomo del palazzo, appena coperto da un dootèe di tela gialla, si precipitava nel salotto, esclamando con voce singhiozzante: - Ah signori! Quale disgrazia. - La conosciamo, - disse Sandokan. - È inutile che tu perdi il tempo a raccontarcela. Il sahib bianco della tua signora s'è fatto vedere? - No. - Ha mandato nessuno? - Quell'uomo dalla faccia olivastra, con una lettera per la padrona. - Dammela subito. I minuti sono preziosi in questo momento. - Il maggiordomo s'avvicinò ad un cofanetto laccato con intarsi di madreperla e prese un piccolo piego, porgendolo al pirata. Questi ruppe il suggello e lesse rapidamente ciò che stava scritto dentro. - Yanez non sa ancora nulla, - disse poi a Tremal-Naik - Kubang ha conservato bene il segreto. - E poi? - Avverte Surama di non inquietarsi per lui e che il favorito guarisce rapidamente. Già tutti i bricconi hanno la pelle a prova di acciaio e di piombo. - E null'altro? - L'incarica di far sapere a noi che pel momento non corre alcun pericolo e che si è già guadagnata la stima e la confidenza del rajah. Giacché si trova benissimo alla corte e non sa che gli hanno rapito la fidanzata, lasciamolo tranquillo, operiamo da noi soli. - Poi volgendosi verso il maggiordomo che stava ritto dinanzi a lui, in attesa dei suoi ordini, gli chiese: - È avvenuto nessun altro fatto dopo il rapimento della tua padrona? - No, sahib. Ho notato però che alla sera ronzano attorno al palazzo, fino a notte tardissima, delle persone. - Ah! - esclamò Sandokan. - Si sorveglia qui. Non ne dubitavo. Hai fatto delle ricerche? - Sì, sahib e sempre infruttuose. - Hai avvertito la polizia? - Non ho osato, temendo che la padrona sia stata rapita per ordine del rajah. - Hai fatto benissimo. Tremal-Naik, Bindar, rimettiamoci in caccia. - Ed io, signore, che cosa devo fare? - chiese il maggiordomo. - Assolutamente nulla fino al nostro ritorno. Gli uomini che il sahib bianco ha lasciati a guardia di Surama sono sempre qui? - Sì. - Li avvertirai di tenersi pronti; posso aver bisogno anche di loro per rinforzar la mia scorta. Domani sera, a notte inoltrata, noi saremo qui. Addio. - Uscì dal salotto e raggiunse i suoi uomini che si erano seduti sulla gradinata. - Deponete le carabine, - disse loro. - Conservate solo le pistole e le scimitarre. Ed ora in caccia! -

Un campo abbandonato, dopo soli pochi mesi, non conserva più alcuna traccia. Bambù, arbusti, banani, pipal, tara, sorgono come per incanto e tutto fanno scomparire. La radura prima coltivata diventa una boscaglia quasi impenetrabile, od una jungla che più tardi diventerà un asilo sicuro alle tigri, alle pantere, ai rinoceronti, ai serpenti, dal morso fatale. Non era quindi da stupirsi se i pirati della Malesia, guidati da Bindar, avevano trovato quel rifugio. Disgraziatamente non pareva che fosse disabitato, come dapprima avevano sperato Sandokan e Tremal-Naik. Quel mugolìo sordo e quei due punti luminosi li avevano subito avvertiti che dovevano pagare prima la pigione con palle di piombo. - Orsù, - disse Sandokan. - Cerchiamo di sloggiare gli inquilini. - Non se ne andranno però senza protestare, - rispose Tremal-Naik scherzando. - In tale caso avranno da fare con noi. Kammamuri, non tremerà il tuo braccio? Se rimarremo all'oscuro non risponderei dello sloggio. - La torcia brillerà sempre dinanzi alle adnara. - Ecco un altro nome. - Le chiamiamo così noi maharatti quelle brutte bestie. - Mettiti dietro di noi. - Sì, Tigre della Malesia. - Sandokan si volse per vedere se i suoi uomini erano a posto, armò la carabina e le pistole e si avanzò verso la porta della pagoda, salendo i gradini. Tremal-Naik lo seguiva, accanto a Kammamuri, il quale teneva ben alta la torcia. Il formidabile pirata era tranquillo come se si trattasse di andar a trovare dei buoni vicini. I suoi occhi però non si staccavano dai due punti luminosi che brillavano sempre fra le tenebre, socchiudendosi a lunghi intervalli. - Sarà sola o avrà un compagno? - si chiese Sandokan, arrestandosi sul pianerottolo. - Temo, mio caro Sandokan, che la pagoda ospiti una intera famiglia di quelle bestiacce, - disse Tremal-Naik. - Sii prudente perché le adnara valgono le tigri. - Forse un po' meno delle nostre pantere nere. Proviamo a fare un buon colpo. Tu non sparare per ora. - S'inginocchiò e puntò la carabina mirando i due punti luminosi. Stava per premere il grilletto, quando questi si spensero bruscamente. - Saccaroa! - brontolò il pirata. - Che quella brutta bestia si sia accorta che volevo la sua pelle e che si sia internata nella pagoda? Ecco degli inquilini che diventano noiosi. Bah! Andremo a trovarle nel loro covo. Avanti Kammamuri! - Il maharatto alzò la torcia, armò una pistola a due colpi non potendo servirsi della carabina con una sola mano, e si avanzò intrepidamente fiancheggiato da Sandokan e da Tremal-Naik. I malesi ed i dayachi si erano disposti in forma di semi-cerchio alla base della gradinata, pronti ad accorrere in aiuto dei loro padroni, nel caso che avessero avuto bisogno del loro appoggio od a chiudere il passo alle belve. Non avevano però trascurato, anche in quel terribile frangente, di mettersi dinanzi il capitano dei seikki ed il fakiro, onde non approfittassero per prendere il largo, cosa però poco probabile, poiché quei due disgraziati erano ancora ben legati. I cacciatori, dopo essersi fermati alcuni istanti sulla soglia del portone, erano entrati risolutamente nella pagoda. Una sala immensa, di forma ovale, quasi nuda, poiché non vi erano che dei cumuli di macerie cadute dall'alto e dalle larghe fessure che si scorgevano lungo le pareti, s'apriva dinanzi a loro. Anche il rivestimento interno, al pari di quello esterno, era crollato cospargendo il suolo di frammenti di statue. Sandokan e Tremal-Naik girarono intono un rapido sguardo e con non poca meraviglia non scorsero, in quell'immensa sala, nessuna belva. - Dove sarà scappata quella pantera? - si chiese Sandokan. - Attraverso i crepacci delle pareti no di certo, non prolungandosi fino alla base. - In guardia, amico - disse Tremal-Naik. - Può essersi nascosta dietro questi cumuli di rottami. - Non mi sembrano tanto alti da coprirla. D'altronde lo sapremo subito. - Dinanzi a lui si trovava un gigantesco dado di pietra che forse in altri tempi aveva servito a sorreggere od una pietra di Salagraman od un lingam, il trimurti della religione indiana. Con un salto vi fu sopra e spinse gli sguardi in tutte le direzioni. - Nulla, - disse poi. - La pantera è scomparsa. - Eppure non deve essere uscita, - disse Tremal-Naik. - I nostri uomini l'avrebbero veduta. - Ah! - Che cosa c'è ancora? - Vedo una porticina all'estremità della sala. - Che metterà probabilmente in qualche galleria, - disse il maharatto. - Purché non vi sia da quella parte un'uscita, - disse Tremal-Naik. - In tal caso ci risparmierebbe il disturbo di cacciarla, - rispose Sandokan. - Andiamo a vedere se quella signora ha preferito lasciarci l'alloggio senza protestare. - Attraversarono la sala e giunsero ben presto dinanzi alla porticina che era aperta. Sandokan e Tremal-Naik avvertirono subito un acuto odore di selvatico. - È passata per di qua - disse il primo. - Attenti a non farvi sorprendere. - Questa galleria deve condurre negli appartamenti dei sacerdoti, - aggiunse il bengalese. - In tale caso avremo da percorrere un bel tratto. Mettiti dietro di noi, Kammamuri. - Appoggiarono le carabine alla spalla onde essere più pronti a far fuoco e s'inoltrarono in quello stretto passaggio che tendeva a salire. Percorsi cinquanta passi, si trovarono dinanzi ad una gradinata che descriveva una curva assai accentuata. - Saccaroa! - esclamò Sandokan, seccato. - Dove si sarà cacciato quel maledetto animale? - Taci! - disse Tremal-Naik. Un sordo mugolìo si udì un po' più sopra. Segno che la pantera si trovava là dentro e che forse si preparava a disputare ai tre uomini la via. Sandokan, risoluto a finirla, si slanciò su per la gradinata e giunto sul pianerottolo, vide un'ombra allontanarsi velocemente entro un secondo corridoio. - Fa' lume, Kammamuri! - gridò. Il maharatto fu pronto a raggiungerlo. Scorgendo ancora l'ombra, la Tigre della Malesia fece precipitosamente fuoco. La detonazione, che risuonò fra quelle strette pareti come un colpo di spingarda, fu seguìta da un urlo strozzato. - Colpita? - chiese Tremal-Naik balzando avanti. - Ah! non lo so, - rispose Sandokan che ricaricava l'arma. - Fuggiva dinanzi a me e non potevo scorgerla troppo bene. Ho fatto fuoco a casaccio. - Andiamo a vedere se vi sono delle tracce di sangue. - S'avanzarono cautamente, cogli occhi e gli orecchi in guardia, tenendosi curvi onde offrire meno bersaglio nel caso d'un improvviso attacco. Il corridoio, che era aperto nello spessore delle pareti, girava come se seguisse la curva della immensa pagoda. Di quando in quando a destra ed a sinistra s'aprivano delle piccole celle, che un giorno dovevano aver servito ai bramini o ai gurum. Ad un tratto Sandokan si arrestò curvandosi a terra. - Una larga macchia di sangue! - esclamò. - L'hai colpita, - disse Tremal-Naik. - Fra poco sarà nostra. - Avanti! - Sicuri di non trovare ormai da parte della pantera grande resistenza, avevano allungato il passo. Le macchie di sangue continuavano e sempre più abbondanti. La palla di Sandokan doveva aver prodotta una ferita gravissima. La dannata bestia però continuava la sua ritirata attraverso a quell'interminabile corridoio. Ad un certo momento e quando meno se l'aspettavano, i tre cacciatori si trovarono dinanzi ad una sala piuttosto vasta, ingombra di statue rappresentanti le eterne incarnazioni di Visnù. - Dobbiamo essere alla fine! - aveva esclamato Tremal-Naik. Aveva appena pronunciate quelle parole quando una massa piombò improvvisamente su di loro, atterrandoli uno sull'altro e spegnendo la torcia. Sandokan fu pronto ad alzarsi ed a far fuoco e anche questa volta a casaccio, imitato da Kammamuri che non si era lasciata sfuggire la pistola. Tremal-Naik, più prudente, aveva conservata la sua carica temendo un ritorno offensivo della belva. Questa, dopo aver spiccato quel gran salto e d'aver gettati i cacciatori a gambe levate, era scappata ritornando nel corridoio. - Quella pantera ha l'anima di Kalì! - esclamò Tremal-Naik. - Eccoci in un bell'impiccio! Chi ha l'acciarino? - Io no - rispose Sandokan. - E nemmeno io - aggiunse Kammamuri. - Dovremo compiere la ritirata all'oscuro? - Conosciamo già il corridoio e credo che il ritorno non sarà difficile, - rispose la Tigre della Malesia. - E se la pantera ci aspetta all'agguato? - Ecco quello che temo. - Ricarica subito e anche tu Kammamuri. Da un istante all'altro possiamo trovarci nuovamente di fronte alla kerkal. - E può anche ... - Il maharatto non finì la frase. Un mugolìo che terminò in un soffio ardente lo aveva arrestato. - Vi è un'altra pantera qui! - esclamò subito Sandokan facendo un rapido dietro fronte. - Ma sì! - rispose Tremal-Naik. - La prima non era sola. - In ritirata! - E presto, - aggiunse il bengalese. - Qui corriamo il pericolo di venire assaliti dinanzi e alle spalle. - Sandokan lanciò una imprecazione. - Tornare indietro ora, quando già erano nelle nostre mani! - Le scoveremo più tardi. Vieni, non perdiamo tempo! - Uscirono dalla sala, indietreggiando lentamente onde non farsi sorprendere. Kammamuri solo, che aveva ricaricata la pistola, aveva volte le spalle alla porta per far fronte alla prima pantera fuggita attraverso il corridoio. Il momento era terribile, eppure quei tre valorosi non avevano nulla perduto della loro ammirabile calma, quantunque fossero più che certi di venire assaliti prima di poter ridiscendere nella pagoda e raggiungere i loro compagni che dovevano essere molto inquieti, non vedendoli ritornare dopo quei quattro spari. - Teniamoci uniti, - disse Sandokan ai compagni. - Se non abbiamo più la torcia possediamo sempre le nostre armi da fuoco. - E appena scorgiamo gli occhi delle belve spariamo subito, - aggiunse Tremal- Naik. La ritirata, fra la profonda oscurità che regnava in quello stretto corridoio, si compiva lentamente, dovendo Sandokan ed il bengalese indietreggiare colla faccia rivolta sempre verso la sala. Kammamuri stava per mettere i piedi sul primo gradino, quando vide, a soli pochi passi, lampeggiare gli occhi verdastri della kerkal, che era fuggita attraverso il corridoio. - Padrone! - disse, dando indietro. - La bestia sta dinanzi a me. - E la seconda ci segue, - rispose Sandokan. - Ecco là i suoi occhi. - I tre uomini si erano arrestati colle armi puntate contro quei quattro punti luminosi. Quantunque provati alle più terribili avventure, non osavano far fuoco per la tema di mancare i loro avversari. Fra loro regnò un breve silenzio, poi Sandokan pel primo lo ruppe. - Non possiamo rimanere qui eternamente. Oltre le armi da fuoco abbiamo anche le scimitarre ed un combattimento a corpo a corpo non mi fa paura. Tu, Kammamuri, fa' fuoco sulla pantera che si trova sulla scala; io cercherò di spacciare l'altra. - Ed io? - chiese Tremal-Naik. - Rimarrai in riserva, - rispose la Tigre della Malesia. Estrasse con precauzione la scimitarra senza staccare i suoi occhi dai due punti fosforescenti che brillavano sinistramente fra quelle fitte tenebre, la strinse fra i denti, poi mirò lentamente, onde essere ben sicuro del suo colpo. Kammamuri dal canto suo aveva puntata la pistola, che come abbiamo detto era a doppia canna. I tre spari formarono una detonazione sola. Al rapido bagliore prodotto dalla polvere, i cacciatori videro le due belve scagliarsi innanzi, poi ruzzolarono l'uno addosso all'altro giù per la scala. Tremal-Naik, che fu il primo a giungere in fondo, udendo verso il pianerottolo un mugolìo minaccioso, sparò più per illuminare, fosse pure per un istante la galleria, che colla convinzione di colpire. Un urlo vi rispose, poi una massa crollò giù dalla scala cadendo addosso a Sandokan che si era fermato sul penultimo gradino. - Ah! Canaglia! - urlò il pirata che aveva avuto il tempo d'impugnare la scimitarra prima di cadere. Alzò l'arma e la lasciò cadere con forza su quel corpo che si dibatteva al suo fianco urlando. - Prendi! Prendi! - Due volte la scimitarra, maneggiata da quel braccio di ferro, tagliò a fondo. - Fuggiamo! - disse in quel momento Tremal-Naik. - Le nostre armi sono scariche. - Tutti e tre si erano slanciati attraverso al corridoio, correndo all'impazzata. Stavano per entrare nella pagoda, quando udirono una scarica echeggiare al di fuori. - I nostri uomini hanno fucilata l'altra, - disse Sandokan correndo verso la porta. Non si era ingannato. Sul vasto pianerottolo giaceva una gigantesca pantera, una delle più grosse che avesse visto fino allora, immersa in una pozza di sangue. La sua splendida pelliccia era crivellata di proiettili. - Sahib, - disse Bindar, facendosi innanzi, - si temeva che ti fosse accaduta qualche disgrazia. - La pagoda è nostra, - rispose semplicemente Sandokan. - Occupiamola. - Sarà morta l'altra? - chiese Kammamuri. - La mia scimitarra è lorda di sangue e quando io meno un colpo, nemmeno una tigre può resistere. Fa' mettere, per maggior precauzione, delle sentinelle dinanzi alle due porte e cerchiamo di riposare qualche ora. Ne abbiamo bisogno. - I malesi ed i dayachi sciolsero i pacchi, stendendo a terra tappeti e coperte di lana e perfino cuscini destinati ai loro capi, mentre alcuni altri accendevano alcune torce piantandole fra le macerie. Il vecchio Sambigliong fece la scelta degli uomini di guardia, portandone tre dinanzi alla porticina che conduceva sulla gradinata della porta maggiore, non essendo improbabile che altre fiere si presentassero. Sandokan e Tremal-Naik, dopo essersi bene assicurati che il fakiro ed il comandante dei seikki avevano i legami intatti, si sdraiarono sui tappeti, non senza aver avuto la precauzione di mettersi a fianco le armi, quantunque si ritenessero perfettamente sicuri contro una invasione da parte delle guardie del rajah. Il resto della notte infatti trascorse tranquillo. Solo alcuni sciacalli, attirati da quella luce insolita, che brillava nell'interno della pagoda, osarono salire la gradinata e mandare qualche urlo. Non essendo pericolosi, gli uomini di guardia non si scomodarono a salutarli con un colpo di fucile, desiderando economizzare le loro munizioni. Preparata e divorata la colazione, Sandokan inviò nella jungla una metà dei suoi uomini, per assicurarsi contro qualunque sorpresa, poi si fece condurre dinanzi il fakiro. Il povero uomo, che già s'aspettava di dover subire un interrogatorio, tremava come se avesse la febbre e dalla fronte gli cadevano grosse gocce di sudore. - Siediti, - gli disse ruvidamente Sandokan, che stava comodamente sdraiato su un tappeto a fianco di Tremal-Naik. - È giunta l'ora di fare i conti. - Che cosa vuoi da me, signore? - gemette il disgraziato guardando con fervore l'antico capo dei pirati di Mompracem, che lo fissava come se cercasse di ipnotizzarlo. - Un uomo che avesse la coscienza tranquilla non tremerebbe come te, - disse Sandokan accendendo il cibuc e lanciando in aria una fitta nuvoletta di fumo. - Narrami ora come hai fatto tu, che hai un braccio solo disponibile, a rapire quella fanciulla. - Una fanciulla! - esclamò il fakiro alzando gli occhi in aria. - Che cosa vieni a raccontarmi tu sahib? Ti ho già detto che io non so nulla, affatto nulla. - Sicché tu non ti sei recato in casa d'una signora indiana per liberarla dal mal occhio. - Può darsi, ma non ti saprei dire quale. - Allora te lo dirà un uomo che assistette alla cerimonia. - Fallo venire, - rispose il gussain, con voce però tutt'altro che ferma. - Kubang! - gridò Sandokan. Il malese, che fino allora si era tenuto nascosto dietro un cumulo di macerie, si alzò e si mise di fronte al fakiro chiedendogli: - Mi riconosci tu? - Tantia lo fissò a lungo, con uno sguardo che tradiva una profonda inquietudine, poi raccogliendo tutta la sua energia rispose: - No: non ti ho mai veduto. - Tu menti - gridò il malese. - Quando tu passasti il bacino dinanzi agli occhi della giovane indiana, mi trovavo a soli tre passi di distanza da te. - Il gussain ebbe un leggero fremito, però rispose subito. - T'inganni: un viso che avesse avuto quella brutta pelle non mi sarebbe sfuggito così facilmente. Te lo ripeto: io non ti ho mai veduto. - Un uomo che ha un braccio anchilosato e che tiene nel suo pugno un ramoscello non si dimentica facilmente - rispose il malese. - Sei stato tu, lo affermo solennemente. - Difenditi ora, - disse Sandokan. - Vedi che quest'uomo ti accusa. - Il gussain crollò le spalle, sorrise ironicamente, poi rispose: - Quest'uomo o è pazzo od ha giurato di perdermi. Tantia però non è così stupido da cadere nell'infame agguato preparato da questo miserabile. - È troppo furbo per compromettersi, - disse Tremal-Naik. - L'interrogatorio però è appena cominciato e non finirà tanto presto. - È vero, - disse Sandokan. - Accusa Kubang. - Io dico che quest'uomo si è presentato nel palazzo della giovane indiana, - riprese il malese, - che ha chiesto di riposarsi, che fu lasciato solo e che alla notte scomparve portando via la padrona: che neghi se l'osa! - L'oso, - rispose il fakiro. - Sicché non vuoi confessare per conto di chi hai agito, - disse Sandokan. - Io non sono che un povero uomo che non ha altro desiderio che di andarsene al più presto nel cailasson. La mia carcassa non servirebbe nemmeno per una cena alla tigre. - Kammamuri, - disse Sandokan, - quest'uomo non ha ancora fatto colazione. Portagli una terrina di carri. Come ha ceduto Kaksa Pharaum, cederà anche questo ostinato. - Il maharatto che stava rimescolando un certo intingolo, che si trovava in una pentola di ferro e che gli faceva lagrimare abbondantemente gli occhi, empì un recipiente e lo posò dinanzi al gussain. - Mangia, - disse Sandokan. - Poi riprenderemo il discorso. - Tantia fiutò il riso condito con droghe fortissime e scosse la testa dicendo con voce risoluta: - No! - Sandokan si levò dalla fascia una pistola, l'armò e accostando le fredde canne ad una tempia del prigioniero gli disse: - O mangi o ti faccio scoppiare la testa. - Che cosa contiene questo carri? - chiese il fakiro coi denti stretti. - Mangialo, ti dico. - Tu mi prometti che non contiene alcun veleno? - Non ho alcun interesse a sopprimerti, anzi desidero che tu viva. Ti decidi o no? Ti accordo un minuto. - Il fakiro esitò un istante, poi prese il cucchiaio che Kammamuri gli porgeva sorridendo ironicamente e si mise a mangiare facendo delle orribili smorfie. - Troppo pimento in questo carri, - disse. - Tu hai un cattivo cuoco. - Me ne provvederò un altro, - rispose Sandokan. - Per ora accontentati di quello che ho. - Il fakiro, vedendo che non deponeva la pistola, continuò a mangiare quella miscela infernale, che doveva bruciargli lo stomaco. Essendo però gli indiani abituati a mettere molto pimento nei loro cibi, specialmente nel carri, il gussain ne risentiva certamente meno gli effetti ardenti. Quand'ebbe finito si batté colla sinistra il ventre dicendo: - Anche questa minestra passerà. - Vedremo se il tuo stomaco sarà così solido, - rispose Sandokan. - Ora a te Tremal-Naik. - Il bengalese e Kammamuri afferrarono il gussain sotto le ascelle e lo misero in piedi. - Che cosa volete ancora da me? - chiese il disgraziato con terrore. - Oh! Non abbiamo ancora finito? - disse Tremal-Naik. - Credevi di cavartela così a buon prezzo? Vuoi evitare il resto? Allora confessa. - Vi ho detto che io non so nulla! - strillò Tantia. - Io non ho preso parte al rapimento di quella donna. Potete strapparmi la lingua, tormentarmi, io non potrò dirvi quello che io non ho fatto. - Lo vedremo, - disse Tremal-Naik. Lo spinsero fuori dalla pagoda e gli fecero scendere la scalinata fermandolo dinanzi ad una buca molto profonda, che due malesi stavano scavando. - Basterà, - disse Sandokan ai due pirati, dopo d'aver dato uno sguardo a quello scavo. - L'uomo non è grasso, tutt'altro anzi. - Il gussain aveva fatto due passi indietro guardando con smarrimento Sandokan, Tremal-Naik e Kammamuri. - Che cosa volete fare di me? - chiese battendo i denti. - Ricordatevi che io sono un fakiro, ossia un sant'uomo, che gode la protezione di Brahma. - Chiamalo che venga a liberarti, - disse Sandokan. - Voi non godrete le delizie del cailasson, quando la morte vi avrà colpiti. - Io mi accontento del paradiso di Maometto. - Il rajah mi vendicherà. - È troppo lontano e poi in questo momento non ha tempo di occuparsi di te. Vuoi parlare sì o no? - Che siate maledetti tutti! - urlò il gussain furibondo. - Lancio contro di voi il malocchio! - La mia scimitarra lo spezzerà, - rispose Sandokan. - Calatelo dentro. - I due malesi s'impadronirono del fakiro, che non poteva opporre che una resistenza debolissima, avendo un solo braccio disponibile e lo cacciarono nella buca lasciandogli sporgere solamente la testa e il braccio sinistro che nessuno avrebbe potuto ormai piegare senza spezzarglielo. Ciò fatto cominciarono a gettare dentro palate di terra in modo da avvolgere completamente quel magrissimo corpo e d'immobilizzarlo. Il gussain che forse aveva indovinato a quale spaventevole supplizio lo condannavano i suoi carnefici, cacciava urla spaventevoli che non producevano però nessun effetto sull'anima di Sandokan, né su quella di Tremal-Naik. - La pentola ora, - disse la Tigre della Malesia, quando il fakiro fu interrato. Uno dei due malesi corse nella pagoda e tornò portando una specie di vaschetta di metallo, colma d'acqua limpidissima e la mise dinanzi a Tantia, alla distanza di qualche passo. - Quando avrai sete te la prenderai, - disse allora Sandokan. Vedendo l'acqua il gussain stralunò gli occhi e le sue labbra s'incresparono. - Datemi da bere! - ruggì. - Ho il fuoco nel ventre. - Allunga il tuo braccio anchilosato e serviti, - rispose Sandokan. - Nessuno te lo impedisce. - Spezzatemelo allora! Io non posso abbassarlo. - È un affare che riguarda te. Vieni Tremal-Naik: quest'uomo comincia a diventare noioso. - A cinquanta passi dalla gradinata s'alzava uno splendido lauro sotto il quale i malesi avevano stesi alcuni tappeti e collocati alcuni cuscini. Sandokan e Tremal-Naik, seguiti da Kammamuri, si diressero verso quella pianta e si sdraiarono sotto la fitta ombra accendendo le loro pipe. Il gussain non cessava di urlare come un dannato, chiedendo acqua. Il pimento cominciava a fare i suoi effetti, tanagliandogli le viscere. - All'altro ora, - disse la Tigre della Malesia. - Kammamuri va' a prendere il demjadar. - Terremo la corte di giustizia sotto quest'albero? - chiese Tremal-Naik scherzando. - Siamo più sicuri qui che nella pagoda - rispose Sandokan. - Eh non so, amico! Tu dimentichi che siamo in mezzo ad una jungla. - Finché i miei uomini battono i bambù non abbiamo nulla da temere. - Pronunceremo un'altra sentenza? - Tutto dipenderà dalla buona o cattiva volontà del prigioniero. - Kammamuri tornava in quel momento col capitano dei seikki. Era questi un bel tipo di montanaro indiano, d'una robustezza eccezionale, con una lunga barba nerissima che dava maggior risalto alla sua pelle appena abbronzata e con due occhi pieni di fuoco. Essendogli state slegate le mani, salutò militarmente Sandokan e Tremal-Naik, portando la destra sull'immenso turbante bianco colla calotta rossa ricamata in oro, che gli copriva la testa. - Siedi amico, - gli disse la Tigre della Malesia. - Tu sei un uomo di guerra e non già un gussain. - Il demjadar che conservava una calma degna d'un vero soldato, obbedì senza batter ciglio. - Io voglio sapere da te se hai preso parte al rapimento d'una principessa indiana insieme col fakiro. - Io non ho mai avuto alcun rapporto con quell'uomo, - rispose il seikko quasi con disprezzo. - Io sono mussulmano come tutti i miei compatriotti e non mi occupo dei santoni. - Dunque tu non sai nulla di quel rapimento. - È la prima volta che odo parlare di ciò. Poi io non mi occuperei di tali cose. Affrontare dei nemici sia pure; lottare con delle donne che non possono difendersi, mai! I seikki della montagna sono guerrieri. - Chi ti ha incaricato di assalirci? - Il rajah. - Chi aveva detto a S. Altezza che noi abitavamo nella pagoda sotterranea? - Io sono abituato a obbedire alle persone che mi pagano e non di chiedere i loro affari, - rispose il seikko. - Quanto ti dà il rajah all'anno? - Duecento rupie. - Se vi fosse un uomo che te ne offrisse mille, lasceresti il rajah? - Gli occhi del demjadar lampeggiarono. - Pensaci, - disse Sandokan, a cui non era sfuggito quel lampo che tradiva una intensa cupidigia. - Mi risponderai su ciò più tardi. Ora voglio sapere altre cose. - Parla, sahib. - Sei tu che comandi la guardia reale? - Sì, sono io. - Di quanti uomini si compone? - Di quattrocento. - Tutti valorosi? - Un sorriso quasi di disprezzo spuntò sulle labbra del demjadar. - I seikki della montagna sanno morire bene e non contano i loro nemici, - disse poi. - Quanto ricevono i tuoi uomini dopo un anno di servizio? - Cinquanta rupie. - Che cosa hai pensato dell'offerta che ti ho fatta? - Il demjadar non rispose: pareva facesse qualche calcolo difficile. - Sbrigati, non ho tempo da perdere, - disse Sandokan. - Il rajah del Mysore ed il guicovar di Baroda, che sono i più generosi principi dell'India, non mi darebbero tanto, - rispose finalmente il seikko. - Sicché tu accetteresti per una tale somma di lasciare il rajah dell'Assam e di passare sotto altre persone? - Sì, purché paghino. Noi siamo mercenari. - Anche se quella persona si servisse di te e dei tuoi uomini per dare addosso al rajah dell'Assam? - Il demjadar alzò le spalle. - Io non sono un assamese, - rispose poi. - La mia patria è sulle montagne. - Risponderesti della fedeltà dei tuoi uomini se si offrissero a loro duecento rupie per ciascuno? - Sì, sahib, assolutamente - rispose il demjadar. - Tutti quei montanari li ho arruolati io e non obbediscono che a me. - Ti farò versare oggi un acconto di cinquecento rupie, ma per ora tu non devi lasciare il mio campo e non cesserà la sorveglianza intorno a te. - Non sarebbe necessaria perché tu hai la mia parola, però fa' come vuoi. È meglio non fidarsi, ed io al tuo posto farei altrettanto. - Ora puoi andartene: devo occuparmi del fakiro. Kammamuri! - chiamò poi; il maharatto che stava accoccolato dinanzi a Tantia ascoltando, impassibile alle urla feroci che mandava il disgraziato, fu lesto ad accorrere. - A che punto siamo? - gli chiese Sandokan, mentre il demjadar si allontanava. - Il gussain non può più resistere: è idrofobo. - Andiamo a vedere se si decide a parlare. Vieni Tremal-Naik: noi non avremo perduta la nostra giornata. - Comincio a sperare che la corona di Surama non sia lontana, - disse il bengalese. - Anch'io, amico: ormai non è più che una questione di pazienza. -

. - Questo è un feretro abbandonato alla corrente, - mormorò. - Che incontro poco allegro! Dopo tutto mi aiuterà a reggermi a galla. - Allungò le mani e s'aggrappò a quella strana bara che la corrente trasportava. Uno sternuto vigoroso lo colse. - Ah! Per Giove! Vi è un morto! Dannati indiani! Col loro sacro Gange cominciano ad annoiarmi. - Infatti, steso su quella funebre tavola, destinata a raggiungere il Gange, si trovava il cadavere di un vecchio indiano, quasi nudo, con una lunga barba bianca, ridotto però in uno stato orribile. I marabù gli avevano strappati gli occhi, divorata la lingua, squarciato il ventre per divorargli gl'intestini e da quelle ferite usciva un odore nauseante che rivoltava lo stomaco. - Puoi andare a finire nel Gange anche senza questa tavola che è più necessaria a me che a te - disse Yanez. - E poi il tuo profumo non mi piace affatto. Va' e buon viaggio! - Con una spinta vigorosa gettò il cadavere in acqua assieme alla lampadina e si issò sulla tavola. - Cerchiamo ora di orientarci, - mormorò. - Gli altri penseranno a mettersi in salvo come potranno. Già, di Sandokan, di Tremal-Naik e dei miei uomini sono sicuro. - Si,guardò intorno e gli parve di riconoscere la riva destra. - È là che devo sbarcare, - disse. Si gettò bocconi sulla tavola e servendosi delle mani come di remi, guidò il galleggiante funebre attraverso il fiume. La corrente non era forte, avendo quasi tutti i corsi d'acqua dell'India pochissima pendenza, sicché gli riuscì facile raggiungere la riva. Abbandonò la tavola e prese terra. In quel luogo non vi erano che delle risaie: capanne, nemmeno una. - Rimontando verso levante giungerò al tempio sotterraneo, - mormorò. - Non deve essere molto lontano. Affrettiamoci, o desterò una pericolosa curiosità io, uomo bianco, senza giacca e senza stivali e con un bagaglio sulle spalle. - Si mise rapidamente in marcia, seguendo sempre la riva, che era fiancheggiata da grossi alberi fra i cui rami cominciavano già a volteggiare delle singalika, quelle magrissime scimmie che sono così numerose in India, alte quasi un metro, con una specie di barba, che dà a loro uno strano aspetto e che sono lo spavento dei poveri contadini, ai quali distruggono senza misericordia i raccolti. Yanez, che vedeva, non senza inquietudine, approssimarsi l'alba, affrettava il passo. Aveva già oltrepassata l'isola su cui sorgeva la pagoda di Karia, non doveva quindi essere molto lontano dal tempio sotterraneo. Di quando in quando s'arrestava un momento sperando di scorgere la bangle e non vedeva invece altro che delle lunghe file di grotteschi uccellacci, d'aspetto decrepito, semi-spelati, col becco lunghissimo e robusto. Erano i marabù che attendevano pazientemente il passaggio di qualche cadavere, umano o animale, poco importava, per dargli addosso ed in quattro e quattro otto farlo scomparire nei loro mai pieni stomachi. Il sole dardeggiava i suoi primi raggi sulle acque del Brahmaputra, quando Yanez giunse dinanzi al tempio sotterraneo, sulla cui porta vegliava un uomo, che aveva l'aspetto d'un fakiro. - Ah! Signor Yanez! - esclamò quell'uomo alzandosi. - Kammamuri! - aveva esclamato il portoghese. - Nella pelle d'un biscnub, signore, - rispose il maharatto ridendo - che non ha però rinunciato né alle ricchezze, né ai piaceri della vita, né ai beni di questo mondo come i miei correligionari. - Sono tornati? - Il signor Sandokan ed il mio padrone? Vi aspettano a colazione da una buona mezz'ora. - E gli altri? - Vi sono tutti. Sono giunti su una bangle. - Ed il ministro? - È sempre al sicuro, ma ho paura che quel povero diavolo muoia di spavento. - I tuoi compatriotti hanno la pelle troppo dura per andarsene così presto in grembo a Siva o a Brahma. - S'aprì il passo fra i cespugli che nascondevano l'entrata e si cacciò nei corridoi del tempio, che erano guardati da malesi e da dayachi armati di carabine e di scimitarre. Quando giunse nell'ultima stanza, che già abbiamo descritta e che era sempre illuminata dalla lampada non avendo alcuna finestra, trovò seduti dinanzi alla tavola Sandokan, Tremal-Naik ed il ministro. - Finalmente! - esclamò il primo. - Stavo per mandare alcuni uomini a cercarti, quantunque io non dubitassi che ci avresti raggiunti. - Non ho potuto raggiungere la bangle. Di ciò parleremo più tardi. Lascia che mi cambi, ché gocciolo da tutte le parti e fa' portare la colazione. Quel bagno mi ha messo indosso un appetito da tigre. - E metti al sicuro la tua famosa conchiglia, - disse Tremal-Naik. - Dopo: bisogna che il signor ministro la veda. - Passò in una stanza attigua e si cambiò rapidamente, indossando un vestito di flanellina bianca, assai leggera. Quando rientrò, la tiffine, o colazione fredda all'inglese, era pronta: carne, birra, biscotti. Il cuoco però aveva aggiunta una terrina di carri per S. E. il ministro, non mangiando carne di bue gli indiani. - Mangiamo per ora, - disse Yanez - e voi, Eccellenza, rasserenate un po' il vostro viso e bevete pure la nostra birra. Vi do la mia parola che non contiene, questa, nessun pezzetto di grasso di mucca. - Invece di rasserenarsi, il ministro si fece ancor più oscuro in viso, nondimeno non respinse il carri che Yanez gli offriva, né una tazza di birra. Mentre mangiavano con un appetito invidiabile, i due pirati della Malesia e Tremal-Naik, si raccontavano le avventure a loro toccate durante la perigliosa evasione. Anche Sandokan e l'indiano avevano avuto da fare non poco a uscire dalle volte sommerse, ma più fortunati del portoghese non avevano incontrata nessuna balena d'acqua dolce ed avevano potuto raggiungere felicemente la bangle dove avevano già trovati i dayachi ed i malesi. Temendo di venire da un momento all'altro sorpresi dai sacerdoti, non avevano indugiato a prendere il largo, convinti che Yanez se la sarebbe facilmente cavata da sé. Quando la colazione fu terminata Yanez accese, come di consueto, l'eterna sigaretta, mise il cofano dinanzi al ministro e l'aprì levando la preziosa conchiglia. - È questa, proprio questa la famosa pietra di Salagraman? - chiese al ministro che la guardava sbigottito. - Rispondetemi Eccellenza. - Kaksa Pharaum fece col capo un cenno affermativo. - Uditemi ora e badate di non rispondermi con dei soli cenni. Esigo da voi delle importanti dichiarazioni. - Ancora? - brontolò il ministro, che sembrava di pessimo umore. - Ci tiene molto il re a possedere questa pietra di Salagraman? - Più di voi certo, - rispose Kaksa Pharaum. - Come si potrebbero fare le processioni senza quella preziosa reliquia, che tutti i gurum c'invidiano? - Qual è la prossima processione che si farà in pubblico? Voi indiani ne eseguite molte durante l'anno. - Quella del maddupongol. - Che cos'è? - È la festa delle vacche, - disse Tremal-Naik - che si solennizza nel decimo mese di tai, ossia del vostro gennaio, per festeggiare il ritorno del sole nel settentrione e che fa seguito al gran-pongol ossia alla festa del riso bollito nel latte. - È vero, - disse il ministro. - Quando deve scadere? - chiese Yanez. - Fra quattro giorni. - Benissimo: per quel giorno il rajah avrà la sua pietra di Salagraman. - Il ministro aveva fatto un soprassalto, guardando Yanez cogli occhi dilatati dal più intenso stupore. - Volete scherzare, mylord? - chiese. - Niente affatto, Eccellenza - rispose Yanez. - Vi do la mia parola d'onore che la pietra ritornerà, per mezzo del principe, nella pagoda di Karia. - Io non comprendo più nulla, - disse Kaksa Pharaum. - Ed io meno di voi, - aggiunse Sandokan che fumava il suo cibuc senza aver, fino allora, preso parte alla conversazione. - Abbi un po' di pazienza, fratellino - disse Yanez. - Ditemi ora Eccellenza, faranno delle ricerche per scoprire gli autori del furto? - Metteranno a soqquadro la città intera e lanceranno nelle campagne tutta la cavalleria, - rispose Kaksa Pharaum. - Allora possiamo essere sicuri di non venire disturbati, - disse il portoghese sorridendo. - Sono già le otto: possiamo andare a trovar Surama e fare un giro per la città. Vedremo così l'effetto che avrà prodotto il furto della famosa pietra. - Staccò dalla parete un altro paio di pistole, che si mise nella larga fascia rossa, si mise in testa un elmo di tela bianca adorno d'un velo azzurro, che gli dava l'aspetto d'un vero inglese in viaggio attraverso il mondo e fece atto d'uscire insieme a Sandokan ed a Tremal-Naik che si erano pure provveduti d'armi. - Mylord, - disse il ministro, - ed io? - Voi, Eccellenza, rimarrete qui sotto buona guardia. Non abbiamo ancora terminato le nostre faccende, e poi se vi mettessimo in libertà, correreste subito dal principe. - Io mi annoio qui ed ho molti affari importanti da sbrigare. Sono il primo ministro dell'Assam. - Lo sappiamo, Eccellenza. D'altronde se volete cacciare la noia, fumate, bevete, e mangiate. Non avete altro che da ordinare. - Il povero ministro, comprendendo che avrebbe perduto inutilmente il suo tempo, si lasciò ricadere sulla sedia mandando un sospiro così lungo che avrebbe commossa perfino una tigre, ma che non ebbe nessun effetto sull'animo di quel diavolo di portoghese. Quando furono fuori del tempio, trovarono Kammamuri sempre seduto dinanzi ad un cespuglio, col suo berretto rosso ed azzurro sul capo, il corpo avvolto in un semplice pezzo di tela, con una corona ed un bastone in mano: era il costume dei fakiri biscnub, specie di pellegrini erranti che sono però tenuti in molta considerazione nell'India, avendo quasi tutti appartenuto a classi agiate. - Nulla di nuovo, amico? - gli chiese Yanez. - Non ho udito che le urla stonate d'un paio di sciacalli i quali si sono divertiti a offrirmi, senza richiesta, una noiosissima serenata. - Seguici a distanza e raccogli le dicerie che udrai. Se non potrai seguire il nostro mail-cart non importa. Ci rivedremo più tardi. - Sì, signor Yanez. - Il portoghese ed i suoi due amici si diressero verso un gruppo di palme dinanzi a cui stava fermo uno di quei leggeri veicoli chiamati dagli anglo-indiani mail- cart, che vengono usati per lo più nei servizi postali. Era però di dimensioni più vaste degli ordinari, e sulla cassa posteriore vi potevano stare comodamente anche tre persone invece d'una. Era tirato da tre bellissimi cavalli che pareva avessero il fuoco nelle vene e che un malese penava a frenare. Yanez salì al posto del cocchiere, Sandokan e Tremal-Naik di dietro e la leggera vettura partì rapida come il vento, avviandosi verso le parti centrali della città. I mail-cart vanno sempre a corsa sfrenata come le troike russe e tanto peggio per chi non è lesto a evitarle. Attraversano le pianure come uragani, salgono le più aspre montagne, le discendono con eguale velocità, specialmente quelle adibite al servizio della posta. Sono guidate da un solo indiano, munito d'una frusta a manico corto, che non lascia un momento in riposo, perché non deve arrestarsi per nessun motivo. Quelle corse però non sono scevre di pericoli. Avendo quelle vetture le ruote alte e la cassa senza molle, subiscono dei trabalzi terribili e se uno volesse parlare correrebbe il rischio di troncarsi, coi propri denti, la lingua. Yanez, come abbiamo detto, aveva lanciato quella specie di birroccio a gran corsa, facendo scoppiettare fortemente la frusta per avvertire i passanti a tenersi in guardia. I tre cavalli, che balzavano come se avessero le ali alle zampe, divoravano lo spazio come saette, nitrendo rumorosamente. Bastarono dieci minuti perché il mail-cart si trovasse nelle vie centrali di Gauhati. Yanez ed i suoi compagni notarono subito un'animazione insolita: gruppi di persone si formavano qua e là discutendo animatamente, con larghi gesti e anche sulle porte dei negozi era un bisbigliare incessante fra i proprietari ed i loro avventori. Si leggeva sul viso di tutta quella gente impresso un vero sgomento. Yanez, che aveva frenati i cavalli onde non storpiare qualche passante, si era voltato verso i suoi due amici strizzando loro l'occhio. - La terribile notizia si è già sparsa, - rispose la Tigre della Malesia, sorridendo. - Dove ci conduci? - Da Surama per ora. - E poi? - Vorrei vedere quel maledetto favorito del rajah, se mi si presentasse l'occasione. - Uhm! Sai che il principe non vuol vedere nessun inglese alla sua corte. - Eppure dovrà ricevermi e con grandi onori, - disse Yanez. - Ed in quale maniera? - Non ho forse la pietra in mia mano? - Che diventi un talismano? - Fors'anche di più, mio caro Sandokan. Oh! Che cosa c'è? - Due indiani s'avanzavano fra la folla, l'uno lanciando di quando in quando delle note rumorose che ricavava da una lunghissima tromba di rame e l'altro che scuoteva furiosamente una gautha, ossia uno di quei campanelli di bronzo ornati con una testa che ha due ali e che vengono adoperati nelle cerimonie religiose per convocare i fedeli. Li seguiva un soldato del rajah, con ampi calzoni bianchi, la casacca rossa con alamari gialli e che portava una bandiera bianca con nel mezzo dipinto un elefante a due teste. - Questi sono araldi del principe, - disse Tremal-Naik. - Che cosa annunceranno? - Io lo indovino di già, - disse Yanez, fermando la vettura. - È una cosa che riguarda noi. - I tre araldi, dopo aver assordato i vicini che si erano radunati in gran numero attorno a loro, si erano pure fermati ed il soldato che doveva avere dei polmoni di ferro, si era messo a urlare: "S. M. il principe Sindhia, signore dell'Assam, avverte il suo fedele popolo che offrirà onori e ricchezze a chi saprà dare indicazioni sui miserabili che hanno rubata la pietra di Salagraman dalla pagoda di Karia. Ho parlato per la bocca del potentissimo rajah". - Onori e ricchezze, - mormorò Yanez. - A me basteranno i primi per ora. Il resto verrà più tardi, te lo assicuro, mio caro Sindhia. Quelle però saranno per la mia futura moglie. - Lasciò passare i banditori che avevano ripresa la loro musica infernale e lanciò i cavalli a piccolo trotto, percorrendo successivamente parecchie vie molto larghe, cosa piuttosto rara nelle città indiane che hanno stradicciuole tortuose come quelle delle città arabe e anche poco pulite. - Ci siamo, - disse ad un tratto, fermando con uno strappo violento i tre ardenti corsieri. Si era fermato dinanzi ad una casa di bella apparenza, che sorgeva, come un gran dado bianco, fra otto o dieci colossali tara che l'ombreggiavano da tutte le parti. Solo a vederla si capiva che era un'abitazione veramente signorile, essendo perfettamente isolata ed avendo porticati, logge e terrazze per poter dormire all'aperto durante i grandi calori. Tutte le abitazioni dei ricchi indù sono bellissime e tenute anche con molta cura. Devono avere cortili, giardini, cisterne d'acqua e fontane non solo nelle stanze bensì anche all'entrata e grandi ventole mosse a mano dai servi onde regni una continua frescura. Devono anche avere intorno delle piccole kas khanays ossia casette di paglia o piuttosto di radici odorose, costruite nel mezzo d'un tratto di terra erbosa e sempre in prossimità d'una tank ossia fontana onde la servitù possa comodamente lavarsi. Udendo il fracasso prodotto dai tre cavalli, due uomini vestiti come gl'indiani che però dalla tinta della loro pelle e dai tratti del viso, duri e angolosi si riconoscevano anche di primo acchito per malesi, erano subito usciti dalla casa salutando con un goffo inchino Yanez ed i suoi due compagni. - Surama? - chiese brevemente il portoghese saltando a terra. - È nella sala azzurra, capitano Yanez, - rispose uno dei due malesi. - Occupatevi dei cavalli. - Sì, capitano. - Salì i quattro gradini seguito da Tremal-Naik e da Sandokan e attraversato un corridoio si trovò in un vasto cortile, circondato da eleganti porticati sorretti da esili colonne. Nel mezzo, da una grande coppa di pietra, zampillava altissimo un getto d'acqua. Yanez passò sotto il porticato di destra e si fermò dinanzi ad una porta dove stavano raggruppate delle ragazze indiane. - Avvertite la padrona, - disse loro. Una giovane aprì invece senz'altro la porta, dicendo: - Entra, sahib: ti aspetta. - Yanez ed i suoi compagni si trovarono in un elegantissimo salotto che aveva le pareti tappezzate di seta azzurra ed il pavimento coperto da un sottile materasso che si estendeva fino ai quattro angoli. Tutto all'intorno vi erano dei divanetti di seta, con ricami d'oro e d'argento di squisita fattura, e larghi guanciali di raso fiorato appoggiati contro le pareti onde i visitatori potessero sdraiarvisi comodamente. All'altezza d'un metro, s'aprivano nelle muraglie parecchie nicchie dove si vedevano dei vasi cinesi pieni di fiori che esalavano acuti profumi. Mobili nessuno, eccettuato uno sgabello collocato proprio nel mezzo della stanza su cui stavano dei bicchieri ed un fiasco di vetro rosso racchiuso entro un'armatura d'oro cesellata, e col collo lunghissimo. Una bellissima giovane, dalla pelle leggermente abbronzata, dai lineamenti dolci e fini, cogli occhi nerissimi ed i capelli lunghi intrecciati con fiori di mussenda e gruppettini di perle, si era prontamente alzata. Uno splendido costume tutto di seta rosa, con ricami azzurri, copriva il suo corpo sottile come un giunco, pur essendo squisitamente modellato, lasciando vedere l'estremità dei calzoncini di seta bianca che s'allargavano su due graziose babbucce di pelle rossa con ricami d'argento e la punta rialzata. - Ah! Miei cari amici! - aveva esclamato, muovendo a loro incontro colle mani tese. - Anche tu, Tremal-Naik! Come sono felice di rivederti! Lo sapevo già che non saresti rimasto sordo all'appello dei tuoi vecchi compagni! - Quando si tratta di dare un trono a Surama, Tremal-Naik non rimane inoperoso, - rispose il bengalese stringendo calorosamente la piccola mano della bella indiana. - Se Moreland e Darma non fossero in viaggio per l'Europa sarebbero qui anche loro. - Come l'avrei veduta volentieri tua figlia Darma! - La riceverai alla tua corte, quando tornerà, - disse Yanez. - Orsù, Surama, da' da bere agli amici. Le vie di Gauhati sono molto polverose e la gola si secca presto. - A te, mio dolce signore, il tuo liquore favorito - disse la giovane indiana prendendo il fiasco ed empiendo i bicchieri di cristallo rosa d'un liquore color dell'ambra. - Alla salute della futura principessa dell'Assam, - disse Sandokan. - Non così presto, - rispose Surama, ridendo. - E che! Vorresti tu, piccina, che noi avessimo lasciato il Borneo ed i nostri prahos e gli amici per venire a vedere solamente le bellezze poco interessanti della tua futura capitale? Quando noi ci muoviamo facciamo sempre qualche grosso guasto, è vero Yanez? - Non siamo sempre noi le vecchie tigri di Mompracem? - rispose il portoghese. - Dove piantiamo le unghie la preda non scappa più. Ne vuoi una prova? Abbiamo già nelle nostre mani la famosa pietra di Salagraman. - Quella del capello di Visnù? - Sì, Surama. - Di già? - Diamine! Mi era necessaria per introdurmi a corte. - Ed il merito è tutto del tuo fidanzato, - disse Sandokan. - Yanez invecchia ma la sua straordinaria fantasia rimane sempre giovane. - E potremo finalmente conoscere i tuoi famosi disegni? - chiese Tremal-Naik. - Io continuo a rompermi inutilmente la testa e guastarmi il cervello senza riuscire a trovare alcuna relazione fra quella dannata conchiglia e la caduta del rajah. - Non è ancora tempo, - rispose Yanez. - Domani però saprai qualche cosa di più. - È inutile che tu lo tenti, amico Tremal-Naik, - disse Sandokan. - Noi ne sapremo qualche cosa quando sarà giunto il momento di rovesciare contro le guardie reali i nostri trenta uomini e di sguainare le nostre scimitarre. È vero, Yanez? - Sì - rispose il portoghese, sorridendo. - Quel giorno non sarà però molto vicino. Con quel Sindhia dovremo procedere molto cautamente. Non dobbiamo dimenticarci che siamo soli qui e che non possiamo contare sull'appoggio del governo inglese. Non dubitiamo però sull'esito finale. O Surama riavrà la corona o noi non saremo più le terribili tigri di Mompracem. - Ah mio signore! - esclamò la giovine indiana fissando sul portoghese i suoi profondi e dolcissimi occhi. - Tu la dividerai con me, è vero? - Io! Sarai tu, fanciulla, che me ne darai un pezzo. - Tutta insieme al mio cuore, Yanez. - Sta bene, aspettiamo però di levarla, dalla testa di quel briccone. Pagherà ben cara la cattiva azione che ti ha usata. Lui ti ha venduta come una miserabile schiava ai thugs per fare di te, principessa, una bajadera; un giorno venderemo anche lui. - Purché non faccia la fine della Tigre dell'India, - disse Sandokan con accento quasi feroce. - Ci sarò anch'io quel giorno! -

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